il Rimino - Riministoria


Agnelli, la morte di un re (fu vera gloria?)
LETTERA 87
gennaio 2003

di Ettore Masina


Il quasi-regime in cui ormai viviamo è così becero e il futuro così minaccioso che molti finiscono per rimpiangere il passato e considerarne con ammirazione o, se non altro, con rimpianto, gli uomini che ne furono i Grandi Personaggi.

E' avvenuto mesi fa per Andreotti, condannato in secondo grado per reati infamanti ma valutato da larga parte dell'opinione pubblica un geniale (e, si suppone: onesto) statista; è avvenuto nei giorni scorsi per Gianni Agnelli, apoteosizzato come benefattore dell'economia nazionale e dunque del popolo italiano.

Sulla verità storica finisce per prevalere la sensazione che questi Potenti ci abbiano assicurato per una lunga epoca, un quieto vivere che adesso, qualche volta, ci pare felicità. E' un atteggiamento pericoloso: il peggio non giustifica mai il meno peggio, tanto più se il meno peggio ne è, più o meno direttamente, la radice.

Agnelli. 1

La morte richiede rispetto e penso che nessuno, tranne il suo Dio, possa giudicare compiutamente la vita di Giovanni Agnelli, virtù e colpe, se ne ebbe ­ e quali. Né si può dimenticare quanto la vita di questo «re», come nel furore cerimoniale viene definito, sia stata singolarmente toccata dal dolore: la morte prematura del padre, la durezza «educativa» del nonno, il suicidio di un figlio disperato, la morte repentina di altri famigliari e collaboratori.

L'arcivescovo di Torino e don Ciotti ci hanno lasciato intendere, infine, che l'uomo era nascostamente generoso verso le opere cosiddette di carità.

Tuttavia l'ennesima santificazione avviata dai mass-media e decretata da un'opinione pubblica ormai allevata a considerare il mondo come basato sui Dominatori dovrebbe trovare qualche limite nella verità storica.

Il regno sul cui trono Gianni Agnelli sedette per mezzo secolo ebbe una storia in cui non si possono leggere soltanto sfolgorare di ingegno e signorilità manifestata nell'arengo dei conflitti sociali: vi sono pagine più che discutibili ed altre terribili.

La Fiat ebbe, per lunghi anni, un servizio segreto che schedava gli operai di sinistra e provvedeva a inviarli a reparti «di confino», quando licenziarli risultava difficile. Pagò lautamente un sindacato «giallo» (cioè provocatorio) e finanziò gruppi eversivi «anticomunisti».

Nei tempi del boom dell'automobile, la famiglia Agnelli intascò proventi pari all'intero monte-salari del personale e sarebbe bello sapere se li reinvestì nell'azienda. In tutti i casi la Fiat non fu, come qualcuno vorrebbe far credere, una fabbrica-paradiso, un luogo in cui si donavano lavoro e dignità al di fuori delle regole, aspre, del capitalismo.Non lo fu in Italia, meno ancora lo fu all'estero. Ricordo le condizioni di vita degli operai della Fiat Betim, a Belo Horizonte, in Brasile. Nel 1985 guadagnavano l'equivalente di circa 150 mila lire al mese, mentre le sole spese di trasporto arrivavano a 30 mila lire. La svalutazione del cruzeiro era del 250 % e negli ultimi tre anni il valore d'acquisto del salario era diminuito di un quarto.

La grande maggioranza degli operai viveva in favela, senza acqua potabile, con luce elettrica soltanto di fortuna, a cielo aperto i canaletti fognari. Annotai allora sul mio taccuino: «Ben pochi lavoratori arrivano ai sessant'anni, a causa della mancanza assoluta di qualunque forma di prevenzione e di cura delle malattie professionali».

Un mio amico tentò la provocazione con un disegnatore meccanico: «Però la Fiat vi ha portato lavoro». Rispose: «Sì, ma un lavoro per carne da macello».

Lo sapeva il Re? Voglio raccontarlo, a costo di sentirmi dire che faccio della retorica, come ti accusano oggi, sempre più spesso, quando racconti certi fatti: appena tornato dal Brasile, avendo ancora negli occhi quelle baracche, lessi su un rotocalco che quando l'avvocato Agnelli si sentiva esaurito, si faceva portare in elicottero a Saint Moritz, sulla vetta di qualche montagna. Scendeva a valle con gli sci, poi tornava in elicottero a Torino.

La Fiat portò lavoro anche in Argentina, con uno stabilimento a Buenos Aires. Neppure quella era una fabbrica-paradiso Pochi giorni dopo il golpe militare, i suoi dirigenti, pieni di zelo patriottico, consegnarono agli aguzzini della Giunta l'elenco dei sindacalisti e degli attivisti della sinistra. Furono tutti arrestati, torturati, molti macellati.

Del resto agli Agnelli i generali piacquero sempre. I due conflitti mondiali rinsaldarono fortemente l'azienda e anche negli anni successivi la produzione armiera fu sempre guardata con grande interesse dalla Famiglia.

Neppure le consociate Fiat si resero benemerite di umana solidarietà. La Valzella vendette milioni di mine anti-uomo ai peggiori regimi del mondo. Tanto per dire: interi campi minati dell'Iraq hanno quel marchio di fabbrica. Io stesso ho visto nell'Ogaden i moncherini di bambini saltati su quelle mine, vendute imparzialmente a Etiopia e Somalia per una delle tante guerre africane. Sapeva il Re da dove venivano certi suoi proventi?

Agnelli. 2

Poiché cerco di essere un cristiano, è per me di conforto sapere che Giovanni Agnelli ha ricevuto quelli che vengono definiti «gli ultimi sacramenti». Mi conforta meno, anzi mi è di scandalo, che questi sacramenti gli siano stati portati da un cardinale, accorso nella notte.

Un episodio del genere ricorda davvero i costumi regali di altri tempi per i quali non bastava un semplice prete al capezzale del monarca agonizzante, c'era apposta un Grande Penitenziere.

Penso a una tetra statistica la quale dice che fra i cassintegrati e i pre pensionati la percentuale dei suicidi è tre volte più alta di quella dei coetanei. Chissà se l'arcivescovo di Torino è andato al funerale di uno di quei miseri. Non era amico personale loro - e di Agnelli sì? Non mi sembra domanda di poco conto.

Trovo nella Lettera detta di San Giacomo: «Se adempite il più importante dei comandamenti («Amerai il prossimo tuo come te stesso»), fate bene. Ma se fate distinzione di persone, commettete un peccato».

Agnelli. 3

Nell'eccesso veneratorio della maggior parte dei giornalisti, i due Giovanni Agnelli (nonno e nipote) e il loro uomo di fiducia (per il primo) e maestro (per il secondo) ingegner Valletta, sembrano essere stati gli edificatori della Fiat, questo unico esempio italiano di Grande Industria.

Ancora una volta, a questo modo, si costruisce una storia che ricorda soltanto i re, non (o non anche) i loro soldati, i loro intellettuali, i faticatori e le faticatrici senza galloniŠ

C'è in questo silenzio sui lavoratori una più o meno consapevole faziosità. I due italiani più intelligenti del secolo XX, Piero Gobetti e Antonio Gramsci, lo videro con chiarezza: il «miracolo Fiat» fu reso possibile dal fatto che l'«autocrazia eroica» di Giovanni Agnelli senior, generò, a risposta, un forte movimento operaio, in cui il concetto di «classe» si legò imprevedibilmente all'orgoglio di essere parti di un'azienda all'avanguardia tecnologica: e perciò non rotelle di un immenso ingranaggio ma consapevoli produttori di «capolavori».

(E' interessante ricordare che «capolavoro» fu il nome dato dagli operai al pezzo che, al momento dell'assunzione, dovevano rifinire per provare la propria capacità).

Questo tipo di lavoratore, che non esitò a prendere le armi, nel 1945, per difendere gli impianti della fabbrica dalle velleità demolitorie dei nazisti in fuga, oggi forse non esiste più, soprattutto a causa di una parcellizzazione del lavoro che gli rende ignota la funzione e la destinazione del «suo» prodotto.

Ma non bisogna dimenticarlo, altrimenti si tradisce la storia del Paese: esistette nelle grandi fabbriche, sino alla fine degli anni '70, una vera «aristocrazia proletaria», che ebbe grande influsso sulla cultura del Paese: nel sindacato, certamente, e persino del Parlamento, in cui non pochi di quei lavoratori entrarono portati dal PCI; ma anche, persino nell'Azione cattolica e in altri movimenti ecclesiali.

Le lunghissime file di anziani nelle brume invernali del Lingotto, davanti alla camera ardente dell'Avvocato, erano composte certamente da molti nostalgici di quel passato.

Figli

Vi ho parlato nei mesi scorsi della miseria argentina e della denutrizione di vaste masse infantili. Ho scritto su LETTERA che, se qualcuno credeva di poter dare aiuto, io avrei cercato di aprire un canale sicuro. Subito mi sono arrivati i primi euro. All'elenco che ho fornito su LETTERA di dicembre, aggiungo ora alcuni nomi e un nuovo importo: Coniugi Zerbino, Lorenzo Mittempergher. Claudio Brambilla, famiglia Malagola e amici, Katucha Polvani e amici, complessivamente euro 2,250. Da aggiungere ai 1750 euro già raccolti. Dunque, a tutt'oggi, euro 4000.

Mi dispiace molto che non abbiate potuto sentire le esclamazioni di gioia dei nostri corrispondenti quando, l'altro giorno, mi hanno telefonato. Essi (ve ne parlo subito dopo) hanno aperto un «merendero» nel più povero quartiere di Buenos Aires, San Telmo. Ci hanno provato, mi dicono, spinti dall'inquietudine davanti a situazioni dolorosissime: ma convinti di poter fare poco - e per poco. A San Telmo esistono alcune mense popolari ma sono chiuse la domenica e questo significa che vi sono bambini, tanti, che la domenica rimangono digiuni.

Il merendero cerca di supplire a questa tragedia: «Sinora i bambini erano cinquanta, adesso grazie a voi, ne accettiamo settanta. Li facciamo giocare e diamo loro latte e cioccolata». Il latte, alimento di prima necessità per i bambini, è fra i generi alimentari il cui prezzo si è raddoppiato in pochi mesi.

I ragazzi che tengono aperto il merendero di San Telmo (che non ricevono altri aiuti «esterni» che il nostro e che oggi dal nostro si sentono straordinariamente rafforzati) sono gli «Hijos». «Hijos», come molti sanno, significa figli, in lingua castigliana, Ma l'associazione che porta questo nome è fra le più singolari che esistano nel mondo.

Raggruppa un po' meno di cento ragazzi, figli di desaparecidos: nati da qualcuna delle circa cinquecento ragazze che hanno partorito mentre erano prigioniere nelle orrende carceri dei militari. Appena venuti al mondo, i bambini sono stati separati dalle madri e consegnati (alcuni «venduti» nel senso esatto della parola) a coppie sterili.

Molte di quelle coppie erano formate da militari, alcune addirittura dai peggiori carnefici. Così mentre le madri e i padri sparivano in cimiteri clandestini o venivano gettati in mare da aerei militari, i piccini crescevano nelle braccia dei loro assassini.

L'infaticabile eroismo della Nonne (Abuelas) di Piazza di Maggio ha concesso loro di recuperare, in tanti anni di ricerca, quasi un centinaio di questi ragazzi, che hanno dovuto affrontare il trauma della loro vera storia: e hijos e hijas, quasi per stringersi in un abbraccio che riconoscesse la loro tragedia e li fortificasse per il futuro, hanno dato vita alla loro associazione.

Molte delle loro attività sono politiche: vogliono mantenere vivo il ricordo di ciò che fu e che potrebbe tornare; mi pare bellissimo che accanto a questa coraggiosa e dura testimonianza, ci sia anche quella della tenerezza per bambini in diverso modo colpiti dal destino.

Ho detto a Hijos che noi (tanto meno io) non garantiamo niente; che non è istituita una rete, che non c'è alcun impegno fisso da parte dei sottoscrittori. Mi hanno risposto che sono egualmente contenti e che il futuro è sempre imprevedibile.

Peacelink

Siamo (penso, spero) in moltissimi ad apprezzare il prezioso servizio che Peacelink, agenzia online, compie da più di dieci anni nei confronti della democrazia e del movimento ecopacifista. Siamo perciò (penso, spero) in molti a sentire di doverle esprimere solidarietà attiva mentre viene aggredita da una causa legale che potrebbe portare al suo strangolamento.

Peacelink, infatti, è stata citata per danni da un professore universitario che ha richiesto 50.000 euro di risarcimento per i gravi danni professionali che avrebbe ricevuto dalla pubblicazione nel sito dell'associazione di un appello ambientalista già diffuso su altri siti. La pubblicazione era avvenuta il 10 febbraio 2000. Peacelink aveva riprodotto il testo completo, compreso l'elenco dei firmatari, di un «Manifesto per un forum ambientalista», pubblicato sul sito web di un partito nazionale.

Tra i firmatari di quel «Manifesto» compariva anche il nome di una persona che, quasi tre anni più tardi (nel novembre 2002), dichiarava di non aver mai sottoscritto quel testo, di non condividerne il contenuto e di avere subito per quell'attribuzione gravi danni professionali. Citava perciò in giudizio l'Associazione di volontariato.

Subito Peacelink dimostrava la sua completa buona fede, dichiarava il suo rammarico e offriva la sua disponibilità ad ospitare una rettifica che desse piena soddisfazione al denunciante. L'offerta di un'adeguata rettifica non è stata presa in considerazione e la prima udienza in tribunale è fissata per il 18 febbraio p.v.

Nella citazione in giudizio il querelante così si descrive: «Personalità' nota tra gli ambientalisti per la sua autorevolezza, rappresentatività e indipendenza, (...) che da anni intrattiene rapporti culturali e soprattutto professionali con gli Stati Uniti, con le sue agenzie federali come la NASA, ed e' consulente della NATO per le questioni ambientali, figurando tra i partners scientifici della 'Commettee on the Challenges of Modern Society ed avendo svolto per la NATO medesima missioni e studi».

A causa di questa inedita azione legale rischia di morire una voce libera del movimento per la pace, che si batte per la salvaguardia ambientale e per la difesa dei diritti umani. Di più: la vicenda rischia di creare un pericoloso precedente per tutti i siti web. Infatti, se Peacelink dovesse essere condannata, tutti i siti web di informazione sociale sarebbero in grave pericolo perché verrebbero loro imposti un irrealizzabile principio di controllo totale dei testi e un'impossibile verifica di ogni parola, di ogni nome e cognome dei tanti appelli che circolano in rete: e a rischio sarebbero anche tutti gli utenti di posta elettronica che fanno circolare appelli di altri.

In questo frangente Peacelink chiede un gesto di solidarietà alla società civile, alle associazioni, a tutti i giornalisti e gli operatori dell'informazione che per più di dieci anni hanno collaborato o tratto beneficio dai servizi gratuiti offerti dall'associazione e dalla produzione ininterrotta di informazioni e documenti per una cultura di pace.

All'indirizzo http://www.peacelink.it/emergenza e' possibile sottoscrivere una dichiarazione dal testo molto semplice: «Esprimo pubblicamente la mia solidarietà nei confronti dell'As-sociazione Peacelink e dei suoi volontari, che ritengo ingiustamente e pesantemente penalizzati dall'azione legale attualmente intrapresa contro di loro. Mi impegno a fare quanto è in mio potere affinché questa voce telematica indipendente e nonviolenta non sia oscurata».

I messaggi di solidarietà possono essere inviati anche:

via posta elettronica all'indirizzo info@peacelink.it

tramite fax al numero 1782279059

per lettera a Peacelink - C.P. 2009 - 74100 Taranto.

E noi?

«Si preannuncia imminente un'impegnativa azione legale per l'affermazione del diritto di cronaca e in difesa della libertà di informazione. In questo momento difficile i volontari di Peacelink contano di ricevere il sostegno di tanti compagni di strada, amici che in questi anni hanno collaborato con noi, ci hanno ospitato sulle loro riviste e sui loro siti web, hanno utilizzato i nostri documenti nelle scuole, nei sindacati, nelle associazioni, nelle parrocchie, nei centri sociali. Assieme a tutte le persone che hanno camminato con noi, e che ogni mese affollano il nostro sito con un milione di contatti e di abbracci telematici, sappiamo di poter andare avanti per affermare ciò che e' giusto con la forza della nonviolenza. Ci affidiamo alla generosità di tutti coloro che vorranno contribuire anche con una piccola somma alle nostre spese legali, e se l'azione contro di noi verrà ritirata ci impegniamo a destinare i fondi raccolti ad iniziative di solidarietà per dare voce a chi non ha voce e per dare sostegno a chi rischia di essere soffocato dalla prepotenza, dagli abusi e dalla violenza».

Per sostenere il diritto all'esistenza di Peacelink l'associazione suggerisce di:

1 - Diffondere questo messaggio a tutti i propri contatti telematici. E' il gesto più importante, perché il sostegno dell'opinione pubblica sarà determinante per la difesa.2 - Esprimere solidarietà all'Associazione Peacelink aderendo all'appello pubblicato sul sito

http://www.peacelink.it/emergenza.E' un semplice "abbraccio elettronico" per farci capire che non siamo soli».

3 - Contribuire alle spese legali con un libero versamento sul ccp 13403746 intestato ad Associazione Peacelink - via Galuppi 15 ­ 74010 Statte (Taranto).

I volontari di Peacelink notano a questo riguardo: «Da dieci anni operiamo nello spirito del volontariato puro, senza alcuna retribuzione, e rifiutiamo sponsorizzazioni delle aziende e finanziamenti dai partiti o dalle istituzioni, per garantire al nostro sito libertà e indipendenza. La vita della nostra associazione dipende dai contributi che i cittadini di buona volontà inviano sul nostro conto corrente postale».

Spero che molti dei lettori e delle lettrici di questo foglio si facciano parte attiva di una vicenda in cui un uomo di potere maramaldeggia su una piccola associazione pacifica e nonviolenta. Quanto a me, ho già mandato a Peacelink la mia piena solidarietà e un doveroso piccolo contributo alle spese legali.

Jesus

Penso che a qualcuno interesserà sapere che dal corrente mese comincio una rubrica su JESUS, il mensile della San Paolo. Al di là della copertina patinata che urta molte suscettibilità (e un po' anche la mia) vi garantisco che è un giornale molto intelligente e molto coraggioso.

Un caro saluto.

Ettore Masina

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751 - 3.2.2003