Prof. Dr. Horst Seidl (Pont. Univ. Lateran., Roma)

 

 

Sulla questione se il bello sia un trascendentale

 

        Nei nostri tempi osserviamo un particolare interesse per il tema della bellezza, sia nella filosofia, come si vede nell'estetica di Theodor Adorno, sia nella teologia, come per esempio mostra l'imponente opera di Hans Urs v. Balthasar che è una teologia estetica. Uno dei motivi è certamente la tendenza contemporanea di concentrarsi sull’ambito dei sentimenti e dei “vissuti” (ted. “Erlebnisse”, ingl. “life-experiences”) cui si dedica una fenomenologia dei “fenomeni psichici” (Fr. v. Brentano, E. Husserl) per abbandonare la tradizionale filosofia metafisica squalificata come sterile, rigida, che ostacola la dinamica della vita umana. Perciò quei filosofi che non vogliono abbandonare la metafisica tentano di adattarla alla fenomenologia dei sentimenti e di attribuire alla bellezza il significato di un trascendentale metafisico.

        Per esaminare, in seguito, se tale tentativo sia possibile, devo prima riprendere la tradizionale dottrina dei cosiddetti trascendentali che risale ad Aristotele e si presenta in forma sistematica in Tommaso d’Aquino.

 

a)   La dottrina aristotelico-tomista dei trascendentali

        Aristotele discute, in Metafisica, libro IV (Γ), il problema come la scienza metafisica sull’ente in quanto tale, che egli sta introducendo, possa essere un’unica disciplina su tutte le cose invece di essere limitata soltanto a un settore di esse, come anche le altre scienze singole lo sono. Egli trova la soluzione nella geniale scoperta che l’essere delle cose, secondo il quale vengono comprese con il participio “ente”, non è di universalità univoca, né equivoca, cioè sempre dello stesso significato per tutte le istanze di cui viene predicato. Al contrario, l’ente appartiene a tutte le cose di tutte le categorie – sostanza, quantità, qualità, relazione, ecc. – nonostante la loro diversità essenziale. La sua universalità non è dunque generica univoca, bensì analoga, “proporzionale”. L’espressione si trova in Metaph. XII 3-4 (riguardo alle cause) e in Ethica Nicomachea I 4 (riguardo al bene, che Platone usava univocamente), mentre in Metaph. IV 1-2 Aristotele caratterizza l’uni-versalità dell’ente come un rapporto “all’uno” ossia “al principio”, perché le diverse istanze analogiche si riferiscono a una prima, a un principio. In tal modo le categorie accidentali sono riferite alla categoria della sostanza, e in quest’ultima le inferiori sostanze materiali sono subordinate a quelle superiori, immateriali, sia negli esseri viventi (anima ed intelletto), come al loro principio, sia infine nel principio trascendente divino. Ciò nondimeno tutte le cose hanno in comune certe note, in primo luogo il loro essere, poi altre note concomitanti, che appartengono a tutte le cose diverse nel modo analogo, non univoco. Quindi il problema summenzionato si risolve in tal modo che un’unica disciplina può trattare su tutte le cose, nonostante la loro diversità, perché la metafisica, considerandole sotto l’aspetto formale dell’essere, le comprende tutte e rivela la loro unità analoga.

        Nella Metaphysica Aristotele ribadisce che l’ente non è un genere,[1] cioè nessun universale univoco. Infatti, le categorie sono i generi più alti, e il fatto che le cose in ognuna di esse sono enti, non permette di assumere l’ente come un genere ancora più alto dei generi categoriali. Piuttosto l'ente li unisce come qualcosa di analogamente comune, che li trascende: transcendit genera, come dicono gli scolastici, donde proviene l’espressione del trascendentale, come caratteristica dell’ente.

        Inoltre già Aristotele ha rilevato che alcune note, cioè l’essere uno, vero e buono, convengono a ogni ente, che la scolastica chiama trascendentali, perché condividono con l’ente l’universalità analoga e sono convertibili con esso.

        Se il legame tra le istanze che cadono sotto l’universale univoco, generico o specifico, è questo che tutte abbiano la stessa essenza, la quale viene definita attraverso il genere e le differenze specifiche, allora si domanda quale sia il legame unificatore delle istanze analoghe che sono essenzialmente diverse. La risposta è che esse sono collegate attraverso il rapporto causale tra le istanze inferiori che si riferiscono a quelle superiori e alla più alta come alla causa del loro essere. In tal modo, come insegna s. Tommaso,[2] Dio non è sostanza nel senso univoco – trovandosi fra altre sostanze nella prima categoria[3] – ma è sostanza nel senso analogo, come la prima istanza, quale prima causa di tutte le cose.[4]

        L’impostazione dei trascendentali in Tommaso[5] presenta in forma sistematica. Egli sviluppa la dottrina aristotelica, comparando ogni ente con se stesso e con gli altri, sotto i criteri di identità e di diversità, nonché di separazione e di comunanza. Dal primo criterio risultano i trascendentali dell’essenza, del reale e dell’uno; dal secondo criterio invece, considerando la comunanza di ogni ente con l’anima, cioè con l'intelletto e con la volontà, risultano i trascendentali del vero e del buono;[6] non risulta però il bello. Per spiegare il perché mi pare necessario chiarire in seguito di quale natura il bello sia.

 

b)   La caratteristica del bello in Platone,
Aristotele e Tommaso d’Aquino

        Prima di andare ai testi in Tommaso sul bello, dobbiamo prendere visione dei testi antichi sul bello, soprattutto nel Simposio di Platone. In questo dialogo il discorso di Diotima coordina alla bellezza l’eros, il quale è un affetto della volontà ossia la volontà con l’affetto amoroso, in quanto ancora connessa con la sensualità. Infatti, tutti gli affetti risultano dalla connessione della parte razionale con quella irrazionale dell’anima.

        Perciò, nell’ascesa educativa, che il giovane Socrate deve andare sotto la guida della sacerdotessa, l’amore erotico si presenta come un primo passo ancora imperfetto. Infatti, il soggetto della formazione educativa dell’anima è certamente sempre l’intelletto insieme alla volontà, ma collegato ancora con la sensualità, nonché con le passioni o gli affetti. Quindi si pone il compito all’intelletto di purificarsi e di ascendere dal livello inferiore sensuale a quello suo proprio, all’intel-lettuale. Di per sé, la volontà è diretta al bene morale intelligibile quale suo oggetto. Ma per quanto il garbo sensibile del bello si aggiunge al bene intelligibile, alla volontà si aggiunge l’affetto erotico.

        Non c’è un duplice eros, neanche due soggetti, l’uno con un eros sensuale, l’altro con un eros intellettuale (come Plotino interpreta Platone), ma c’è soltanto un unico soggetto, l’intelletto insieme alla volontà, che si sviluppa ai due livelli: prima in modo erotico, collegato con la sensualità, diretto al bello sensibile, e poi sciogliendosi da essa.[7] Mentre al primo livello l’intelletto con la volontà è diretto al bene, combinato col bello sensibile, al secondo livello si eleva al bene umano in se stesso e infine al bene divino. Quest’ultimo è bello in quanto causa del bello sensibile corporale, nel quale si effettua.

        In conclusione: il proprio incontro con il bello è nel campo visibile corporale delle cose naturali e specialmente degli enti viventi. Qui il bello è associato con il bene ossia con il fine cosicché gli interpreti lo chiamano anche lo splendore del bene ossia del fine, il quale si manifesta nel medio visibile corporale. L’esempio principale è la bellezza del corpo umano organizzato dall’anima, dalla sua causa finale, che si effettua nel corpo. Nell’alta finalità organica del corpo risplende una bellezza che rinvia alla causa finale, l’anima. Perciò si parla anche della bellezza della stessa anima, ma soltanto nel senso improprio, metaforico. In tal modo le cause formali-finali in Platone, le idee, assumono anche il predicato del bello. Anche le virtù, che sono qualità dell’anima, vengono chiamate belle, perché sono la causa delle azioni virtuose.

        La stessa costellazione si trova anche in Aristotele, il quale collega il bello sempre con il bene. Quest’ultimo si presenta sia come piacevole nei beni esterni, sia come bene interno morale, quale virtù e felicità.[8] Il bello assume più significati equivoci, perché ha anche opposizioni con significati equivoci.[9] Nella Metaphysica il bello si associa al bene metafisico, ovviamente perché questo è la causa dei beni fisici, che sono belli. Ma, di per sé, il bello è distinto dal bene, Metaph. XIII (M), 3.

        Tommaso d’Aquino, riferendosi a Platone, Aristotele, Cicerone e Dionigi Areopagita, attribuisce il bello (pulchrum) ossia la bellezza (pulchritudo) in primo luogo alle cose sensibili, per quanto piacciono ai sensi, e ciò per tre caratteristiche delle belle cose: integrità, proporzione e chiarezza.[10] In senso metaforico si parla anche della bellezza dell’intelletto umano e di quello divino, perché anche nelle loro attività si trova integrità, proporzione e chiarezza. Questa visione metaforica si giustifica dal rapporto causale che esiste tra le cose belle e l’anima, nonché dal rapporto di esse con Dio come causa: “Dio viene chiamato bello come causa di consonanza e di chiarezza di tutto” (Summa theol., II-II, 145, 2).

        Inoltre, Tommaso associa il bello al bene, ma non in quanto evoca il dovere morale di realizzarlo, bensì come oggetto di contemplazione nelle opere d'arte. Perciò egli combina il bello con il bene, sotto l’aspetto della causa formale (ibd. I, 5, 4, ad 1), non della causa finale morale.

 

c)   La caratteristica non trascendentale del bello

        Dopo di aver rivisitato i testi classici sul bello possiamo andare alla risposta della questione se esso sia un trascendentale. Il decisivo argomento contro è certamente che Tommaso non lo adduce nella sua impostazione dei trascendentali in De veritate I. Questa si presenta in forma sistematica completa. La mancanza del bello non è una omissione trascurante. Il bello poteva mostrarsi come trascendentale soltanto per la sua associazione con il bene. Infatti esso condivide con il bene di trovarsi in istanze inuguali, cioè in cose sensibili e in quelle intelligibili, che sono connesse con il legame di causalità; e questo era un caratteristico per i trascendentali.

        Tuttavia, al bello non conviene tale caratteristica, nonostante che esso si associa al bene o al fine. La ragione è questa: mentre il bene si trova analogamente, in diversi gradi, nelle istanze derivate dall'istanza principale e in quest'ultima stessa, il bello, al contrario, si trova nelle cose visibili propriamente, ma nelle entità intelligibili soltanto in modo improprio, metaforico. Infatti il bello, come i testi summenzionati mostrano, si manifesta essenzialmente nel visibile, parlando al sentimento e all'affetto amoroso. Ai trascendentali, invece, corrisponde il mero atto intelligibile.

        Tali criteri sono decisivi e hanno giocato, peraltro, anche un ruolo nella discussione dell'analogia stessa. Come è noto, Caietano ha criticato l'analogia aristotelica di attribuzione, perché l'ha inteso così che una nota analoga (di proporzione) si troverebbe nelle istanze derivate in modo equivoco e nell'istanza principale in modo univoco. Tuttavia, non è così. L'analogo non risulta da una combinazione dell'univoco e dell'equivoco: non è né l'uno, né l'altro, bensì di un terzo tipo dell'universale, come abbiamo spiegato sopra nei testi fonte. Il bello non ha questa caratteristica dell'analogia, ma si trova nelle istanze sensibili propriamente, e nelle istanze invisibili, immateriali, soltanto impropriamente.

        In conclusione, tra il sensibile e l'intelligibile non c'è analogia, ma soltanto tra l'intelligibile di inferiore grado all'intelligibile di superiore grado. Si tratta, in ultima analisi sempre dell'analogia dell'essere, e l'essere è sempre intelligibile, anche nelle cose sensibili.

 



[1] Aristotele, Metaph. III (B) 3, 998b 22; VII (Z) 13, 1038b 8 seg., 35; 16, 1040b 18; VIII (H) 6, 1045b 2-7.

[2] Tommaso d’Aquino, Summa theol. I, q. 13, tratta dell’analogia dell’essere nel quadro della questione in quale modo si possa predicare di Dio diversi nomi (proprietà) nonostante la sua assoluta, semplice unità.

[3] Loco cit. art. 4.

[4] Loco cit. art. 5: nomina dicuntur de Deo et creaturis secundum analogiam… Et sic, quidquid dicitur de Deo et creaturis, dicitur secundum quod est aliquis ordo creaturae ad Deum ut ad principium et causam…

[5] Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 1, a. 1.

[6] Cfr. il mio articolo: Die aristotelischen Quellen der Transzendentalien-Aufstellung bei Thomas v. Aqu., De verit. I 1, in: Philos. Jahrb. (1973) 80, 166-171.

[7] Questa interpretazione ho spiegato nell’articolo: Zur Natürlichkeit des menschlichen Geistes bei Platon, in: Communicatio Fidei (Festschr. Biser), Regensburg 1983, 305-311.

[8] Aristotele, Rhetorica I, 6.

[9] Aristotele, Topica, I, 15 (106a 22).

[10] Tommaso d’Aquino, Summa theol. I, q. 39, a. 8; II-II, q. 145, a. 2.