GIUGNO 2013 | Prima edizione, settembre 2011 | |||
L'Autore
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Editore
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Joshua
Foer è
un giornalista che collabora con varie testate. Un anno (siamo nel
2005) viene inviato a raccontare il Campionato statunitense della
memoria. Conosce gli "atleti della mente", come orgogliosamente si
definiscono gli esperti di memorizzazione. Affascinato dalle loro
capacità, decide di lavorare su se stesso e di apprendere le
tecniche per utilizzare al meglio la memoria. Foer trascorre un anno
intero tra i campioni della memoria. Ed Cooke, esperto
inglese, diventa il suo
méntore. Lo segue a distanza (tramite internet) e gli
dà consigli. In mezzo alla storia autobiografica, il libro offre una quantità enorme di informazioni sulle basi scientifiche dell'apprendimento. Il capitolo 2 è incentrato su S. un giovane russo che ai primi del XX secolo fu anallizzato da Anatolij Lurjia. Sulla base di questi studi il famoso neuropsicologo scrisse il libro Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla. S. fu il primo caso illuminante di persona che possedeva la capacità, chiamata sinestesia, di intrecciare i cinque sensi. Ogni suono che S. sentiva aveva un colore, uno spessore, persino un gusto, ed evocava in lui «un complesso di sensazioni» (pag. 41). In questo capitolo l'Autore fa l'affermazione più importante del libro sulle basi neurologiche della memoria: «Se la parola "caffè" vi fa pensare al colore nero, alla colazione e al gusto amaro, quella è una funzione della cascata di impulsi elettrici che investono un percorso cerebrale concreto che collega la serie di neuroni che codificano il concetto di caffè con quelli che contengono i concetti di nero, di colazione e di amaro. Questo gli scienziati lo sanno da un pezzo. Ma come faccia una serie di cellule a "contenere" un ricordo è tuttora uno dei rompicapi irrisolti dalle neuroscienze» (pag. 44). «Una cosa però la sappiamo: la natura associativa non lineare della nostra mente non ci dà la possibilità di frugare coscientemente e con metodo nella memoria». Quindi, se vogliamo ricordare volutamente le cose, dobbiamo adottare una mnemotecnica. Il capitolo 3 è incentrato sul rapporto tra la capacità di memorizzare cose nuove e la massa di informazioni depositate nella nostra memoria a lungo termine. Se noi non adoperassimo la memoria a lungo termine quando memorizziamo cose nuove, le nostre capacità si fermerebbero a sette elementi. Sette (per la precisione, una quantità tra cinque e nove) è il numero massimo di informazioni che possono essere gestite dalla memoria di lavoro. È un limite fisso che accomuna tutte le persone. La scoperta del magico numero sette risale al 1956 e fu fatta dallo psicologo americano George Miller (il saggio s'intitola proprio: The Magical Number Seven, Plus or Minus Two). Gli esperti di memoria, invece, sono in grado di superare tale limite. Come fanno? Interpretano il presente alla luce di come hanno imparato il passato (pag. 80). Gli scienziati hanno studiato non solamente le persone dotate di una memoria prodigiosa, ma anche le persone che hanno subito danni permanenti al cervello che hanno pregiudicato la loro capacità di ricordare le cose. Secondo gli studiosi, però, anche gli amnestici più gravi non hanno perso tutta la memoria. L'Autore lo ha potuto verificare direttamente: ha incontrato uno dei casi clinici più famosi, E.P. Chi ha perso la memoria è ancora capace di una forma di apprendimento inconscia (pag. 94). Esistono praticamente due tipi di memoria: quella dichiarativa (o esplicita) e quella non dichiarativa (o implicita). Della prima fanno parte le informazioni apprese consciamente; della seconda fanno parte invece le cose che sappiamo inconsciamente (per esempio andare in bicicletta). Questo secondo tipo di memoria non è regolato dall'ippocampo, ma si affida ad altre parti del cervello: l'apprendimento delle abilità motorie avviene principalmente nel cervelletto, quello percettivo nella neocorteccia, quello comportamentale nei gangli basali. Come hanno dimostrato in modo stupefacente i casi come quello di E.P., se una porzione del cervello viene danneggiata, il resto continua a funzionare. La differenza tra memoria dichiarativa e non dichiarativa ci permette di capire una caratteristica importante della nostra memoria infantile. Tutti noi veniamo al mondo come amnestici. La memoria dichiarativa entra in funzione non prima dei tre-quattro anni di vita. Fino a quell'età l'apprendimento è quasi interamente un'esperienza inconscia: non accessibile alla coscienza. Ecco perché non ci ricordiamo nulla dei nostri primi anni di vita. Crescendo, prende forza e consistenza la capacità linguistica e tutto cambia. L'argomento di Cicerone secondo cui la cosa migliore era memorizzare argomento per argomento ha un fondamento scientifico. Il nostro cervello, infatti, non è attrezzato per ricordare perfettamente le parole (pag. 140), ma ricorda meglio le cose, soprattutto se ben contestualizzate. Lo dimostrano gli studi del giovane Milman Perry, che negli anni Venti del secolo scorso realizzò fondamentali ricerche sul campo in Jugoslavia. I bardi erano convinti di recitare le loro storie con le stesse parole tutte le volte. Perry dimostrò invece che le parole cambiavano, anche spesso. Rimanevano uguali le cose raccontate. Non è quindi una coincidenza, scrive l'Autore, che l'arte della memoria sia stata inventata nel periodo (il V secolo a.C.) in cui nell'antica Grecia si diffuse l'uso della scrittura. In apertura del capitolo 8 trovo un dato che mi sorprende: il codice fonetico (0 = S, 1 = T o D, ecc.) universalmente usato per memorizzare i numeri, è stato inventato oltre 300 anni fa! Per la precisione nel 1648 (quindi: "doccia" + "rovi": immaginiamo una persona che si fa la doccia e si massacra da solo con dei rovi) da un certo Johann Winkelmann (non fu parente dell'inventore della Storia dell'arte, perché il cognome è leggermente diverso). La tecnica del codice fonetico è universalmente usata per la sua semplicità e la sua efficacia. Qual è il processo psicologico sottostante? Negli anni Sessanta gli psicologi Paul Fitts e Michael Posner tentarono di rispondere alla domanda proponendo quanto segue: una persona, quando impara una tecnica nuova, percorre tre stadi (pag. 190): 1. "cognitivo"; 2. "associativo"; 3. "autonomo". Nel primo stadio l'individuo razionalizza il lavoro e scopre nuove strategie per eseguirlo con maggior perizia; nel secondo diminuisce gli errori ed impara la "sua" maniera di farlo; nel terzo stadio il compito viene eseguito in automatico. Ora, quando l'individuo raggiunge il terzo stadio non è diventato un campione: semplicemente si è fermato ad un livello per lui ottimale. Qual è allora la differenza tra il dilettante di talento e il professionista? La fortuna? Le conoscenze altolocate? Niente affatto. Anders Ericsson ha scoperto che la caratteristica che distingue l'esperto dal dilettante è la sua tendenza a impegnarsi in un esercizio metodico, quotidiano, molto diretto ed estremamente mirato, che Ericsson ha definito «pratica intenzionale». Il segreto per progredire in una tecnica è mantenere un certo grado di controllo cosciente mentre si lavora (pag. 194). È tutta da leggere l'intervista con Tony Buzan, concessa dopo numerose reiterate richieste, che appare nel cap. 9. «Quando si ha a che fare con Tony Buzan si ha sempre l'impressione che voglia impressionarti. Non si mangia mai le parole, non si lascia mai andare. Le unghie sono curatissime come il cuoio delle sue scarpe italiane. Nel taschino c'è sempre un fazzoletto infilato con grande accuratezza. Firma le lettere Floreant Dendritae! e termina le conversazioni telefoniche con "Tony Buzan, passo e chiudo!"» (pag. 223). Il capitolo 10 è incentrato sugli idiot savant, le persone in cui un'eccezionale memoria coesiste quasi sempre con qualche grave handicap. Il più famoso negli Stati Uniti è Kim Peek. Su di lui è stato girato un famoso film con Dustin Hoffman, Rain Man. Intanto, una correzione: oggi il "politicamente corretto" ha fatto cadere la prima parola della definizione, quindi si chiamano semplicemente savant. Kim è nato nel 1951. Tutte le cose che ha imparato non le ha mai dimenticate. Vive facendo esibizioni, è sempre in giro, si reca in ogni angolo degli Stati Uniti. Com'è fatta la sua memoria? Perché è diversa dalla nostra? Gli scienziati ipotizzano che i savant riescano spontaneamente a sfruttare la memoria non dichiarativa (quella che nelle persone normali domina fino ai tre-quattro anni e poi è soppiantata dalla memoria dichiarativa). Nel subconscio il nostro cervello è capace di effettuare calcoli sorprendentemente rapidi e complessi. Per la cronaca, Joshua Foer vinse il campionato statunitense della memoria del 2006. |