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Acerbi e il Graal
La più recente opera di Giuseppe Acerbi su "Merlino e
Morgana" è parte di una ricerca ventennale condotta su fonti mitologiche vicino
e medio orientali, tesa a disvelare in esse i paralleli e le analogie con i
romanzi del ciclo graalico. Tale avvicinamento, apparentemente assurdo anche in
una prospettiva fenomenologica, ha però un valido fondamento
storico-archeologico: una mediazione tra Oriente ed Occidente in ciò che di
recente il giovane studioso italiano Marco Moriggi ( in Avallon, 45 [ 2000 ] , pp.
47-58 ) ha ribattezzato essere le "radici iraniche del Graal". Chiunque legga
con occhio filologico il Parzival di Wolfram von Eschenbach non può non
notare infatti le fortissime affinità con il mondo iranico pre-islamico, che
vanno dal nome del padre di Parzival, Gahmuret (e a loro volta rinviano all’Uomo
Primigenio del mito mazdeo, Gayomart, il Gehmurd dei Manichei ),
sino alla liturgia con l’"acqua di vita" tramite cui viene battezzato Feirefiz,
il fratello levantino ( e quindi "oscuro " ) di Parzival.
Circa sessant’anni dopo Wolfram, ma sempre restando nell’ambito della medesima tradizione, il poeta germanico Albrecht von Scharffenberg scrisse ( nel 1270 ) un’opera dal titolo Der jüngerer Titurel ( Il giovane Titurel ), che parla dell’antica famiglia del Graal; in particolare di Titurel, nonno di Parzival. Albrecht cosí descrive il Tempio del Graal: "Nella terra della salvezza, nella foresta della salvezza, si erge un monte solitario, la Montagna della Salvezza; il Re Titurel la cinse di mura e vi costruí un ricco castello perché fosse il Tempio del Graal: il Graal allora non aveva una sede fissa, ma vagava, invisibile, nell’aria." Albrecht passa quindi a descrivere la montagna: fatta di onice, la sua vetta è priva di terra; era stata talmente levigata e pulita che "risplendeva come la Luna". Il Tempio è alto, rotondo, a cupola, con il tetto d’oro; all’interno, il soffitto è incrostato di zaffiri a rappresentare il cielo azzurro, ed è incastonato di carbonchi raffiguranti le stelle. Un Sole d’oro ed una Luna d’argento, mossi artificialmente, percorrono gli emisferi, mentre i cembali vengono colpiti regolarmente per scandire il trascorrere delle ore. L’intero Tempio è colmo d’oro e tempestato di gemme preziose.
Per lungo tempo, tutto quanto venne considerato un mero
artificio letterario, nient’altro che una bella fiaba. Solo nel secolo ormai
trascorso alcuni studiosi come Lars Ivar Ringbom o Henry Corbin hanno richiamato
l’attenzione su una località realmente esistita, che possedeva una straordinaria
rassomiglianza con la descrizione albrechtiana del Tempio del Graal.
Agli
albori del VII secolo d.C. il re persiano Cosroe II edificò uno straordinario
palazzo che chiamò Taxt-i Taqdis, "Trono degli Archi" - ora noto come
Taxt-i Sulayman, "Trono di Salomone" - sulle alture sacre di Shiz nelle
Media Atropatene, l’attuale Azerbaigian. Era il centro del culto mazdeo: in esso
si ergeva un tempio del fuoco, ed era ritenuto un’immagine del centro del mondo.
I re della dinastia sassanide, cui Cosroe apparteneva, ritenevano Shiz il luogo
di nascita di Zoroastro e lí vi celebravano i riti ciclici che garantivano la
fecondità del cosmo. Quando il santuario venne distrutto, in una serie di
incursioni prima cristiane poi musulmane, l’intero paese parve morire sotto il
giogo dell’oppressore, proprio al modo in cui nelle storie del Graal l’aridità
della ’terra desolata‘ è considerata una diretta conseguenza della morte
simbolica del Re del Graal.
Da fonti piú o meno contemporanee, sostenute da testimonianze archeo- logiche ( in particolare l’ultimo lavoro di R. Naumann, Die Ruinen von Tacht-e Suleiman und Zendan-e Suleiman, Dietrich Reimer V., Berlin 1977 ) è stato possibile ricostruire una descrizione del Taxt: come il Tempio del Graal era la cupola, con il tetto d’oro rivestito completamente di pietre azzurre a rappresentare il Cielo; vi erano le Stelle, il Sole e la Luna. Le carte astrologiche e astronomiche erano contrassegnate da gemme, balaustre coperte d’oro, gradini dorati, addobbi munifici. Tutto rassomigliava al Tempio del Graal. L’intera struttura del Taxt si ergeva al di sopra di un pozzo nascosto, entro il quale pariglie di cavalli giravano in tondo provocando lo spostamento dell’edificio sul suo asse, in armonia con il variare delle stagioni, in tal modo facilitando i calcoli astrologici e le osservazioni astrono- miche. Circostanza che ricorda l’isola ruotante sulla quale si trova Re Nascien, il Signore del Graal nel Giuseppe d’Arimatea di Robert de Boron, scritto oltre seicen- to anni dopo che il Taxt era stato raso al suolo.
Come in numerose descrizioni del Tempio del Graal, il Taxt si ergeva nei pressi di un grande lago, ritenuto senza fondo: uno specchio d’acqua scuro ed immoto che colmava uno spento cratere vulcanico. Secondo Albrecht, il Tempio del Graal aveva porte su tre dei suoi lati. Il Taxt-i Sulayman era difatti accessibile u nicamente da tre direzioni, due delle quali trovano rispondenza in un testo gallese del ciclo graalico, il Peredur : la prima conduce attraverso una prateria, l’altra segue un ruscello che percorre una vallata. Il Taxt era alimentato da due fiumi e circondato da possenti mura, inoltre vi erano istallati dei congegni che simulavano il variare delle stagioni e i mutamenti climatici; il tutto in armonia con l’idea cristiana di Paradiso, il Pairi.daêza iranico, altrimenti raffigurato come la sede del Graal.
Nel 1937 una spedizione dell’American Institute for Persian Art and Archaelogy scoprí sul sito del Taxt una luccicante incrostazione provocata dalle acque minerali del lago, la quale, soprattutto lungo i bordi rimasti esposti agli ele- menti, aveva assunto l’aspetto dell’onice. Come abbiamo visto, Albrecht afferma- va proprio che il Tempio del Graal era eretto su un basamento di onice. Esiste poi, allo Staatsmuseum di Berlino, un piatto di bronzo riportato nel libro di Ringbom ( Graltempel und Paradies, Stockolm 1951 ) risalente al periodo sassanide, che raffigura il Taxt completo dei rulli di legno sui quali ruotava l’intero edificio; esso rivela come l’arcata centrale fosse circondata da ventidue archi, e ventidue erano anche i templi minori che circondavano la sala centrale del Castello del Graal descritto da Albrecht. Ma Albrecht come poteva, in pieno XIII secolo, descrivere con tanta esattezza un tempio mazdeo ormai distrutto da molti secoli? Forse ne aveva letto una descrizione relativa ad un evento cruciale della ierostoria cristiana: il "furto della croce". Nel 614 d.C. Cosroe II, il costruttore del Taxt, s’impadroní di Gerusalemme e ne sottrasse la reliquia piú sacra, la "vera croce"; che il re portò con sé proprio in quel tempio, sucessivamente descritto come la sede di un oggetto anch’esso sacro, il Santo Graal. In risposta a questo tremendo atto, nel 629 l’imperatore bizantino Eraclio organizzò una sorta di crociata ante litteram e marciò su Taxt-i Sulayman ritornando trionfalmente con la "vera croce". Questo episodio, sfumato nei toni del mito, venne descritto infinite volte e continuò ad essere ripetutamente narrato, con abbellimenti, fino al Tardo Medioevo; quando Albrecht o qualche suo ignoto precursore lo scoprí, probabilmente trasferendo la località da Oriente ad Occidente. L’immagine del centro del mondo mazdeo è quindi servita da modello nella fondazione del mito principale dell’esoterismo cristiano, il Santo Graal.
In tale dimensione ’comparativa‘ gli avvicinamenti e i paralleli dell’Acerbi assumono un significato completamente nuovo. Si pensi ad esempio ai cicli leg- gendari hindu e buddhisti legati alla versione medio orientale del Munsalwaesche graalico, il Monte Meru. Collocato al centro del mondo, il Meru viene talora raffigurato a gradini e circondato dall’acqua; intorno vi ruotano il Sole e la Luna. Su di esso è intronizzato il Buddha con i suoi Bodhisattva, mentre la Fenice vaga sotto gli alberi. In un altro mito c’imbattiamo nella figura del Pescatore associato al Monte, al modo che il ’Re Pescatore‘ lo è al Castello del Graal. È un motivo che l’Acerbi ha studiato esaustivamente in un lavoro di prossima pubblicazione. Basti qui ricordare l’iconografia del Monte Meru circondato dalle acque dell’Oceano, sulle quali il Pescatore naviga nella sua Barca: è l’Avatâra del dio Vishnu, noto talora come il ’Pesce d’Oro‘ o anche come il ’Pescatore di Luce‘. È il custode della Montagna Sacra, nonché il suo gnomone o dominatore.
Tutti questi esempi esprimono coerentemente un simbolismo unico: il ’ricordo‘ di una forma ideale di esistenza, poiché la ricerca del Graal è anche e soprattutto ricerca del Paradiso smarrito nel tempo primordiale.
Torino, 13 agosto 2000
Ezio
Albrile
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