Indietro / Back to the Profile>   





Self-portrait.     Autoritratto

When asked recently (8/2003) by an international association to describe briefly how I became a language teacher, I offered the following self-portrait in words. It is given here to complete the physical portrait and biographical data on this page.

Una associazione internazionale mi ha chiesto recentemente (8/2003) di descrivere come sono diventato un docente di lingue. Segue la mia risposta, un breve autoritratto a parole che aggiungo per completare il ritratto fisico e i dati biografici.

Versione italiana: clicca qui>



How I became a language* teacher
*English for Intercultural Communication

Patrick Boylan


I've always been fascinated by language (singular)  –  ever since childhood, a little like Robert Frost in his earliest recollections: from behind closed doors he would hear the muffled voices of his parents, arguing or teasing each other or whatever, and slowly came to see that meaning was not in the words themselves but in the whole of an event, for which the words were but the musical accompaniment.   Later in his notebooks during his Gloucestershire period, Frost wrote:

"I give you a new definition of a sentence.   A sentence is a sound in itself on which other sounds called words may be strung.   ...   The best place to get the abstract 'sound of sense' [the sound that captures the sense of an event] is from voices behind a door that cuts off the words.   Ask yourself how these sentences would sound without the words in which they are embodied:

- 'You mean to tell me you can't read?'
- 'I said no such thing.'
- 'Well, read then!'
- 'You're not my teacher!' "


Then, much later, I discovered languages (plural) at school: Latin and Greek.   And hated them.   Dead leaves, crackling under the schoolmaster's heel.  


And then still later I discovered that languages (plural) could actually be language (singular)  –  not as taught at school, but as Raymond Williams spoke of them (and studied them).   Frost had posited the 'sound of sense'; now Williams posited the 'structure of feeling' arising from words  –  whether vibrations in the air or stains on the leaves of some dusty book  –  provided they were lived as the experience of another mind set, another culture, one that defines the definer.  


"So THAT is what 'sense' is!"  –  I said to myself.  


But how to be sure?   How to be sure that the senses I thought I grasped, as a non-native speaker of a language, were not merely self projections?  


From the distant Trobriand Islands, a bottle with a message, bobbing up upon my sea of doubts, provided me with an answer.   One knows, Malinowski wrote, by doing.   One comes to see things like the natives by doing things like them.   How obvious!   Echoes of Vico: "You know only what you create"!   Echoes of Anaxagoras: "Man thinks because he has hands"!   Doing!   Not gazing at that sea of doubts but sailing forth upon it. 


And so I left home and ventured penniless abroad into the native lands of many strange idioms and ways  –  a '60's remake, if you will, of Down and out in Paris and London (and in several other cities as well)  –  with only my Robert Frost ear, my Raymond Williams inner eye and my Malinowski hands as my teachers.   They stood me in good stead.  


Not only, but these three tools seemed to transform miraculously the friends and acquaintances who acquired them from me during my English lessons in Parisian neighbourhood associations, in student "collectives", in evening schools, and then in university classrooms.   The mutest, most recalcitrant students became enthusiastic linguists when they discovered that learning English  –  or any language  –  had relatively little to do with words and a lot with their stance in life.  


Moving to Italy, then, I sought to help my university students there acquire these three tools as well.   The decades of struggles that ensued  –  not with the ever gentle students, of course, but with the institutions which considered such instruction as subversive  –  takes us up to present.


<<<>>>






     Indietro / Back to the Profile>   

 

Versione italiana   
 

English  version:  click here>


Come sono diventato un docente di lingue*
*Inglese per la comunicazione interculturale

Patrick Boylan


Il linguaggio mi ha sempre affascinato e ciò sin dall'infanzia, un po' come racconta Robert Frost nei suoi ricordi più lontani: da dietro una porta chiusa egli sentiva le voci smorzate dei suoi genitori  –  litigavano?  giocherellavano? chissà?  –  e pian piano comprese che il senso di ciò che dicevano stava non nelle parole in sé bensì nell'evento complessivo di cui quelle parole erano solo l'accompagnamento musicale.   Anni dopo scrisse nei quaderni che teneva durante il suo soggiorno in Gloucestershire:

"Eccovi una nuova definizione di 'periodo'.   Un 'periodo' è un suono a se stante, sul quale possono essere appesi altri suoni, chiamati 'parole'.   ...   Il luogo migliore per cogliere in astratto il 'suono del senso' [cioè il suono che rinchiude il senso di un evento] è da dietro una porta che fa passare le voci ma non le parole.   Cercate di immaginare la sonorità di questi periodi senza le parole che vi danno corpo:

- 'Vuoi dire che non sai leggere?'
- 'Non ho detto nulla del genere.'
- 'Beh, allora, leggi!'
- 'Ma chi credi di essere, il mio maestro?!'
"


Poi, più tardi al liceo, ho scoperto le lingue straniere: il latino e il greco.   E le odiai: foglie morte, che crepitavano sotto il tallone del professore. 


Più tardi ancora, all'università, ho scoperto invece che le lingue straniere potevano anche considerarsi linguaggio!   Non come venivano insegnate a scuola ma come spiegava (e dimostrava nei suoi studi) Raymond Williams.   Frost aveva postulato il 'suono del senso'; ora Williams postulava la 'struttura della sensazione di un vissuto', la structure of feeling, la quale emergeva da parole  –  vibrazioni d'aria oppure macchie d'inchiostro nuove o antiche  –  vissute come l'esperienza di una diversa forma mentis, di una diversa cultura, la quale definisce chi la definisce.  


"Ecco, dunque, cos'è il 'senso'!"  –  dissi fra me e me.  


Ma come esserne sicuri?   Come sincerarmi che i sensi che pensavo di cogliere non erano semplici proiezioni?   Soprattutto quando si trattava di parole di una lingua non mia?  


Dalle lontane isole Trobiand, ballonzolando sulle onde dei miei dubbi, arrivò un giorno una bottiglia con dentro la risposta.   "Sai  –  scrisse Malinowski  –  se fai.   Comincia dunque a vivere come gli indigeni se vuoi cominciare a vedere le cose come loro."   Ma certo!   Era così ovvio!   Echi di Vico: "Verum ipsum factum".   Echi di Anassagora: "L'uomo ragiona perché ha le mani."   Fare!   Non stare sulla riva a contemplare quel mare di dubbi ma levare l'ancora e salpare!  


Così me ne andai di casa e mi avventurai squattrinato nelle terre natie di molti strani idiomi e costumi  –  un rifacimento anni '60 di Down and out in Paris and London (e in diverse altre città pure)  –  avendo come guide solo il mio orecchio alla Robert Frost, il mio occhio interiore alla Raymond Williams e le mie mani alla Malinowski.   Furono maestri eccelsi.  


Non solo, ma questi maestri sembravano trasformare miracolosamente gli amici e i compagni parigini a cui feci fare conoscenza durante le lezioni di lingua inglese che offrivo presso associazioni di quartiere e collettivi studenteschi, in scuole serali e poi in aule universitarie.   Gli allievi più taciturni e restii ad un tratto diventarono linguisti entusiasti quando scoprirono che imparare l'inglese  –  o qualsiasi lingua straniera  –  aveva relativamente poco a che vedere con le parole e invece molto con il loro modo di porsi nella vita.  


Trasferendomi poi in Italia ho cercato anche lì di far conoscere questi maestri ai miei studenti universitari.   I decenni di lotte che ne conseguirono  –  non con gli studenti ben inteso, sempre affabili, ma con le istituzioni per le quali il mio insegnamento risultava sovversivo  –  ci riporta al presente.  




English  version:  click here>
Indietro /
Back to the Profile>