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 Libro del mese   

Anno 2006


Area linguistica e semiotica DICEMBRE 2006 Ristampa,
giugno 2000

L'Autore

Mario Alinei è stato docente all'Università di Utrecht (Olanda) dal 1959 al 1987. È stato cofondatore e presidente fino al 1997 dell'«Atlante linguistico dell'Europa» (ALE). Ha fondato e diretto la rivista «Quaderni di semantica».

 


Mario Alinei

Origini delle lingue d'Europa


1. La Teoria della Continuità




Editore

Il Mulino, Bologna: 1996.
Collana "Collezione di testi e di studi". Sezione Linguistica e critica letteraria.



Origini delle lingue d'Europa

[Mi scuso per la lunghezza della recensione]

Qual è l'origine delle lingue parlate in Europa? L'Autore osserva l'elenco delle lingue esistenti oggi. Sono ben 88: il quadro è decisamente frammentario e la ricostruzione del quadro linguistico antico sembra un'impresa.
Però è possibile effettuare dei raggruppamenti per parentela o affinità genetica. Abbiamo così una riduzione a 17 gruppi. Un'ulteriore sforzo di riduzione porta a soli 6 phyla.
Il phylum più diffuso è nettamente quello indoeuropeo (734 milioni di parlanti su 779), cui appartengono il gruppo romanzo, germanico, celtico e slavo. Quando sono nate queste lingue?
A tutt'oggi, la ricostruzione più accreditata è che le lingue europee abbiano avuto origine fuori dall'Europa, da popoli che sono entrati nel continente nell'Età dei Metalli e che hanno sostituito i popoli preesistenti.

A livello linguistico, tale tesi richiede di individuare nell'Età dei Metalli il livello originale, iniziale dei gruppi linguistici europei. Ma che lingua/e parlavano gli indoeuropei?
Le lingue indoeuropee conosciute fin dall'antichità tramite la scrittura sono poche: greco, osco, latino soprattutto. Per le altre (celtico, germanico, slavo), si presume che fossero le lingue antiche da cui si sono evolute le lingue conosciute tramite la scrittura. Gli esperti di linguistica storica hanno ipotizzato l'esistenza di un Proto-celtico, di un Proto-germanico, di un Proto-slavo, che sarebbero gli antenati delle lingue storiche.

All'autore questa tesi non convince, soprattutto per quanto riguarda la datazione: è troppo vicina a noi. La datazione recente non convince soprattutto perché, se guardiamo alle civiltà extraeuropee, scopriamo che i linguisti ammettono datazioni enormemente antiche. Le lingue delle popolazioni aborigene australiane si ritiene che siano immutate da 40.000 anni; le lingue amerinde si ritiene siano immutate dal Paleolitico. Perché allora si ritiene che le nostre lingue siano così recenti? La risposta è che noi ci percepiamo come il popolo più evoluto, per questo siamo convinti che le nostre lingue siano apparse per ultime.  L'Autore osserva anche che l'esistenza di lingue preesistenti a quelle indoeuropee in Europa è solo presunta: quindi con quali argomenti si afferma con certezza l'estinzione di lingue immaginarie, come il proto-germanico, ecc.?

A suo parere, il problema è stato affrontato finora in maniera prescientifica (pag. 319). La costruzione del modello "invasionista", oltre ad essere viziata dall'ideologia eurocentrica, è interamente basata su un assunto, e non su di un'argomentazione: in Europa sono esistite, in un tempo remoto, delle lingue preesistenti alla migrazione indoeuropea, che si sono estinte durante l'Età dei Metalli. La teoria dominante è quindi basata sul modello della «sostituzione linguistica». Di conseguenza le ricerche degli studiosi hanno come scopo quello di scoprire, nel lessico delle lingue antiche, le parole indoeuropee e quelle pre-indoeuropee.

La teoria di Colin Renfrew.
L'archeologo inglese ha presentato una critica alla teoria dominante che contiene degli aspetti interessanti. Nel suo libro uscito nel 1987, che ha avviato un fiorente dibattito tra gli specialisti, Renfrew argomenta che la datazione della diaspora non dev'essere basata sul lessico, ma su considerazioni archeologiche, il che porterebbe a fissarla a ben prima dell'Età dei Metalli, cioè al Neolitico.
Renfrew giustamente esclude l'invasione guerriera, per "assenza di prove". Poi contesta la datazione bassa dell'arrivo delle nuove popolazioni in Europa.
Conclude che l'unico scenario che può giustificare l'enorme processo di cambiamento avvenuto con l'arrivo degli indoeuropei è la Rivoluzione del Neolitico.
Alinei riconosce che il modello di Renfrew è fondato su argomentazioni supportate dalle prove archeologiche. Però la sua teoria ha un punto debole: lo studioso inglese, infatti, sostituisce il modello dell'invasione con un modello alternativo, ma sempre basato sull'assunto della sostituzione linguistica, che rimane peraltro indimostrato.

Ma esiste già un modello alternativo a quello della sostituzione linguistica, ed è sotto gli occhi di tutti. Oggi, per spiegare l'origine delle lingue uraliche (finnico, estone, ungherese), è comunemente accettato il modello "continuista": i popoli uralici avrebbero appreso le nuove tecnologie dai popoli vicini (da essi provengono le parole degli utensili dell'agricoltura, che sono prestiti linguistici), ma non ci sarebbe stata nessuna sostituzione, né di popolo, né linguistica. Le lingue uraliche si sono lentamente trasformate nel tempo fino a diventare le lingue che conosciamo oggi.

Nelle cinquanta pagine che seguono l'Autore assume i panni dell'archeologo: analizza gli strumenti litici usati da Homo erectus e Homo sapiens nel Vecchio Mondo per trovare una correlazione con la morfologia lessicale delle lingue negli ultimi centomila anni. Per quanto riguarda le origini di Homo sapiens, Alinei propende per la nuova teoria (era nuova nel 1996) monogenetica: l'uomo anatomicamente moderno è nato in Africa tra 240 mila e 140 mila anni fa e, probabilmente, non si è incrociato con le altre specie di Homo preesistenti. Successivamente si è irradiato in tutto il globo.

Anche questa è una parte molto innovativa della ricerca di Alinei. L'Autore attua un rovesciamento della concezione attuale delle lingue: «La legge che governa i sistemi linguistici è quella della conservazione, non quella del mutamento» (pag. 492). Quindi tutte le lingue, non solo quelle degli aborigeni australiani o degli amerindi, ma anche le lingue indoeuropee, hanno origini nella Preistoria e sono giunte fino a noi conservando la loro struttura fondamentale. Abbiamo lingue flessive in Europa e Africa, agglutinanti nell'Asia centrale e isolanti nell'Estremo Oriente ''da sempre'', fin da quando esiste ''Homo loquens''.
Questa regola vale anche per i dialetti, per i quali la data di origine va spostata all'indietro nel tempo, fino all'antichità.
Di conseguenza, cade la tradizionale classificazione dei dialetti come "varianti" o "derivazioni" delle lingue nazionali. Il "peccato originale" dei dialetti, cioè il fatto di essere nati come lingue orali e di essere giunti fino a noi portandosi dietro questo difetto, viene semplicemente fatto cadere: non ha nessuna rilevanza. I dialetti italiani, anzi, vanno affiancati al latino e vanno comparati con esso nelle componenti sia formali (fonetiche, morfologiche e sintattiche) che semantiche. Come il latino ha origini indoeuropee, così le origini dei dialetti possono essere trovate nel Mesolitico e nel Neolitico.
In conclusione, l'Autore propone che la dialettologia entri a far parte a pieno titolo del piano di studi interdisciplinare della preistoria (pag. 719).
Alcuni dei capitoli più interessanti di questa trattazione sono "Ideologia del Neolitico" e "Ideologica dell'Età dei Metalli".

L'Autore lascia in sospeso solamente una questione: se l'Homo loquens sia Homo sapiens sapiens (cioè noi) oppure Homo erectus.
Ma la risposta non dipende da lui, ma dagli archeologi e dagli antropologi. Il fatto è che né gli uni né gli altri sanno dare una risposta. La Teoria della Continuità allora si sdoppia: nel caso di un'origine recente dei linguaggi diventa TC breve, nell'altro caso si presenta come TC lunga.

Di notevole interesse i dizionari dei termini indoeuropei alle pagg. 503-08 e seguenti.