APRILE 2015 | Prima edizione, maggio 2012 | |||
L'Autore
|
Editore
|
|
||
Il mondo di internet è filtrato. No, non sto mica pensando alla
censura imposta dal governo cinese ai suoi sudditi. Penso al nostro
mondo, libero e democratico. Quando ci mettiamo davanti a un computer
per navigare (va bene anche uno smartphone) e andiamo su Google,
normalmente pensiamo che tra noi e l'interfaccia non ci sia nessun
altro. Invece no. I dati che noi inseriamo nella maschera di ricerca,
le semplici parole chiave (possono essere "voli per Sharm El Sheik"
oppure "scarpe da tennis") sono memorizzate accuratamente. A Google
(non il motore di ricerca, ma Google
Inc., la società) servono per pianificare una
pubblicità mirata su di noi, che appare nelle pagine delle
risposte. E come Google Inc. anche Facebook, Twitter fanno la stessa
cosa: tutto ciò che facciamo viene regolarmente registrato
online. Facebook fa di più: sapendo che abbiamo degli
"amici" in rete, collega i nostri dati con quelli dei nostri "amici"
per realizzare un grafico sociale. Montagne di dati. I social network
trattengono tutte le informazioni rilevanti. Anzi:
sono nati proprio per sfruttare al massimo il trattamento di questi
dati personali. (sono contento di non essere né su Facebook né su Twitter) Ecco cosa scrive l'autore: «Nel 1995, la gara per fornirci un prodotto che avese una rilevanza specifica per ciascuno di noi era solo cominciata. Forse più di qualsiasi altro fattore, è stato questo obiettivo a fare di internet ciò che è oggi» (pag. 26) Tutto questo è successo senza che ce noi ne accorgessimo. Google Inc. ha modificato il suo motore di ricerca: ci studia, crea un nostro profilo e adatta i risultati delle interrogazioni in base al profilo che ha creato. Questo per ognuno di noi! Ha iniziato nel 2010 ma non lo ha comunicato con enfasi, non lo ha pubblicizzato. L'Autore stesso non lo sapeva: l'ha appreso leggendo il blog di uno specialista di social network. L'accessibilità ai nostri dati quale potere dà alle aziende? Si crea inevitabilmente un'asimmetria (loro sanno di me molto più di quanto io non sappia di loro). Ma ovviamente la legge impedisce loro di usarli per scopi illegali. Ma, conclude l'autore, siamo proprio sicuri che loro si comportino bene? C'è un capitolo dedicato al mondo delle notizie. L'ho letto con particolare attenzione. Ci sono delle conseguenze che riguardano le nostre preferenze: i giornalisti tenderanno sempre più a trattare gli argomenti che "tirano" sui social network: il loro scopo sarà scrivere pezzi con la speranza che vengano cliccati (pag. 61). Prospettiva non esaltante, è vero? L'autore suggerisce di classificare le tecnologie in "attive" e "passive". Me la sono segnata: «un browser web è un esempio di tecnologia attiva: noi scriviamo un indirizzo e il computer estrae le informazioni dal server. La televisione e la posta, invece, sono tecnologie passive. Le informazioni appaiono sullo schermo o le troviamo nella nostra cassetta delle lettere senza aver fatto nulla» (pag. 58) Dove vogliono arrivare le aziende? Qual è il loro prossimo obiettivo? In un futuro non tanto lontano sarà possibile inserire un chip in qualsiasi prodotto, anche in quelli che troviamo nei supermercati. Così le aziende potranno seguire in tutto il mondo le tracce di ogni singolo oggetto che hanno realizzato. (pag. 159) In conclusione, un'ultima domanda: tutte queste tecnologie ci aiutano o ci peggiorano la vita? Mi piace citare questa affermazione: «La tecnologia non è più benevola di una chiave inglese o di un cacciavite. È buona solo quando le persone le fanno fare qualcosa di buono» (pag. 150). |