L'Armonia del Mondo e la Terza Maggiore secondo Keplero

Questo capitolo dell'interessantissimo libro di Ruggero Pierantoni (La trottola di Prometeo. Introduzione alla percezione acustica e visiva. Laterza. Bari 1996. pgg.164-170) affronta la transizione tra la percezione visiva e quella acustica scegliendo il punto di passaggio nel campo complesso ma molto fecondo delle dissonanze. La dissonanza ha un forte rilievo percettivo, ma presenta anche l'opportunità di individuare la struttura profonda del suono complesso e la sua sostanziale natura di fenomeno composito, anche se la sua fenomenologia sembra rimandare a un mondo più semplice, armonico ed essenzialmente astratto e puro. In realtà, ogni suono è un vero e proprio prodotto fisico dovuto all'urto e all'impatto molto intricato tra superfici e masse mosse con una notevole velocità relativa, e in cui le qualità di elasticità, rigidità, isteresi, deformabilità giocano un ruolo forse più significativo che non le semplici relazioni matematiche tra lunghezza e superficie. Approfittando della recente osservazione sulla probabile natura evolutiva della spiacevole sensazione associata al rumore prodotto dal gesso sulla lavagna si introduce il concetto di composizione armonica di un suono e di un rumore.

In cosa consista, essenzialmente, un rapporto, non è facile dire. Dobbiamo subito stabilire di che rapporto si tratta, tra quali enti o persone o oggetti, su quali basi viene valutato o misurato o descritto, se la sua natura sia spaziale o temporale, se necessiti di una sorta di evoluzione per stabilirsi oppure si presenti istantaneamente, e, naturalmente, da chi questo «rapporto» è compreso, conosciuto e descritto. Figure geometriche la cui struttura si basa su rapporti tra lunghezze del tipo 1:7 oppure 1:6 sono, per Keplero, portatrici intrinseche di discordia; non certo il quadrato con il suo bel rapporto di uno ad uno o il rettangolo ottenuto raddoppiando il quadrato con il non meno buon rapporto 1:2 o altre figure meravigliosamente perfette. Ma questa loro negatività non si arresta ad una sorta di «disgrazia geometrica» che esse sembrano portare con sé. Esse sono ineffabiles, inscibiles: sono «imparlabili» e «inconoscibili». Anzi, esse sono addirittura non entia. Sono nulla, o forse dobbiamo sentire nei non entia di Keplero qualcosa di più che una non esistenza, una sorta di condanna a non poter esistere, o forse, meglio, una speranza che essi non esistano.

Cosa spinge Keplero (sebbene questi sia solamente la punta dell'iceberg) a condannare con tanta acredine (e paura) alcuni innocenti rapporti tra numeri? Perché la radice quadrata di 2 è un numero «irrazionale»? Proprio questo ultimo numero mostra un suo peccato originale sorprendente. Forse poche figure geometriche come il quadrato suscitano simpatia; esse sono «stabili» e perfette, matematicamente mostrano una natura mite e molto semplice: i lati sono tra loro eguali, eguali sono gli angoli e come tale il quadrato (il quattro) entra di diritto nella matematica buona. Ma se ne consideriamo la diagonale le cose diventano complicate e, immediatamente, drammatiche e fatali. Se si tenta di esprimere con un numero il rapporto tra la lunghezza di un lato di un quadrato e quella della sua diagonale ci si imbatte in qualcosa di intrattabile. Il numero che si deve scrivere non lo si può mai finire di scrivere, esiste sempre una cifra dopo l'ultima. E, fatto ancora più grave, ogni cifra che si viene ad aggiungere alla fila sempre più lunga è sempre differente e risulta difficile (per certi numeri dello stesso tipo del tutto impossibile) predire quale sarà il prossimo numero.

Per una mente diversa, e diciamo pure moderna, l'angoscia dell’ineffabilis non si presenta. La struttura particolare di quel numero, la sua impossibilità di scriverlo totalmente viene semplicemente inserita nella concezione di numero, e questa sua particolare caratteristica diviene solo un'indicazione della natura dell'insieme di certi simboli che noi adoperiamo e che condividono tra loro appunto questa interessante e quasi divertente caratteristica: di essere ineffabilis.
Ma una delle possibili origini del timore o sospetto che numeri di tal tipo suscitarono rimanda, più che a una sorpresa di computo, a una sorta di frustrazione dovuta alla infinita coazione a ripetere l'atto del dividere, a un preciso percetto, ad un sensazione fisicamente spiacevole, a qualcosa di straordinariamente fastidioso.

Per comprenderlo si può considerare una ricerca proprio di questi mesi, ancora ben lontana dall'essere completamente formulata e definita, che verte su un fatto assai modesto ma molto familiare della vita comune: il fastidio generato dal rumore prodotto a volte dal gesso sulla lavagna o da un'unghia che scorre sulla sua superficie. Si è notato come questi suoni (si tratta davvero di suoni o di rumore?), siano veramente fastidiosi («raggriccianti» è un buon aggettivo per descriverne l'effetto sull'ascoltatore). Si è notato come l'effetto fortemente fastidioso non derivi dalla intensità, dato che invece suoni molto più intensi non hanno lo stesso effetto: basta invece una intensità bassissima del rumore in questione per avere un forte effetto di fastidio. Si è provveduto quindi a sottrarre alcune delle parti che compongono questo rumore.

Spiegheremo fra poco in che cosa consistano precisamente tali componenti; per ora pensiamo solo che il suono complessivo sia costituito da tanti suoni simultanei. Si possono filtrare le varie componenti una a una, come attraverso un setaccio passano i grani di certe sementi e non altre e si possono testare i suoni a diversi livelli di filtraggio, ossia dopo la eliminazione di alcune delle componenti rimaste «nel setaccio». Sembra che il gruppo di componenti più efficaci nel determinare l'effetto di sgradevolezza di quel particolare rumore siano presenti nel grido di certi animali feroci, animali con i quali o con i diretti predecessori dei quali dobbiamo aver avuto a che fare uno-due milioni di anni fa.

Se questo fatto venisse confermato in dettaglio, il rumore raggricciante del gesso sulla lavagna sarebbe una sorta di concentrato (divenuto del tutto innocuo) di alcune frequenze, di alcune componenti presenti nel grido di animali feroci. Il nostro rifuggire da questi rumori avrebbe quindi un notevole e assai benvenuto effetto evolutivo nel senso che un rumore con le componenti «giuste» avrebbe l'immediato effetto di indurci in fuga o di farci rannicchiare e ridurre il nostro bersaglio visivo. Naturalmente si tratta di una ricerca in corso che qui viene inserita al solo scopo di introdurre un concetto importante, ben stabilito e ampiamente riconosciuto, misurato e utilizzato nella vita sociale: la struttura armonica dei suoni.

Per il momento analizziamo un fatto assai semplice, purtroppo solo in apparenza. Ascoltiamo qualcuno premere il tasto del pianoforte che corrisponde alla nota Do che chiamiamo centrale perché è situata al centro della tastiera. È noto che questa nota consiste sostanzialmente in una vibrazione di 261,63 Hz, ossia di 261,63 vibrazioni al secondo. Se vi infastidisce pensare all'esistenza di una cosa che sia una frazione di vibrazione, per esempio 0,63 vibrazioni al secondo, si può scrivere che il Do centrale è composto da vibrazioni ognuna delle quali dura 0,003822191644 eccetera secondi. Più o meno ogni vibrazione di un Do centrale dura 3 millisecondi. L'ultimo Do (Do 8), il suono di frequenza più elevata che un pianoforte moderno possa emettere, ha una vibrazione che dura 0,00023889154 eccetera secondi, circa 2 decimillesimi di secondo. E, per completare il ritratto, il Do più basso (Do 1) ha una durata di vibrazione di 0,03057823 eccetera secondi. Riassumendo e riducendo le durate alle prime due cifre significative abbiamo Do 1=0,03, Do 4 (Do centrale)=0,0038 e Do 8=0,00023 secondi. L'intervallo di tempo tra i due Do estremi è di circa 130 volte, per essere più precisi 128 volte.

Trattando le note con i concetti di frequenza, di ampiezza e durata ci siamo fatti un'idea di questi suoni come di onde sinusoidali, suoni così netti e «puri». Un bel La prodotto da un piano perfettamente accordato suscita irresistibilmente l'idea assai attraente che si tratti di un suono «puro» ossia di una vibrazione semplice e riconducibile a una sola semplice e perfetta sinusoide; un po' come i colori che vediamo nello spettro ottenuto direttamente dal sole con un prisma impeccabile suscitano la sensazione quasi inspiegabile, questa volta davvero ineffabilis, di avere di fronte qualcosa di primario, di essenzialmente elementare e di «primitivo»: qualcosa che non abbia ancora intrattenuto con l'uomo alcun «contratto sociale» e che sia del tutto indipendente dalla nostra cultura, dalla nostra tecnica e dal nostro linguaggio. Ci appaiono, quei colori e quel La, come dati della Natura e non come dati della Cultura. Essi appaiono come un'evidente manifestazione della presenza di una divinità ordinatrice e distributrice di armonia o di una natura costruita secondo una intriseca coerenza di leggi e «rapporti».

Ma questa visione semplice e aurorale della purezza dei suoni deve cedere il campo a strane esperienze percettive che introducono immediatamente fattori complicati e potenzialmente distruttivi, uno dei quali deriva appunto dalla percezione di un rapporto. Immaginiamo di suonare simultaneamente due note vicine al massimo, per esempio proprio il nostro Do 4+Do 4 diesis. Il suono prodotto non è proprio quello che possiamo considerare il massimo dell'armonia. Siamo ben lontani dallo stridio del gesso sulla lavagna e certo lontani dalle antiche tigri dai denti a sciabola, ma questo nostro piccolo «accordo» di due note assai vicine non sembra così naturale, così primitivo e divino. Il frequenziometro ci assicura che le due vibrazioni erano rispettivamente di 261,63 Hz per il Do 4 e di 277,18 Hz per il Do diesis vicino. Il rapporto tra queste frequenze non sembra molto interessante, numericamente parlando: 277,18/261,63=1,05943 eccetera. Se invece suoniamo simultaneamente il Do 4 e il Do 5 (quello immediatamente a destra del Do 4), il suono è decisamente più piacevole, ci viene voglia di ripeterlo più e più volte. Un po' come quei poveri topi cui avevano insegnato ad autostimolarsi i centri cerebrali del piacere e «preferivano» morir di fame e di sete piuttosto che smettere. In che rapporto stanno i due Do? Con Do 4=261,63 e Do 5=523,25, il loro rapporto è 523,25/261,63=1,9999617. Se ci accontentiamo delle prime cifre decimali dobbiamo concludere che in pratica il rapporto è eguale a 2: certamente un numero buono.

Adesso cominciamo a sospettare che Pitagora non era, dopo tutto, un folle e che l'aver abbinato a certi suoni (o molto meglio a certi rapporti tra suoni) alcuni numeri non era stato poi così insensato. Per esempio possiamo, incoraggiati dall'esperienza e dimenticandoci un po' presto del disgraziato 1,059... di prima, fare il rapporto tra Do 4 e il Sol immediatamente superiore, abbiamo 392,00/261,63=1,498299 e, se non facciamo troppo i difficili possiamo dire di avere avuto un «bel rapporto» con 1,5, il quale in realtà può derivare anche da un altro «rapporto» interessante tra puri numeri: 3/2=1,5.
Questo 1,5 è proprio uno di quei rapporti che facevano così felice Keplero tanto da conferirgli il nome, per adesso piuttosto oscuro per noi, di «quinta perfetta».

Naturalmente il termine «quinta perfetta» non deriva da Keplero che non era in primis un musicista, ma dalla letteratura musicale e matematica precedente, in particolare dal Ratio Canonis, un antico trattato di teoria al tempo stesso musicale e geometrica. La interessante parola «perfetta» associata alla parola «quinta» indica una sorta di sotterraneo paesaggio in cui esistano quinte «imperfette» e altre creature semimostruose che sarebbe meglio evitare per restarsene a godere, qui in superficie, le Armonie del Mondo e i loro accordi ineffabili.
Nel complesso sembra esistere per davvero una sorta di fratellanza o alleanza tra numeri, o meglio rapporti tra numeri e suoni, o loro rapporti. E, almeno al primo sguardo, certi rapporti matematici semplici come 1/2, 3/4 o anche 4/3 corrispondono al suono piacevole ottenuto suonando simultaneamente due note il cui rapporto di frequenza dia proprio quei numeri. O valori molto vicini ad essi.

Prima di entrare in questo mondo è necessario ricordare in che modo un suono viene generato. Proviamo a considerare un suono prodotto da un batacchio che urti contro la parete interna della campana alla sommità della quale è incernierato. L'urto non può non provocare una deformazione locale di tipo meccanico del metallo che si muove letteralmente sotto l'impatto, e necessariamente muove l'aria a immediato contatto con la superficie colpita. (...) Poiché il metallo è elastico, la deformazione non resta circoscritta nel punto preciso dell'impatto ma si diffonde lungo tutta la superficie secondo un'onda di spazzamento che si muove lungo il margine libero della campana ma che ne percorre anche tutta la superficie. Il risultato è una massiccia costrizione e rilascio di un immenso numero di molecole di aria. L'aria non è un elemento e quindi non è corretto dire «molecole di aria», è più preciso scrivere molecole degli elementi che compongono l'atmosfera prossima alla campana, ma proseguiamo semplificando il linguaggio che è, certe volte, più intelligente di noi. Nel caso della campana possiamo pensare che, entro certi limiti, il suono da essa prodotto derivi sostanzialmente dal metallo messo in vibrazione dall'impatto con il batacchio.

Una parte interessante del suono prodotto deriva anche da quella porzione di energia cinetica impressa a tutta l'impalcatura cui la campana è sospesa e che finirà per trasmetter le vibrazioni anche lungo la struttura muraria del campanile e sino a terra. Il caso della Torre pendente di Pisa è esemplare sotto questo aspetto. Come ogni normale torre campanaria essa porta in alto un certo numero di campane che sono state però da lungo tempo immobilizzate per non danneggiare con le loro vibrazioni il delicato equilibrio della torre. Ma, anche se una frazione notevole dell'energia finisce per lasciare la campana non attraverso l'aria ma attraverso il vincolo meccanico con l'impalcatura di sostegno, essa non contribuisce in modo significativo all'acustica della campana stessa. Il suono è essenzialmente determinato dal metallo, dalla sua lega, dalla dinamica dell'impatto e dalla posizione in relazione al suolo, relativamente poco dal sostegno meccanico.

Pensiamo adesso di premere il tasto corrispondente al Do 4 del pianoforte e di analizzare il suono emesso dallo strumento. Estraiamo mentalmente la corda dal piano stesso e, mantenendo tutta la meccanica assolutamente immodificata, colpiamo il tasto con la stessa forza. Il suono prodotto dalla corda non può essere ancora una volta che il Do 4 ma ci apparirà assai differente: differente, non solo più debole. Intuitivamente comprendiamo che una porzione assai significativa dell'energia del Do 4 derivava non solo dalla corda messa in vibrazione ma anche dallo strumento stesso. Pensate ad un violoncello e a quella delle sue corde che emette, naturalmente, il Sol. Non sentiremmo quel suono così intenso e pieno di «corpo» se la stessa corda sotto lo stesso carico meccanico e messa in vibrazione con la stessa modalità fosse stata staccata dallo strumento e attaccata ad una semplice armatura di acciaio o, peggio, di cemento armato.

Si intuisce che i suoni prodotti dall'organo vibrante in qualche modo sono estremamente sensibili alla sua collocazione entro lo strumento musicale nel suo complesso. Se così non fosse un'orchestra avrebbe una vita assai facile nei suoi spostamenti. Basterebbe che ciascun musicista avvolgesse con cura la corda o le corde del suo strumento nella valigia e poi, al momento del concerto, la attaccasse a un supporto qualunque purché capace di impartire loro la necessaria tensione meccanica identica a quella che veniva ottenuto nel violoncello, violino, viola o pianoforte originario. È troppo chiaro quindi che quando udiamo un Do 4 emesso da un pianoforte noi ascoltiamo certamente la corda messa in vibrazione, ma non solo essa.

Evidentemente ogni suono ha un suo altro mondo non semplicemente sinusoidale e la sua natura è in realtà composita e costituita da molti altri suoni. Dinanzi a questo, che significato può assumere l'esecuzione del rapporto matematico tra Do 4 e il suo vicino Do diesis? Se ogni suono è in realtà composto da molti altri «suoni», ha un senso eseguire un rapporto matematico così semplice? dove sta il problema? La risposta venne intuita per merito (davvero un merito questa volta) dei suoni tra loro troppo prossimi, spiacevoli, dissonanti. Infatti se due suoni assai vicini in frequenza vengono suonati simultaneamente si ascoltano quelli che sono stati chiamati, molto opportunamente, battimenti. Il suono che si ascolta consiste in una vibrazione sonora la cui ampiezza sale e scende fastidiosamente nel tempo. Se si aumenta la distanza tra le frequenze dei due toni suonati simultaneamente, questo fenomeno dei battimenti tende a ridursi, ma il suono resta sgradevole. Metaforicamente il suono che si ascolta viene definito non liscio, rugoso, scabro; musicalmente lo si dice dissonante. Se la distanza tra le due frequenze aumenta ancora abbiamo, improvvisamente, un'area di benessere acustico. Il suono diventa liscio, scorrevole, fluido e, musicalmente, consonante.