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il Rimino - Riministoria

La prima «Casa del Popolo» fu cattolica
Una storia ideale di quella «rossa» di Riccione, 1945

Le trecento pagine che Rodolfo Francesconi, con la collaborazione di Daniele Montebelli e di Ezio Venturi, ha dedicato alla storia della «Casa del Popolo» di Riccione (ed. Raffaelli, s.i.p.), sono un ampio racconto che riguarda anche la vita riminese. Infatti, come è qui riportato (p. 79) da uno scritto di Giuseppe Bùccari apparso nel 1973, la prima istituzione con il nome di «Casa del Popolo» a sorgere nella nostra zona, fu quella riminese, di ispirazione cattolica: essa esisteva già nell’ottobre 1908, nel vicolo Battaglini, per iniziativa di monsignor Ugo Maccolini, parroco dei Servi, la cui sorella aveva fondato l’annesso «Ricovero delle Vecchie Abbandonate».
Il clima politico degli anni successivi è documentato anche da una citazione dal settimanale cattolico cittadino «L’Ausa» dell’8 dicembre 1919, dove si legge: «I socialisti sono degenerati coi quali bisogna tornare al medioevo ed instaurare la legge del taglione. I cannibali rossi hanno l’istinto della belva, dicono di non volere le guerre e sono assetati di sangue. Vogliono la peggiore delle guerre: la guerra civile».
Bùccari (1895-1981) fondò a Rimini nel 1923 lo Scoutismo, pagandone le conseguenze politiche con la galera tre anni dopo, come si legge nella scheda biografica in calce al volume, dove si riprende un articolo del «Ponte» composto da don Romano Nicolini. Tra le altre schede biografiche di personaggi locali ricordiamo quelle di Giuseppe Babbi, Amilcare Cipriani, Gaetano Facchinetti, Demetrio Francesconi, Giuseppe Giulietti, Rino Molari, don Giovanni Montali, Felice Pullè, Gianni Quondamatteo, Igino Righetti.
Il volume di Francesconi nella prima parte ricostruisce il processo storico che ha portato alla nascita delle «Case del Popolo» in Europa, prendendo le mosse dal governo rivoluzionario della Comune di Parigi (1871). Segue la descrizione della realtà politica e sociale del territorio romagnolo e riminese tra fine Ottocento ed inizio Novecento, con particolare attenzione allo sviluppo del fascismo.
Ed a questo proposito, è ricordata la figura del riccionese Igino Righetti che nel 1921 diventa segretario dell’Università Popolare di Rimini e che ne pubblica poi il bollettino mensile «Ariminum»: egli nel periodo 1925-34 fu poi presidente nazionale della Fuci. Scrive al riguardo Francesconi: «Ci preme osservare che quest’uomo (amico di G. B. Montini, il futuro Papa Paolo VI), fu uno dei pochi cattolici di prestigio, oltre a Giuseppe Babbi, sindacalista bianco e presidente del Circolo Giovanile Cattolico Operaio di Rimini, oppositori al fascismo».
A proposito della violenza squadristica, si ricorda anche l’uccisione del parroco di Argenta don Giovanni Minzoni, di cui troviamo un’ampia biografia tra le schede conclusive. Circa il periodo che Francesconi chiama dell’«assestamento fascista» (Riccione nasce come Comune autonomo il 19 ottobre 1922, poco prima della Marcia su Roma del 28 ottobre), in particolare per la vicenda Matteotti, è ricordato il pensiero controcorrente di Igino Righetti, i cui articoli sull’«Ausa» segnalavano come la violenza politica di chi era al governo non potesse essere giustificata in alcun modo né dalle ragioni di Stato né dai «diritti di una rivoluzione».
Nel 1929 a Riccione è inaugurata il 14 agosto la Casa del Fascio, alla presenza della «fiorente giovinezza» di Edda Mussolini, come scrisse «Il Popolo di Romagna». Essa sorgeva in un fabbricato del commendator Gaetano Ceschina che l’anno prima lo stesso quotidiano aveva bollato quale accaparratore ed incettatore di arenili. Ceschina aveva aperto una sottoscrizione per la Casa del Fascio. Da nemico era diventato immediatamente amico. Scrisse «Il Popolo di Romagna» che il ricevimento offerto dal commendatore negli splendidi saloni del Grand Hotel, fu «regale».
Nel terribile periodo del passaggio del fronte, avviene la vicenda della fuga di don Montali e dell’omicidio dei suoi due fratelli: se ne parla sia nel testo sia nella ricordata scheda biografica del parroco di San Lorenzo in Strada.
Conclusa la guerra, nella fase della ricostruzione, troviamo infine la cronaca della «Casa del Popolo» di Riccione sorta spontaneamente nel 1945, dopo la nascita (ottobre 1944) della «Cooperativa di Consumo», ma costituitasi soltanto nel 1951. Il bel volume di Francesconi ne spiega le antiche ragioni ideali che segnarono comunque anche la Storia di chi non le condivideva .


Nella voce «Quondamatteo, Gianni», circa un terzo del testo è ripreso da un mio articolo, non citato. Riproduco la parte «copiata».

«Nel 1962, pubblica tutte le poesie di Giustiniano Villa, assieme a Luigi Pasquini: due scrittori tanto diversi per le loro idee, si ritrovano uniti da un interesse culturale ed umano, per studiare e riproporre un mondo definitivamente scomparso, che però rivive nella dignità del dialetto, in cui è testimoniato vivacemente il mondo contadino ritratto da quelle zirudele.
Nel '60, sempre con Pasquini, aveva curato presso Garzanti i «Mangiari di Romagna», avendo come collaboratore anche Marcello Caminiti (direttore dell'Ente provinciale per il turismo di Forlì). «Mangiari» gustosi non soltanto per le ricette, ma soprattutto per la sapienza letteraria con cui esse venivano presentate, a far il quadro di una civiltà del cibo che era pure storia di una terra.
Negli anni successivi, assieme ad altri studiosi locali, si dedica ad un'intensa indagine sulla cultura e sul dialetto che poi condensa in una serie di volumi importanti e fortunati: «Tremila modi di dire dialettali in Romagna», «Dizionario romagnolo ragionato» in due volumi, «Romagna civiltà» (anch'esso in due parti, Cultura contadina e marinara, e Dialetti, grammatica e dizionario), «Cento anni di poesia dialettale romagnola» (assieme a Giuseppe Bellosi), «E Viaz», racconti e fiabe della nostra terra.
Il contributo dato da Gianni Quondamatteo agli studi romagnoli resterà un punto fermo per ogni ulteriore approfondimento. La sua idea di scavare attorno alle parole, per trovare in esse le testimonianze della vita e della storia, non era frutto di una divagazione o di un rimpianto del tempo passato, ma della volontà di offrire una testimonianza del mondo e della società come costruzione fatta da tutti gli uomini, anche i più umili. C'era il desiderio di far rivivere attraverso il dialetto tante storie di «vinti» che avevano visto la vita troppo spesso come sofferenza e sopraffazione. Non era un discorso soltanto politico, ma soprattutto umano.
Per lavorare ai suoi libri, si ritirava sovente in campagna, dove suo fratello Curzio lo raggiungeva in bicicletta: «Lo e scriv, e me a i faz da magné». Lui scrive, e io gli preparo il mangiare, diceva Curzio che, dopo averlo seguito con tanta amorevole cura in vita, lo ha preceduto nella morte, di pochi mesi.»[Il Ponte, n. 5, 2.2.1992]
Inoltre, nella biografia di don Montali non appare nessun riferimento al volume su di lui edito dal Ponte e curato dal sottoscritto.

Antonio Montanari


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884/Riministoria-il Rimino/14.12.2003
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