MARZO 2016 | Prima edizione, gennaio 2016 |
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L'Autore
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Nel 2014 Abu Bakr al Baghdadi ha proclamato il Califfato. Da allora questa entità ha iniziato a cercare discepoli e soldati in tutto il mondo. La sua incessante attività propagandistica comprende tutti i media (giornali, audio e video) e tutte le piattaforme (cartacee, elettroniche, digitali). Ci si chiede: la carica devastante di questi messaggi è stata realmente compresa in Occidente? E noi, a livello comunicativo, che risposte diamo? L'Autore ci spiega innanzitutto come vanno letti i messaggi del Califfato (lui usa questo termine). Esiste una differenza a livello di funzione comunicativa del discorso. A differenza del mondo occidentale, che utilizza il ragionamento logico come modo di procedere, il mondo arabo privilegia l'analogia come argomento (da noi invece l'analogia viene utilizzata solo per fare gli esempi). In Occidente il lecito viene determinato: a) con l'applicazione di una logica; b) attraverso il dibattito sui fatti; mentre nel Levante è l'analogia stessa che determina il lecito (p. 16). Il "messaggio" degli attentati. I jiadhisti compiono attentati e omicidi in terra europea. Noi ci ostiniamo a dire che "non è una guerra", e che "non è il vero islam". Forse non abbiamo capito che questi atti contengono un messaggio, che è il seguente: "poiché l'Europa appartiene già al Califfato ma si trova occupata da miscredenti, è necessario terrorizzarli, ispirare in loro una paura salutare. Se non rispettano l'integrità dell'islam, rifiutando la conversione, bisogna farli fuggire, farsi 'rispettare'" (p. 40). Come bisogna controbattere a questo messaggio lo dice subito: "Verrà il giorno in cui dovremo fare come re Francesco I [(1494-1547)]: parlare al nemico". Il resto del libro spiega come fare. Il Califfato è responsabile di diversi atti violenti perpetrati nelle città europee. Come li abbiamo chiamati? "Terrorismo". Ma, nota l'Autore, un sostantivo ha bisogno di un qualificante. Di fronte al terrorismo del Califfato noi occidentali siamo caduti nel panico. Rifiutando di sentirci in guerra e credendo nell'esistenza di due islam, quello "buono" (gli "islamici") e quello cattivo (gli "islamisti"), fingiamo di non vedere che: a) i "terroristi" sono in realtà dei combattenti, dei soldati; b) si autodefiniscono islamici (p. 50). La nostra scelta retorica di non dare un nome all'evidenza ci ha portato dritti in una trappola. I codici retorici sono controllati dall'avversario. Che fare? "Armare la lingua": cessare di importare parole dall'avversario (Allah, Daesh), e utilizzare esclusivamente la nostra lingua nazionale. Rivolgersi al Califfato esclusivamente in francese [per noi: in italiano], forzando l'avversario, nella sua propaganda, a parlare come noi, e non accettando noi di parlare come lui. Non abbiamo capito che le esecuzioni per decapitazione riprese da una telecamera e rilanciate su internet sono sacrifici, sono un rituale. I francesi hanno ormai perso il senso del sacro, da qui la sensazione che questi atti provengano da un'altra epoca, "un'epoca che è ormai, irreversibilmente, la nostra e che è il nostro futuro" (p. 123). |