La fonte

 

 

 

Aveva mani delicate. Lunghe, magre, con la pelle sottile, quasi trasparente. Amavo guardarle e seguire quelle linee azzurre che in alcuni punti s’erano gonfiate come ruscelli costretti a sormontare sassi ingombranti. Osservavo quei filamenti blu, quasi viola scorrere incessanti lungo linee che solo un bravo studente in anatomia o un esperto pittore avrebbe saputo disegnarne il percorso. Le accarezzavo per fissare nella mia memoria di tredicenne un dettaglio. Temevo che di lì a poco un Destino implacabile, sordo alle mie preghiere mi avrebbe privata di quel piacere. Non chiedevo altro: toccare quelle mani e consolarmi sentendo come quel contatto bastasse ad avvolgerle in un tepore insperato. Allora lei le girava a palmo in su e con una voce gentile, dolce come il pane che divideva con me per merenda nei pomeriggi d’estate, mi diceva: “Vedi? Sto per arrivare al capolinea. Non manca molto.” Poi fissava il soffitto della stanza e sorridendo, aggiungeva: “Non ti rattristare. Non sarà doloroso...” Io guardavo e cercavo ostinata quella linea, quella croce, quel balzo nel vuoto che avrebbe dovuto indicare la sua discesa. Ma non la trovavo. Scuotevo quella mano dimenticandone la fragilità, la delicatezza e quasi con rabbia le rispondevo: “Ti sbagli, ti sbagli. Qui non c’è nessun capolinea, nessuna brusca interruzione. Tu vivrai ancora a lungo, altri cento, mille anni!” E poi esausta affondavo la testa sulla trapunta a fiori che copriva impietosita un corpo stanco di lottare.

Il medico, un pomeriggio dell’anno precedente, aveva chiamato mia madre e mio padre nel suo studio in ospedale, facendomi un cenno di restare di là nella stanza insieme a lei. Ma quando i miei uscirono da quella porta, ignorarono completamente il percorso che li riportava ai nostri volti pieni d’interrogativi. L’avevo guardata e sorridendole le dissi che avrei fatto ritorno in un attimo. Lei fiduciosa mi lasciò andare. Corsi in cerca di quelle schiene così familiari e le trovai davanti alla toilette. Stavano piangendo silenziosamente. Immemore del luogo, urlai in preda alla  disperazione: “Cosa c’è? Cosa è successo? Che vi ha detto il dottore?” Si fermarono un momento. E per un istante sembrò che pure tutti gli altri rumori cessassero: il vociare confuso che proveniva dalle altre stanze; lo sbattere delle stoviglie in fondo al corridoio che annunciava l’ora della cena; il ruvido fruscio dei camici delle infermiere costrette ogni giorno ad incrociare sagome intrise di dolore. Mio padre mi guardò. Aveva gli occhi rossi, velati dalle lacrime. Tentò di parlarmi riuscendo solo a pronunciare l’inizio della frase: “Tua sorella…” perché venne travolto nuovamente da un pianto inconsolabile. Mia madre lo abbracciò e solo dopo riuscì a dare un significato a quella sofferenza: “Tua sorella ha una grave malattia. Dobbiamo starle tutti molto vicini. Soprattutto tu devi promettermi che non la farai arrabbiare.” Mi sentii improvvisamente sola nel bel mezzo di un terremoto. Tutto tremava intorno a me. Sotto, sopra, dietro, davanti. Allargai le braccia perché mi sembrava che di fronte ai miei piedi si fosse aperta una voragine. Un buco enorme pronto a risucchiarmi all’insaputa dei miei, di mia sorella, delle mie amiche, della borsetta col telefonino spento che giaceva di là ai piedi del letto. Richiusosi il buco, respirai a fondo e guardandomi in giro mi accorsi, con un senso di ritrovata stabilità, che la scena era rimasta esattamente come prima. Bastò quello per sentirmi pervasa da un insolito ottimismo, così chiesi ai miei: “Ma perché vi disperate in quel modo? Questo è un ospedale. Qui ci sono tanti medici…” Mio padre allora finalmente trovò la forza di parlare e disse: “Silvia, è stato quel professore, il migliore che ci sia nel nostro Paese, a dirci che purtroppo ci restano pochissime speranze. Hanno fatto tantissime analisi a tua sorella e…” Non riusciva proprio a pronunciare quelle parole. Era come firmare il certificato di morte di sua figlia. Allora intervenne nuovamente mia madre ed inginocchiandosi davanti a me, sussurrò al mio orecchio incredulo: “Dobbiamo fingere che sia tutto normale, che guarirà presto. Dobbiamo essere forti anche se non ci resta altro che sperare in un miracolo” Terminata quella frase sembrò che tutte le parole in essa contenute fossero più pesanti del piombo. Le lasciò cadere a terra, sul pavimento in linoleum verde, lo stesso dove gocce grosse di un dolore rumoroso si mescolavano ad altre che il tempo aveva asciugato. Guardai quei volti stravolti e pensai che sarebbe stato difficile vendere a mia sorella una bugia così scomoda. Attesi un paio di secondi e poi mi avviai alla stanza.

Cristina stava leggendo un libro. Era debole e rassegnata. Non sapeva che cosa aveva ma le era bastato stare in quel reparto quarantotto ore per capire. Stringeva in silenzio amicizie con ragazze e bambine completamente calve, dagli occhi grandi e le labbra screpolate. Si sfioravano con gli sguardi per non tradire lo stesso pensiero, la stessa paura: condannati a morire di leucemia. Eppure riuscii a sorprenderla con il mio sorriso, i miei occhi pieni di un’ingenua speranza. Era inutile fingere con lei. Sarebbe stato come tradirla due volte. Prima per opera di un destino crudele, adesso per il vile terrore di non riuscire a sostenere il suo sguardo. Le strinsi la mano dicendole: “Mamma e papà sono dovuti andare in segreteria all’ingresso. Il dottore ha detto che sei una ragazza troppo forte e troppo intelligente per soccombere ad una malattia del genere.” Lei mi guardò sgranando gli occhi spaventati. Non avevo pronunciato quella parola, perché era implicita. Così continuai: “Anche lei non è da meno. Il dottore ha detto che s’è insinuata nel tuo sangue un giorno in cui forse hai abbassato la guardia. Sì, ha detto proprio così. Ora sta a te cacciarla via. Loro s’impegnano ad aiutarti fornendoti le armi più sofisticate. Ma sei tu il comandante della truppa. Devi incitare le tue cellule sane a respingere gli invasori. Devi sussurrare a quelle cadute prigioniere di non dimenticare chi sono e anche fosse il loro ultimo tentativo, di rivoltarsi contro gli aguzzini!” Cristina si mise a sorridere per la prima volta da quando svenuta all’improvviso tra le braccia di mia madre e poi in preda a febbre e vomito incessanti, era stata ricoverata d’urgenza all’ospedale per finire in questo reparto dopo una serie lunghissima di esami. Mi disse: “Grazie Silvia. Sei stata davvero carina. Sono sicura che il dottore non c’entri nulla con questo fantomatico piano d’attacco alle cellule invasori e che mamma e papà siano di là a piangere. Ma va bene lo stesso. Ce la metterò tutta, sorellina, vedrai!” E sempre con lo stesso sorriso di prima si guardò intorno ed iniziò a salutare: “Ciao, come ti chiami? Io sono Cristina…” Piano piano quell’aria gelida d’attesa che s’era creata tra lei e loro, si stava sciogliendo nella certezza di una malattia in comune, di un percorso difficile d’affrontare. Malgrado il peso di quella diagnosi, adesso “il poter condividere”, rendeva tutto più leggero, più sopportabile.

Cristina aveva ancora i capelli lunghi, folti e biondi. Era bella ed ora che la malattia le stava mettendo i ferri ai polsi e alle caviglie per impedirle di spiegare le ali tra la gente, come era solita fare con il suo portamento da studentessa modello, da amica del cuore, sembrava non temere affatto quella sfida. Malgrado la dolcezza infinita che emanava il suo sguardo di sedicenne, difficilmente la scambiavi per una vittima arrendevole. Dopo il primo mese di ricovero aveva chiesto e ottenuto di trascorrere il maggior tempo possibile tra le pareti di casa sua. E qui aveva chiesto e ottenuto di non esser guardata e trattata come un’ammalata destinata a morire. Anche se le cure da una parte e la leucemia dall’altra, le toglievano ogni giorno di più energia, procurandole dolori alle ginocchia e alla testa, lei continuava a studiare, a utilizzare la  posta elettronica come strumento di interazione con professori e amici. Poi era arrivato l’autunno e siccome anche un banale raffreddore poteva essere letale, s’era dovuta rintanare nella sua stanza obbligandoci tutti a girare per casa bardati come chirurghi di carta. Eppure non smetteva di leggere, scrivere, ascoltare al telefono i lunghi racconti delle amiche affrante per un amore non corrisposto. Aveva una parola saggia per tutti noi. Mia madre e mio padre avevano smesso di piangere. Era lei a sostenere il nostro fragile ottimismo, facendoci ridere con le sue battute amene.

Solo quando iniziò a percepire che le corse improvvise di giorno o di notte al Pronto Soccorso per intervenire sull’ennesima complicazione ai polmoni, erano il segnale che di lì a poco non avrebbe fatto più ritorno nella sua cameretta, volle dedicarci lunghi momenti senza parole. In quei giorni nessuno più nella mia casa mangiava o dormiva. Camminavano tutti con il capo chino immerso in pensieri di morte. Si erano trasformati in tante ombre grigie sulle cui teste pendeva la certezza di un inganno. Un inganno chiamato Dio, Amore, Giustizia…Eppure bastava varcare quella porta per capire che si sbagliavano. Cristina era troppo bella per pensare che si sarebbe trasformata in un granello di polvere. Cristina era troppo buona per immaginare che un Dio pieno d’Amore fosse la mera invenzione di un antico scrivano. Cristina era mia sorella e per nulla al mondo avrei permesso a chicchessia di portarmela via. Corsi nella mia stanza in cerca di quel cofanetto dove tenevo tutti i miei gioielli. Poche cose in oro come un paio di anelli, un braccialetto, una collanina. Svuotai anche il mio salvadanaio. Da quando mi avevano regalato il cellulare ormai le mie paghette domenicali se ne andavano per il solo acquisto di schede telefoniche. Quello che sfilai dal buco furono una banconota da cinque euro e qualche spicciolo. “Meglio di niente”, pensai. Mi diressi alla porta per uscire augurandomi di non dover incrociare lo sguardo indagatore di mia madre. Nessun problema. Mia madre, come mio padre, ormai non mi vedeva più. Erano così assorti in quella marcia funebre che avrei potuto tingermi i capelli di blu o infilarmi una decina di piercing tra il naso e la bocca, tanto nessuno se ne sarebbe accorto.

Presi l’autobus che mi portava dall’altra parte della città. Non c’ero mai stata ma sapevo che loro vivevano accampati in quella zona. Quando scesi alla fermata impiegai un po’ prima di raggiungere a piedi quel pezzo di terra pieno di polvere, roulotte, mercedes infilate tra la biancheria stesa. Mi videro arrivare. Dapprima fui accolta da un gruppo di bambini scalzi e con le facce scure che mi toccavano quasi strappandomi il vestito. Volevano una caramella oppure qualche spicciolo. Poi mi venne incontro un muro fatto di cinque donne. Si assomigliavano tutte nella loro diseguaglianza. Avevano le facce abbronzate, i capelli tinti e raccolti. Le vesti ampie e colorate. Ridevano convinte che mi fossi persa. Ma quando riuscii a superare la prima barriera, quella dei bambini e raggiunsi le loro facce ambigue, la più vecchia, quella con le rughe profonde come fiumi sottomarini, aggrottò la fronte e spalancando le braccia impedì alle sue compagne di fare cerchio intorno a me. Le donne protestarono in una lingua che non capivo, però se ne andarono subito, seguite dai bambini lamentosi. Tenevo stretta la mia piccola borsa a tracolla sperando che quel magro bottino sarebbe stato sufficiente. Feci il gesto di aprirla per mostrare la mia offerta prima ancora di chiedere, quando lei me lo impedì sfiorandomi con la sua grande mano scura. Sentii un forte calore proprio all’altezza del polso che lei nemmeno toccò. La guardai in cerca di una spiegazione ma lei mi rispose silenziosa, continuando a fissare con i suoi occhi seri i miei, come se nel mio volto avesse riconosciuto una faccia antica. Infine parlò: “So perché sei qui. Tu la vuoi salvare.” Poi continuò: “Tanto tempo fa quando su questa terra c’erano montagne e foreste lei è morta tra le fauci di un orso. Io e te cacciavamo. Vi amavate moltissimo. Quando siamo rientrati hai capito dalle tracce di sangue che l’orso se l’era portata via. L’hai cercata giorno e notte e alla fine, dopo un lungo camminare, hai trovato solo lui. L’hai ucciso ma di lei non t’era rimasto che una ciocca di capelli. Sei tornato al fiume ed insieme abbiamo ballato e cantato tutta la notte finché il fuoco s’è spento. In quella notte di tanto tempo fa abbiamo fatto una promessa alla Luna, alle Stelle, al Fuoco, alla Terra. Io, sciamano di quella tribù, ti avrei aiutato a riportarla in vita.” Ero sconvolta. Nessuno sapeva del mio arrivo in quel campo di zingari ed ora questa vecchia, senza neppure leggermi la mano, diceva di conoscere il motivo della mia visita. La storia sugli orsi, le montagne e le foreste mi sembrava fin troppo improbabile. Troppo piatto era quell’orizzonte per indicarmi anche solo lontanamente la presenza di un paesaggio così diverso. Lei sembrò leggermi nel pensiero perché subito mi riprese: “E’ difficile ricordare. Ma tu non sei qui per caso. Hai seguito un impulso che proveniva da lontano. Hai raccolto tutto quello che possedevi nella tua giovane vita per venire qui da me, la vecchia zingara che legge il futuro e scaccia il malocchio, a comprare una speranza.” Pronunciò quest’ultima parola quasi seguendo le note di una cantilena. E anche se ora le sue labbra sottili erano serrate, sentivo crescere quella melodia come un cobra che si risveglia al suono dolce del flauto incantatore. Infine aggiunse: “Quando vide arrivare l’orso, lei fuggì nella radura. Voleva allontanarlo dal fiume dove le altre donne insieme ai loro piccoli, stavano lavando le pelli. Ma inciampò su un tronco nascosto tra l’erba, battendo la testa su una pietra appuntita. In quegli istanti lei ti sognò. E nel sogno ti chiamò implorando il tuo aiuto. Ma tu eri lontano, che attendevi silenzioso di colpire un’altra preda. L’orso arrivò su di lei l’attimo in cui si risvegliò e tentò di scappare. Sentì il dolore acuto degli artigli che affondavano nelle sue deboli spalle. Morì lasciando te afflitto da un grande rimorso. Ecco perché è tornata in questa vita: per dare finalmente alla tua anima la possibilità di rimarginare quella ferita, di dimostrarle il tuo amore aiutandola nel difficile passaggio…”

Per quanto inverosimili suonassero quella parole, attesi prima di parlare e poi dissi: “ Non ricordo nulla, come dici tu, di una vita trascorsa tra montagne e foreste. Non so nemmeno come sia possibile. Io…io non ci credo. Però sì, hai indovinato. Io sono qui per cercare di salvare mia sorella. Un anno fa le hanno diagnosticato una malattia molto grave: leucemia. Nemmeno il trapianto di midollo è servito a sconfiggerla. Da alcuni giorni è immersa in un sonno profondo. E’ debole, molto debole e credo non ce la faccia più…” Scoppiai a piangere per la prima volta da quando quel giorno in ospedale avevo visto i miei abbattersi in un mare di lacrime. Avevo giurato a me stessa che sarei stata più forte di loro. Ma ora faticavo a trattenere quel dolore. Sentivo riaffiorare tutta l’impotenza del mio essere di fronte ad un destino che sfuggiva al mio controllo. Lei aspettò e poi mi disse: “Ascoltami. Vai alla “fonte della vita” e riempi questo.” Dall’ampia gonna a fiori sgargianti tirò fuori un sacchetto in pelle scura. Era simile ad una borraccia, ma non ne aveva la rigidità. Me lo porse così potei notare che la chiusura era costituita da una piccola zanna. Guardai la zingara e dissi: “Devo riempirlo e darle da bere con questo?” Lei annuì in silenzio. Allora continuai: “Ma tu sei pazza! Mia sorella può bere solo da contenitori assolutamente sterili. Chissà questo a chi è appartenuto e quante bocche ha abbeverato!” Glielo stavo restituendo quando la sua mano calda respinse la mia e lei con voce ferma rispose: “E’ tuo! Te l’ha confezionato lei con le sue stesse mani. Non aspettare. Corri alla fonte e falle bere quell’acqua.” Non avevo alternative. Allora chiesi: “Ma dove si trova questa fonte?” Lei guardando oltre la mia spalla, rispose: “E’ sempre stata lì. La troverai perché sta scritto nel tuo cammino” Terminata la frase mi girò la schiena senza nemmeno salutarmi. Camminava lenta in direzione delle roulotte alzando ad ogni passo nugoli di polvere. Rimasi ferma per qualche istante fissandole la lunga treccia. Ma durò poco perché prima ancora che quelle vesti colorate si confondessero con le altre, lei era sparita. Al suo posto si sollevò un piccolo vortice di aria, terra e sassolini. Ma della zingara non c’era più traccia. Ebbi un sussulto. Mi chiesi persino se quello non fosse stato nient’altro che un sogno. Eppure il sacchetto era ancora tra le mie mani. Pensai a mia sorella morente sul suo letto.

Corsi alla fermata dell’autobus. Rimasi incollata al finestrino lungo tutto il tragitto sperando invano di individuare una fontana ma vidi solo marciapiedi, altre strade, muri, siepi e macchine parcheggiate. Scesi dall’autobus già in preda allo sconforto quando sentii giungere alle mie spalle un fischio seguito da un paio di voci maschili che urlavano: “Dai, spegni!” Erano gli operai di un cantiere edile che sorgeva a pochi metri da casa mia da oltre un anno. Il cartello fuori diceva che avrebbero costruito un albergo a cinque stelle, con piscina, palestra, centro congressi, negozi ed un ampio parcheggio. Ciò che non diceva e che veniva riportato sui giornali locali quasi ogni settimana era il continuo ritrovamento di reperti archeologici di una certa importanza. All’inizio erano solo resti di cinte murarie che risalivano al IV secolo d.C., forse appartenute ad un villaggio di ex-legionari romani fermatisi qui nel Nord-Est, ma poi, continuando a scavare , erano riaffiorati alla luce alcuni oggetti in pietra levigati che facevano pensare ad un periodo di gran lunga antecedente a quello romano. Gli ultimi ritrovamenti erano ancora al vaglio degli esperti. Al capo cantiere era stato dato il permesso di proseguire i lavori su un’altra ala del terreno, con l’ordine d’interromperli all’istante in caso di nuove scoperte. “Naturalmente se non ci fosse stato quel maledetto ficcanaso di tecnico inviato dalla Sovrintendenza alle Belle Arti e Beni Conservativi” - come spesso commentava il nostro giornalaio – “le ruspe avrebbero stravolto quei pezzi di pietra e di muro fin dai primi giorni, magari consegnando l’albergo bello e fatto entro i tempi stabiliti.”

Il cancello era socchiuso. Mi avvicinai incuriosita perché le voci concitate non s’erano fermate. Appena infilai la testa vidi davanti a me un cantiere così grande che sembrava un campo da calcio. Non feci in tempo ad esclamare: “Madonna, ma è enorme!”, che un operaio, appoggiato alla parete di un container, mi disse: “Ehi! Che ci fai qui? Lo sai che non puoi entrare?” Lo guardai ma non riuscii a rispondergli. Allora staccandosi da quella parete, s’incamminò verso di me: “Ragazzina, hai capito?” Qualcosa però m’impediva di muovermi. Lui insistette: “Ehi? Che ti succede? Hai perso la lingua?” In quel momento un altro operaio, alle sue spalle, a qualche metro di distanza da noi, a bordo di un escavatore, lo stava chiamando: “Bruno! Bruno! Telefona al capo. Qui l’acqua continua ad uscire!” E lui, urlando: “E’ dell’acquedotto?” “No! Ha detto Mario che forse è una falda. Ma che non c’era sulle piante. Chiama il capo, questa non riusciamo a chiuderla!” Poi rivolto a me: “Senti ragazzina qui non c’è posto per te. Devo correre in ufficio” E lasciandomi sola, immerso nei suoi pensieri, si diresse verso il container. Avevo scarpe in tela chiare. Il terreno in alcuni punti era sconnesso e fangoso. Cercai comunque di affrettare il passo indirizzandomi direttamente dove ora un capannello di operai si era riunito intorno al buco fatto dall’escavatore. Erano talmente impegnati a guardare al suo interno, che nessuno si accorse del mio arrivo. Mi accostai e vidi una cosa meravigliosa. Da una fossa circolare piuttosto grande usciva, prima scura e poi sempre più chiara, tantissima acqua. Gli operai guardandola ridevano. Qualcuno s’era inginocchiato e l’aveva toccata. Intanto il flusso diventava sempre più forte e l’acqua sempre più limpida. L’uomo la toccò nuovamente e poi la portò alle labbra, dicendo: “Ma è buonissima! È dolce!” Un altro, imitando il suo gesto, prima si bagnò le mani, poi le braccia fino al gomito ed infine cercò di berla direttamente. Pure lui, alzandosi, disse: “Mai bevuta un’acqua così buona! È più buona del Vin santo!” E tutti giù a ridere. Allora m’inginocchiai. Tolsi quella specie di zanna che tappava il sacchetto e allungai la mano sulla sorgente per riempirlo. Invece di venir respinta o accolta da esclamazioni di stupore, gli operai continuarono ad ignorarmi. Uscii dal cantiere stando solamente attenta a non perdere quel sacchetto. Non avevo idea di come fossero ridotte scarpe e vestito. Ciò che m’importava adesso era raggiungere al più presto mia sorella.

Arrivata a casa trovai anche qui la porta socchiusa. Alcune persone, forse parenti o amici di famiglia, affollavano il corridoio mormorando parole sommesse al mio passaggio. Non ci feci caso. Andai diretta nella sua camera. Lei era stesa sul letto. Aveva la maschera dell’ossigeno e una flebo al braccio. Il medico era chino su di lei, mentre mia madre teneva gli occhi socchiusi seduta in un angolo. Spinsi il medico bruscamente da parte. Lui si girò e m’investì con uno sguardo pieno di rimprovero. Gli dissi in un sussurro: “Lasciatemi sola con mia sorella!” Lui prima di rispondermi guardò mia madre. Ma lei era troppo presa dal suo dolore per capire. Allora si rivolse a me: “Silvia non ti posso lasciare sola con lei. Se succede di nuovo devo intervenire subito, altrimenti la prossima crisi potrebbe soffocarla in modo letale” Ero consapevole che le sue parole suonavano sagge e veritiere. Ma io dovevo tentare. Così insistetti: “Dottore, la prego, mi aspetti oltre quella porta. Devo stare sola con lei. Mi basta un minuto” E lui, scuotendo la testa: “No, Silvia, non è possibile…” “Dottore! La lasci. È sua sorella ed ha chiesto solo un minuto. Andiamocene…” Era mia madre. Con mano ferma prese il dottore sotto braccio e senza aggiungere alcun commento, insieme si avviarono alla porta. Mi tremavano le mani, ma non ci badai. Mia sorella era immobile. Le tolsi la maschera dell’ossigeno e bisbigliando parole che solo un angelo poteva udire, appoggiai alle sue labbra socchiuse la borraccia. Usciva acqua dappertutto, dal sacchetto, dalla bocca. Le alzai leggermente la testa e continuai a versargliene in piccoli sorsi. Vidi che deglutì e questo mi rasserenò. Ma il sollievo durò pochi istanti perché Cristina iniziò a tossire, e tossì così forte che la porta si spalancò ed il medico in un balzo fu al mio fianco, pronto a siringare mia sorella al polmone destro. Lei gesticolò qualcosa con la mano mentre il medico con movimenti sicuri le inclinava il busto e le alzava la camicia sulle spalle. “Fermo!” urlai. “Cos’altro vuoi, Silvia? Far morire tua sorella soffocata?” Gli risposi furibonda: “Cristina vuol dire qualcosa!” Il medico era stanco e per un attimo sospese la siringa a mezz'aria. Aiutai mia sorella ad appoggiarsi al cuscino. Lei smise di tossire e con un debole sorriso indicò solo con lo sguardo la borraccia. Così dissi: “E’ questa che vuoi?” Lei annuì ma il medico mi strappò di mano quell’oggetto in pelle scura, dicendo: “E questo che diavolo è?” Una voce dolcissima intervenne, prima che quelle mani nervose ne facessero rovesciare il contenuto. Era Cristina: " Dottore, la prego, lo lasci. È mio. L’ho fatto tanto tempo fa.” A quelle parole sia io che il medico ci guardammo stupiti. Erano dieci giorni che mia sorella non parlava quasi più. Poi, rivolta a me: “Sorellina, grazie. Posso averne ancora un po’ di quell’acqua? È buonissima.” Presi dalle mani del dottore la piccola borraccia. Gliela appoggiai sulle labbra e lei bevve. Bevve quello che restava. Bevve fino all’ultima goccia. Bevve fino a che una nuova luce investì il suo bel volto, la sua testa glabra, il suo corpo emaciato.

La seppellimmo cinque giorni dopo. Ci furono tante persone al funerale. Così tante che il parroco dovette tenere le porte aperte della chiesa per permettere ad un gruppo numeroso di rom di assistere alle esequie. Cercai tra quella folla colorata un volto che ormai era entrato nella mia memoria. Lo cercai, ma inutilmente. La vecchia zingara non c’era.

Nessuno si chiese il perché della loro presenza e nessuno parlò di miracolo. Ma da quando mia sorella bevve quell’acqua fummo tutti contagiati dal suo nuovo sorriso. Era incredibilmente serena e in quelle ore che precedettero la sua partenza, come la chiamava lei, ci invitò ad uno ad uno al suo capezzale, rivolgendoci parole delicate come suoni d’arpa. Ci stava aiutando a ricordare qualcosa che avevamo dimenticato. Un qualcosa chiamato Speranza. Indicandoci con le sue dita sottili la tenda vicina al letto, ci diceva: “Vedi? Quando il mio Spirito lascerà questo corpo io sarò in mezzo a voi. Basterà alzare il velo per incontrarmi. Ma ti prego, non riempire il tuo cuore di lacrime altrimenti non riuscirai a sentirmi. Io ci sarò ogni volta che tu mi chiamerai.”

Al suo funerale ci sforzammo di non piangere e soprattutto di non soffermarci a lungo su quella bara. Non fu facile però ci provammo perché le avevamo fatto una promessa. Il nostro non sarebbe stato un addio pieno di sconforto ma il saluto di chi sa che parti, sicuro che farai ritorno.

Uscita dalla chiesa mi allontanai dai miei pensando a lei, come lei mi aveva insegnato a fare. E siccome dovevo solo immaginarla libera e felice, entrai dal giornalaio per acquistare la nostra rivista preferita, quella che parlava di musica e di nuove tendenze da teen-ager. Il giornalaio allora mi domandò: “Hai visto?” “No, cosa?” “La prima pagina del giornale, ci sta pure la foto. Guarda, è incredibile!” L’articolo del quotidiano locale diceva: “Sconvolgente scoperta: emerso durante gli scavi nel cantiere in Via Roma, cranio di animale risalente a circa diecimila anni fa. Si pensa appartenesse ad un orso ucciso da un cacciatore. Conficcata in una cavità oculare è stata ritrovata una freccia in selce. Lavori fermi fino a nuovo ordine”.