GENNAIO 2017 | Prima edizione, 2011 | |||
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Editore
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Subito
una precisazione: Carlo Lottieri non è un teologo. “Teologia politica” è l'argomento del saggio, non la sua professione. La domanda “Credere nello Stato?” è una “trovata” dell'editore, che ha attualizzato il tema della ricerca. Stessa cosa per il riferimento a Wikileaks. Parliamo del libro. Il tema è: come nasce la concezione moderna dello Stato. Non è un libro di storia, ma è un libro di teoria: Lottieri non snocciola date né racconta battaglie, ma mette a confronto il pensiero delle persone che vissero in due epoche della nostra storia: il Medioevo e l'Età moderna. Al Medioevo sono dedicate le prime cinquanta pagine; al passaggio dal Medioevo all'Età moderna sono dedicate le successive settanta pagine; l'ultima parte riguarda la contemporaneità. Quale “concetto” aveva l'uomo medievale dello Stato? Intanto non si usava il termine “Stato” come l'intendiamo noi oggi. Il termine corretto è potestas: il potere di governare il popolo, di assicurare la giustizia e combattere i nemici. Ad essa si contrappone l'auctoritas, cioè l'istanza che custodisce i valori morali e spirituali. Nel Medioevo cristiano è facile collocare queste due dimensioni nella realtà. Chiunque abbia studiato la storia sa che il re personificava la potestas mentre la Chiesa personificava l'auctoritas. Un autore molto citato in questa sezione è Sant'Agostino. Nell'Alto Medioevo, sulle ceneri dell'impero romano, inizia a emergere un potere di tipo nuovo. A partire dai sovrani carolingi emerge questa regola “aurea”: il re esercita una coreggenza con Cristo (pag. 42). L'appellativo “maestà” (che in latino aveva un altro significato) nasce in questo periodo: il re appartiene anche alla sfera celeste, qualità che è preclusa ai sudditi. L'autore chiarisce che la tensione tra potestas e auctoritas è insanabile. [I due poteri] “sono incompatibili, dato che la prima è proiettata a pretendere il dominio [sui sudditi] e sul dibattito ideologico, in ragione di una sua pretesa innocenza” (p. 46). L'uomo medievale lo sapeva bene ed aveva capito che tra le due sfere ci potevano essere solo dei compromessi. Nel Medioevo il re è subordinato alla fede e quindi al dovere di rispettare le “rette regole”. Da parte del suddito non esiste una doppia fedeltà (allo Stato ed alla fede): la fedeltà è unica (pp. 66-67). La prima nazione in cui questa concezione viene superata è la Francia di Filippo il Bello (ecco perché la citazione nel titolo del libro). Il monarca impone un nuovo principio: la lealtà al re e al regno ha la precedenza su tutte le altre lealtà, incluse quelle al Papa e alla Chiesa (p. 68). Re Filippo difende le proprie ragioni con argomenti teologico-politici: “i re di Francia sono sempre stati i pilastri e i difensori della fede; il popolo francese è pio e devoto; il regno di Francia è così favorito da Dio che esso rappresenta la parte più importante della Chiesa” (J. Rivière, Le problème de l'Eglise et de l'Etat au temps de Philippe le Bel, citato alle pp. 68-69). La creazione del mito dell'eccezionalità francese permette al monarca di sottrarsi al papa e all'imperatore; inoltre pone le premesse necessarie [alla coesione interna della nazione] e apre all'assoggettamento dei vescovi al sovrano (p. 72). La nascita della concezione moderna dello Stato può essere riassunta in poche righe, come fa l'Autore efficacemente a pag. 46: “[...] in Occidente il potere [ha dapprima] impiegato il cristianesimo quale sorgente diretta di legittimità, ma poi [ha] dovuto entrare in competizione con esso: sbarazzandosi di ogni freno e antagonismo. A quel punto lo Stato si è messo a “mimare” la religione per affrancarsi da qualsivoglia vincolo”. I due pensatori più citati in questa sezione sono Immanuel Kant e Benjamin Constant. Nella dialettica tra Immanuel Kant e Benjamin Constant, l'Autore si pone dalla parte del secondo. Mentre infatti Kant esaltava l'individualismo e dissolveva la moralità in mera adesione alle regole, Constant contrappose una maggiore attenzione alle circostanze. Inoltre il filosofo francese fondò una distinzione tra principii primi e intermedi, contro le tesi di Kant e i suoi principii assolutisti (pp. 122-133). All'inizio della terza parte appare una frase che mi ha fatto pensare: “Al centro della modernità c'è la dissoluzione della filosofia classica” (p. 145). Oggi viviamo un'epoca di globalismo giuridico, in cui il concetto di Stato è superato - non sempre con esiti positivi - a favore di una generica "comunità mondiale". L'Autore esprime perplessità circa l'astrattezza di tale concezione. Consiglio finale. Non leggete le note: appesantiscono la lettura. |