GENNAIO 2014 | Prima edizione, 2009 | |||
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L'antropologia si occupa di temi quali l'etnia, l'identità, parentela, le credenze, ecc. Il lavoro dell'antropologo è studiare una cultura e fornire una spiegazione dei fatti osservati. Qual è il valore epistemologico del sapere fornito dall'antropologia? In altre parole, l'antropologia deve individuare le leggi generali che governano i fenomeni oppure fornire una descrizione, il più possibile oggettiva e distaccata, dei fenomeni osservati? Nel primo caso l'a. entrerebbe a far parte delle scienze fisiche (definite “nomotetiche” in epistemologia); nel secondo caso sarebbe in buona compagnia delle scienze umane (definite “ideografiche” in epistemologia) Negli ultimi decenni questo dilemma è diventato un tema dominante all'interno della comunità scientifica. Tanto che gli antropologi si sono divisi in due gruppi: da una parte i fautori di un'a. fisica e dall'altra i fautori di un'a. culturale Il libro raccoglie saggi di studiosi che appartengono al primo grupppo. Essi sostengono che la divisione in atto sia frutto di un fraintendimento. Alla radice di tutto c'è la famosa opposizione natura/cultura. La comunità degli a. si è aggregata intorno a questi due poli pensando che essi corrispondessero veramente a categorie ontologiche. Invece, a parere degli autori, si tratta, più semplicemente, di categorie di pensiero. Il primo saggio (Alberto Acerbi) cerca di mostrare come la dicotomia natura/cultura sia una falsa dicotomia. E fornisce due esempi: a) la Psicologia cognitiva ha individuato l'esistenza di strutture cognitive comuni a tutti gli esseri umani; b) la Sociobiologia trae la sua ragion d'essere dall'esistenza, in ciascun individuo, di vincoli genetici da cui discende la variabilità comportamentale. Quindi due scienze “fisiche” offrono agli antropologi un metodo naturalistico per studiare le culture. L'antropologia è nata come scienza che spiegava le culture “altre” (africane, amerindie, ecc.). Si è focalizzata nello spiegare in cosa siamo diversi. Ma tali spiegazioni non sono naturalistiche. Cosa rende una spiegazione naturalistica? Citando Domenico Parisi (libro del mese dicembre 2002), Acerbi spiega che il metodo scientifico è basato sulla raccolta di dati empirici e sul fatto che le teorie possano essere confermate o smentite sulla base di ulteriori osservazioni empiriche. L'a. ha delle specificità evidenti: a) non si può portare un gruppo sociale in laboratorio; b) la maggior parte dei fenomeni studiati non sono ripetibili. Nel resto del saggio l'autore si perde, secondo me, in argomenti non difendibili (tipo: “l'apprendimento sociale dei comportamenti può perfino avvenire senza l'osservazione diretta”). Il saggio di Joel Candau, invece, merita di essere letto fino alla fine. La tesi che vuole dimostrare è: l'antropologia è la scienza storica e naturale della cultura. Come nel XIX secolo, gli a. studiano “stati mentali”. Bene: “prendiamo in considerazione le conoscenze attuali sul substrato organico che li rende possibili”. È una maniera un po' ruda per chiamare in causa il nostro caro e amato cervello. Esistono almeno tre caratteristiche del nostro cervello che consentono uno studio naturalistico delle culture: 1. La mente non è una tabula rasa. Al contrario, il cervello di tutti i neonati è predisposto per svilupparsi e per ingrandirsi. Quest'affermazione interessa all'antropologo perché gli consente di usare un metodo naturalistico nello studio dell'uomo. 2. L'inconscio condiviso (non è importante). 3. L'individuo continua ad apprendere per tutta la vita. È notorio che l'ambiente esterno abia un'importanza capitale, in fatto di stimoli, nella creazione di nuovi collegamenti tra neuroni. Il fenomeno in base al quale ciò avviene è lo stesso a tutte le latitudini. Tutto questo può essere espresso attraverso la massima: “Ereditiamo i nostri cervelli, acquisiamo le nostre menti” (Goldschmidt 2000). In conclusione, per Candau, un nuovo metodo di ricerca che potrebbe adottare l'antropologia è il seguente: l'involucro genetico della nostra specie ci vincola ad alcuni percorsi obbligati (registro nomotetico) e ad altri solamente possibili, che in funzione dell'ambiente, delle circostanze, ecc. i vari individui condivideranno o no (registro idiografico) (pag. 27). I due saggi centrali hanno come bandiera lo slogan: “Contro l'impostazione umanista”. Ma io sono un umanista! Infatti non mi hanno convinto. Sabrina Tonutti e Roberto Marchesini rilevano che le monografie etnografiche tacciono sulla presenza degli animali. Ma anche essi sono attori sociali. Marchesini, in particolare, esamina il ruolo degli “altri” animali come partner dialogici. Sarà che siamo in gennaio, ma questi argomenti mi hanno lasciato molto freddo. Il terz'ultimo saggio è di Alessandro Lutri. Apprezzo la sua definizione di costruzionismo: “i concetti di identità, cultura, etnia, sono delle 'invenzioni', non avendo nessuna oggettività al di fuori delle convenzioni linguistico-culturali adottate in ciascuna società” (pag. 67). Apprezzo anche le affermazioni con cui spiega il naturalismo in antropologia: “esiste un fondo oggettivo delle proprietà concettuali”, “esistono fondamenti cognitivi universali”, “esistono innate competenze cognitive”. Ma la sua proposta di un pluraslimo ontologico dei concetti sconfina nella filosofia. Una filosofia post-umanista, che permea tutto il saggio e che non condivido per niente. I saggi di Marco Mazzone e Tommaso Sbriccoli sono avulsi dalla linea principale. Mi fa piacere che Mazzone citi Benjamin Libet (libro del mese luglio 2008), il suo infatti è un saggio di neurologia, non di antrolopogia. Perché è in questo libro? Sbriccoli ha offerto un saggio di etnografia. A questo punto si potevano aggiungere saggi di fisiologia, di psicologia sociale: allora andava bene tutto? In ultimo, una cosa che ho imparato è l'esistenza di due nuovi campi di ricerca. Uno, chiamato folkbiology, studia le modalità locali di categorizzazione delle specie viventi; l'altro è la folksociology, che studia le modalità locali di categorizzazione dei gruppi umani. |