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Self-portrait. Autoritratto
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Versione
italiana
Come
sono diventato un docente di lingue* Patrick Boylan
Il
linguaggio mi ha sempre affascinato e ciò sin
dall'infanzia, un po' come racconta Robert Frost nei suoi ricordi
più lontani: da dietro una porta chiusa egli
sentiva le voci smorzate dei suoi genitori –
litigavano? giocherellavano? chissà? –
e pian piano comprese che il senso di ciò che dicevano
stava non nelle parole in sé bensì nell'evento
complessivo di cui quelle parole erano solo l'accompagnamento
musicale. Anni dopo scrisse nei quaderni che teneva
durante il suo soggiorno in Gloucestershire:
-
'Vuoi dire che non sai leggere?'
Poi, più tardi al liceo, ho scoperto le lingue straniere: il latino e il greco. E le odiai: foglie morte, che crepitavano sotto il tallone del professore.
Più tardi ancora, all'università, ho scoperto invece che le lingue straniere potevano anche considerarsi linguaggio! Non come venivano insegnate a scuola ma come spiegava (e dimostrava nei suoi studi) Raymond Williams. Frost aveva postulato il 'suono del senso'; ora Williams postulava la 'struttura della sensazione di un vissuto', la structure of feeling, la quale emergeva da parole – vibrazioni d'aria oppure macchie d'inchiostro nuove o antiche – vissute come l'esperienza di una diversa forma mentis, di una diversa cultura, la quale definisce chi la definisce.
"Ecco, dunque, cos'è il 'senso'!" – dissi fra me e me.
Ma come esserne sicuri? Come sincerarmi che i sensi che pensavo di cogliere non erano semplici proiezioni? Soprattutto quando si trattava di parole di una lingua non mia?
Dalle lontane isole Trobiand, ballonzolando sulle onde dei miei dubbi, arrivò un giorno una bottiglia con dentro la risposta. "Sai – scrisse Malinowski – se fai. Comincia dunque a vivere come gli indigeni se vuoi cominciare a vedere le cose come loro." Ma certo! Era così ovvio! Echi di Vico: "Verum ipsum factum". Echi di Anassagora: "L'uomo ragiona perché ha le mani." Fare! Non stare sulla riva a contemplare quel mare di dubbi ma levare l'ancora e salpare!
Così me ne andai di casa e mi avventurai squattrinato nelle terre natie di molti strani idiomi e costumi – un rifacimento anni '60 di Down and out in Paris and London (e in diverse altre città pure) – avendo come guide solo il mio orecchio alla Robert Frost, il mio occhio interiore alla Raymond Williams e le mie mani alla Malinowski. Furono maestri eccelsi.
Non solo, ma questi maestri sembravano trasformare miracolosamente gli amici e i compagni parigini a cui feci fare conoscenza durante le lezioni di lingua inglese che offrivo presso associazioni di quartiere e collettivi studenteschi, in scuole serali e poi in aule universitarie. Gli allievi più taciturni e restii ad un tratto diventarono linguisti entusiasti quando scoprirono che imparare l'inglese – o qualsiasi lingua straniera – aveva relativamente poco a che vedere con le parole e invece molto con il loro modo di porsi nella vita.
Trasferendomi poi in Italia ho cercato anche lì di far conoscere questi maestri ai miei studenti universitari. I decenni di lotte che ne conseguirono – non con gli studenti ben inteso, sempre affabili, ma con le istituzioni per le quali il mio insegnamento risultava sovversivo – ci riporta al presente. |
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