NOVEMBRE 2013 | Prima edizione, 2010 | |||
L'Autore
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Editore
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Da quando esistono le neuroscienze, il concetto di homunculus è stato progressivamente demolito. Giustamente, dico io, poiché nessuno strumento di rilevazione ne ha mai accertato l'esistenza. Uno degli obiettivi di questa disciplina è stato sostituire il dualismo cartesiano con una nuova visione della mente, fondata sulla materialità: si può osservare soltanto il cervello, quindi esiste soltanto il cervello. L'autore la chiama "svolta naturalistica nella concezione dell'umanità". Il presente libro non è scritto da un neuroscienziato, bensì da un filosofo. Lo scopo però è lo stesso: far cadere il "mito del soggetto". Con mezzi diversi: invece degli esperimenti, l'Autore utilizza il ragionamento puro. Il che è molto stimolante. L'Autore si prefigge di dimostrare "che non esiste una cosa simile a quello che comunemente chiamiamo sé" (Introduzione). L'Autore si chiede come una prospettiva in prima persona possa emergere in un cervello. La risposta è che ci riesce grazie alla costruzione di un tunnel dell'io. Nell'Introduzione si spiega che, siccome l'homunculus non esiste, quando parliamo di esperienza cosciente, di cosa stiamo parlando esattamente? In secondo luogo, dato che l'esperienza è sempre di qualcuno, chi è che prova i miei sentimenti e sogna i miei sogni? Il libro è diviso in tre parti. La prima parte, «Il problema della coscienza» (capp. 1 e 2), è introduttiva. Nel capitolo 1 l'Autore descrive il fenomeno dell'esperienza cosciente e si pone una domanda: se essa avviene nel cervello, com'è che riusciamo ad esperirla a contatto con la realtà esterna, cioè "al di fuori" del nostro cervello? Domanda tipicamente filosofica. In questa parte vengono descritti alcuni concetti che guideranno l'esposizione nel resto dell'opera:
Ogni
sistema cosciente richiede una rappresentazione interna unitaria del mondo; l'informazione
in entrata deve essere resa simultaneamente disponibile a una molteplicità di meccanismi di elaborazione.
Sempre nella prima parte viene affrontato il problema dell'evoluzione. Perché, e in che senso, è stato necessario sviluppare qualcosa di simile a una coscienza nei sistemi nervosi degli animali? La conclusione provvisoria è che la coscienza riduce la complessità del reale: far apparire un mondo nel cervello di un organismo ha rappresentato una nuova strategia computazionale (pag. 69). Che l'uomo vive in un tunnel significa che elabora pensieri sulla realtà che non sono la realtà. Ma significa anche che capisce la distinzione apparenza/realtà. Non appena i nostri antenati sono divenuti padroni di questa distinzione, l'evoluzione culturale è esplosa (pag. 72). La prima parte termina con l'enunciazione del "problema del chi". La coscienza è un fenomeno soggettivo. è sempre legata ad un individuo, fa parte dell'essere qualcuno. Come si può spiegare ciò? Il primo capitolo della seconda parte tratta delle esperienze extra-corporee. L'Autore (che ha vissuto queste esperienze in prima persona) ritiene che siano importanti per elaborare una teoria della coscienza di sé. L'esperienza di essere "fuori dal corpo e dentro la mente" aiuta a capire come si forma un io, ossia come nasce la fondamentale sensazione di sentirsi qualcuno (pag. 116). Nel quarto capitolo è analizzato un altro aspetto essenziale dell'identità fenomenica, ossia la transizione che dalla proprietà porta all'agentività. La proprietà è la capacità di identificare, per esempio, le proprie braccia come parte del proprio corpo. è una delle differenze fondamentali tra l'uomo e gli altri animali. Tale capacità è alla base del modello del sé, che solo gli esseri umani possiedono. Gli animali hanno sì la capacità di guidare i propri muscoli verso un obiettivo, ma non hanno un modello del sé, cioè non hanno la consapevolezza che le zampe fanno parte del proprio corpo. L'agentività è la capacità di un essere umano di generare un comportamento motorio. La tesi dell'Autore è che "il sé pensante sia nato dal sé corporeo con la simulazione dei movimenti corporei in uno spazio astratto e mentale". Conclusione: l'io è originariamente uno strumento neurocomputazionale per appropriarsi del corpo e per controllarlo (pag. 138). L'ultima parte è sperimentale: sono analizzate le macchine dell'io, ovvero macchine che contengono un modello del sé. Per queste costruzioni si può parlare, pi� che di intelligenza artificiale, di coscienza artificiale. Se un sistema sarà capace di integrare un'immagine interna di sé ugualmente trasparente entro questa realtà fenomenica, allora apparirà a se stesso. Diventerà un io. Nella conclusione l'Autore però afferma che non è auspicabile l'effettiva costruzione di macchine che possono avere un'esperienza cosciente. Il motivo è che esse conoscerebbero la felicità e la sofferenza, e non c'è motivo per incrementare ulteriormente il livello generale di sofferenza e di confusione presente nell'Universo. L'Autore capovolge le conclusioni di Karl Popper esposte ne L'io e il suo cervello: non è il sé a usare il cervello, ma è il cervello ad usare il modello del sé. |