[Mi scuso per la lunghezza della recensione]
Qual è l'origine delle lingue parlate in Europa?
L'Autore osserva l'elenco delle lingue esistenti oggi.
Sono ben 88: il quadro è decisamente frammentario e la ricostruzione
del quadro linguistico antico sembra un'impresa.
Però è possibile effettuare dei raggruppamenti per parentela o affinità
genetica. Abbiamo così una riduzione a 17 gruppi. Un'ulteriore sforzo
di riduzione porta a soli 6 phyla.
Il phylum più diffuso è nettamente quello indoeuropeo (734 milioni di
parlanti su 779), cui appartengono il gruppo romanzo, germanico,
celtico e slavo. Quando sono nate queste lingue?
A tutt'oggi, la ricostruzione più accreditata è che le lingue europee
abbiano avuto origine fuori dall'Europa, da popoli che sono entrati nel
continente nell'Età dei Metalli e che hanno sostituito i popoli
preesistenti.
A livello linguistico, tale tesi richiede di individuare nell'Età dei
Metalli il livello originale, iniziale dei gruppi linguistici europei.
Ma che lingua/e parlavano gli indoeuropei?
Le lingue indoeuropee conosciute fin dall'antichità tramite la
scrittura sono poche: greco, osco, latino soprattutto. Per le altre
(celtico, germanico, slavo), si presume che fossero le lingue antiche
da cui si sono evolute le
lingue conosciute tramite la scrittura. Gli esperti di linguistica
storica hanno
ipotizzato l'esistenza di un Proto-celtico, di un Proto-germanico, di
un Proto-slavo, che sarebbero gli antenati delle lingue storiche.
All'autore questa tesi non convince, soprattutto per quanto riguarda la
datazione: è troppo vicina a noi. La datazione recente non convince
soprattutto perché, se guardiamo alle civiltà
extraeuropee, scopriamo che i linguisti ammettono datazioni enormemente
antiche. Le lingue delle popolazioni aborigene australiane si ritiene
che siano immutate da 40.000 anni; le lingue amerinde si ritiene siano
immutate dal Paleolitico. Perché allora si ritiene che le nostre lingue
siano così recenti? La risposta è che noi ci percepiamo come il popolo
più evoluto, per questo siamo convinti che le nostre lingue siano
apparse per ultime.
L'Autore osserva anche che l'esistenza di lingue preesistenti a quelle
indoeuropee in Europa è solo presunta: quindi con quali argomenti si
afferma con certezza l'estinzione di lingue immaginarie, come il
proto-germanico, ecc.?
A suo parere, il problema è stato affrontato finora in maniera
prescientifica (pag. 319). La
costruzione del modello "invasionista", oltre ad essere viziata
dall'ideologia eurocentrica, è interamente basata su un
assunto, e non su di un'argomentazione: in Europa sono esistite, in un
tempo remoto, delle lingue preesistenti alla migrazione indoeuropea,
che si
sono estinte durante l'Età dei Metalli. La teoria dominante è quindi
basata sul modello della «sostituzione linguistica». Di conseguenza le
ricerche degli studiosi hanno come scopo quello di scoprire, nel
lessico delle lingue antiche, le parole indoeuropee e quelle
pre-indoeuropee.
La teoria di Colin Renfrew.
L'archeologo inglese ha presentato una critica alla teoria dominante
che contiene degli aspetti interessanti. Nel suo libro uscito nel 1987,
che
ha avviato un fiorente dibattito tra gli specialisti, Renfrew argomenta
che la datazione
della diaspora non dev'essere basata sul lessico, ma su considerazioni
archeologiche, il che porterebbe a fissarla a ben prima dell'Età dei
Metalli, cioè al Neolitico.
Renfrew giustamente esclude l'invasione guerriera, per
"assenza di prove". Poi contesta la datazione bassa dell'arrivo delle
nuove popolazioni in Europa.
Conclude che l'unico scenario che può giustificare l'enorme processo di
cambiamento avvenuto con l'arrivo degli indoeuropei è la Rivoluzione
del Neolitico.
Alinei riconosce che il modello di Renfrew è fondato su
argomentazioni supportate dalle prove archeologiche. Però la
sua teoria ha un punto debole: lo studioso inglese, infatti,
sostituisce il modello
dell'invasione con un modello alternativo, ma sempre basato
sull'assunto della sostituzione linguistica, che rimane peraltro
indimostrato.
Ma esiste già un modello alternativo a quello
della sostituzione linguistica, ed è sotto gli occhi di tutti. Oggi,
per spiegare l'origine delle lingue uraliche (finnico, estone,
ungherese), è comunemente accettato il modello "continuista": i popoli
uralici avrebbero appreso le nuove tecnologie dai popoli vicini (da
essi provengono le parole degli utensili dell'agricoltura, che sono
prestiti linguistici), ma non ci
sarebbe stata nessuna sostituzione, né di popolo, né linguistica. Le
lingue uraliche si sono lentamente trasformate nel tempo fino a
diventare le lingue che conosciamo oggi.
Nelle cinquanta pagine che seguono l'Autore assume i panni
dell'archeologo: analizza gli strumenti litici usati da Homo erectus e
Homo sapiens nel Vecchio Mondo per trovare una correlazione con la
morfologia lessicale delle lingue negli ultimi centomila anni. Per
quanto riguarda le origini di Homo sapiens, Alinei propende per la
nuova
teoria (era nuova nel 1996) monogenetica: l'uomo anatomicamente moderno
è nato in Africa tra 240 mila e 140 mila anni fa e, probabilmente, non
si è incrociato con le altre specie di Homo preesistenti.
Successivamente
si è irradiato in tutto il globo.
Anche questa è una parte molto innovativa della ricerca di Alinei.
L'Autore attua un rovesciamento della concezione attuale delle lingue:
«La legge che governa i sistemi linguistici è quella della
conservazione, non quella del mutamento» (pag. 492). Quindi tutte le
lingue, non solo quelle degli aborigeni australiani o degli amerindi,
ma anche le lingue indoeuropee, hanno origini nella Preistoria e sono
giunte fino a noi conservando la loro struttura fondamentale. Abbiamo
lingue flessive in Europa e Africa, agglutinanti nell'Asia centrale e
isolanti nell'Estremo Oriente ''da sempre'', fin da quando esiste
''Homo loquens''.
Questa regola vale anche per i dialetti, per i quali la data di origine
va spostata all'indietro nel tempo, fino all'antichità.
Di conseguenza, cade la tradizionale classificazione dei dialetti come
"varianti" o "derivazioni" delle lingue nazionali. Il "peccato
originale" dei dialetti, cioè il fatto di essere nati come lingue orali
e di essere giunti fino a noi portandosi dietro questo difetto, viene
semplicemente fatto cadere: non ha nessuna rilevanza. I dialetti
italiani, anzi, vanno affiancati al latino e vanno comparati con esso
nelle componenti sia formali (fonetiche, morfologiche e sintattiche)
che semantiche. Come il latino ha origini indoeuropee, così le origini
dei dialetti possono essere trovate nel Mesolitico e nel Neolitico.
In conclusione, l'Autore propone che la dialettologia entri a far parte
a pieno titolo del piano di studi interdisciplinare della preistoria
(pag. 719).
Alcuni dei capitoli più interessanti di questa trattazione sono
"Ideologia del Neolitico" e "Ideologica dell'Età dei Metalli".
L'Autore lascia in sospeso solamente una questione: se l'Homo loquens sia Homo sapiens sapiens
(cioè noi) oppure Homo
erectus.
Ma la risposta non dipende da lui, ma dagli archeologi e dagli
antropologi. Il fatto è che né gli uni né gli altri sanno
dare una risposta. La Teoria della Continuità allora si sdoppia: nel
caso di un'origine recente dei linguaggi diventa TC breve, nell'altro
caso si presenta come TC lunga.
Di notevole interesse i dizionari dei termini indoeuropei alle pagg.
503-08 e seguenti.
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