IL SITO DEL MISTERO



Tratto da "Il Sole 24 Ore" di domenica 17 ottobre 2004

Uno studio sui controversi rapporti del poeta della "Commedia" con la mistica ebraiva

La Qabbalah secondo Dante

di Giulio Busi

All'inizio dei tempi, Dio vuoi discorrere con Adamo. Quando il primo uomo cerca di parlare, il suono che esce dalla sua bocca è un'invocazione: "El, che in ebraico significa "Dio". La Bibbia, per la verità, non lo racconta, eppure dev'esser andata proprio in questo modo, perché "alla ragione pare assurdo e orrifico che qualcosa sia stato nominato dall'uomo prima di Dio".

Così, nel De vulgari eloquentia, Dante mette in scena il dialogo primordiale che ha dato origine al linguaggio. Con un misto d'invenzione e puntiglio filosofico, il poeta immagina una voce che rompe il silenzio ancora intatto della creazione. La sillaba "El" imprime il sigillo dell'ebraico sulla bocca di Adamo, cosicché Dante può concludere:

"Ebraico fu dunque quell'idioa che formarono le labbra del primo parlante".

E noto che Dante tornò, nel XXVI canto del Paradiso, su questa sua teoria e ne diede un'altra versione: non più "El" sarebbe stata la prima parola di Adamo, ma una sibillina "I". Il significato dell'enigmatica lettera rimane oscuro, e non vi è prova che anche in questo caso il poeta avesse in mente un sintagma ebraico. Una cosa comunque è certa, e cioè che il rapporto di Dante con la lingua ebraica e il giudaismo è tema che ha inquietato generazioni di filologi.

Nel suo studio Dante e la mistica ebraica, Sandra Debenedetti Stow riapre il problema, e lo fa con una decisa presa di posizione. Il libro vuole infatti dimostrare l'affinità tra l'universo dantesco e gli insegnamenti della qabbalah del Duecento, facendone due immagini speculari di una medesima ricerca interiore verso il trascendente.

Che Dante sia stato influenzato dall'esoterismo ebraico non è per altro tesi nuova. A rimetterla di recente in voga è stato Umberto Eco, nel suo saggio sulla lingua perfetta, sostenendo un influsso delle dottrine del cabbalista Avraham Abulafia sull'impianto del De Vulgari eloquentia. Ed è proprio da questa formulazione che prende spunto Debenedetti Stow, per proporre una rilettura di Dante in chiave cabbalistica.

È un racconto scritto con passione, e con dovizia bibliografia, che deve tuttavia fare i conti con un'assoluta mancanza di fonti dirette. Delle vagheggiate frequentazioni ebraiche di Dante non ci è giunto infatti alcun documento ne abbiamo prove di una diffusione di testi mistici giudaici negli ambienti con cui il poeta entrò in contatto, a Firenze o durante gli anni dell'esilio.

Del resto, anche la conoscenza stessa della lingua ebraica da parte di intellettuali cristiani nell'Italia dell'epoca è assai dubbia, e le poche testimomaze sono limitale a nozioni rudimentali di ebraico biblico. Che in una data così precoce sia esistito un interesse cristiano per la qabbalah è certo ipotesi affascinante, ma contraddice quanto sappiamo sulla dinamica dei rapporti giudaico-cristiani del Medioevo. Anche nella grande summa antiebraica del domenicano Ramòn Martì, composta verso il 1280, che passa in rassegna fonti midrashiche e talmudiche, la qabbalah non è ancora materia di dibattito. Lo diverrà solo nel Quattrocento quando il misticismo giudaico acquisterà diritto di cittadinanza nel pensiero europeo, soprattutto a opera di Giovani Pico della Mirandola.

Del vuoto documentario, Debenedetti Stow è consapevole e indirizza penante la sua ricerca ai "nessi tra Dante e le altre tradizioni simboliche ed esegetiche". Ne risulta un lavoro di fenomenologia culturale, in cui gli orientamenti spirituali del poeta fiorentino sono messi a confronto con le speculazioni dei cabbalisti sulle sefirolt e sulla lingua ebraica.

L'autrice si appoggia principalmente alle coloriture neoplatoniche del pensiero dantesco, a quella gradualità dell'amore verso Dio che pervade soprattutto le terzine del Paradiso. È infatti innegabile che la corda neoplatonica echeggi anche nella qabbalah. Tuttavia, Dante aveva certamente sottomano altre fonti, come per esempio il Liber de causis, quell'opera che cita col nome di Libro delle cagioni, e che altro non era se non la traduzione latina di un rimaneggiamento arabo degli Elementi di teologia del neoplatonico Proclo.

In assenza di prove, è difficile ipotizzare che il poeta derivi la propria impostazione platoneggiante dalla qabbalah. E pur vero che questo Dante cabbalista è un brillante ibrido culturale, forse anacronistico per il Medioevo ma comunque testimone di come sia possibile leggere in controluce due culture sorelle.

Sandra Debenedetti Stow, "Dante e la mistica ebraica".

Giuntina. Firenze 2004, pagg. 246, € 18.00.



HOME Libri