Leonardo Taschera

Relazione per il Convegno “FORMAZIONE ARTISTICA MUSICALE…..ALTA?
Idee e strumenti per comprendere arte e musica nel sistema universitario italiano”
Organizzato dallo SNUR-cgil della Lombardia
14 giugno 2002 Università degli studi di Milano

Peculiarità, identità e qualità degli Istituti Superiori di Studi Musicali

PECULIARITÀ DELL’ALTA FORMAZIONE ARTISTICA E MUSICALE

La collocazione dei Conservatori nel sistema dell’Alta Formazione Artistica e Musicale, la loro conseguente trasformazione in Istituti Superiori di Studi Musicali e l’acquisita contiguità con il sistema universitario pongono prima di tutto un problema di identità. Problema di identità, si badi bene, che non investe se non parzialmente le collaudate metodologie formative proprie del sistema dell’AFAM: l’insegnare e l’apprendere il saper fare, indipendentemente dai loro campi di applicazione, rimangono il fondamento e il carattere distintivo della formazione artistica. La tradizione della bottega d’arte, nel senso più alto della sua accezione, non è messa in discussione nei suoi fondamenti: la trasmissione del sapere attraverso una pratica didattica basata sul contatto diretto tra docente e discente, pur con i possibili limiti eventualmente imputabili a un prevalere, nella prassi didattica, dell’empiria sul momento riflessivo, rimane un modo insostituibile di veicolare quel complesso insieme di abilità, conoscenze, capacità di formalizzazione e sensibilità estetica in cui consiste il saper fare artistico. Il processo di apprendimento per imitazione non si limita infatti all’acquisizione di abilità tecniche – embricate, in particolare nel settore musicale e coreutico, con abilità senso-motorie – ma si arricchisce di quel complesso di vissuti emozionali e cognitivi che la presenza fisica e diretta di chi trasmette il sapere consente di far esperire immediatamente anche per via simbolica e metaforica.
Mi si consenta di riferire di un’esperienza personale sicuramente analoga a quante chiunque di noi può aver provato. Nei miei anni di perfezionamento in direzione d’orchestra ebbi la fortuna di essere allievo di Franco Ferrara. Ricordo una mirabile lezione sull’Otello verdiano consistente nell’esecuzione dell’opera con Ferrara al pianoforte e con noi allievi in veste di cantanti: mai come in quell’occasione ebbi la possibilità di cogliere – al di qua o al di là di approfondimenti storici, critici o analitici - il carattere dell’opera e la sua chiave interpretativa; ma questo non solo per quanto di strettamente musicale veniva realizzato da Ferrara, ma perché il “musicale” si rivelava essere la risultante di interazioni tra l’esecuzione dell’opera, la postura del Maestro al pianoforte, l’espressione del volto, l’intenzionalità comunicativa della gestualità pianistica, l’inflessione della voce nel sottolineare questo o quel passaggio, il vissuto emotivo ed esperienziale che emanava da tutto quanto l’atteggiamento psico-fisico. In questo tipo di esperienza di apprendimento si coglie come la veicolazione del sapere utilizzi modelli che possono spesso fare a meno della mediazione del momento cognitivo o riflessivo, ma che si identificano necessariamente con la viva e diretta pratica artistica del docente.
Il problema dell’identità quindi va posto e risolto al livello dei contenuti d’apprendimento e a livello della adeguatezza - del modello qui accennato – rispetto alle funzioni che i conservatori riformati dovranno assolvere nel nuovo quadro istituzionale e a fronte di un orizzonte culturale ed economico sicuramente profondamente trasformato dall’epoca in cui i Conservatori hanno iniziato ad interagire con il tessuto sociale di riferimento.

LA NUOVA IDENTITÀ DEGLI ISTITUTI SUPERIORI DI STUDI MUSICALI

La prima domanda che ci dobbiamo porre è se questo modello di veicolazione del sapere artistico e, nello specifico, musicale, può reggere, da solo, la funzione che i Conservatori riformati verranno ad assumere nel percorso formativo del musicista. E soprattutto dobbiamo domandarci quali risposte e quanto adeguate questo modello può dare alle istanze che vengono dal corpo sociale e culturale del Paese e dell’Europa relativamente alla figura e al ruolo stesso del musicista. E, rispetto a tali istanze, dobbiamo chiederci se sia corretto e realistico ricondurre e contenere oggi il ruolo del musicista nell’ambito della competenza esecutivo-interpretativa e di quella compositiva così come ce l’ha consegnata la tradizione conservatoriale. Infine se sia sufficiente, a questo fine, il modello pedagogico-didattico prima tratteggiato. È forse proprio la risposta a questi interrogativi che può dare senso e contenuto culturale alla riforma delle nostre istituzioni.

Il sapere della tradizione conservatoriale

Il primo problema di identità da impostare e da risolvere, e anche il più immediatamente avvertibile, è l’aspetto per così dire di superficie degli effetti della riforma: il Conservatorio non sarà più una struttura formativa verticale, che accompagna lo studente dai primi approcci all’acquisizione della competenza musicale fino alle soglie della professionalità; al contrario il Conservatorio trasformato in ISSM presiederà alla formazione superiore, alla relativa specializzazione e perfezionamento. Tralascio qui di riaccendere la discussione, subito aperta non appena si è saputo quale sarebbe stato l’orientamento legislativo sui criteri della riforma, sulla bontà o meno del modello che la riforma propone: credo che non sia costruttivo difendere una formazione per fasce contro una formazione verticale o viceversa. Personalmente penso che, in prospettiva, si possano integrare gli aspetti positivi dell’una con quelli dell’altra e che, forse, la vincita della scommessa sulla buona riuscita degli esiti della riforma stia proprio nella capacità, da parte nostra, di realizzare questa integrazione. Pur rimanendo nell’ambito della formazione che la tradizione conservatoriale ci ha consegnato, non è così scontato infatti che il modello della bottega d’arte assunto in toto possa essere ancora adeguato alle esigenze di una formazione non controllata ab origine. Il vantaggio di quel modello consisteva nell’offrire la possibilità, a chi vi si accostava, di vivere l’esperienza di apprendimento in un ambiente totalizzante, in cui la crescita della persona e la crescita della competenza finivano con il sovrapporsi e integrarsi. Non è un caso che a noi insegnanti del settore venga dato l’appellativo di Maestro, che ci accomuna, per un verso, alle funzioni dell’educatore di base – che, come sappiamo, è una specie di tuttologo al pari di noi – e d’altro canto ci riconosce la possibilità, anzi, la necessità di porci come modello di eccellenza nell’arte che pratichiamo, con la capacità di dare unità e riconoscibilità stilistica sia alla nostra opera che alla trasmissione dei suoi modi operativi: cosa che è perfettamente congruente col fatto che nell’ordinamento ancora vigente le materie di insegnamento cosiddetto “principale” vengano chiamate Scuole. Un modello di formazione totalizzante però abbisogna a sua volta del riconoscimento del valore di altri modelli di rapporto col mondo, soprattutto per quanto riguarda l’ambito educativo e formativo in generale: per esempio e per semplificare, far dipendere il destino della persona – per quanto riguarda la possibilità di darle delle garanzie di capacità di rapporto economico con il mondo – dalla tradizione ambientale-culturale di riferimento o dalle condizioni socio-economiche di partenza oppure, al contrario, dalla titanica volontà, da parte del soggetto, di seguire la propria “vocazione”. Oggi si riconosce come presupposto irrinunciabile al processo di formazione della persona e del cittadino l’educazione alla scelta consapevole, al giudizio critico, alla pluralità delle opzioni rispetto al senso da dare alla propria esistenza, e ciò è in evidente contrasto con un modello formativo che non dà necessariamente il primato a questi principi. Quanto poi alla “vocazione”, che più modernamente possiamo chiamare l’insorgenza in tenera età di particolari doti in questo o quest’altro campo del sapere o di abilità, sempre più raramente si incontra e si integra con una capacità di impegno applicativo univoco e costante, condizione indispensabile perché la dote riconosciuta possa essere opportunamente coltivata e possa condurre agli esiti sperati: i mille stimoli cui un’intelligenza vivace e una sana curiosità del mondo vengono sottoposte, e i mille rivoli in cui si possono applicare rispondono appunto alle oggettive condizioni di vita che rendono irrinunciabile l’approccio critico e consapevole alle proprie scelte. Infine un’ultima considerazione. Quella capacità di sintesi della trasmissione del sapere artistico che ho cercato prima di illustrare con l’esempio della mia esperienza di allievo di Franco Ferrara, richiede due condizioni perché sprigioni in pieno la sua efficacia. Prima di tutto la presenza, in chi è in grado di operare quella sintesi, di qualità che vanno oltre la pura competenza specifica, ma che investono la persona nel suo complesso: dal carisma, al fascino personale, all’autorevolezza, a quell’insieme di doti eccezionali che fanno assumere alla parola Maestro un alone semantico molto articolato e complesso; e in secondo luogo che questo complesso di qualità sia, nell’ambito sociale di riferimento, riconoscibile, e gli venga attribuito un indiscusso valore. Ma tutto ciò, con buona pace di tutti noi, proprio per il mutamento, prima accennato, delle condizioni socio-culturali, non è così ovvio si verifichi. In altre parole e per tentare di sintetizzare queste riflessioni, il modello della bottega d’arte era funzionale ad un assetto sociale in cui la presenza di nicchie culturali d’élite, o comunque chiuse e protette, erano elementi strutturanti l’assetto: oggi e nella cultura occidentale qualsiasi processo formativo si rivolge erga omnes, a un indifferenziato sociale in cui le élites sono più di natura economica che culturale. In altre parole ancora siamo di fronte alla necessità, già avvertita e già fronteggiata in ambiti formativi diversi dal nostro, di elaborare strategie formative adatte a una scuola di massa, e in grado di ritagliare giustappunto nella massa quelle eventuali condizioni di nicchia che consentano di valorizzare la “vocazione” o, con termine più adeguato, l’eccellenza.
Ciò posto è evidente che a una fascia superiore di studi si potrà affacciare, pur con una verifica della congruenza della competenza d’ingresso con i fini delle nostre istituzioni, chiunque abbia seguito un percorso formativo musicale di cui conosceremo solo approssimativamente le metodologie pedagogico-didattiche adottate e la loro efficacia nel medio e lungo periodo. Non potremo più avere la garanzia di un pregresso processo di accumulo di sapere musicale – pur acquisito per via intuitiva – in grado di essere perfezionato e affinato in funzione della conquista del “gusto”, quella categoria del sapere cui i teorici barocchi e classici sempre si riferivano come unica capacità di determinare sicure scelte artistiche. Dovremo intervenire su soggetti già “maturi” dal punto di vista sia giuridico che biologico, dotati di aspettative – a volte incerte, a volte sicure – non solo circa i propri destini professionali, ma anche circa il proprio successo esistenziale; aspettative la cui soddisfazione dovremo poter garantire – a livello di quadro istituzionale - attraverso una necessaria adozione di strategie formative che non potranno solo coincidere nella proposta di full immersion nella bottega d’arte, ma che dovranno avvalersi di quelle metodologie e di quelle discipline che possano far raggiungere il “sapere” artistico anche attraverso la mediazione della riflessione e dell’astrazione consapevolmente acquisite. Il sapere musicale, quella complessa integrazione di abilità e intelligenza nelle cose musicali, dovrà quindi poter essere raggiunto anche con il supporto, pur all’interno della bottega d’arte, di quelle discipline delegate a strutturarlo per via teorico-critica, a prescindere quindi dalla possibilità che le sue basi siano state eventualmente assorbite per via immediata ed intuitiva.




I nuovi profili professionali

Un altro problema di identità dei futuri ISSM che è necessario saper impostare ed avviare a soluzione riguarda, come dicevo prima, i contenuti culturali della riforma. Al di là infatti della necessità di adozione di adeguate strategie pedagogico-didattiche rispetto ad una nuova utenza, è necessario in primo luogo sottoporre a revisione critica i contenuti di insegnamento della pratica esecutivo-interpretativa e di quella compositiva. Per quanto riguarda la prima l’ampliamento del repertorio - che si è affacciato a ritroso nel tempo oltre al classicismo verso il Barocco e il Rinascimento, con la riscoperta e la conseguente pratica di strumenti musicali caduti in disuso nella stagione classico-romantica, e che comprende ormai la produzione del ‘900 fino alle ultime avanguardie – pone nuovi problemi di consapevolezza stilistica e di prassi esecutiva che non possono più essere affrontati e risolti solo per via imitativa se non altro per il fatto che il docente, più è valido e più è competente in un determinato campo dell’ormai sterminato orizzonte del sapere esecutivo-interpretativo. Valgano alcuni esempi. Di fatto chi oggi è in professione come esecutore-interprete di musica cosiddetta antica possiede un corredo di conoscenze in ambito musicologico e compositivo che ha dovuto acquisire per così dire sul campo: basti pensare alla necessaria conoscenza della trattatistica relativa alle prassi esecutive o alla competenza nella realizzazione del basso continuo piuttosto che a quella necessaria ad affrontare e risolvere problemi di semiografia antica. Chi viceversa è in professione come esecutore-interprete della musica contemporanea spesso ha portato a termine studi di composizione o comunque ha dovuto sviluppare capacità e competenze analitiche acquisite più nel rapporto diretto con l’ambiente culturale delle cosiddette avanguardie che attraverso studi sorvegliati sul piano intellettuale. Un percorso formativo quindi nell’ambito delle discipline esecutivo-interpretative dovrà essere necessariamente integrato da un corredo di conoscenze musicologico-analitico-compositive se si vuole che il profilo professionale che ne risulta sia all’altezza delle attuali esigenze. Tutto ciò per quanto riguarda la figura professionale del concertista, sia esso strumentista solista o camerista, cantante o direttore; per lo strumentista d’orchestra, oltre a ciò, la necessità di un training specifico è riconosciuta in molti Paesi dell’Unione Europea e ha già dato luogo, a casa nostra, ad iniziative di formazione in ambiti privati o semi-privati; così come, ma solo in Europa, è riconosciuta per il corista ( da noi la mancanza di ambiti di specializzazione in questo settore rappresenta un assurdo vuoto istituzionale, dato l’immenso patrimonio polifonico-vocale della produzione rinascimentale). Stesse considerazioni valgano, ad esempio, per il “fido maestro sostituto” piuttosto che per il pianista di balletto, per i quali la presenza e il funzionamento, negli ISSM, di “laboratori” lirico-teatrali risulta essere irrinunciabile.
Al contempo, però, oggi la competenza esecutivo-interpretativa può essere formata e spesa non necessariamente in funzione delle nicchie socio-culturali in cui il consumo di ascolto musicale si realizza attraverso i circuiti concertistici tradizionali – specchio della funzione della bottega d’arte - ma in una dimensione sia oggettiva che soggettiva per così dire di confine tra una fruizione “colta” del fatto di musica ed una di intrattenimento o pedagogico-formativa. Riallacciandomi a quanto detto prima, l’oggettività di tale dimensione è di ordine sociologico: esiste una potenziale esigenza di fruizione del fatto di musica che può venir meglio intercettata se la tradizionale performance è integrata da capacità di comunicazione di tipo propedeutico all’ascolto o da possibilità di contaminazione con generi musicali diversi da quelli di tradizione euro-colta. Di conseguenza, e questo è l’aspetto soggettivo della dimensione di confine, è realistico ipotizzare una nuova figura professionale che può essere definita come quella del performer musicale, in cui confluiscono, sulla base di una competenza tecnica non necessariamente sviluppata ai livelli del virtuosismo, capacità di comunicazione e capacità di tipo creativo-improvvisativo.
Analoghe considerazioni possono essere fatte per quanto riguarda la figura professionale del compositore. Siamo abituati a considerare la competenza finale del Compositore - sulla scia della tradizione instaurata dalla seconda Scuola di Vienna e, per certi versi, consolidata dalla Scuola di Darmstadt - come continua ricerca di soluzioni linguistiche formalmente adeguate alle proprie esigenze creative ed espressive, e ciò è perfettamente congruente con finalità di produzione di oggetti d’arte secondo una visione dell’artisticità di stampo sostanzialmente ancora romantico: gli studi di composizione della tradizione conservatoriale sono finalizzati alla formazione di questo tipo di figura professionale anche se lascio aperta qui la discussione sia sulla base di quali categorie socio-culturalmente condivise possa essere definito oggi un oggetto d’arte musicale, sia sulle metodologie pedagogico-didattiche adeguate a tal fine. Rimane comunque il fatto che in questa tradizione di trasmissione del sapere compositivo non è assolutamente presa in considerazione la destinazione d’uso o, in altre parole, non si ritiene di dover formare competenza circa i suoi campi di applicazione. Anche qui le capacità di creare una colonna sonora per il film o la fiction televisiva, piuttosto che per qualsiasi ambito in cui la musica possa integrarsi con la dimensione dello spettacolo, oppure di produrre materiali destinati ad una didattica di base vengono acquisite sul campo.
La riflessione sulle esigenze formative del musicista interprete e del compositore non possono non riflettersi sui contenuti culturali dei loro apprendimenti. La riduzione da una parte delle nicchie socio-culturali che erano il naturale polo di riferimento della bottega d’arte, e dall’altra l’allargamento di una fruizione musicale potenzialmente indifferenziata circa le scelte, abbisogna di un attento riesame dei contenuti dei repertori di studio riguardo a generi e stili. Forse è il momento di interrogarsi sull’opportunità di incominciare ad operare contaminazioni tra generi – e la presenza in numerosi conservatori dell’insegnamento del jazz e di strumenti il cui repertorio è ricco in ambito diverso da quello euro-colto sono segnali in questa direzione – e di aprire la formazione, pur col dovuto rigore e la dovuta sorveglianza sul piano intellettuale, verso orizzonti che non siano necessariamente limitati all’interno della tradizione storica dei conservatori.
Il terzo problema di identità riguarda la costruzione di percorsi formativi di profili professionali che, pur richiesti dall’attuale mercato del lavoro, non trovano ancora collocazione in ambito istituzionale. Le riflessioni fin qui esposte, infatti, non possono non produrre l’esigenza di articolare la formazione musicale superiore anche in funzione dell’apertura o dell’approfondimento di tre ambiti irrinunciabili: quello pedagogico-didattico, quello musicologico-analitico, quello tecnologico.
L’ambito pedagogico-didattico gode già, fortunatamente, di una sua storia, anche se recente, nei nostri conservatori, ma ha un limite: si è sviluppato sulla spinta dell’esigenza di formazione dell’educatore musicale di base. La trasformazione del percorso di studi musicali verticale in percorso a fasce apre immediatamente il problema dello sviluppo di nuove competenze pedagogico-didattiche articolabili su due fronti: uno è quello della formazione del docente di strumento ai livelli di base, che dovrà operare in scuole elementari e medie ad indirizzo musicale o comunque in ambiti dove la scoperta e la valorizzazione delle eccellenze dovrà essere sostenuta da strategie pedagogiche ritenute non del tutto necessarie in Conservatorio data la selezione che nelle nostre istituzioni aveva appunto lo scopo di individuarle, seppur con la inevitabile quota. di approssimazione. L’altro fronte è quello della formazione di una figura di docente che, provvisoriamente, potremmo chiamare di “cultura musicale generale”. La fascia d’età del liceo è la più delicata da gestire, quanto alla determinazione dei futuri indirizzi professionali: è il momento del passaggio dalla pre-adolescenza all’adolescenza, con tutte le problematiche di crescita connesse, cui si aggiunge quella delle scelte sui destini professionali. L’ingresso in un liceo musicale dalla fascia di studi precedente pur con una preparazione strumentale di base non significa necessariamente che quest’ultima debba essere poi perfezionata in vista della competenza specifica, ma può voler dire prendere coscienza, attraverso la pratica di discipline dell’area riflessiva o tecnologica, di possibili sviluppi in diverse articolazioni della competenza musicale, articolazioni che, per la complessità dei loro contenuti, troveranno compiutezza al percorso formativo negli ISSM.
L’area analitico-compositiva, quella storico-musicologica e quella tecnologico-informatica abbisognano, per un approccio iniziale, di strategie pedagogiche che, seppur elaborate in via teorica, sono state applicate in campi diversi da quelli cui dovranno essere destinate. Non credo, per esempio, che, nei futuri licei musicali, l’approccio agli studi di composizione sia il semplice trasferimento in quella sede dei corsi inferiore e medio dell’attuale corso di studi, oppure che divenga un estensione di quelle competenze compositive che vengono formate nell’attuale corso di Didattica della musica. La formazione del docente in queste aree dovrà essere necessariamente uno degli obiettivi degli ISSM.
Per quanto riguarda l’ambito tecnologico, un importante precedente è costituito dall’attuale corso di musica elettronica. La sua configurazione lo rende però funzionale a fini compositivi: forse sarebbe opportuno che si aprisse alla formazione di tecnici di alto livello sul modello del Tonmeister tedesco o dell’Ingénieur du son francese. Non solo, ma l’ambito tecnologico costituisce oggi quel terreno in cui la competenza compositiva tradizionalmente intesa si incontra con la sua spendibilità in campo applicativo: sappiamo tutti quanto la competenza in questo settore sia irrinunciabile a fronte delle richieste che vengono dal mercato del lavoro.
Rimane quasi completamente scoperto l’ambito analitico-musicologico che, nella tradizione culturale del nostro Paese, non cade sotto il dominio degli studi di Conservatorio. Tende ancora infatti a prevalere, in ambito istituzionale ed accademico, una concezione dell’acculturazione musicale come un processo scisso in due dimensioni non tra di loro necessariamente interagenti. Da una parte si ritiene che l’acquisizione della competenza relativa alla elaborazione dei materiali musicali sia in senso esecutivo-interpretativo, sia in senso creativo-compositivo debba venir consegnata alla tradizione artigianale, e questa raggiunge il suo scopo, come è stato già detto, con il metodo dell’imparar facendo attraverso l’immediato contatto con i materiali stessi; dall’altra parte si ritiene che l’appropriazione della dimensione riflessiva sui fatti di musica, da quella storico-musicologica a quella critico-estetica, debba essere realizzata attraverso la mediazione di linguaggi, o meglio meta-linguaggi, debitori, della funzione loro attribuita, per lo più ad ambiti disciplinari ritenuti in grado di sussumere comunque l’area della riflessione in senso lato, quali che siano i suoi oggetti. Sembra cioè persistere, se non il convincimento teorico, quantomeno l’abitudine a dare alla tradizione letterario-estetico-filosofica il primato nel fornire i modelli di lettura del fatto d’arte in generale e, in particolare, del fatto di musica. E ciò ha fatto sì che questo tipo di studi sia caduto sotto il dominio dell’Università. In tale ambito, però, il sapere musicologico limita normalmente i suoi orizzonti alla dimensione critico-storiografico-filologica, approfondendo poco quella teorico-analitica che, viceversa, è sempre scaturita dall’ambito musico-pratico, anche se specificamente compositivo. Una riflessione musicologica radicata in quest’ambito potrebbe portare gli studi teorico-analitici nel nostro paese al passo con i livelli raggiunti in Europa e negli Stati Uniti.

QUALITÀ E RICERCA

Se quanto fin qui tratteggiato costituisce l’orizzonte cui deve orientarsi la concreta riforma delle nostre Istituzioni, allora la sfida che ci si presenta e che, spero, vogliamo vincere, non è di poco conto. La trasformazione dei Conservatori in ISSM, alla luce delle considerazioni fatte, non consiste solo in una riorganizzazione, a livello ordinamentale, della fascia superiore di studi, ma implica una presa di coscienza delle annesse problematiche culturali generali e un impegno di ricerca sia rispetto ai nuovi contenuti sia rispetto ai modi operativi della sua realizzazione. Perché la sfida venga vinta è necessaria una generale assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori del processo di riforma: responsabilità culturale e intellettuale da parte di chi opera nelle Istituzioni, responsabilità amministrativa da parte delle forze politiche e di governo.
Per quanto ci riguarda il primo obiettivo che ci dobbiamo porre è garantire l’alto profilo qualitativo delle nostre Istituzioni. Nel nostro Paese stenta ad affermarsi una cultura della qualità verificata attraverso parametri accettati e condivisi: più che mai questo è vero nel nostro ambito che tende ad essere autoreferenziato riguardo a questo problema. Basti come esempio il modo con cui ormai da trent’anni a questa parte sono state condotte le sperimentazioni. Se è vero che lo strumento della sperimentazione è stato l’unico motore dell’innovazione culturale e didattica, è anche vero che nessuno strumento di verifica della sua efficacia è stato messo a punto. L’efficacia di questa o quella sperimentazione si è venuta rivelando nel tempo e sulla base dei risultati acquisiti piuttosto che sulla base della validazione del raggiungimento di obiettivi prefigurati. Ciò può avere, seppure involontariamente, provocato danni nel medio periodo, danni che non possono che essere ricaduti sull’utenza.
Nel momento quindi in cui la trasformazione dei Conservatori in ISSM si identificasse, come qui si auspica, con una generale innovazione didattica e culturale, il metodo della ricerca scientifica dovrà informare e formare qualsiasi impostazione di nuovi percorsi formativi. Qualsiasi innovazione all’interno delle discipline tradizionali o qualsiasi proposta di integrazione con le medesime piuttosto che la proposta di istituzione di nuovi corsi o di progetti integrati dovrà essere impostata secondo il criterio dell’individuazione dell’obiettivo, della sua giustificazione in base ad esigenze formative, se non documentate, quanto meno ben argomentate, della definizione degli strumenti e metodi per conseguirlo, della dimostrazione di fattibilità, infine della verifica delle cause dell’eventuale discostamento dall’obiettivo prefigurato, e quindi della necessità di correggere l’obiettivo stesso piuttosto che gli strumenti e i metodi adottati. Soprattutto sarà necessario definire un sistema credibile e realistico di crediti formativi tale da garantire da una parte l’esito della formazione, ma dall’altra mettere gli studenti nelle reali condizioni di poterlo perseguire. Mi si consenta di affermare che l’Università non ci fornisce un buon modello, relativamente ai settori di competenza tradizionalmente attribuita ai Conservatori: una attenta analisi del progetto ARIES, per esempio, messo a punto dall’Università di Bologna, non sembra commisurare i mezzi ai fini dichiarati e non garantisce quindi esiti compatibili con una formazione superiore spendibile non dico a livello Europeo, ma semplicemente a livello della formazione fornita dagli attuali Conservatori di tradizione storica. In particolare, per quanto riguarda l’istituzione di percorsi formativi afferenti a nuovi profili professionali, il rigore del metodo scientifico dovrà essere accompagnato dalla verifica della reale esigenza sul territorio, piccolo o grande che sia, della presenza di questa o quella figura professionale, come d’altronde raccomanda il comma 8 dell’art. 2 della legge 508. Su questo terreno è in ogni caso indispensabile il confronto e l’eventuale stipula di convenzioni con agenzie formative diverse dagli ISSM, prima fra tutte, ovviamente, l’Università: credo sia necessario ipotizzare che, rispetto a particolari profili professionali, la creazione di percorsi formativi integrati sia indispensabile, quanto meno nel medio termine, se non si vogliono disperdere energie, competenze, risorse umane, economiche e materiali.
È chiaro che tali procedure di validazione della qualità delle Istituzioni pongono sul tappeto della sfida un serio problema, che la legge di Riforma non pone direttamente, ma che si evince soprattutto dall’enunciazione dei regolamenti applicativi elencati nel comma 7 dell’art. 2, e che qui va messo in chiaro senza reticenze. Il processo di trasformazione probabilmente non potrà investire tutto e tutti: elenco qui i principali spunti di riflessione che inducono a tale considerazione.
Qualsiasi processo innovativo che debba essere sottoposto a verifica circa la sua efficacia rispetto agli esiti ipotizzati deve potersi realizzare a partire da dati quantitativi tali da poter garantire le opportune parametrazioni. È evidente che quei Conservatori in cui il numero degli iscritti ai corsi superiori, attuale o presunto, raggiunga le poche decine non possono offrire – al di qua di considerazioni economico-burocratiche - un campo di applicazione sufficientemente ampio e tale da poter verificare l’efficacia di quelli che dovranno essere i nuovi ordinamenti didattici e i nuovi percorsi formativi.
Lo stesso dicasi per quanto concerne le strutture logistiche: l'attività di ricerca può comportare l'utilizzo di particolari attrezzature, impianti o altri mezzi tecnici con la conseguente necessità di acquisire o riattrezzare strutture e spazi anche polivalenti, per i quali è necessaria un'apposita dislocazione degli ambienti rispetto alla possibilità di evoluzione dei modelli e dei nuovi linguaggi artistici. La futura articolazione organizzativa degli ISSM dovrà quindi poter prevedere la presenza di laboratori, aule idonee, centri di servizi, uffici, auditorium, studi di registrazione,etc., e una dotazione di biblioteche con fondi almeno sufficienti al funzionamento didattico, quando non ricchi di patrimoni librari aperti alla consultazione pubblica. Di conseguenza l’offerta formativa degli ISSM dovrà essere garantita dalle attrezzature e dagli spazi per la loro allocazione, in ambienti e strutture di tipo tecnologico avanzato, le cui finalità specifiche saranno di volta in volta definite nell'atto costitutivo, sulla base degli ordinamenti didattici e dei singoli statuti predisposti ed elaborati seguendo le connotazioni e le specificità di ciascun Istituto.
Queste necessità portano subito ad ipotizzare che le piccole Istituzioni debbano mirare a progetti qualificati ma specifici, sulla base di un realistico esame di congruenza di mezzi rispetto ai fini, delle tradizioni ed esigenze del territorio di riferimento, e mettendosi in rete con altre Istituzioni per l’elaborazione di progetti integrati. È opportuno ipotizzare l’istituzione di “poli” con funzione aggregante da una parte, e dall’altra punti di riferimento per specifici ambiti di ricerca e specializzazione. Il modello francese ci è di aiuto in questa direzione: i Conservatori Regionali Nazionali si qualificano appunto per la specificità dei loro indirizzi rispetto ai contenuti dei percorsi formativi: l’uno costituisce un riferimento per la pedagogia della musica, l’altro per il jazz, l’altro ancora per la musica etnica, l’altro per la ricerca tecnologica e così via. La qualificazione delle Istituzioni e delle loro sedi porta immediatamente con sé il problema dell’identità della funzione docente e della collocazione della relativa e specifica competenza. La legge prevede che tutti noi siamo collocati in apposito ruolo ad esaurimento: a parte l’infelicità del lessico che richiama immediatamente il concetto di malattia terminale, credo che si debba considerare quest’aspetto del disposto legislativo come una garanzia offerta, e non come un limite imposto. Valgano due considerazioni: se il processo di trasformazione dei Conservatori in ISSM si verificherà quanto meno analogamente a quanto qui si va proponendo, ciò costituirà un grosso impegno, da parte di chi lo realizzerà, in termini di tempo, di dispiegamento di energie intellettuali, di spesa delle risorse professionali e di fatica nel loro adattamento alle nuove forme di insegnamento. Tutto ciò dovrà pur essere riconosciuto sia a livello di ruolo giuridico sia a livello economico. D’altra parte la parametrazione della qualità delle istituzioni potrebbe produrre la messa fuori gioco di quelle non dimostratesi in grado di trasformarsi in ISSM: ma perché questo dovrebbe risolversi in un danno per quei docenti che avessero la capacità o semplicemente la volontà di essere attori del processo di trasformazione? Credo che si dovrà giungere per forza di cose a determinare dei criteri concorsuali da una parte per valutare l’idoneità di chi si sente in grado di sostenere il processo di trasformazione e dall’altra per premiare chi già da ora si adopera in questa direzione.
E qui entra in gioco la responsabilità degli attori politici e amministrativi del processo di trasformazione. Noi la nostra parte non solo la stiamo facendo tentando, come con questo convegno, di porre le basi per un confronto serio sul piano dei contenuti culturali e delle responsabilità intellettuali, ma l’abbiamo già fatta sul piano istituzionale e normativo attraverso i nostri organi di rappresentanza. Il Consiglio Nazionale per l’Alta Formazione Artistica e Musicale, di cui ho l’onore di far parte, e che è l’unico organo rappresentativo dei docenti dell’AFAM previsto da un disposto legislativo (l’art. 3 della legge 508), ha già prodotto tra il luglio del 2000 e il giugno del 2001 tutte le bozze dei regolamenti applicativi della legge di riforma. Tra questi appunto quelli relativi proprio ai problemi che stiamo trattando: requisiti di qualificazione didattica, scientifica e artistica delle istituzioni e dei docenti; requisiti di idoneità delle sedi; modalità di trasformazione di Conservatori e Istituti Musicali Pareggiati; possibili accorpamenti e fusioni, nonché modalità di convenzionamento con istituzioni scolastiche e universitarie e con altri soggetti pubblici e privati; le procedure di reclutamento del personale; i criteri generali per l'istituzione e l'attivazione dei corsi, ivi compresi quelli integrativi, per gli ordinamenti didattici e per la programmazione degli accessi. Sappiamo qual’è l’assunzione di responsabilità che il potere esecutivo ha dimostrato in quasi tre anni dalla promulgazione della 508. Noi, mi sembra, stiamo dimostrando di essere pronti: il governo faccia ora la sua parte.

Leonardo Taschera