Emilia Mallardo
Docente di materie letterarie e latino

La famiglia – bidone

Il Movimento artistico – culturale " Esasperatismo – Logos & Bidone", fondato nel maggio del 2000 da Adolfo Giuliani, con la pubblicazione di un Manifesto contenente sia la presa di coscienza dell’esasperazione globale raggiunta nel nuovo secolo sia i presupposti ideologici per un’eventuale palingenesi, ha elevato a proprio simbolo un oggetto umile, dimesso, mortificato nell’uso quotidiano, eppure utile, vantaggioso ed indispensabile nella sua specifica funzione di contenitore.

Il bidone, in virtù di queste sue insite qualità, di queste sue doppie connotazioni, assurge a potente e nobile metafora della Vita, sia quella geo – morfologica della Terra, sia quella socio – culturale dell’Uomo. Le sue aggettivazioni pur contrastanti, infatti, ben si attagliano al profilo geografico, ecologico, antropologico del nostro pianeta nei tempi attuali. L’umiltà con cui dimessamente la terra subisce quotidianamente mortificazioni di tipo ambientale è sotto gli occhi di tutti, al punto che non c’è quasi più angolo del mondo in cui le acque non siano inquinate, gli alimenti non siano avvelenati, l’aria non sia contaminata; eppure nessuno può mettere in discussione l’utilità dell’acqua, il vantaggio di un’alimentazione sana e genuina, l’indispensabilità dell’aria pura. Ma non basta. Anche l’uomo è un bidone, in quanto contenitore di pensiero creativo e creatore di società e cultura.

Una delle sue più potenti creazioni è stata la famiglia, un’associazione economico – sociale con vincoli di sangue. Ebbene, anche la famiglia può essere considerata un contenitore. Di cosa? Di affetto, tenerezza, stima, rispetto, ma anche di odio, rancore, disprezzo. Come a dire che ancora permangono nella società a noi contemporanea i due modelli esemplari del "nido" pascoliano e della "trappola" pirandelliana. Ed è qui che ritroviamo una rete analogica tra il bidone contenitore di vita e speranza, come nido protettivo e sicuro da una parte, e il bidone metafora di beffa, come trappola –cella- prigione dall’altra. La letteratura più recente, romanzesca, lirica, teatrale, cinematografica e perfino giornalistica, è prolifica nella rappresentazione, reale o fittizia, dei due modelli appena individuati.

Prendiamo in considerazione, a titolo esemplificativo dei due filoni, i romanzi " Lessico famigliare " di Natalia Ginzburg e " La cognizione del dolore " di Carlo Emilio Gadda. Natalia Ginzburg (Palermo 1916 – Roma 1991), racconta la storia della sua famiglia, così come l’ha "vista", o meglio "sentita", nell’infanzia e nella giovinezza, per sua esplicita dichiarazione: "…sulla traccia di quelle frasi, parole e storie, m’era venuto l’impulso di ricercare e far rivivere sia l’atmosfera in cui venivano pronunciate, sia le persone che usavano pronunciarle: e cioè l’atmosfera di casa mia, e le figure dei miei genitori, dei miei fratelli, dei loro amici, e degli amici miei".

Il romanzo, dunque, prende il titolo dal gergo che si usava in casa Levi (Ginzburg è il cognome del marito della scrittrice), una sorta di codice segreto incomprensibile agli estranei, come in tante famiglie esiste: riferimenti allusivi, nomignoli evocativi, frasi di complicità, citazioni, ricordi, aneddoti che appartengono esclusivamente ai componenti della stessa famiglia e che a volte vengono perfino tramandati di generazione in generazione. Sono per così dire la testimonianza che esiste sim – patia, comunanza di affetti, un feeling tutto giocato sul filo dell’ironia, della bonaria e affettuosa presa in giro reciproca. Leggiamo Cesare Garboli, che assieme a Montale, è stato uno dei recensori più attenti della Ginzburg: "Lessico famigliare….è un insieme di ricordi promossi dal sopravvivere della memoria di parole, espressioni, modi di dire, frasi sentite tante volte ripetere in famiglia, buttate là senza pensarci dai fratelli più grandi e dai genitori, frasi e parole futili e senza peso…."

Di tutt’altra specie il clima che si respira in casa di Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, il protagonista de "La cognizione del dolore". Carlo Emilio Gadda (Milano 1893 – Roma 1973), traccia il profilo di un personaggio rovinato dalla famiglia, educato con criteri rigidi e repressivi, allevato tra rinunce, divieti e sacrifici, con l’unico scopo di costruire una villa che possa restituire alla famiglia quel prestigio sociale di fatto irrimediabilmente già perduto insieme al patrimonio economico. I lutti che si succedono in famiglia, il padre prima e il fratello poi, quest’ultimo unico componente positivo della famiglia agli occhi del protagonista, diventano motivo di ulteriore tormento e nevrosi.

Gonzalo, rimasto da solo con la madre, vive con lei una profonda conflittualità, che raggiunge gli estremi del patologico. Il terreno di scontro più macroscopico è dato dalla gestione dello spazio simbolico della villa: la madre ne vuole fare un luogo di incontro, di condivisione sociale, aprendola al mondo esterno, soprattutto alla genuinità dei popolani e all’innocenza dei bambini; il figlio, al contrario, ne vuole fare un luogo chiuso, protetto, lontano dalla volgarità e dall’ignoranza di quello stesso mondo a cui si rivolgono le premurose attenzioni della madre. Gonzalo viene progressivamente roso da parossistiche crisi di gelosia verso la madre, in una sorta di regressione all’infanzia, con chiare manifestazioni di complesso edipico, come quando calpesta il ritratto del padre nell’intento di distruggerne anche la memoria; viene continuamente torturato dai sensi di colpa per essere sopravvissuto al fratello; viene infine assillato quotidianamente da un odio ossessivo contro i borghesi vicini di villa, contro i contadini, definiti sporchi e maleodoranti. Anche lui, al pari del suo autore (il romanzo è autobiografico) e di Pascoli, è tormentato dal bisogno dello spazio chiuso, dal dovere di ricostruire il "nido" domestico oltraggiato da lutti e disgrazie.

Ma c’è di più. Gonzalo va oltre. Il rapporto di odio e amore che lo lega alla madre, di gelosia e incomunicabilità nei suoi confronti, raggiunge un punto di non ritorno; nessuna soluzione positiva, o quanto meno di tregua, sembra più possibile nel loro confligere e competere e rivendicare il proprio potere sulla casa. La donna muore in circostanze misteriose: matricidio? Folle convincimento di liberazione da un vincolo, da una fissazione, da un incubo non più tollerabile? La tensione omicida si profila nella mente del protagonista, ma il tema del matricidio viene oscurato, relegato nel mistero del non detto. Altro che idillio di Lalla Romano col figlio! Altro che idillio di Natalia Ginzburg con la sua famiglia d’origine! Qui la famiglia è dissacrata, negata, ancor più che in Pirandello.

In quest’ultimo infatti l’unico legame possibile all’interno della famiglia era quello viscerale tra madre e figlio; qui anche questo legame viene infranto: c’è una madre che a suo tempo non ha saputo sostenere e guidare l’infanzia di un figlio e, di rimando, un figlio che attualmente non sa confortare e sorreggere la vecchiaia di una madre. La famiglia borghese nella sua totalità viene demolita e spietatamente smascherata: via i suoi miti ovattati ( la casa – nido ), via i suoi falsi ideali ( amore ed altruismo ), via anche i legami di sangue. Subentrano e campeggiano, minacciosi e tragici, i traumi e le sofferenze, le meschinità e le debolezze, il lutto e la nevrosi. Gonzalo, per dirla col Giuliani, è un "esasperato", un nevrotico che ha perso, o forse non ha mai avuto, punti di riferimento, sia essi reali (figure, certezze) sia essi ideali (sogni, illusioni). Non gli resterà che la cognizione del dolore, che è sì una conoscenza, ma tragica.

La Ginzburg ci offre dunque un esempio di bidone – famiglia dolce, sim – patico, contenitore traboccante di affetti e speranza. Gadda, al contrario, ci presenta un bidone – famiglia aspro, antì – patico, contenitore di veleni e disperazione.

Il teatro del Novecento ha affrontato in varie opere il tema della famiglia. Proponiamo un riferimento fugace, ma autorevole: Eduardo De Filippo (Napoli 1900 – Roma 1984). Dramma della sconfitta – vittoria della maternità è sicuramente quello di Filumena Marturano, nell’omonimo lavoro, ma anche dramma della famiglia negata o ancora della famiglia ritrovata: dipende dal punto di vista da cui s’indaghi la vicenda. Il triangolo borghese di pirandelliana memoria è il leit motiv in Napoli milionaria (1945), in Questi fantasmi (1946), in Mia famiglia (1955); la famiglia disgregata è il filo conduttore in Natale in casa Cupiello (1931) e la famiglia – trappola lo è in Gli esami non finiscono mai (1973); in questi due ultimi drammi è comunque presente anche il motivo del triangolo.

Ci piace, infine, dare uno sguardo nell’universo poetico immediatamente intorno a noi, per scoprire voci garbate e discrete, talora festose e cristalline, talora tristi e mansuete, che dicono dei loro affetti. Chiara Ciampicali (Roma 1965), nella poesia Papy, dopo aver riconosciuto doti e carismi innati nel padre, gli dichiara tutto il suo amore e la sua riconoscenza, perché "tu sappia senza dubbio alcuno" – gli confessa la poetessa – "che il mio presente nasce dal passato // e gli anni che di te facesti dono // m’han reso fiera d’esser come sono". Caterina Lattanzio (Roma 1959), nella lirica A mia madre riecheggia al femminile gli stessi motivi ispiratori della Ciampicali; insiste, in particolare, sul carattere battagliero della madre, al cospetto della quale perfino Marte "avrebbe chinato il capo", si sofferma su "teneri pensieri" e su "sentimenti d’amore", conclude con un verso che punta alla definizione emblematica: "Insostituibile affetto della mia // vita".

Annibale Zullo (Pesche 1932) e Oreste Pasqua (Tivoli 1944), nelle loro composizioni Mamma e Ricordo della madre, sembrano porsi sullo stesso percorso ideale: il primo osserva la madre invecchiare, affiora a tratti la consapevolezza del declino foriero di morte, netto il rifiuto del momento fatale: ""Non provocare questa ferita" (vs. 7); "dolore atroce che non vorrei provar mai" (vs. 17). Il secondo, a cui la madre è invece già morta, sul filo del rimpianto memoriale, si strugge al pensiero di non poter più cogliere quei piccoli, semplici gesti quotidiani ("il saluto della mano", "il rosario stretto") che attestavano la "nobile dolcezza" della mamma. Gonzalo Pirobutirro d’Eltino sarebbe inorridito a tale lettura!

Ernesto Maffei (Belvedere di Spinello 1957) e Pierina Gallina (Camino al Tagliamento 1952), l’uno dal profondo sud, l’altra dall’estremo nord, hanno dedicato versi pieni di accoramento ai loro figli. Nelle loro liriche, intitolate Quando e Per te…figlia, si riscontra una singolare coincidenza:una parola – chiave, "palcoscenico", è presente in entrambi i testi, sia pure riferita a situazioni diverse. Maffei la riferisce alla propria vita vissuta, chiedendosi che cosa potrà lasciare di essa , cioè del proprio "palcoscenico interrotto", se non "qualche umile traccia // disegnata lungo il sentiero // dalle rare emozioni". La poetessa Gallina, invece, per la propria figlia (partita? sposata? morta?) dice "colorerò con fili d’argento // la trama del tuo esser donna // su palcoscenici di cartapesta".

Vittorio Pesca ed Elena Tabarro(Aversa 1962), infine, rimpiangono nelle loro poesie, Casa di mio padre e Casa dei miei, il focolare domestico come luogo di affetti e di amori perduti, di tenere infanzie lontane. Le due liriche ripropongono il tema del "nido", sia pure solo sul filo della nostalgica rimembranza e senza le remote, inconsce, allusioni analogico - arazionali di sicurezza e protezione che sono connotative della produzione pascoliana.

Vorremmo, e ci piacerebbe molto, terminare qui, ma il dovere di cronaca ci porta a ricordare recenti, efferati, mostruosi fatti di cronaca nera che offuscano il bidone contenitore di speranza e ci riportano ad emuli ed aspiranti Gonzalo Pirobutirro: pensiamo ai numerosi casi di delitti perpetrati all’interno delle mura domestiche e a quello di Novi Ligure in particolare, che più degli altri forse ci ha scossi. Di fronte a simili episodi, il bidone di Giuliani ci appare ancora più sofferente e sanguinante, perchè emblematico di una famiglia esasperata, non più depositaria di un lessico d’intesa e di affiatamento, di vicendevole appoggio, di reciproco affetto. Dove è diretta la famiglia? All’autodistruzione? Al punto di non ritorno? Che cosa si può fare per alleviare le ferite del suo bidone?

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