IL SITO DEL MISTERO

tratto da "IlSole24Ore" del 2 giugno 2002

Uno sciamano con la passione dell’estraneità

DI GIULIO BUSI

Nella primavera del 1996, Elémire Zolla aveva accettato di buon grado di presentare il libro sulla mistica ebraica che avevo curato assieme a Elena Loewenthal. La cosa mi lusingò, perché Zolla abbandonava ormai molto raramente il suo rifugio di Montepulciano (dove si è spento giovedì scorso a 76 anni). Per colpa di alcuni imprevisti, la presentazione dovette essere rimandata e anziché una gradevole giornata di maggio ci trovammo ad affrontare una Roma di piena estate, smarrita in una terrea calura. Zolla sostenne la situazione con notevole eleganza. Indossava una giacca bianca e scarpe inglesi bicolori, e pareva del tutto a suo agio. Avrei voluto condividere il suo sereno distacco britannico e invece mi prefiguravo una sala in Campidoglio - lì appunto era stata organizzata la manifestazione - desolatamente vuota. Temevo una figuraccia, soprattutto quella che avrei fatto con Zolla, mi domandavo chi mai avrebbe avuto il coraggio di affrontare la canicola per discutere di qabbalah.

Tuttavia mi sbagliavo. La platea era quasi piena quando arrivammo, i giornalisti e una piccola troupe televisiva già appostati. Non appena ci avvistarono, non ebbero esitazioni. Furono tutti per lui, lo fotografarono, lo intervistarono, lo ripresero. Zolla non si scompose né si meravigliò. Dopo un attimo di stupore, tirai un sospiro di sollievo. Era giusto che fosse così. Così era Zolla.

Di mistica avevamo parlato talvolta con animazione. Discorsi in cui avevo avuto modo di sperimentare il tratto sottilmente irregolare e asistematico del suo pensiero, quell’abitudine ad affrontare le questioni più difficili partendo da un dettaglio, da un’atmosfera, da un volto. Ho spesso avuto l’impressione che Zolla attendesse l’interlocutore con pazienza, concedendosi lo svago d’inesauribili digressioni. D’un tratto, quando meno me l’aspettavo, trovava un varco nel mio sussiego specialistico, con un rilievo fulmineo e impertinente. Il suo modo di avvicinarsi ai testi non era quasi mai quello guardingo del filologo né gl’interessava contemplare le parole di lontano o studiare i conflitti interiori dei mistici da un osservatorio distante e asettico. Aveva piuttosto un talento naturale per trasformare in racconto anche gli spunti più eruditi. Poteva fare di un elenco di etimologie un viaggio sciamanico e di una frase sola l’eco amplificata di un’intera epoca.

I mondi che dipanava sulla Carta provenivano in gran parte da altri libri, dalle inesauribili letture di una biblioteca lussureggiante come una foresta. Una volta ebbi l’opportunità di restare qualche ora solo tra i suoi volumi. Poter scorrere in silenzio i dorsi di quella biblioteca mi offrì una traccia per capire la complessa vicenda intellettuale di Zolla. All’inizio, mi sembrò impossibile trovare un ordine tra le centinaia di scritti che si estendevano alle più diverse discipline. Dalla fenomenologia delle religioni alle lingue orientali, alla letteratura inglese - per lo più edizioni d’età vittoriana - e fino a certe arcigne enciclopedie ottocentesche e a manuali di botanica, prodighi d’illustrazioni acquerellate. Intuii che ognuno di quei libri corrispondeva a un affioramento, a una protratta nostalgia. Era come se mi restituissero il metodo stesso del lavoro di Zolla, una passione saldamente ingenua per l’estraneità, per le esperienze ai margini della norma.

Mi confidò di aver trascorso alcuni dei suoi periodi di studio più sereni a Teheran. Pareva del tutto naturale sentirlo parlare, nella luce quieta di Montepulciano, di filosofi persiani, e di certi suoi incontri - non so più se letterari o reali - con alchimisti che, in Africa, bevevano l’oro.



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