LUGLIO 2015 | Prima edizione, aprile 2014 | |||
L'Autore
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«Sogno
da realizzare o incubo da cui uscire» Non c'è il punto di domanda? No, allora bisogna leggere il libro fino alla fine per capire se abbiamo fatto bene o no ad entrare nell'euro. Nei capitoli introduttivi (in cui è spiegata, tra l'altro, la differenza tra inflazione e deflazione), l'Autore emette già una sentenza: «col senno di poi è troppo facile dire quale fosse la scelta giusta. È molto più difficile stabilirlo ex ante». Siamo avvisati. L'Autore entra nel vivo della trattazione nel capitolo 3 ("Un neonato prematuro e malaticcio"), in cui spiega come siamo arrivati all'euro. Si parlò già negli anni '80 di una moneta unica, senza concludere nulla. La caduta del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca impressero un'accelerazione alla creazione della moneta unica. La Francia, preoccupata che la Germania diventasse il dominus dell'UE, acconsentì alla riunificazione tedesca ottenendo in cambio la rinuncia da parte della Germania al controllo della propria moneta (pag. 65). Che l'euro sia il frutto di una trattativa esclusiva tra Francia e Germania lo dimostra il fatto che, da una parte, i francesi hanno fissato le regole (soglia di deficit annuo al 3%, non più del 60% di debito pubblico, ecc.) dall'altra, la Banca centrale europea ha preso sede a Francoforte (stessa città sede della Banca centrale tedesca); ha uno Statuto indipendente (come la Bundesbank) ed ha assunto come funzione principale quella del controllo dell'inflazione nell'area euro (proprio come la Bundesbank). E l'Italia? Il nostro Paese ottenne indubbi benefici entrando nel club: basti pensare al fatto che i tassi con cui il nostro Paese emise obbligazioni si affiancarono a quelli tedeschi, mentre prima dell'euro lo spread (si può dire anche in italiano: "rischio paese") rispetto ai titoli del debito pubblico tedesco era oltre il 6%. C'è però da rilevare che il nostro premier di allora, Romano Prodi, commise un errore: fece entrare l'Italia nell'euro senza rinegoziare il debito pubblico e pensionistico (p. 73). A distanza di oltre 10 anni, possiamo fare un bilancio? Ci abbiamo guadagnato o ci abbiamo perso entrando nell'euro? Leggo la sentenza a pag. 103: «[...] la nostra adesione all'euro fu, come abbiamo visto, una decisione forzata dalle circostanze. Il beneficio immediato di una riduzione dei tassi d'interesse sul debito era molto più saliente dei costi futuri». Nelle righe successive l'Autore spiega cosa intende per "decisione forzata dalle circostanze": il governo non comunicò all'opinione pubblica che l'euro sarebbe stato per noi un affare a lungo termine solo se l'aumento della produttività nazionale fosse stato paragonabile a quello degli altri Paesi della zona euro. Il governo non avvertì gli italiani di questo rischio: pensò solamente a dirci che con l'euro «entravamo in Europa». E la produttività? Sfortunatamente nel nostro Paese, tra il 1995 e il 2011, la produttività è cresciuta meno della metà dei nostri vicini: lo 0,4% all'anno, mentre in Francia è cresciuta dell'1,4% e in Germania dell'1,5% annuo (p. 85). Il governo ha perso la sua scommessa. I fatti sono sotto gli occhi di tutti: nel 2008 è scoppiata la crisi mondiale; tutti i Paesi ne sono stati colpiti; dopo qualche anno si sono risollevati tutti, tranne l'Italia. In caso di uscita, cosa succederebbe al debito pubblico italiano? Semplice: verrebbe tutto ridenominato in lire. Ma non ci era stato detto che uscire dall'euro è impossibile? Certo, ma se leggiamo bene il Trattato dell'Unione Europea scopriamo (art. 50) che «qualsiasi Stato membro può decidere di uscire dall'Unione in accordo con i propri requisiti costituzionali» (questa clausola dei requisiti indica che i Paesi non possono scegliere il referendum o il voto parlamentare a piacere, ma devono adottare la modalità prevista dalla costituzione). Siccome l'unione monetaria è un requisito necessario per tutti i Paesi dell'Unione, l'uscita dall'Unione comporterebbe automaticamente l'uscita dall'euro (p. 122). Ma ci conviene? L'Autore esamina uno scenario che ha una certa probabilità di realizzarsi: l'uscita delle Grecia (p. 139), e la scarta in poche righe. Poi esamina la possibilità che un Paese forte esca dall'euro: la Germania (p. 140). La conseguenza sarebbe che i Paesi rientranti nell'orbita della Germania la seguirebbero a ruota. Si formerebbe quindi un'eurozona del Nord, con una propria moneta. L'Autore la chiama «neuro» (si noti l'ironia). Specularmente, l'euro rimasto diventerebbe l'euro-Sud e si deprezzerebbe rispetto al neuro. Il punto debole di questa soluzione è la posizione della Francia. I transalpini non lascerebbero andare la Germania per conto suo, ma farebbero fatica a rimanere nell'eurozona del Nord. D'altro canto non si assocerebbero mai al "Club Med", cioè ai Paesi del Sud del continente. «Il futuro più probabile per l'Italia è quindi un futuro all'interno dell'eurozona». Cosa possiamo fare per non affondare? Se non funziona l'euro, probabilmente siamo condannati a un lento declino. Se vogliamo uscire dal pericolo che tutta l'Italia diventi un enorme Meridione per Bruxelles (cap. 8), è necessario ripensare l'Europa. In quale forma di organizzazione sovranazionale vogliamo vivere? (p. 163). Come ogni economista che si rispetti, l'Autore fornisce un elenco di riforme da realizzare. Presenta anche un piano di uscita dall'euro, nel caso in cui le riforme non fossero realizzabili. L'Autore intende, infine, mettere in chiaro che la crisi strutturale che affligge l'Italia da vent'anni non è colpa dell'euro, sebbene l'euro possa aver acuito la recessione. |