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.: FEAR FACTORY "ARCHETYPE" :.

La fabbrica della paura ha riaperto i battenti! Dopo le discussioni, le invidie e l’abbandono di “Sua maestà” Dino Cazares, Burton C. Bell ha rimesso in moto le macchine, ritrovandosi come nuovo operaio il bassista Byron Stroud (ex Strappino Young Lad) e costruendo con il resto della band, un album compatto, energico e violento. Non sono state dimenticate le sperimentazioni di “Digimortal” ma per questo disco pare che i cinque si siano riascoltati gli albori inquietanti di “Demanufacture” (il disco\padre del nu-mutal)  e “Soul of a new machine” (ascoltatevi la devastante “Cyberwaste”, forse il pezzo più violento che la band abbia mai composto), dimenticando per un istante le attraenti visionarietà di “Obsolete” (disco che per molti fu una delusione ma che in effetti era il logico successore di “Demanufacture”).

Le macchine hanno vinto. Questo è lo sfondo di “Archetype”, un disco malinconico e granitico nel quale il suono ha ben poco di umano: fracasso sonoro e violenza da infarto, una potenza d’insieme che riporta in alto nell’olimpo del metallo pesante la band polietnica (dato che il solo vocalist è di origine americana). Certo non tutti gli episodi paiono indovinatissimi (ad esempio “Archetype” che pare riprendere “Descent” di “Obsolete”) ma nel complesso l’album è degno dell’importanza della band. Ritroviamo le classiche ritmiche industriali di Herrera (possenti e devastanti in “Slave Labor” e “Act of god”), le splendide alternanze vocali di Burton C.Bell tornato a un growl molto vicino a quello degli esordi death (“Bonescraper” e “Default Judgement” con il potente avvio di basso), le coinvolgenti cavalcate sonore delle chitarre (e qui sinceramente l’assenza di Cazares si fa poco sentire) e un paio di episodi davvero singolari come la devastante cover di “School” dei Nirvana e l’intimista “Ascension”: 7 minuti di campionamenti e sintetizzatori, atti a regalare un’atmosfera di quiete e meditazione. Un modo per tirare il fiato alla fine di un album tiratissimo! “Archetype” diviene un viaggio metallico e industriale nel cuore pulsante della macchina che pare essersi risvegliata nel giorno seguente la nascita di “Demanufacture”, assimilandone lo spirito ma esprimendolo in maniera più matura (come nel caso della splendida ed emozionante “Human Shields”), un disco che va ascoltato a fondo e che non stravolge il sound della band (motivo per cui molti lo potrebbero ritenere ripetitivo e retrò) ma che sicuramente garantisce la salute creativa dei Fear Factory (nonostante il quasi-scioglimento).Un album da odiare o amare, come ci ha sempre insegnato la storia della fabbrica della paura. Welcome back!

info: www.fearfactory.com

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