tratto da Avvenire del 15/04/2009
Voynich: il libro che nessuno sa leggere
di Roberto Beretta
È un manoscritto illeggibile; e non perché sia scritto in pessima grafia, come la ricetta di un medico, oppure su un supporto in cattivo stato di conservazione, tipo i papiri di Qumran. Anzi, il nostro libro è bellissimo, anche ricco di disegnetti colorati e curiosi, ordinato nelle sue righe fitte di scrittura armoniosa come di una lingua orientale... Ecco, è proprio la lingua il problema: il cosiddetto «manoscritto Voynich » è vergato infatti in un idioma sconosciuto, mai visto prima e mai più incontrato nella storia; un linguaggio misterioso che ancora non ha trovato il suo Champollion, nonostante un secolo di tentativi eruditi o disperati, geniali e informatizzati, sistematici o intuitivi.
Qualcuno sostiene addirittura che si tratta dell’«ultimo enigma letterario della storia» e che il suo segreto «ci resisterà per sempre»; ma forse lo stesso reperto – con le sue immagini di piante e fiori sconosciuti – ci sconsiglierebbe di scommettere sulla definitività di certe affermazioni. Infatti fin dalla scheda con cui è catalogato nella Biblioteca Beinecke di libri rari dell’Università di Yale, Stati Uniti, il Ms 408, 102 fogli rilegati in quaderni di 23 centimetri per 16, deve sopportare parecchi punti interrogativi: «Origine Europa Centrale?»; «Data di nascita secoli dal XV al XVI?» (infatti sia il tipo di scrittura sia la composizione dell’inchiostro risalgono agli anni tra il 1480 e il 1520); «Linguaggio cifrato?»... Non è sicuro nemmeno il numero delle pagine, in quanto – tra fogli multipli o apribili e pagine perdute – a seconda dei vari studiosi il libro doveva possedere tra le 230 e le 310 pagine, suddivise in 5 sezioni: erboristica (la più estesa, metà del libro), astronomica, biologica, farmaceutica e ricettario.
Eppure di notizie su questo enigma bibliografico se ne sono già accumulate parecchie – pur senza arrivare alla soluzione del rebus; come attesta l’onesto e documentato status quaestionis compilato dal giornalista ispanico Marcelo Dos Santos ne L’enigma del manoscritto Voynich (Edizioni Mediterranee, pp. 182, euro 14,50). Anzitutto il nome: Wilfred Michael Voynich era l’antiquario di origini polacche, ma nato in Lituania, che nel 1912 – nel corso delle periodiche peregrinazioni europee alla caccia di libri rari per il suo negozio londinese – scovò nella residenza gesuita di Villa Mondragone a Frascati quello strano piccolo libro; e lo comprò, facendo nascere – anche a beneficio dei cacciatori di esoterismo popolare – la leggenda del «manoscritto Voynich».
La cui storia – grazie a una lettera in latino che accompagna il volume e che è stata scritta nel 1666 da Iohannes Marcus Marci, rettore dell’università di Praga, al gesuita Athanasius Kircher, ritenuto il massimo erudito dell’epoca – è stata finora ricostruita così: il manoscritto (pur se attribuito al dotto filosofo francescano inglese Ruggero Bacone, che però visse nel XIII secolo) fu acquistato intorno alla fine del Cinquecento per la notevole somma di 600 ducati dal colto imperatore Rodolfo II d’Asburgo, forse dai due occultisti e alchimisti (nonché ciarlatani) britannici John Dee ed Edward Kelley. Quindi passò al botanico boemo e gesuita Iacobus Horcicky di Tepenec – la cui firma abrasa si legge sul primo foglio del manoscritto – e, alla morte del religioso, al suo ordine. Un’altra ipotesi traccia una linea di possesso tra gli Asburgo e i gesuiti attraverso l’alchimista boemo padre Baresch, il suddetto Marci e padre Kircher.
Comunque sia, alla fine il manoscritto entrò in possesso del Collegio Romano dei gesuiti e riuscì a sopravvivere anche alle soppressioni settecentesche della Compagnia, con conseguenti confische dei beni, fino ad arrivare nella mani di Voynich e di qui nel 1931 agli eredi, che lo rivendettero a un libraio americano il quale nel 1961 lo donò all’università di Yale. Ma ben più appassionanti sono le peripezie legate alla «traduzione» o interpretazione del testo misterioso, che colleziona una serie notevole di fallimenti illustri: da quello dello stesso Kircher (la cui fama di cultura enciclopedica è stata peraltro recentemente ridimensionata dalla constatazione dei suoi numerosi bluff, tra cui la «lettura» dei geroglifici egizi), ai tentativi di Voynich – tutt’altro che sprovveduto quanto a conoscenze linguistiche e bibliografiche –, il quale per di più spedì copie fotografiche del testo ai maggiori esperti mondiali del settore. Invano. Ci provarono poi alcuni esperti di cifrari militari negli anni Venti, come tal William Newbold – che girò anche gli Stati Uniti annunciando in una serie di conferenze di aver trovato la «traduzione» giusta nel procedimento dell’anagramma, cui si aggiungeva un fantomatico e microscopico testo occulto in greco le cui lettere si rivelarono poi essere soltanto delle sbavature dell’inchiostro... Altri annunci clamorosi sono più recenti: nel 1945 toccò all’oncologo Leonell Strong dichiarare di aver sciolto l’enigma, traducendo addirittura un paragrafo in cui si descriveva un metodo anticoncezionale (sic!); anni dopo fu il medievista Robert Brumbaugh a convincersi di aver identificato la parola «ortica» sotto il disegno di un vegetale, mentre il linguista John Stojko sostenne nel 1978 che la lingua misteriosa era ucraino, privato delle vocali e messo in codice. Nel 1987 il fisico Leo Levitov tirò in ballo i catari, sostenendo che il libro era stato scritto proprio da loro in una sorta di «esperanto» mescolato di vari idiomi. Per finire con Edith Sherwood, che ha indicato come autore l’immancabile Leonardo da Vinci.
Più seri i tentativi di William Friedman, anche lui militare esperto in crittografia, che insieme alla moglie Elisabeth radunò a due riprese – tra il 1944 e il ’46 e ancora tra 1962 e 1966 – un’équipe di specialisti coadiuvati dall’uso di un computer molto avanzato per l’epoca. Fu così che si scoprirono alcune particolarità statistiche nelle 40.000 parole del manoscritto Voynich, di una lunghezza media tra i 4 e i 7 caratteri, tra cui l’altissima frequenza delle ripetizioni: circostanza anomala in qualunque lingua eccetto l’hawaiano. Il secondo contributo fondamentale dei due coniugi fu la scoperta che il testo non era la cifratura di un linguaggio noto, bensì la scrittura di un idioma artificiale sconosciuto: una vera e propria lingua, insomma. Grazie alle schede perforate dei Friedman, inoltre, nel 1994 i ricercatori Jim Reeds e Jacques Guy sono riusciti a digitalizzare una trascrizione attendibile del testo in un linguaggio artificiale appositamente creato (il Frogguy) e composto di 12 lettere latine, alcuni numeri e alcuni segni d’interpunzione, scelti per la loro somiglianza con i caratteri del Voynich. Un membro dello stesso gruppo Friedmann – il crittografo Prescott Currier – ha invece scoperto due altri fattori importantissimi: anzitutto che il manoscritto è dovuto a due autori diversi, i quali però si sono divisi il lavoro sempre per pagine o quaderni interi; inoltre la circostanza che alcuni gruppi di lettere appaiono solo all’inizio del rigo e altri solo alla fine.
A partire da questi dati, e da un rivoluzionario approccio ai problemi cosiddetti «insolubili», lo psicologo inglese Gordon Rugg ha compreso in questi ultimi anni che un tal genere di regolarità nella medesima riga poteva essere ottenuto con la «griglia di Cardano», una sorta di scheda a fessure inventata dal matematico italiano Gerolamo Cardano nel 1550 e che – mossa in modo più o meno casuale sulla pagina – serve ottimamente a generare un testo inventato. È chiaro però che, se questa ipotesi è fondata, il manoscritto Voynich non conterrebbe affatto quel tesoro di sapienza esoterica o alchemica che si credeva, anzi sarebbe poco più di una burla: in sostanza, l’imbroglio di un ciarlatano (Kelley?) per intascare 600 ducati dalla borsa del potente ma credulone Asburgo. Nessuna cifratura, dunque, nessun significato occulto; solo una truffa, ma quanto ben fatta.
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