SOMMARIO Immanuel Velikovsky e Mondi in Collisione –
Albert Einstein e Olinto De Pretto: a chi la relatività? – Giorgio Cicogna: il
mondo ha perso troppo presto un grande scrittore di fantascienza
IMMANUEL VELIKOVSKY E “MONDI IN
COLLISIONE”
È
ormai opinione diffusa anche negli stessi ambienti scientifici che ben poche
persone abbiano subito un attacco alle proprie idee così forte e tanto
continuato nel tempo come quello che dagli anni '50 dovette subire negli Stati
Uniti, e non solo, lo psichiatra di origine bielorussa Immanuel Velikovsky.
Qualche saggista ha paragonato il suo caso, forse esagerando un po' - ma non
troppo, poi - a quello di Galileo. Ancor prima della pubblicazione nel 1950
di Worlds in Collision (= Mondi in Collisione), Velikovsky si era
attirato le scomuniche del mondo della scienza. Non tanto per colpa sua e delle
idee espresse nel libro - tra l'altro a lungo meditate dall'autore e in parte
già pubblicate su periodici poco diffusi - quanto per la strombazzante
pubblicità anticipata in alcune riviste popolari da parte dell'ambizioso editore
MacMillan. Il risultato avrà però effetti devastanti per l'editore di New
York. MacMillan in capo a pochi mesi sarà costretto al divorzio con il suo
autore più promettente e dovrà a malincuore cederne i diritti al concorrente
Doubleday di Garden City. Gli autori dei testi universitari, che costituivano
gli introiti maggiori per MacMillan, erano ormai a un passo dal boicottare la
casa editrice se questa non avesse abiurato il crank, cioè il folle pazzoide
Velikovsky. E di fronte alla catastrofe economica MacMillan abiurò, eccome se
abiurò. Trasferì subito i diritti alla rivale Doubleday, nonostante che in poco
più di un mese avesse già incassato 250.000 dollari dalle vendite di quel
libro. La prima edizione di Worlds in Collision, sto alludendo a
quella MacMillan uscita nominalmente il 3 aprile 1950, è abbastanza rara ma se
ne trova sempre qualche copia perché ne furono stampate parecchie, sembra circa
55.000. Il libro con la sovraccoperta perfetta, però, è difficile da reperire.
In linea generale gli esemplari sono sempre sfrangiati e più o meno scoloriti
(sunned, è il termine dei librai americani). Oppure hanno attaccato al
risvolto interno un piccolo adesivo riportante un numero di serie o altro. Cose
da niente, ma importanti per i bibliofili. Per loro fanno la differenza. Il
colore originale della sovraccoperta è un bel buccia d'arancia carico, con una
striscia orizzontale bassa color bianco sporco e una riga nera spessa alla base.
Il libro è in formato ottavo. Rilegato in copertina rigida in tela blu con
titoli in oro su toppe color blu scuro. La prima edizione di MacMillan conta 401
pagine, indice compreso. La seconda edizione (in assoluto) è quella
Doubleday. Virtualmente identico il libro, la tela della copertina è però di
differente trama, le toppe su cui sono apposte le titolazioni, tanto sul piatto
anteriore che sul dorso, sono rosse; le lettere rimangono in oro. Anche
l'edizione Doubleday mantiene le 401 pagine e l'impaginazione della precedente,
pur con qualche lieve modifica. A pagina 392, nell'indice analitico, l'edizione
Doubleday rispetto alla MacMillan riscrive una voce e la sposta di conseguenza
nell'ordine alfabetico. Per la cronaca si tratta di "Baga Vedam", che diviene
"Bhaga Vedam" . E poi, sempre nell'indice, c'è un aggiustamento di pagina alla
voce "Babylon, Babylonia, Babylonian" (tolta la pagina 278 in Doubleday).
Quisquilie, senza dubbio, ma che differenziano le due edizioni in modo
inequivocabile. Sull'onda dell'entusiasmo per il successo americano, Victor
Gollancz di Londra ne stampò un'edizione quasi in contemporanea nel Regno Unito,
ma in termini assoluti va intesa come terza. Per la cronaca, è una edizione di
formato simile alle americane, il libro è alto appena mezzo centimetro in più di
quelle. La tela è aranciata (stessa tinta delle sovraccoperte americane) ma la
sovraccoperta è in questo caso color bianco sporco e oltre al titolo invariato
riporta il sottotitolo "The book about the day the sun stood still" (=
Il libro sul giorno in cui il sole rimase immobile nel cielo). Inoltre, cosa del
tutto inusuale, la presentazione del libro parte proprio dal piatto anteriore
della sovraccoperta, in caratteri abbastanza grandi, per poi continuare nei
risvolti di seconda, di terza e concludersi al piatto
posteriore.
Worlds in Collision è un must per gli
amanti dell'insolito e del mistero. Anche se l'assegnazione a questa categoria
può quasi suonare come un insulto per Velikovsky. Fior di intellettuali in tutto
il mondo (in Italia sopra tutto Federico Di Trocchio ed Emilio Spedicato) stanno
seriamente analizzando e rivalutando le sue teorie e ho motivo di ritenere che
tra pochi anni il suo nome sarà di nuovo in auge, dopo un periodo, forse
fisiologico, di appannamento. A oltre cinquant'anni dall'uscita di quel
libro, ancora si organizzano convegni e simposi su Velikovsky e su Worlds in
Collision, e questo in molti paesi al mondo, non soltanto in America.
Velikovsky ha creato una corrente di pensiero, soprattutto ha dato voce a chi,
di fatto, è escluso dai canali di ricerca ufficiali in quanto non allineato alle
teorie correnti. Qualcosa, negli anni, è stato riconosciuto a Velikovsky. Per
esempio, che la terra ha subito innumerevoli impatti cosmici, alcuni dei quali
dalle terribili conseguenze. Forse l'estinzione dei dinosauri. Tutto questo, più
di quanto la scienza ufficiale era pronta ad ammettere al tempo dell'uscita del
suo libro. Oggi, con l'avvento dei moderni mezzi di sondaggio oceanico, oltreché
satellitari, si sono potuti scoprire tracce di crateri meteoritici di enormi
dimensioni in varie parti del globo. Velikovsky aveva poi visto giusto nel
prevedere l'alta temperatura superficiale di Venere, le radio-emissioni da Giove
e l'estensione del campo magnetico terrestre fino alla luna. Per quanto concerne
altre tematiche, come l'origine dei giacimenti petroliferi, sembra che invece
avesse torto, anche se la parola fine a tale questione non è stata ancora
posta.
In definitiva Velikovsky asseriva che poche migliaia di anni fa
(più o meno nel 1500 A.C.) una massa ragguardevole si sarebbe staccata dal
pianeta Giove - a seguito forse di una collisione con un astro - andando a
costituire una sorta di cometa che, a più riprese, sfiorò e forse addirittura
colpì la Terra. Il ripetersi ciclico di questi passaggi (pare ad intervalli di
52 anni) avrebbe prodotto cataclismi a ripetizione. Le cosiddette "dieci piaghe
d'Egitto" sarebbero da mettere in relazione a questi sconvolgimenti astronomici.
Secondo l'autore, di queste vicissitudini sarebbe rimasta traccia nelle antiche
culture e negli scritti che queste hanno prodotto, e sotto forma di leggende e
miti sarebbero arrivate fino ai nostri giorni. Tale cometoide, poi, andò
probabilmente a collidere con Marte e spinse quest'ultimo verso la Terra.
Finalmente si assestò in orbita al sole andando a costituire quello che
oggigiorno sarebbe conosciuto come il pianeta Venere, il cosiddetto quinto
pianeta. Infatti molte culture del mondo antico (tra cui la indù e la
babilonese) ragionavano in base a un sistema di quattro pianeti - Saturno,
Marte, Giove e Mercurio - nonostante Venere sia tra tutti quello (oggi) più
visibile. La conclusione di Velikovsky è evidente: all'epoca degli antichi indù
e degli assiro-babilonesi Venere non è mai citato per il semplice motivo che non
si era ancora formato! Lo farà - secondo Velikovsky - intorno al 687 A.C. Il
libro è ben scritto («troppo», secondo i detrattori), i ragionamenti sono
logici, almeno apparentemente, i periodi sciolti e le affermazioni presentate
con uno stile sicuro e convincente. L'americano medio ne rimase molto colpito.
Velikovsky, ai suoi occhi, era uno scienziato che aveva lasciato le aule e si
era abbassato al livello della gente, cercando di spiegare quello che i libri di
scuola non erano riusciti a fare. Il mondo della cultura non poteva certo
tollerare che questo libro potesse circolare liberamente ed anzi scalare le
classifiche di vendita. Gli scienziati di tutto il mondo, in maniera tacita ma
sistematica, lo misero al bando. Un rogo virtuale che aveva avuto pochi eguali
nella storia. E qui entriamo nel campo delle leggende metropolitane, luoghi
comuni indimostrabili che però eccitano la fantasia popolare, generando una
serie di ipotesi affascinanti, di congetture e di speculazioni sul tema.
L'edizione italiana, per esempio, è completamente sparita dalla circolazione.
C'è chi asserisce che da anni non se ne vede una copia. Ma forse c'è un po'
d'esagerazione. Cosa dobbiamo pensare? Che una sorta di Men In Black
nostrani, naturalmente scienziati di lungo corso, astronomi, fisici, vada in
giro a rastrellare ogni copia di questo odiatissimo libro per bruciarla sul rogo
oppure strapparlo pagina per pagina con urla disumane alle riunioni accademiche
sotto l'invasata acclamazione generale?
Secondo Alfred De Grazia, amico e
continuatore dell'opera dello scrittore di Vitebsk, Velikovsky non sarebbe stato
il primo a parlare di mondi in collisione, di comete che colpiscono la terra e
di carestie apocalittiche che ne derivano. A precederlo, oltre all'americano
Ignatius Donnelly - di cui parlo diffusamente nell'articolo Golden Bottle - ci fu uno
strano scrittore scozzese, William Comyns Beaumont. Di Beaumont mi è capitato il
suo The Mysterious Comet (London: Rider & Co., 1932). Velikovsky
aveva sicuramente letto questo libro e secondo Stephanos e De Grazia ne
rielaborò le teorie. Ci sono, nei libri di Beaumont, anche idee assai
bizzarre come l’identificazione di Gerusalemme in Edimburgo o il posizionamento
delle dinastie dell’antico Egitto in Scozia, ma per il resto anticipano
l’ideologia Velikovskiana.
Mondi in Collisione in edizione
italiana uscì per Garzanti di Milano nel novembre del 1955. Volume in ottavo,
con copertina rigida in tela blu e titoli in oro; 388 pagine (di cui oltre 50 di
note bibliografiche), 43 righe per pagina con 60 battute per riga, prezzo di
1500 lire, tradotto da Armando Silvestri. La sovraccoperta porta
un'illustrazione di Fulvio Bianconi, un mix di incisioni rupestri post moderne
ed evoluzioni interstellari. Garzanti appose una fascetta editoriale blu che
così recitava: «"Mondi in Collisione" è stato superato, come vendite, da un
libro soltanto: la Bibbia. È l'epicentro di un vero e proprio terremoto
letterario...» - New York Times Book Review. La carta è però
bruttissima. Ingiallita e molto fragile, temo che non reggerà un altro mezzo
secolo. Di Mondi in Collisione va detto che è abbastanza raro, ma
soprattutto è raro in buone condizioni e con la presenza della
sovraccoperta. Questo libro sembra davvero un fantasma. Appare di tanto in
tanto per poi scomparire di nuovo e non farsi più vivo per anni. Alcuni librai
che avevano avuto la brillante idea di inserirlo in catalogo raccontano di
essere stati subissati di telefonate per mesi interi, con gente strana
all'apparecchio. «Mondi in Collisione, mi ha confidato un libraio di
Torino, se lo vedesse, direbbe: "che delusione!" ? un libraccio, mi creda,
non ha niente di valore, ha anche una brutta copertina, solo che tutti lo
cercano ed è sparito dalla circolazione. Ma se lo trovo le giuro che glielo
vendo per 20 euro perché non ne vale di più. Ma lo sa che secondo me è vera
questa storia che l'hanno fatto sparire? Gli scienziati avevano paura che la
gente credesse davvero che il pianeta Venere è un pezzo staccatosi da Giove, ma
più che altro avevano paura che la scienza scendesse troppo al livello del
popolo. Sa, gli scienziati hanno una paura folle di perdere un po' del loro
potere. Si chiudono in quei gerghi incomprensibili a bell'apposta; parlano di
divulgazione. Balle! Loro per primi non vogliono farsi capire». Ammetto
che la cosa non c'entri nulla con Worlds in Collision, ma in tema di
libri misteriosamente scomparsi, aleggiano piccole leggende locali. Una di
queste riguarda il libro Berlusconi. Inchiesta sul signor TV di Ruggeri,
G. e Guarino, M. (Milano: Editori Riuniti, marzo 1987), ormai introvabile. Nei
bassifondi di Milano si racconta di distinti giovanotti in giacca e cravatta che
all'epoca della sua uscita rastrellarono tutte le librerie del capoluogo
meneghino acquistando praticamente in blocco la prima tiratura nell'arco di
qualche giorno. Lo stesso dicasi per la seconda edizione di aprile. Non so
decidermi sull'attendibilità di questa informazione. Sono gli stessi autori che
la raccontano nella premessa di in una più recente riedizione di quel lavoro
(Milano: Kaos, 1994). Così come la apprendo, ve la spaccio. Un libraio di
Bologna mi giura che le cose sono effettivamente andate così.
Rientrando
sui binari del discorso interrotto, mi ricordo che la mia prima copia di
Worlds in Collision, rigorosamente MacMillan, me la procurai tanti anni
fa, in un incontro che un attimo d'irriflessione m'indurrebbe a dire
casuale. L'ultima l'ho avuta da un booksearcher newyorchese, Michael Sober.
Lo avevo chiamato pochi giorni dopo l'11 settembre 2001, quando ancora il mondo
era scosso dall'attentato al World Trade Center. Non speravo in una risposta
tanto sollecita. Invece, dopo poche ore, il mio fax mi comunicò che una copia
del libro di Velikovsky stava già viaggiando alla volta dell'Italia. Bisogna
ammettere che New York è New York! Stringere in mano una copia di Worlds
in Collision regala sempre una sensazione unica. Quando il corriere mi
consegna un pacco che so contenere quel libro, di solito lo apro, prendo il
volume, controllo quelle due o tre cosette che bisogna sempre controllare. Cioè
se è davvero la prima edizione (non si sa mai), se le condizioni del libro
corrispondono a quelle descritte, la presenza della sovraccoperta, lo stato
della carta, eventuali difetti non "annunciati". Poi lo metto sopra il tavolo,
mi siedo sul divano a tre-quattro metri di distanza e lo osservo. Osservo il suo
profilo. Assaporo il suo colore arancione carico sul legno scuro del tavolo.
Come una chiazza di vernice su un sacrario. E lo guardo a lungo, senza toccarlo
mai. Solo lo guardo. Non lo leggo mai, l'ho letto tante volte. Lo metto assieme
alle altre copie, in una vetrinetta speciale. Non dirò quante copie ne posseggo
perché il dettaglio non deporrebbe a mio favore in una eventuale causa con tanto
di perizia psichiatrica. Il fatto è che questo libro costituisce un'ossessione.
La stessa ossessione dei Predicatori di Velikovsky nel XXI° secolo, come
racconto nel mio romanzo Il furto
della pietra nera. Ogni buon credente ambirà ad avere nella sua casa il
testo sacro, in versione originale. Una sorta di Mein Kampf dal sapore
tutto particolare ma dalla analoga follia mediatica.
L'edizione francese,
Mondes en Collision, uscì nel 1952, per conto della Librairie Stock di
Parigi. Nessun grande editore, a quanto pare, volle la responsabilità di
diffondere un testo così vessato dal mondo scientifico. Il libro in sé è
abbastanza deludente, una brossurina di poco valore, alla quale mezzo secolo di
tempo trascorso sembra non abbia portato rispetto, vista la difficoltà a
rintracciarne una in buone condizioni. Una bella edizione è quella danese,
Klodernes kollision (Kobenhavn: Hirschsprung, 1952), una brossura con
copertina illustrata. C'è un disegno di mano sapiente, una pioggia di fuoco si
abbatte sul mondo, cammelli che fuggono terrorizzati e un pianeta rosso si
staglia minaccioso nel cielo. In Danimarca il libro è stato anche ristampato
con un titolo diverso, Kosmiske kollisioner (Lynge: Bogan, 1980).
Un'altra brossura, leggermente meno elegante della precedente. Qui un pianeta
luminoso vira nello spazio sopra un territorio montagnoso e desolato, futuro
teatro di collisione. Una delle copertine più suggestive è però quella
dell'edizione olandese, sul piatto anteriore la drammatica rappresentazione di
due pianeti in imminente collisione, con scariche elettriche che trapassano le
loro atmosfere. Il libro porta il titolo di Werelden in botsing
(Deventer: Uitgeverij Ankh-Hermes, 1971).
Un altro aneddoto che si
racconta su Velikovsky è che quando Albert Einstein morì all'ospedale di
Princeton nel New Jersey, il 18 aprile del 1955, aveva da poche ore preso in
mano Worlds in Collision. Il volume di Velikovsky è presumibilmente stato
l'ultimo libro che il grande fisico ha letto in vita e difatti fu ritrovato sul
suo comodino. Lo stesso Velikovsky si faceva un gran vanto dell'amicizia con
Einstein e i due si scambiarono in effetti diverse lettere durante gli anni.
Vedi La corrispondenza di
Immanuel Velikovsky.
Su Marte e sui suoi misteri credo possa esserci
una messe di pubblicazioni notevole, ma sopra tutto in inglese. In italiano
forse non ci sarà nulla nello specifico ma probabilmente potrà interessare
leggere una delle tante edizioni dei Viaggi di Gulliver di Jonathan
Swift. Il libro apparve per la prima volta nel 1726. Il lettore attento vi
scorgerà una citazione quantomeno interessante, e cioè quella relativa a Marte e
ai suoi due satelliti. Swift scrive che: «...due stelle minori o satelliti
che ruotano intorno a Marte, dei quali il più interno dista dal dentro del
pianeta principale esattamente tre dei suoi diametri, ed il più esterno cinque;
il primo ruota nel tempo di dieci ore e il secondo in ventuno e
mezzo...». Ora - Velikovsky stesso cita questo episodio in Mondi in
Collisione - nella realtà Phobos e Deimos furono scoperti solo nel 1877
dall'americano Asaph Hall dell'Osservatorio di Washington con quello che, a quei
tempi, era il più potente telescopio al mondo. Con gli strumenti in uso
all'epoca di Swift non sarebbe stato possibile scorgerli. Famosi studiosi come
William Herschel, Isaac Newton, Giovanni Schiaparelli o Edmund Halley non
sospettavano neppure della loro esistenza. Velikovsky azzarda l'ipotesi che
Swift avesse avuto accesso a un antico misterioso testo che riportava la
presenza di questi due corpi celesti. Di che testo si trattasse, quanto fosse
antico e dove sia finita la copia vista da Swift non ci è dato saperlo. Tuttavia
l'idea in sé è affascinante. In molti sostengono che la civiltà attuale sia in
effetti solo una delle tante civiltà succedutesi dall'inizio dei tempi e
ciclicamente spazzate via da cataclismi cosmici o da auto-distruzione. Se
l'ipotesi avanzata dall'autore di Mondi in Collisione è in qualche
maniera sostenibile, temo che non lo sapremo mai. Se invece coincidenza è,
dobbiamo ammettere che è assai strana, soprattutto troppo particolareggiata. Ma
non è finita. Phobos e Deimos, o qualcosa di molto simile, furono profetizzati
anche da Voltaire. Scrive infatti in Micromégas: «...Lasciando Giove,
essi costeggiarono Marte; videro così due lampade che servono a questo pianeta e
che sono sfuggite alle osservazioni dei nostri astronomi». In effetti anche
il nome stesso dato da Hall ai satelliti (Phobos e Deimos, cioè Paura e
Spavento) è tratto dalla mitologia. Così erano chiamati i cavalli che il dio
Marte aveva al giogo del suo carro da guerra, secondo l'opera di Omero. Anche
Omero, quindi, sapeva? Ironia a parte, rimane l'accattivante e suggestiva
ipotesi che alcuni testi di una civiltà antichissima siano sopravvissuti al
diluvio o a chissà cos'altro. Racchiudendo il sapere di secoli e secoli, o forse
millenni, essi possono tramutarsi - per chi ci si imbatte - in una vera e
propria miniera d'oro.
ALBERT EINSTEIN E OLINTO DE PRETTO: A CHI
LA RELATIVITÀ?
Sono in molti a ritenere Albert Einstein come l'unico
corpo estraneo alla scienza realmente accettato dalla comunità scientifica
stessa. Lo storico della scienza Federico Di Trocchio, nel suo bellissimo libro
Il genio incompreso (Milano: Mondadori, 1997), ne traccia un interessante
profilo. «Einstein - dice Di Trocchio - a differenza della maggior parte
degli scienziati, non attutì mai il suo anticonformismo: ascoltò sempre, e in
molti casi aiutò, chi nuotava controcorrente». Einstein non proveniva dal
mondo accademico, era un umile impiegato del celebre (lo diverrà grazie a lui)
Ufficio Brevetti di Berna, in Svizzera. Il suo ingresso nella comunità
scientifica fu improvviso. Con la relatività, egli è passato alla storia come
l'artefice di una delle teorie che hanno rivoluzionato il concetto stesso di
universo. Una teoria che da qualche anno ha per la verità cominciato a
scricchiolare, ma che nei suoi principi base appare ancora ben salda, in
particolar modo perché non ne è stata proposta una alternativa di pari portata.
Eppure tra poco saranno trascorsi cento anni dall'enunciazione di quella formula
e = mc² e cinquant'anni dalla morte del suo autore.
Il documento,
piuttosto raro, che potrebbe gettare un'ombra sulla figura di Einstein è
Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo. Fu pubblicato nel 1904 negli
Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze. Prefazione del celebre astronomo
Giovanni Virginio Schiaparelli. A redigere quel lavoro era stato un oscuro
autore (lo dice lui stesso nella presentazione) di Schio (Vicenza). Solo un anno
più tardi, nel 1905, un altrettanto oscuro impiegato ventiseienne che lavorava
presso l'Ufficio Brevetti di Berna, pubblicò un lavoro scientifico con una
formula che farà storia. E = mc². Era appunto Albert Einstein. Il lavoro di
Olinto De Pretto fu stampato in estratto in Venezia da Ferrari nello stesso anno
1904. Ma a quanto sembra nessuno volle riconoscere il valore di queste sue
intuizioni e quello di De Pretto rimarrà sempre un nome sconosciuto ai
più.
Nel 1921, proprio nell'anno che vedrà Einstein ricevere il premio
Nobel per la fisica, De Pretto morirà in circostanze drammatiche (freddato da un
colpo di pistola sparato da una donna). Sempre quell'anno, pochi mesi prima
della sua morte, era uscito Lo Spirito dell'Universo (Milano, Torino,
Roma: F.lli Bocca), che può a buon diritto essere considerato il suo testamento
scientifico. Il libro in questione, ormai decisamente raro, contiene lo studio
del 1904, rielaborato, e la seconda edizione dello scritto Sopra una grande
forza tellurica trascurata (apparso per la prima volta nel 1914). È in
formato ottavo, fa parte della Biblioteca di Scienze Moderne (n.77), 223 pagine,
con tavole fuori testo a colori e b/n. In copertina una maschera tribale di una
civiltà non identificata, e sullo sfondo una serie di galassie a spirale. La
carta dei libri di questa collana non sembra granché ed è piuttosto fragile. Se
i volumi vengono trovati intonsi va prestata molta attenzione nell'aprirli, le
pagine si possono lacerare con estrema facilità. Mi sono capitate solo due
copie di questo libro, sulla prima sono arrivato tardi ma la seconda sono
riuscito ad acquistarla per trentamila lire nel 2001. La lettura de Lo
Spirito dell'Universo fa entrare in un mondo dalle atmosfere surreali. È un
trattato scientifico, ma allo stesso tempo un testo avvincente ed emozionante
come un vero e proprio romanzo d'avventura.
Il libro di Umberto Bartocci,
Albert Einstein e Olinto De Pretto: La vera storia della formula più famosa
del mondo (Bologna: Andromeda, 1999) rischia di diventare ancora più raro
delle opere di De Pretto se l'editore non si affretta a ristamparlo. Il
libro in questione fa parte della collana La storia impossibile, è un libro
just in time, cioé stampato appena in tempo, in tempo per
essere salvato. È un po' il destino di quei libri che gli editori non ritengono
adatti alla pubblicazione e che senza questa formula non riuscirebbero mai a
vedere la luce. I manoscritti cadrebbero nel dimenticatoio, con il passare degli
anni andrebbero persi in qualche trasloco o per colpa di qualche parente
distratto. Mi viene un brivido a pensare a quanti romanzi, a quanti saggi o a
quanti lavori scientifici è stato negato anche il semplice venire alla luce. Di
certo la storia è stata scritta anche da mani sconosciute, delle quali a volte
non è rimasta la benché minima traccia. In un prossimo futuro - e può suonare
quasi come una beffa - il libro di Bartocci potrebbe essere conteso da
bibliofili alla ricerca di testi strani e profetici, testi che non hanno segnato
un'epoca al momento della loro silenziosa uscita, ma l'hanno fatto a posteriori,
in quanto anticipatori di verità divenute tali solo in futuro, talvolta a
distanza di molti anni. Per questo motivo lo conservo gelosamente. È una
semplice brossura editoriale in ottavo, con la copertina nera su tutti i lati.
Il volto di Einstein e il fungo atomico che campeggiano sul fronte sono due
simboli molto chiari del concetto espresso dalla formula più famosa del
mondo. Prima di quel libro, Bartocci aveva tentato - inutilmente - di far
accettare per la pubblicazione un lavoro a quattro mani, con Marco Mamone Capria
sullo stesso argomento. La rivista scientifica alla quale aveva indirizzato il
manoscritto lo rifiutò, in maniera cortese ma inappellabile. Tutte queste
difficoltà derivano dalla responsabilità che si porta dietro il nome di Albert
Einstein. Ancora troppo grande e fulgida è la sua stella per poterla offuscare
senza esporsi brutalmente alle critiche dell'ortodossia scientifica. Einstein
non può essere messo in discussione, non ancora, almeno. Forse un giorno nuove
concezioni del mondo della fisica ridimensioneranno le sue teorie, ma al momento
resta un pilastro inamovibile, poco meno che intoccabile. Per questo motivo
nessuna rivista che vuole costituire una voce degna di nota nell'ambito
accademico oserebbe ospitare un intervento decisamente "contro-corrente" che non
sia suffragato da prove certe e inconfutabili circa un dubbio - sia pur sfumato
- sulla paternità della formula più famosa del mondo. È logico che il problema,
al momento attuale, non può essere presentato che a livello di congettura. Non è
ancora dimostrabile, se mai lo sarà, che Albert Einstein lesse il lavoro di
Olinto De Pretto. Forse l'unica strada praticabile è quella di agire sulla
figura di Michele Besso, che era amico di Einstein e collegabile a De Pretto.
Einstein conosceva l'italiano, tenne anche delle conferenze nella nostra
lingua.
La scienza sembra non volersi rendere conto che De Pretto, questo
oscuro agronomo vicentino, forse ispirò il grande scienziato. Magari si tratta
di elementi formali, non decisivi, dato che il concetto di etere non sembra
essere applicato alla teoria della relatività, ma di sicuro la frase che compare
nel lavoro di De Pretto del 1904 (un anno prima della pubblicazione di Einstein
negli Annalen der Physik dei suoi due celebri lavori) è esplicativa al
riguardo:
"La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una
somma di energia rappresentata dall'intera massa del corpo, che si muovesse
tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole
particelle. [...] La formula mv² ci dà la forza viva e la formula mv²/8338 ci
dà, espressa in calorie, tale energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni
di metri, che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l'etere,
ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da
10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di
milioni".
GIORGIO CICOGNA: IL MONDO HA PERSO TROPPO PRESTO UN
GRANDE SCRITTORE DI FANTASCIENZA
Un'altra suggestiva figura
dell'immaginario del lettore è quella dello scienziato-narratore, binomio di non
facile reperibilità, almeno in Italia. Scovare un "professionista della scienza"
che sia anche autore di romanzi, magari legati alla scienza stessa, sconfina nel
proibito, in quella sfera da molti evitata perché potrebbe (e sottolineo
potrebbe) creare un certo imbarazzo (da parte di chi, dell'editore?) nel
classificare la personalità dell'autore. In altri termini, lo scienziato
rischierebbe di veder screditata la sua immagine e l'editore avrebbe serie
difficoltà nel proporre, in futuro, i suoi seri trattati se nel frattempo egli
si fosse prodotto in storie fantasiose di altri mondi, folletti verdi, dischi
volanti e via dicendo. I soliti pregiudizi, insomma. Nella mia recente
esperienza mi viene innanzi tutto in mente l'astronomo americano Fred Hoyle,
apprezzato e considerato nel suo lavoro, ma anche autore di un libro (con il
figlio Geoffrey) di science-fiction di notevole successo in America come The
Fifth Planet (= Il Quinto Pianeta). Carl Gustav Jung (non un parere
qualunque) scrive che aveva trovato bellissimo il romanzo La Nuvola Nera
(Milano: Garzanti, 1957) dello scrittore americano. A tal punto che ne dà una
vera e propria recensione nel suo lavoro Ein Moderner Mythus (Zürich:
Rascher & Cie., 1958).
In Italia il discorso si fa più difficile,
almeno a un certo livello. Bisogna andare un po' indietro nel tempo per scovare
il già citato Armando Silvestri, traduttore di Mondi in collisione per
Garzanti. Silvestri, infatti, è anche noto come scrittore di proto-fantascienza
e di saggistica. Nato a Palermo nel 1909 e morto a Roma nel 1990, di lui,
ingegnere industriale, si ricorda il giovanile La Banda dei Fazzoletti
rossi (Milano: Sonzogno, 1928) e Il Signore della Folgore (stesso
editore ma 1941); inoltre il saggio La tecnica del secolo (Milano:
Vallardi, 1956) e molte traduzioni "d'autore". Inutile dire che i primi due
libri citati sono assolutamente introvabili. Chi ce li ha, se li tiene. Ma
ancor più di Silvestri è facile rimanere colpiti dalla figura di Giorgio
Cicogna. La sua è la storia di un perfetto sconosciuto, il cui nome non
troverete citato in nessuna enciclopedia, in nessun saggio di letteratura, sia
pur di genere. Soltanto uno studioso in Italia, Gianfranco De Turris, se ne è
occupato ricavandone una certa dovizia di particolari. Veneziano, nato nel 1899,
Cicogna entrò poco più che bambino nell'Accademia navale di Livorno e combatté
la guerra. Conclusosi il primo conflitto mondiale, portò a termine alcuni suoi
progetti tecnico-scientifici, inventando l'idrofono, uno scandaglio acustico per
la rilevazione della profondità dei sommergibili, e un eco-radar per localizzare
le navi tra i banchi di nebbia; quest'ultima invenzione gli valse uno speciale
riconoscimento da parte del CNR. Proprio in questi anni di transizione fra le
due guerre la sua produzione scientifica venne "contaminata" dalla passione per
la letteratura e così scrisse una serie di racconti fantastici riuniti nel
volume I ciechi e le stelle (Milano: L'Eroica, 1931), libro oggi di
difficilissimo reperimento, vera chicca per i bibliofili. Nello stesso anno
comparve anche una raccolta di liriche, Canti per i nostri giorni
(Milano: L'Eroica, 1931). Morì tragicamente nell'agosto del 1932, ancora
giovanissimo, durante un esperimento su un motore a reazione in un laboratorio
di Torino. Ci fu una forte detonazione e il Cicogna ne fu investito in pieno,
morendo sul colpo. Tra gli altri, lo piansero Elsa Morante e Guglielmo Marconi,
il quale lo ricordò nel discorso del 7 marzo 1933 all'inaugurazione della
riunione plenaria del CNR tenutasi a Roma. Mi è capitato di possedere una
copia de I ciechi e le stelle con una dedica autografa dell'autore alla
vedova di Luigi Valli, amico fraterno e commentatore esoterico di Dante, autore
de Il linguaggio segreto di Dante e dei "Fedeli d'Amore", studio ovviamente non
riconosciuto dalla critica accademica. La dedica così recita: Ivrea, 7 maggio
1931 - Alla Signora Angelica Valli Picardi, con filiale devozione, ricordando il
caro grande Scomparso, Giorgio Cicogna. Il libro è molto interessante,
assolutamente da scoprire. Apprezzabile sia per lo stile che per la costruzione
delle trame. Dei nove racconti contenuti ho una predilezione particolare per
I due resoconti. È la storia di due mondi che si intersecano senza
rendersi conto l’uno della presenza dell’altro. Onde, segnali, emissioni. Alla
fine gli esseri venuti dall’altro mondo prendono contatto telepaticamente ma i
contattisti muoiono a causa dello sforzo che devono sostenere. Se ne salverà
uno, che crede agli spiriti. Di estrema suggestione anche il racconto
Qhuen-Lì, che lascia intravedere la sottile filosofia di Cicogna. Per
scrivere questo specifico racconto (parole dello stesso autore): "Lo spunto
per le dissertazioni di Qhuen-Lì mi è stato offerto dal libro L'Uno di
Luigi Podestà; un volumetto che forse è meglio non vada per le mani di troppa
gente; per il grosso pubblico ci sono i brodetti della teosofia e i minestroni
degli occultisti". Posseggo questa autentica rarità bibliografica, è un
volumetto stampato a spese del'autore nel 1928, 118 pagine di filosofia
concentrata. Tra i pochi libri che trattano di Giorgio Cicogna segnalo il
rarissimo "Propulsione a reazione", a cura del Centro di Studi di
Propulsione a Reazione (Torino, 1939).
Salvator Gotta ebbe parole
d'apprezzamento per l'opera e sentenzi:ò «Il Cicogna è un raccontatore di
razza». Dalla Gazzetta di Venezia: «Il Cicogna non ci dà solo il brivido a fior
di pelle, ma riesce a comunicarci una sua nobiltà lirica che potrà ancora
tradursi - ne siamo certi [ahimè!] - in nobili espressioni d'arte».