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PINK FLOYD THE DARK SIDE OF THE MOON: the young person's guide to Pink Floyd
Il presente articolo fu pubblicato sul n. 8 della rivista Andromeda, marzo 2000
Al tempo della pubblicazione di Dark Side, nel marzo 1973, avevo poco più di tredici anni. Bei tempi, mi verrebbe d'istinto. A quella tenera età già m'interessavo di musica, da qualche primavera almeno, dei Sanremo, delle Canzonissime e dei Cantagiro d'annata. Soprattutto mi piacevano i gruppi, che comunemente venivano chiamati complessi, ed ero fermamente convinto che Senza Luce fosse una canzone dei Dik Dik e che Tutta Mia La Città dell'Equipe 84 l'avesse scritta Maurizio Vandelli. Ma già allora una nuova musica si era insinuata in me, una cosa molto simile alla "musica ribelle che ti vibra nelle ossa e ti entra nella pelle" di Finardiana memoria. Una nuova emozione. Fu principale merito della pazienza e della sopportazione di mio cugino, allora diciottenne, che all'improvviso si ritrovò tra i piedi quell'invadente moccioso da svezzare, che poi ero io. Lui poteva vantare una buona discoteca di classici d'epoca e addirittura numerose live experiences di spicco ché, ragionando con lui, quasi mi pareva di apprendere le mitiche ed eroiche gesta di un reduce di Woodstock. Lui per primo mi fece conoscere il grande Jimi della Terra delle Donne Elettriche, mi consentì di vedere e soprattutto toccare la copertina argentata e bella tonda di E Pluribus Funk con dentro un disco suonato da un gruppo che incuteva rispetto alla sola pronuncia della sigla, Grand Funk Railroad! Altro che Nuovi Angeli, Giganti e Camaleonti: G-r-a-n-d-F-u-n-k-R-a-i-l-r-o-a-d ! E sempre lui per primo mi iniziò ai Pink Floyd con una scioccante partenza da fermo, Ummagumma e quella Careful With That Axe, Eugene che mi avvinceva in uno strano dormiveglia, quasi si trattasse di una stralunata ninnananna spaziale spezzata da quel risveglio da incubo tremens. Ogni volta brividi freddi lungo la schiena. E tutto questo nella sua leggendaria stanza con l'impianto hi-fi, ricolma di vecchie riviste e pile di Ciao 2001 e con la mitica copia di Time Fades Away del vecchio ma sempre grande Neil, acquistata in real time e colpevolmente abbandonata al sole, sotto il lunotto posteriore dell'auto appena rinnovata e a causa di questo misfatto, gobba e inservibile, inchiodata al muro di destra alla stregua di terribile monito, o di un'opera d'arte pop. Iniziai così a comprare i miei primi ellepì, Delirium, Deep Purple e Sweet, tanto per gradire, e ben presto raggiunsi gli altari della "psichedelia progressiva radical colta" (mannaggia, le sigle! già allora un insopportabile tormento) proprio con loro, i Floyd. Intendiamoci, un bel pacchetto di economicissimi D-C90 della TDK, che i soldi erano davvero pochi e se avessi dovuto pagare tutti i rights oggi sarei ancora all'epoca di Caterina Caselli. The Dark lo ascoltai per la prima volta un annetto più tardi, se la memoria non mi tradisce, in occasione di un raid presso un locale negoziuccio di dischi, accompagnato dallo zio, batterista in un complesso beat di buona fama nelle balere della zona e nelle feste di partito, grazie anche ai due 45 realizzati e spesso suonati dalla mitica Radio Capodistria. Hey, mica tutti li fanno due quarantacinque!... Ad ogni buon conto, tornando a noi, non si trattò certo di un caso, quel raid, perché mio zio ben conosceva la titolare dell'emporio, una ragazza (vi garantisco) di non poche virtù con tutte le cosine al posto giusto, e lei evidentemente lo teneva in simpatia, lo zio, dal momento che al nostro ingresso (ma più corretto sarebbe dire ... al suo ingresso) con suadente automatismo estrasse dagli scaffali almeno le ultime quaranta novità, ficcandole una dopo l'altra sul giradischi. Fu allora, quando udii quei suoni lucidi e tondi, così perfetti e levigati e così lontani dal Piper di Barrett, dal Saucerful (per non parlare del doppio già citato), perfino dalla suite pastorale della mucca di pochi anni prima, sì, fu in quel momento che decisi che quel disco non l'avrei mai comprato. Mio Dio, non lo poteva aver fatto la stessa gente che tanto avevo ascoltato e sviscerato e amato nell'ultimo anno. Eppure i nomi dei musicisti in copertina erano gli stessi: lead Gilmour, slow Waters, ricky Wright e baffo Mason. E lo zio a sostenere che era bello, che lo dovevo ascoltare con attenzione ... per la cronaca quel giorno mi portai a casa Sun Secrets di Eric Burdon e la sua Band (eh sì, già allora senza un disco a casa proprio non tornavo). Gran bel disco, non c'è che dire. Sano rock blues. Altro che quella lagna melliflua ed edulcorata. Ma non ci fu verso; pochi mesi più tardi, nel corso di un successivo raid, "non lo vuoi comprare?" mi chiese lo zio, "allora te lo regalo io" infierì. E per forza me lo dovetti portare a casa, rigorosamente nascosto dentro la busta di plastica ché nessun amico incrociato per caso durante il tragitto lo potesse notare e, conseguentemente, farsi beffa di me; quasi con disprezzo lo riposi, nell'angolo più nascosto della mia ancor povera collezione. Il tempo e la matura età conduce poi, lo sappiamo, alla consapevolezza; o al totale rincoglionimento (nel caso di questa recensione credo di poter concordare pienamente con il lettore sul maggior realismo della seconda ipotesi); alla raziocinante accettazione critica ... insomma, il disco l'ho ascoltato, eccome, tanto che oggi il vinile fruscia e scricchiola di brutto (ma non chiedetemi di sostituirlo con la luccicante versione superdigitgold). Allora, cosa aspetti a dirci qualche roba su 'sto disco? Che razza di recensione è mai questa, vi chiederete con ansia e al limite della tolleranza massima consentita. In verità vi dico ..... ma cosa volete che vi dica di un disco sul quale si potrebbe scrivere un intero libro e del quale, in fin dei conti, non c'è più proprio nulla da dire, già sentito decine di volte in spot pubblicitari, in centinaia di telegiornali, documentari marini o d'alta montagna o sulla conquista della luna, e in rubriche radiofoniche (perfino riguardo alla cucina con l'olio d'oliva extravergine e il peperoncino), buono allo stesso modo per sottolineare le virtù dei pomodori pelati o dell'ultima star multimiliardaria del calcio, di un disco che per questi o altri motivi piaceva, piace e piacerà ai nonni come ai nipotini, a giovani e rampanti manager d'industria come all'impiegato di banca e al droghiere sotto casa. Ancora, un disco che ha messo d'accordo ricchi e poveri (quelli poveri non più di tanto, che possono permettersi di ascoltare un disco...), conservatori e progressisti, buoni e cattivi, contribuendo quindi alla realizzazione della grande utopia della pacificazione universale (ma che l'abbiano abbattuto loro, i Floyd, il muro di Berlino, seguendo le indicazioni dell'architetto Waters?). Bene di consumo e icona immacolata in attesa di santificazione, capolavoro assoluto al di sopra delle parti e geniale parto d'adeguamento ai gusti delle parti, The Dark può essere tutto questo e altro ancora, quantomeno per il semplice fatto che ha venduto milioni e milioni di copie e ha ramificato in classifica per oltre 300 settimane consecutive (ma i dati non sono in real time). Cosa dire se non che, nel bene e/o nel male, che piaccia o meno, ormai e per sempre è parte integrante della nostra esistenza come l'aria che respiriamo e l'acqua che beviamo, al pari o forse più dell'attacco della quinta di Beethoven, dell'inno americano o della Coca Cola. E l'arte? Il concept? La musica, almeno quella! Cosa ne facciamo, dove la cataloghiamo? Forse è tutta una scusa, un invalicabile timore reverenziale il mio ossessionante non confronto con la vera sostanza (se esiste) di questo disco, ma se proprio dovessi esprimermi libero da preconcetti e regole formali mi sentirei di affermare che The Dark Side Of The Moon è un qualcosa che si propaga al solo udire, che ti si appiccica addosso senza capire il come e il perché, parecchio simile all'indecifrabile e informe mostro de "La Cosa" di John Carpenter ..... insomma, sostanzialmente un grande boh! Giancarlo Nanni
children of the sun ... in search of space (by Giancarlo Nanni) pagina pubblicata il 28.06.2003 |