Tratto da "La Stampa" del 22 marzo 2003
E così fu la luce tra Or e Zohar
di Elena Loewenthal
Un po’ come per il silenzio, l'ebraico ha un ricco vocabolario della luce. Questa è infatti la prima sigla della creazione, l'inizio dell'inizio: scostandosi per lasciar posto e consistenza all'universo nascente, l'Eterno accende qualcosa che di lì in poi sarà il contrario del buio. Ma la luce ha molte sfumature, nella lingua della Bibbia: è fissa, mobile, appena un accenno quando non un fulgore abbagliante. Se Or, parola sottile, indica la luce primordiale e quella che ci accompagna durante il giorno fra una notte e l'altra, zohar sta invece per "splendore": una luce costante, che è possibile solo contemplare di lontano. Questa parola ha dato il nome a quella che è forse l'opera letteraria più sconcertante, più sorprendente di tutta la tradizione ebraica, "l'espressione di un mondo interiore assolutamente originale e innovativo", per usare la definizione di Giulio Busi.
Il Sefer ha-Zohar, cioè il "libro dello splendore" fu composto probabilmente nella Spagna del XIII, in un aramaico raffinato e impenetrabile, almeno all'apparenza. E' più un corpus che un testo unitario, ma che nasconde probabilmente non una lunga e collettiva redazione, bensì il tocco geniale di un unico autore; tanto è vero che tradizione attribuisce la paternità di quest'opera a Shimon bar Yochai, un dotto vissuto nel II-III secolo.
Lo Zohar ci lascia intendere, prima d'ogni altra cosa, che la luce a noi concessa nel mondo altro non è se non una pallida sfumatura di tenebra. Al di là del testo, delle sue digressioni, del suo linguaggio telegrafico ed evocativo al tempo stesso, s'intravede la costruzione dell'universo come da dietro un immenso sipario, scostato di un millimetro appena e per una frazione infinitesima di secondo. Il libro ha apparenza di commento biblico, e si diparte dalla creazione del mondo: ma la narrazione procede con un ritmo alterno e sempre avvincente, fra discussioni di maestri, divagazioni terrene e tratti di una teosofia ardita quanto mai altra. Armato del suo ermetismo, lo Zohar non solo contempla l'universo, ci scava dentro con mirabile sapienza della parola. Inutile aggiungere che il cimento di traduzione è con quest'opera una sfida improba. Eppure in tanti hanno tentato.
Primo fra tutti il grande Gershom Scholem, cui si deve la moderna scoperta del testo, e la sua interpretazione canonica nell'ambito degli studiosi. Qualche anno fa uscì per i tipi Einaudi una breve antologia di passi dello Zohar da lui curati e tradotti (Zohar. Passi scelti della Qabbalah a cura di Gershom Scholem, Einaudi tascabili 1998).
Oggi Adelphi manda in libreria un volumetto dal titolo I segreti della creazione (traduzione di Gabriella Bemporad. Con una nota di Moshe Idel, pp. 150, euro 9,00): dopo un capitolo dedicato alla "comprensione dello Zohar", è presentata in italiano la traduzione che Scholem aveva dato in tedesco di un passo cruciale del testo. Si parte infatti dal primo versetto biblico, allorquando l'Eterno "scalfì il fulgore superno, e un guizzo scuro scaturì…". Nell'edizione italiana non è dato purtroppo di capire se il passo sia stato tradotto pari pari dal tedesco in cui l'aveva portato Scholem, senza un auspicabile riscontro con l'originale in aramaico: manca del tutto una nota sulla curatela, ed è un peccato. Quanto al lettore, ne uscirà forse confuso, forse estasiato, e più probabilmente entrambe le cose.
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