AGOSTINO PEPOLI

Agostino Pepoli, fu un uomo consapevole delle proprie responsabilità sociali, che visse nel rispetto dell'umanità e nell'amore per l'arte e la cultura.

Il giovane Agostino fu educato a Firenze e a Bologna, dove visse gran parte dei suoi anni giovanili, approfondì studi di arte e si dedicò alla sua genealogia.

A Bologna, che egli amava definire “città dei miei avi”, acquistò un palazzo che era già appartenuto ai Pepoli emiliani, compresa una collezione di opere d'arte. Durante questo soggiorno emiliano che dovette svolgersi negli anni intorno al 1880, compì alcune ricerche di archivio da cui trasse due pubblicazioni, entrambe stampate a Firenze nel 1884: “Sul vero sigillo di Castiglione dei Pepoli” e “Documenti storici del sec. XIV”.

In seguito si trasferì a Trapani, ma furono frequenti i suoi viaggi a Firenze, Bologna e Roma; una testimonianza di questi fu scritta dal grande storico Niccolò Rodolico, in occasione di una disputa avvenuta tra il Pepoli e il Pellegrini, professore di latino e greco al liceo di Trapani il quale dovendo visionare un manoscritto del Pepoli, lo mandò invece a Firenze al Comparetti come un suo lavoro perché fosse stampato nella rivista diretta dal Comparetti stesso; il Pepoli corse allora a Firenze e anticipò frettolosamente la pubblicazione del suo libro.

La famiglia Pepoli, appare documentata a Trapani fin dal 1597, ma non si sa quando i componenti di questa famiglia bolognese vi si siano trasferiti.

Un vero e proprio albero genealogico è stato ricostruito fino al 1641 dal Pepoli stesso. Agostino, il fondatore dell'omonimo museo, prima barone di San Teodoro e poi conte del ramo principale della casata, era figlio di Riccardo già sindaco di Trapani, quindi presidente del consiglio provinciale. Riccardo era divenuto ricchissimo nel 1786, quando, estinta la linea del ramo dei conti Pepoli baroni di Canedici, Fiume Grande, ecc., aveva ereditato titoli e beni riunendoli al ramo principale dei conti Pepoli, baroni di San Teodoro, con le altre proprietà dei feudi di Adrigna e Adrignotta, ed altri ancora in Trapani ed Erice. Un fratello di Riccardo, l'Avvocato Michele, possedeva la ricca collezione di oggetti d'arte che doveva poi passare al museo fondato da Agostino.

Quando Agostino Pepoli, ancor giovane, giunse per la prima volta ad Erice, si sentì attratto dal fascino dell'antichità classica.

Prima abituale residenza ericina fu una stanza in famiglia nell'abitazione di Giuseppe Simonte, muratore nell'angolo fra la via Sales e la via Gian Filippo Guarnotti.

C'è chi ancora ricorda l'alta e robusta figura del conte Pepoli, avvolta in un mantello oscuro, passeggiare solitario lungo le mura ciclopiche, per le viuzze della cittadina o per la desolata piana del Balio, che a quel tempo era pieno di cocci, lucertole,sterpi ed erbacce.

Negli anni in cui Antonio Salinas , archeologo di fama, compì frequenti visite ad Erice, per la raccolta di materiale interessante per i suoi ben noti studi, non era raro incontrarlo con il Pepoli, e fu proprio durante una passeggiata per un sentiero che da Porta Carmine conduce a Porta Spada, intorno all'agosto 1882, che i due studiosi insieme a Bartolomeo Lagumina, scoprirono le famose, quanto enigmatiche lettere fenicie incise sui macigni più grossi delle mura ciclopiche, oltre a queste, dell' altezza di 30 cm, se ne videro altre sui blocchi della terza torre venendo da Porta Spada.

Questa scoperta portò i tre studiosi a sopralluoghi ed a esami più attenti che li portarono ad ulteriori scoperte; infatti, in alcuni massi apparivano con una certa frequenza le parole: ”opus rectum”, “beth”,”ain” e in alcuni “phe” .

Né Castronovo che aveva scritto una dettagliata memoria sulle mura, né Cavalleri che nel 1877 aveva restaurato la terza torre da Porta Spada, si erano accorti di quei segni. Il conte chiese all'amministrazione comunale il permesso di poter restaurare diversi luoghi e, sempre a sue spese, trasformare l'intera spianata del Balio in un giardino all'inglese. Il Pepoli propose di acquistare tutti i piccoli lotti di terreno da pascolo sottostanti il Balio e siti nell'area detta dei “Runzi” con il proposito di restaurare le torri del Balio.

Casella di testo: Lettere feniceLe torri erano semidiroccate e cadenti, lo spiazzale appariva come un ammasso di rovine e di cespugli, questo rimaneva aperto al pubblico che vi si recava per godersi lo splendido panorama o per raggiungere il Quartiere Spagnolo.

Il conte aveva intenzione di alberare il tutto a pini, noci, mandorli ed altri alberi da frutta che potessero attecchirvi, poiché quella vegetazione selvaggia rendeva in certi tratti pericoloso il percorso impervio del viottolo che arrivava al sito più basso dei Runzi.

La sistemazione di questo sentiero avrebbe anche reso più agevole l'accesso alla chiesetta medievale di Maria Maddalena. Dal 1873 i lavori sulle torri del Balio iniziarono a svolgersi in cadenze più rapide mentre non mancava ancora qualche discussione con alcuni personaggi non ancora del tutto convinti sul quanto. Ad essi, ad un certo momento il conte mostrò la copia delle due tavole a penna dovute al sacerdote-architetto Matteo Gebbia ed inserite nella “Erice Antica e Moderna” dell'arciprete Vito Corvini, che raffiguravano lo stato del castello e delle Torri nella seconda metà del sec.XVII dalle quali si poteva ben desumere lo stato d'incuria e abbandono di questi luoghi.

Il Conte fece anche restaurare il castello. Poi chiuse il recinto interno, ricostruì la torre a forma pentagonale che nel secolo XVII era stata distrutta, rimboschì la superficie brulla sotto il castello, cui amò attribuire la funzione di “Parco del Castello”, ancora oggi quello è il bosco più suggestivo fra i tanti che verdeggiano sulla vetta, la parte centrale infatti è il regno della frescura e dell'ombra;

per facilitare l'accesso verso questa parte più bella e pianeggiante del suo parco, costruì una comoda gradinata e sistemò anche un buon tratto dell'impervio viottolo che attraversando i “Runzi” giunge ad Erice, decorandolo di una piccola fontana monumentale. Quando poi la costruzione della torretta e la sistemazione a giardino inglese del Balio furono a buon punto, il conte diede avvio ad un altro lavoro. Ricostruito il mastio, il conte creò una sua torretta dove potere ospitare gli amici più cari. Realizzò, un lungo e stretto edificio ricoperto a tegole, il cui prospetto era seminascosto in buona parte dal verde degli alberi che si andavano rapidamente infittendo, si apriva inoltre una sequenza di altre finestrelle corrispondenti ciascuna ad una cameretta. Si accedeva all'interno per una porticina a misura d'uomo, che si apriva su una stretta scala interrotta da un pianerottolo, superandolo e proseguendo in continuazione dell'ingresso, una serie di gradini conduceva ad una grande scala alla quale dava luce un'ampia porta a vetri, che si trovava nella “Sala degli Stemmi” così chiamata dal conte per le armi di diverse famiglie nobili imparentate con i Pepoli.

Era questo l'ambiente delle conversazioni con gli amici. Il conte aveva realizzato inoltre nella cortina di levante altre stanze dove far sostare gli amici. Dal pianerottolo riservato ai custodi ed alla servitù si accedeva ai piani superiori dove si aprivano camere più ampie per gli ospiti. Fra questi, quelli più assidui e famosi erano: i Notabili Mantesi, il notaio Salerno, l'assessore alla pubblica istruzione, il dott. Luciano Spada, Alberto Favara, il ministro Nunzio Nasi, Gaetano Colomba, affermato storico, Giuseppe Polizzi, direttore della Biblioteca Fardelliana, e tanti, tanti altri ospiti.

Venuti a mancare il consenso e l'appoggio da parte dei nuovi gruppi di maggiorenti e amministratori il rapporto tra il comune e il conte cominciò ad indebolirsi. Le nuove leve che si erano imposte nelle vicende politiche della vita cittadina, tese prevalentemente ad affermare il proprio potere, ritennero secondario ogni interesse che riguardasse la cultura e non tennero conto di ciò che aveva realizzato Pepoli a Monte S. Giuliano dal 1872 fino ai primi del ‘900.

Pepoli pensò anche di restaurare a sue spese l'edificio che doveva servire per la fanteria spagnola e di conservare i reperti archeologici da lui scoperti, le opere d'arte, gioielli preziosi, statue, quadri; ma il decadente quartiere non gli fu concesso. Il conte aveva programmato la creazione di un grande parco sottostante al castello e alla torretta da lui fatta costruire, si era proposto inoltre di ridurre la contrada dei Runzi, ma non gli furono concessi neanche questi progetti.

All'inizio del ‘900 il Pepoli amareggiato se ne andò da Erice e si trasferì a Trapani portando con sé ciò che aveva raccolto e conservato nel castello.

Stabilitosi a Trapani Pepoli volle fondarvi un museo.

Amico di Pepoli fu Eugenio Scio direttore dell'ospedale S.Antonio e Sindaco della città. Pepoli si rivolse a Scio per la realizzazione di un nuovo e moderno museo. Nel 1906 a Trapani vi erano due nuclei d'arte: il primo era quello presso la Biblioteca Fardelliana, donata dal trapanese generale Giovan Battista Fardella; il secondo era la Pinacoteca comunale, formatasi in seguito alla raccolta di opere d'arte provenienti dalle corporazioni religiose. Il nuovo museo nacque dall'unione dei due nuclei d'arte più il patrimonio del Pepoli. Dove costruire il museo? Il maestoso convento carmelitano dell'Annunziata, uno dei più antichi dell'ordine in Sicilia, era stato in parte utilizzato come sede di una scuola elementare e in un'altra parte come caserma dei carabinieri, la maggior parte dei locali erano abbandonati. Con la lettera indirizzata al Sindaco, il 18 Novembre 1906 Pepoli lancia il suo grande progetto. Scio mostra subito il progetto del Pepoli al Consiglio, che lo approva il 23 Novembre 1906.

Come prima cosa bisognava rendere disponibili i locali dell'ex convento dei Carmelitani.

Lavorando senza sosta Pepoli restaurò a sue spese i locali; ottenne dal Sindaco il consenso del trasferimento della Pinacoteca comunale nel museo nonché di cimeli storici appartenenti al Comune e quadri di sua proprietà: creò la Villa Pepoli.

La morte del Pepoli, nel Marzo del 1910, suscitò sentimenti di dolore ma non solamente nella cittadinanza, anche negli ambienti della cultura, dell'arte e della politica; molto profonda fu l'orazione commemorativa pronunciata nel Consiglio Comunale di Trapani dal cav. Luigi Manzo che ricordava le opere compiute dal Pepoli. Dal 1915 il Sindaco acquisisce la provincializzazione dell'istituzione in modo da permettere di ricevere i reperti archeologici provenienti dall'intera provincia. Nel 1925 il Museo diventerà nazionale ma conserverà sempre il nome di Pepoli sin dal 1911 ad iniziativa del Sindaco, e la via che conduce al museo riceve il nome di “Agostino Pepoli”.

Tra il 1960 e il 1965 nel museo si passa dal lavoro di arredamento a quello di riordinamento vero e proprio delle opere d'arte; anche se questi lavori ebbero inizio già nel 1948, con i limitati mezzi allora disponibili.Il Sorrentino, nello ordinamento realizzato prima del 1920, non si era sentito di modificare la sistemazione “collezionistica” data dal conte Pepoli nel 1908, sicché, in un amplissimo salone si vedevano raccolti circa duecento quadri, di ogni epoca, in tre ed anche in quattro file sovrapposte. Dopo i lavori di riordinamento, che servirono a presentare il Museo in modo più dignitoso nel periodo di riapertura nel dopoguerra, bisognava occuparsi del miglioramento di tutte le dotazioni e attrezzature funzionali degli uffici, della biblioteca e dell'archivio fotografico.

Il 4 Aprile 1965 venne inaugurato il rinnovato Museo Nazionale Pepoli.

Archeologo di grande prestigio ed autorità ordinatore e fondatore del museo di Palermo , ordinario di archeologia presso l'università. Fu uno degli ospiti più frequenti del conte. Egli dedicò studi di valore fondamentale ad Erice, alla storia antica della città. Era stato lui, tra l'altro, a scoprire il nome che i Cartaginesi davano ad Erice, Erech.

Ain=occhio , beth = casa, phe = bocca

occhio agli invasori, questa è la nostra casa chi la viola finirà nella nostra bocca

archeologo israeliano Uranoschi