PREFAZIONE

 

    Con questo lavoro ci proponiamo di proseguire l’indagine sul pensiero ateistico a cui avevamo dato inizio con Ateismo filosofico nel mondo antico [1]. Non  sarà peraltro possibile darvi corso con continuità temporale, poiché la filosofia atea registra, con l’avvento vittorioso del Cristianesimo, un occultamento totale che durerà almeno quindici secoli. L’ateismo filosofico ricomparirà, pallidamente e con modalità criptiche, nel XVII secolo, dispiegandosi in piena luce solamente nel XVIII nella rinnovata temperie dei Lumi, pur rimanendo una visione del mondo del tutto minoritaria, in un contesto filosofico dominato dalla teologia (monoteista, deista e panteista. Abbiamo così dovuto operare un salto temporale di circa diciotto secoli per mettere in luce una sorta di abbraccio ideale dell’ateismo settecentesco con quello antico. Un abbraccio che, a ben vedere, non è stato altro che una ripresa di premesse già poste e sviluppate dall’atomismo antico, riportate in luce dal pensiero libertino e nutrite poi di razionalismo meccanicistico e deterministico. E nel clima della cultura filosofica dell’Età dei Lumi appare tutta la contraddittorietà dei due opposti indirizzi ontologici dell’atomismo: deterministico quello che si rifà a Democrito, indeterministico quello che fa riferimento ad Epicuro [2]. Lasciata in sospeso l’analisi dei periodi in cui la filosofia atea è stata assente [3], e di quelli in cui è apparso qualche timido aspetto prodromico [4] (e dei quali ci occuperemo a suo tempo), intendiamo qui evidenziare come il Settecento non sia solamente il secolo della rinascita di un pensiero ateo, ma anche quello di un rinnovamento della cultura in generale, e persino di quella cristiana. La stessa virulenza con la quale un integralismo cattolico revanscista, reso efficacemente dalla prosa di Chateaubriand, andrà all’attacco della cultura illuministica (e in specie del materialismo) è segno evidente di come una “restaurazione culturale” inizi già sotto Bonaparte, ed abbia accompagnato le operazioni tendenti ad annullare con un colpo di spugna i tratti più significativi dell’Illuminismo. E, se antedatiamo a Napoleone l’inizio della “reazione” lo facciamo a ragion veduta, sia perché proprio Il genio del Cristianesimo del nobile bretone aveva trovato nel Primo Console un convinto sostenitore e sia perché, appena incoronato, Napoleone si era preoccupato di stipulare un concordato con la Chiesa, per mostrare al mondo che il nuovo corso imperiale non aveva nulla a che fare con l’”anarchismo” culturale della Repubblica ed i suoi eccessi materialistici e anti-cristiani.

    Dal momento che gli unici filosofi atei del Settecento sono francesi, sarà opportuno porci da subito una domanda: «Perché la Francia?». Perché in Francia, uno dei paesi più religiosi d’Europa, ha potuto risorgere un ateismo che pareva sepolto nel lontano passato pagano della Grecia? Avanzeremo alcune ipotesi che cercheremo di verificare nel corso della nostra indagine, consapevoli che nei fatti umani cause concause siano spesso molteplici e poco chiare. Dal punto di vista strettamente filosofico due elementi appaiono importanti: il sensismo e il meccanicismo; di questo possiamo distinguere un indizio cartesiano (su basi metafisiche) ed uno newtoniano (su basi scientifiche). Dal punto di vista etico è importante l’onda lunga di un moralismo cinquecentesco e secentesco relativamente indipendente dalle trame convenzionali e tradizionali della precettistica cristiana, volto ad una ricerca tra i meandri inesplorati dell’animo umano che si rifaceva alla miglior cultura classica senza dimenticare Sant’Agostino. Sotto il profilo della cultura generale, i progressi scientifici e tecnologici spostano gli interessi culturali ed esistenziali dalla sfera del sacro a quella del profano, con un orizzonte conoscitivo del “fisico” che prende sempre più piede rispetto al “metafisico”. L’ateismo è al margine estremo di una rivolta ideale contro l’arroganza di un potere religioso che, parallelamente a quello aristocratico e di concerto con esso, vede una graduale erosione dei propri privilegi individuandone la causa in una montante incredulità e irreligiosità [5] di origine intellettuale e demonica che fa paura. In realtà è proprio questa paura che scatena la nuova psicotica aggressività di un potere che vuole continuare a dominare e controllare le anime così come il potere regale controlla i corpi. La croce e la spada, come sempre alleati nella storia, pagano nel Settecento francese lo scotto di una miopia e di un’arroganza ormai incompatibili con l’avanzata della cultura dei Lumi.

    Per quanto le nette periodizzazioni siano sempre discutibili e spesso forzate, proponiamo di assumere l’inizio dell’Illuminismo con la diffusione sul continente del Saggio sull’intelletto umano di Locke (1690), e la sua fine con la comparsa de Il genio del cristianesimo di Chateaubriand (18??). E se da Locke, un cristiano devoto, ha inizio la “nuova cultura” che renderà possibile la rinascita dell’ateismo, è evidente come non possiamo limitare la nostra analisi all’ateismo stesso, poiché dobbiamo vederlo nel più ampio panorama dell’Illuminismo nel suo insieme. Da ciò l’esigenza di anteporre un’adeguata trattazione del contesto generale da cui emerge. Nel presente lavoro prenderemo quindi in esame il pensiero dei più importanti pensatori non-atei dell’Illuminismo prima di occuparci di quello sparuto gruppo di coloro che si esprimeranno in termini ateistici e materialistici. Questi licenziano le loro opere perlopiù in un periodo che precede di molto l’avvento della Rivoluzione (Meslier muore nel 1729 e solo d’Holbach sopravvive sino al 1789); una rivoluzione della quale furono solo in parte profeti, mentre molte derive irrazionalistiche irromperanno presto a negarne le premesse, seguendo piuttosto le fantasie utopiche ed ideologiche di un Rousseau. Questi e Voltaire, entrambi deisti-teisti ed anti-atei, saranno i veri numi della Rivoluzione, insieme con la triade eroica Marat-Lepetelier-Chalier; senza dimenticare che deista era anche Robespierre, che di essa ne sarà il più importante protagonista negativo.

    Prima di passare all’esame del pensiero ateo del Settecento, ai fini di una sua adeguata contestualizzazione, dedicheremo quindi ampio spazio ad un studio sull’ambiente, sulla situazione e sugli eventi che gli fanno da fondale, Per realizzare ciò faremo riferimento alle opere di alcuni tra i più qualificati storici del Settecento francese e della Rivoluzione, poiché è entro la cornice transalpina che si concentrano i fatti più notevoli ai fini del nostro studio; sia in termini storico-sociologici, sia culturali, sia teologici. Per meglio cogliere le variabili del problema posto si renderà anche necessario fare qualche passo indietro al Seicento per cogliere quelle novità politiche, quei segnali sociali e quei prodromi culturali i quali, soprattutto in ambito britannico, diventeranno i motori del pensiero illuministico. Uno studio sull’età dei Lumi pone problemi di periodizzazione notevoli ed i fenomeni culturali e sociali presenti in un’area definita come quella francese si presentano molto complessi e problematici. Si aggiunga che la pur comprensibile enfatizzazione del contesto francese, in relazione all’enorme portata storica della Rivoluzione, finisce per mettere in ombra il contesto britannico, ancor più determinante per la cultura illuministica. Quello che già nel secolo precedente aveva visto grandi novità culturali con Bacone e Locke, ed una rivoluzione sociale assai importante, iniziata nel 1649, cui era seguita la proclamazione della repubblica e la decapitazione del re Carlo I Stuart.

    La rivoluzione inglese (la Gloriosa Rivoluzione), un secolo e mezzo prima di quella francese, aveva costituto il primo tentativo (riuscito) di delegittimare “l’elezione divina” di un monarca in un paese cristiano, e l’andata al potere di una classe politica “non-aristocratica” [6]. Essa aveva avuto un’importante componente religiosa (mentre quella francese avrà carattere laico e per molti versi antireligioso), finì in una dittatura, quella di Cromwell, caduta la quale sarà ripristinato un potere regio, ma costituzionale e quasi-democratico. Terminate le varie vicende dinastiche e le lotte tra cattolicesimo ed anglicanesimo, comparirà il primo regime monarchico relativamente democratico, e con l’andata al potere di Guglielmo III d’Orange, nel 1689, che accetterà di firmare il Bill of Right verrà sancita definitivamente una costituzione democratica. Non è un caso, quindi, se è in terra britannica che matureranno nella prima metà del700 grandi progressi scientifiche e tecnologiche ai quali si accompagnano innovativi principi civili e culturali che entreranno prima nei Paesi Bassi, quindi in Francia, e poi nel resto d’Europa. L’apporto alla filosofia moderna dei pensieri di Bacone, di Locke e di Newton è stato fondamentale per il superamento della teologia filosofale imperante nel600, espressa eminentemente con le metafisiche di Cartesio, di Spinoza e di Leibniz.

    Per quanto riguarda i vari sommovimenti evolutivi interessanti l’Europa tra il XVII e il XIX secolo prevalgono gli storici che collocano la fase più importante tra il 1688, data di nascita della monarchia costituzionale, e il 1789, data della presa della Bastiglia. Altri, come Eric J. Hobsbawm, tendono a spostare il processo in avanti nel tempo, evidenziando piuttosto il passaggio da un’Europa agricola ad una industriale, avvenuto sull’asse anglo-francese a partire dal 1789, come data d’inizio dell’affermarsi della borghesia, e il 1848, come inizio della contestazione ad essa e nascita del socialismo. Quest’autore rileva anche che alcuni termini fondamentali del linguaggio moderno in campo sociologico, come “industria”, “fabbrica”, “classe media”, “classe lavoratrice”, “capitalismo”, “socialismo”, liberale”, “ingegneria”, “utilitario”, ”statistico”, “crisi economica”, “ideologia”, ecc. nascano proprio tra il 1789 e il 1848. Hobsbawm minimizza così il peso dell’Illuminismo, in quanto movimento borghese, rispetto alla nascita della teoria del Materialismo Storico come suo superamento. Possiamo essere d’accordo su alcuni punti, ma ci pare storicamente scorretto mettere in ombra la forza innovativa dell’Illuminsmo per mere ragioni ideologiche. Analoga posizione ideologica (dal lato cristiano) quella di Pierre Chaunu, il quale, all’opposto, sposta all’indietro la nascita della modernità, sostenendo essere l’epoca barocca (e specialmente il periodo 1620-1650) portatrice di innovazioni ben più importanti di quella illuminista, sì da affermare: «Il miracolo europeo della rivoluzione meccanicista, databile con precisione al secondo quarto del XVII secolo, si impone ormai quale denominatore comune di ogni periodizzazione. È questo il tempo forte sul quale la civiltà dell’Europa classica organizza i suoi pensieri. È questa la base cronologica sulla quale l’Europa dei lumi, in seconda battuta, e la stessa civiltà scientifica del XX secolo, un po’ più indirettamente, ma altrettanto sicuramente, si appoggiano e si sviluppano.» [7] Posizione critica non molto differente da quella già assunta da Paul Hazard nel suo La crisi della coscienza europea, apparso nel 1935, un saggio interessante e molto apprezzato soprattutto dal mondo cattolico, dove si sostiene tra l’altro che nell’ultimo trentennio del XVI secolo erano già presenti in nuce tutti i temi principali dell’Illuminismo.

    Noi continuiamo invece a pensare che il Settecento, in ogni campo, con grandi viaggi di esplorazione, l’affermazione della classe mercantile, la nascita di un “libero pensiero”, grandi progressi scientifici e tecnologici, importanti scioperi di una classe operaia che comincia ad organizzarsi, sia il secolo più importante per la nascita dell’Europa e che il negarlo abbia le gambe corte. Ma tra le molte domande che si pongono emerge la seguente: l’Illuminismo è un “movimento” culturale omogeneo o null’altro che una “situazione”? E ancora: è un’età dove domina il razionalismo o dove esso si mescola ambiguamente all’irrazionalismo? È di questo parere Norman Hampson, che scrive: «In altri termini, la ‘reazione’ contro l’Illuminismo [Rousseau, Burke, Sterne] precedette la maggior parte delle principali opere dell’Illuminismo stesso.» [8] D’altra parte, nella storiografia contemporanea l’Illuminismo è visto in maniera assai differenziata, e se talvolta se ne evidenzia l’aspetto radicale, e persino ateistico, non mancano coloro che ne danno, all’opposto, una lettura teologizzante. Ciò che fa il già citato Chaunu, che vede nel devoto Leibniz il grande protagonista del rinnovamento, scrivendo: «I lumi, parimenti, fanno giustizia di coloro che rappresentano solo una caricatura delle idee del XVIII secolo. Così il materialismo volgare è solo un’escrescenza senza importanza.» [9] (l’”escrescenza” è ovviamente costituita da La Mettrie, Helvétius e d’Holbach).

    La Rivoluzione continua a costituire un topos storiografico importante quanto problematico sia per la storia delle idee, sia per la psicologia delle folle, sia per la metodologia e la prassi politica: si è trattato di uno straordinario e irripetibile “laboratorio” sociologico. Le vette più nobili e le derive più ignobili sono presenti nei comportamenti dei protagonisti di essa: alcuni per scelta, altri per elezione, altri casualmente coinvolti nei fatti di quella straordinaria temperie. Se Marat poteva dichiarare «Ho affrontato la Rivoluzione con le idee già pronte» [10], per moltissimi altri protagonisti essa è accaduta in modo inopinato e sconvolgente. La storia dell’umanità è periodicamente caratterizzata da eventi epocali che pongono innumerevoli interrogativi dalle difficili risposte. Da ciò posizioni difficilmente conciliabili, come lo furono, a distanza di solo mezzo secolo, quelle di un Tocqueville, di un Taine, di un Michelet, di un Marx. Ciò pone in evidenza come un fatto oggettivo possa essere visto come un evento pre-determinato o invece contingente, come un fenomeno determinato dai vertici o dalla base del corpo sociale, come l’esito di una nuova cultura o invece di vecchie pulsioni ancestrali, come il frutto di una rivolta popolare spontanea o quello di un pugno di intellettuali mossi dall’ambizione di potere.

    Per quanto ci riguarda non esiteremo a mettere in evidenza le efferatezze compiute contro i religiosi, per quanto poche di queste siano da imputarsi all’ateismo e molte di più ad un anti-clericalismo [11] popolare frutto di esasperazione.  Abbiamo già in passato rilevato come molti movimenti anti-religiosi siano null’altro che contro-religioni, o meglio ideologie [12], le quali, per quanto laiche, esattamente come le religioni, si danno principi morali e una precettistica basata sul binomio antinomico bene/male, insieme con ministri e maestri “di fede”. Quanto di “millenarismo religioso” emerge nel coacervo di speranze e illusioni verso una “nuova era felice”!  E quanto di “sacralità arcaica” riemerge in momenti drammatici di fanatismo collettivo! La Rivoluzione Francese non fa eccezione: quando, nel 1790, dopo aver sbudellato il maggiore De Beausset, i bravi rivoluzionari di Marsiglia si misero a ballare la farandola intorno ai suoi resti, compivano orgiastico e arcaico rito sacrificale, riaffacciatosi da un lontano passato e riattualizzato spontaneamente e coralmente dall’occasione. Ma un’analisi antropologica del periodo rivoluzionario è fuori tema, così come lo sarebbe un’eccessiva attenzione alle vicende storiche che fanno da sfondo alla temperie culturale di cui intendiamo occuparci. Da questi primi ceni pensiamo comunque di potere già trarre una prima conclusione che coincide con quanto già scriveva Pietro Rossi nell’incipit dell’introduzione a Gli illuministi francesi (1971) [13]: «Sull’interpretazione del pensiero illuministico francese ha pesato, in modo particolarmente negativo, l’applicazione di una serie di schemi storiografici di origine idealistica.». D’altra parte l’Idealismo, è da sempre una delle più forti ideologie, e particolarmente in Italia ha agito con tale pervasività a partire dalla metà del XIX secolo da condizionare tutta la nostra cultura. Per questo l’Illuminismo in Italia non è mai veramente entrato, “bloccato al confine” dalla doppia barriera del cattolicesimo e dell’idealismo dei Croce e dei Gentile. D’altra parte il tedesco Cassirer, idealista anche lui, secondo il quale l’Illuminismo “vero” era quello di Kant, pensava che gli ateismi materialistici avessero tradito lo spirito dei Lumi: «Il loro meccanicismo è puramente intuitivo, volge le spalle alla matematica. Con La Mettrie non vi è più scienza, non vi è più morale, non vi è più impegno e, al limite, non vi è più linguaggio. Ma soprattutto, il materialismo volgare è un ritorno all’ontologia, mentre la grande conquista del XVIII secolo risiede nella progressiva trasformazione fenomenologica del sapere. Julien Offray (de La Mettrie) immagina l’uomo secondo il modello della cagna di Malebranche. Il materialismo volgare scalzava inoltre, per mezzo di un prematuro passaggio al confine, le due basi del pensiero dei lumi, la morale e la conoscenza.» [14] Dichiarazioni molto pesanti, ma compatibili con le convinzioni di un idealista cristiano che ritiene essere la metafisica la base di ogni conoscenza e la teologia la base di ogni morale.     

    L’età dei Lumi rivela due elementi di sviluppo: l’elemento gnoseologico e quello etico; da questo deriva quello politico. Rimane tuttavia la domanda: «Ma, in definitiva, che cos’è l’Illuminismo?». Per i più è un “fatto”, per molti una “situazione”, per altri un “processo”.  Tra questi ultimi spiccano due personaggi di diverso peso, Mendelssohn e Kant, ma le cui opinioni coincidono in termini diagnostici se non prognostici. Moses Mendelssohn (1729-1786), erede dell’empirismo di Locke e del panteismo di Spinoza, riteneva che lo sviluppo illimitato del razionalismo potesse danneggiare, col suo potere verticistico ed elitario, il futuro delle classi povere e incolte. Non solo; compromettendo un ordine sociale faticosamente raggiunto nella metà del700 per dare spazio alle avventure dell’egoismo intellettuale di pochi [15]. Kant, da parte sua, rispose alla domanda nel 1784 con un articolo sulla Berlinische Monatssrchift che ne evidenzia la processualità. Vediamone il famoso incipit:

 

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo. [16]

 

Lo scritto kantiano è del 1784 e sin dall’inizio si caratterizza come un forte richiamo intellettuale, anche se sarebbe potuto apparire retorico e astratto per plebei francesi vessati e affamati ed intellettuali censurati o carcerati. Intanto perché il Regno di Prussia era retto sì da un despota, ma illuminato, progressista, colto e piuttosto anti-clericale (Federico II era deista) che aveva organizzato una macchina amministrativa perfetta, mentre la Francia era retta da un buonuomo di media cultura, bigotto, in balia di ministri reazionari, con uno stato pieno di debiti e con strutture e istituzioni allo sfascio. Kant prosegue con un pizzico di ironia:

 

A persuadere la grande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) che il passaggio allo stato di maggiorità è difficile e anche pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra i loro simili minorenni. Dopo di averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e di avere con ogni cura impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dalle loro carrozzelle da bambini in cui li hanno imprigionati, in un secondo tempo mostrano ad essi il pericolo che li minaccia qualora cercassero di camminare da soli. [17]

 

Nel contesto luterano le cose evidentemente non vanno molto meglio che in quello cattolico, e Kant non si fa scrupoli di alludere ad un pietismo bigotto e troppo invadente da cui si è allontanato. Ma se egli accusa i pietisti fanatici di predicare: «Non ragionate, ma credete!» imputa anche al “solo signore” (Federico II) di comandare: «Ragionate fin che volete e su quel che volete, ma obbedite!». Il problema fondamentale per uscire dalla minorità è quindi quello di affrancarsi da una cieca “credenza” e da una cieca “obbedienza”; in altre parole, si tratta di conseguire una vera libertà del pensare. Ma, si badi, non una libertà generica, ma quella «di fare pubblico uso della propria ragione» [18].  Se non che Kant adotta un criterio del tutto personale nel distinguere un uso “pubblico” e uno “privato” della ragione. Per lui l’uso privato della ragione non è quello dell’intellettuale che opera nel chiuso del suo studio né pubblico quello dell’uomo politico o dell’amministratore pubblico: è il contrario. È l’universalità della destinazione che qualifica l’uso e non la singolarità dell’agente; sia che si sia indotti alla credenza e sia che ci si debba sottoporre all’obbedienza, in ogni caso: «Qui è dovunque limitazione della libertà». Poi egli aggiunge due brevi domande e un’unica lunga risposta:

 

Ma quale limitazione è d’impedimento all’illuminismo? Quale non lo è, anzi lo favorisce? Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve essere libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare l’illuminismo tra gli uomini; mentre l’uso privato della ragione può anche più spesso essere strettamente limitato, senza che ne venga particolarmente ostacolato l’illuminismo. Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa come studioso davanti all’intero pubblico di lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno può farne in un certo impiego o funzione civile a lui affidata. [19]  

 

Kant si diffonde in un’ulteriore esplicazione che cercheremo di sintetizzare. L’uso privato è sì nell’interesse della comunità, ma siccome deve attenersi ad una certa «meccanicità» passiva, al fine di armonizzare il proprio lavoro con quello di altri per il miglior funzionamento del sistema statuale, e in base a regole fisse; per cui, i questo caso, «non è permesso di ragionare ma si deve obbedire». Differente è il caso in cui l’operatore, pur facendo parte della «macchina governativa» si ponga contemporaneamente come «membro di tutta la comunità e della stessa società generale degli uomini» e attraverso i suoi scritti si rivolga ad un pubblico generalissimo che è poi l’umanità intera. Così sarebbe pernicioso che un ufficiale o un funzionario si mettessero a ragionare su un ordine ricevuto, ma le stesse persone, in quanto “studiosi” di guerra o di amministrazione devono potere liberamente esprimere i loro pareri e sottoporli al giudizio generale. [20] Ne nascono però anche situazioni un poco paradossali dal punto di vista pratico, poiché Kant aggiunge:

 

Così un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità religiosa secondo la confessione della Chiesa da cui dipende, perché egli è stato assunto a questa condizione; ma come studioso egli ha piena libertà ed ha anche il compito di comunicare al pubblico tutti i pensieri che un esame severo e coscienzioso gli ha suggerito circa i difetti di tale confessione, e di fare le sue proposte di riforma della religione e della Chiesa. [21]  

 

Difficile dire quanto ci sia di utopico e quanto di astratto in questa posizione. Il grande Immanuel ritiene che ci debba essere “libertà di pensiero” ma non “libertà di azione”, e che i frutti della prima “debbano” essere resi pubblici, mentre l’obbedienza ad un compito istituzionalizzato
imponga la rinuncia alla libertà di mettere in atto opinioni private. Si determina così una dicotomia comportamentale (con qualche rischio di schizofrenia!) che pone seri problemi di conciliabilità e di opportunità sul piano pragmatico, ma che sotto il profili teorico potrebbe forse reggere.

    Marx, com’è noto, pensava che la Rivoluzione Francese fosse nata “dal basso” contro un potere “dall’alto”, ma che essa fosse anche stata il terreno di coltura per l’ascesa della borghesia e il suo futuro (e infausto) dominio. Da ciò il suo volersi accuratamente distinguere da quelli che chiamava “gli illuministi tedeschi dell’anno 1842”, gli hegeliani liberali e “deviati” come Bruno Bauer, contrari al comunismo e al suo comunitarismo universalistico e solidaristico. Vediamo il pensieo di Marx espresso nella sezione Battaglia critica contro la Rivoluzione Francese in La sacra famiglia (1844-45):

 

Robespierre, Saint-Just e il loro partito sono caduti perché hanno scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che poggiava sul fondamento della schiavitù reale, con lo Stato moderno rappresentativo, spiritualisticamente democratico, che poggia sulla schiavitù emancipata, sulla società civile. Che colossale illusone essere costretti a riconoscere e sanzionare nei diritti dell’uomo la società civile moderna, la società dell’industria, della concorrenza generale, degli interessi privati perseguenti liberamente i loro fini, dell’anarchia, dell’individualità naturale e spirituale alienata a se stessa, e volere poi nello stesso tempo annullare nei singoli individui le manifestazioni vitali di questa società, e volere modellare la testa politica di questa società nel modo antico. [22]

 

Per quanto il modo di pensare marxiano abbia le sue motivazione, all’interno di un impianto teorico socio-economico fondamentalmente virtuoso, fa sempre un po’ di effetto sentir definire l’antica società romana come “realisticamente democratica”, laddove è noto che nella Roma repubblicana l’economia fosse in gran parte fondata su quella che lui chiama la “schiavitù reale”, cioè “istituzionale”, preferendola a quella”emancipata” della società civile borghese e capitalistica. Tenendo anche conto che la “libera” plebe di cittadinanza romana contava politicamente assai poco ed era governata da un’oligarchia costituita da equites di antica schiatta e da nuovi ricchi della nuova “nobiltà di censo”, in tutto simile alla borghesia settecentesca. C’è veramente da chiedersi in quale misura, secondo Marx, diventare ricchi sfruttando gli schiavi “reali” (vendibili ed acquistabili) potesse essere preferibile dello sfruttamento di lavoratori forse schiavi del bisogno, ma pur sempre liberi di vendersi al migliore offerente o di emigrare. Erano stati utopisti fanatici come Robespierre e Saint-Just ad essere convinti della possibilità di eliminare “con la forza” lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo senza preoccuparsi della “”fattibilità” di ciò. In fondo, la cultura illuministica non contemplava prioritariamente l’idea di “uguaglianza” in quel senso radicale ed utopico di cui la propaganda rivoluzionaria invocava la realizzazione, ma piuttosto quello di un’”equità possibile”. Non a caso una parte importante delle teorizzazioni di Helvétius, come vedremo, invocavano l’istruzione come fattore base di emancipazione universale, un concetto (sia detto di passaggio) che uno dei padri nobili della Rivoluzione, Rousseau, non condivideva affatto, ritenendo che la “naturalità” del plebeo fosse più apprezzabile della sua “istruzione”. 

    Marx pensa che l’unico criterio notevole (e negativo) introdotto dalla cultura illuministica sia stato, in sostanza, quello dell’”utilizzazione-consumazione [23]. Sta scritto ne L’ideologia tedesca: «Il rapporto dell’”utilizzazione”, che nell’associazione deve essere l’unica relazione tra gli individui, torna ad essere subito parafrasato e trasformato nella reciproca “consumazione”.» [24] È lo «sfruttamento reciproco sviluppato sino alla sazietà dal Bentham » [25] E infatti:

 

La vera scienza di questa teoria dell’utilità è l’economia; essa riceve il suo vero contenuto coi fisiocrati, in quanto essi hanno trattato sistematicamente l’economia. Già in Helvétius e in Holbach si trova un’idealizzazione di questa dottrina che corrisponde in tutto e per tutto alla posizione di opposizione della borghesia francese prima della rivoluzione. In Holbach ogni attività degli individui dovuta al loro reciproco commercio, per esempio il parlare, l’amare, ecc. è presentata come un rapporto di utilità e di utilizzazione. [26]   

 

Dal momento che la crisi dell’Ancièn Régime era nata soprattutto dalla bancarotta dello stato sembrerebbe logico che i concetti economicisti e  utilitaristi che aveva reso solido, all’opposto, il Regno Unito, incominciassero a ricevere anche nella sgangherata Francia qualche attenzione, ma Marx resta convinto che l’economia borghese abbia combinato solo disastri.

    Un altro, e recente, taglio critico nei confronti dell’Illuminismo lo si può  trovare  in An Age of Crisis, Man and World in Eighteenth Century French Thought dell’americano Lester G. Crocker, apparso nel 1970, che pone la tesi delle gravi responsabilità storiche del pensiero dei Lumi nel dare inizio alla crisi morale che affliggerebbe il mondo contemporaneo con un nichilismo morale dimentico di Dio. Naturalmente in questa analisi “teologica” di Crocker non poteva mancare il riferimento a Sade, visto da lui come uno dei più significativi rappresentanti dell’Illuminismo. Con tale atteggiamento l’Illuminismo è portatore di «paurose possibilità nichilistiche e totalitarie che verranno disgraziatamente poste in essere dalla Rivoluzione stessa e riprese più tardi dalla storia dell’Occidente in un modo che allora nessuno avrebbe potuto lontanamente immaginare.» [27]. Abbiamo qui la saldatura ideologica tra i proto-marxisti, i filo-marxisti e i post-marxisti non solo coi cattolici filo monarchici dell’epoca e coi romantici idealisti, ma anche coi panenteisti odierni come Severino, tutti facenti parte di un fronte ideologico arcaicizzante, antimodernista, anti-scientifico e antitecnologico. Tutti associati nello stigmatizzare i disastri morali di tutto ciò che dall’Illuminismo deriva: la libertà di pensiero e la messa in mora delle ipoteche teologico-metafisiche, l’assunzione della scienza come motore dell’evoluzione umana e il perseguimento della felicità individuale. Valori esattamente opposti a quelli che auspicava anche l’ultra-conservatore Taine, che vedeva nell’Illuminismo il portatore di ogni corruzione e di ogni violenza. Ma anche per il post-hegeliano Marx, che vi vedeva il malefico blocco culturale che comprometteva (o ritardava) il virtuoso avvenire del proletariato, diventato soggetto primario della dialettica storica, per conseguimento di una virtuosa “totalità” statuale contro l’egoismo dell’”individualità”.

    Per ornare alla domanda «Che cos’è l’illuminismo?» si potrebbe anche rispondere che, al di là delle differenti situazioni contestuali, esso sia stato una “tendenza” a risolvere i problemi, specialmente quelli etici e sociali, affidandosi alla ragione e non più alla fede. Un’ansia di rinnovamento, quella illuministica, abbastanza generalizzata, ma per nulla pacifica e condivisa, foriera semmai di gravi tensioni, come si vedrà, nell’animo degli stessi protagonisti. Se la religione è immutabile (e questa è la sua vera forza) e se invece ci si avvia sulla strada del nuovo e del mutevole, non ci si può che trovare coinvolti nel percorso di un’evoluzione umana che procede in accordo con “la revisione e l’accumulo” del sapere scientifico, ma che può generare gravi turbamenti nelle coscienze. Ma la tesi di un conflitto religione/scienza è falsa. Vi furono laici cattolici e protestanti come abati di grande apertura mentale e peso intellettuale, che sono sfuggiti a tale opposizione, accogliendo istanze progressiste e riuscendo a conciliarle ottimamente con la propria fede (si pensi agli abati Condillac e Galiani).

    La cultura illuministica e la Rivoluzione rappresentano un binomio che appare storicamente coeso, ma le cui connessioni in termini di causa/effetto non sono affatto scontate, come appare spesso nella manualistica più vieta. Coglieremo allora qui l’occasione per sottolineare come l’utilizzo massiccio della manualistica sia in generale dannosa, ma ancor più quando si deve occupare di un complesso come la storia del Settecento, ed ancor più della sua filosofia. Un approccio serio ai problemi interpretativi che l’Illuminismo consiglia uno studio diretto dei testi, proprio perché essi recano spesso un nuovo modo di produrre analisi e della storia e della contemporaneità. Il Settecento vede accentuarsi notevolmente la critica del “principio di autorità” e della conoscenza “fissa”, tipici della fede cristiana ortodossa. E tuttavia, proprio perché nel Seicento erano già apparse interpretazioni “alternative” del credo cristiano il Credo stesso si rafforza in senso acritico per “far argine”. Poiché nel momento in cui la discussione si incentra sui dettagli (cosa che era già avvenuta nei primi secoli del Cristianesimo) la fede è rafforzata nel “fondamento” ideologico, e ciò è avvenuto nel ‘700. Ma siccome qui non possiamo occuparci più del necessario di  religione ci concentreremo non sui suoi aspetti dottrinari ma sulla forma primaria che la caratterizza, cioè sull’ideologia che la fonda. Ebbene, il Settecento è il secolo in cui il termine nasce nel senso “letterale”, poiché, etimologicamente il suo autentico significato è studio dell’idea ed è posto da Destutt de Tracy e poi accolto dagli altri ideologues. Il problema nominalistico che nasce, quindi, è quello di conciliare l’aggettivo “ideologico” in senso corrente con quello storico, poiché il suo significato negativo nasce con Napoleone che lo accomuna ad “astratto” ed è ribadito da Marx nel senso di “dogmatico”. La conclusione è che il termine ideologia ha finito per connotare un atteggiamento astraente dalla sfera del reale, ma anche acritico e aprioristico. È questa la ragione per cui siamo stati più volte tentati di proporre la sostituzione del termine ideologia (studio dell’idea) con quello più proprio e coerente di ideonomia (norma basata sull’idea), rinunciandoci sempre per questioni di comprensibilità. Il termine ideologia, infatti, per quanto etimologicamente scorretto, ha preso così piede e ha così pervaso ogni realtà culturale che è difficile sbarazzarsene, col grosso rischio che parlando ideonomia e di ideonomico nessuno ci capirebbe. Abbiano ceduto così anche noi, vilmente, agli arbitri convenzionali del linguaggio, dimenticandoci per un istante, e colpevolmente, delle evidenti mistificazioni di coloro che lo sacralizzano facendone una ”struttura originaria” dell’essere.

    Già, il problema della “mistificazione”! Siamo così impregnati di essa (e per molti versi persino “fondati”) che è sempre molto difficile parlarne. Ma il tema dell’ideologia-ideonomia che abbiamo posto non ci permette di eluderlo. Noi pensiamo che il Settecento sia il primo secolo in cui il problema della mistificazione sia posto seriamente in contrapposizione a quelli (non meno mistificanti) del ”dubbio teorico”cartesiano, dello “scetticismo” humiano e del “criticismo” kantiano. Tre posizioni che invariabilmente mettono in discussione “tutto”; salvo che Dio e la sua suprema ed eterna Verità. L’ideologia è mistificatoria “in sé”, poiché nel momento in cui si pretende di “dire la Verità” e la si assolutizza a prescindere da alcun elemento analitico-critico, essa diventa l’altra faccia della Falsità. Se nel Settecento si mette in discussione la religione è perché, per la prima volta, se ne coglie adeguatamente e sino in fondo il suo elemento mistificante e la catena di mistificazioni che si impongono per la sua difesa ad oltranza, pena il crollo dell’intero sistema teologico. Ma se si leggono attentamente le sintesi sulla storia della filosofia del Settecento, ciò che emerge è la supponenza con cui molti storici ideologicamente condizionati trattano la scepsi illuministica come degenerativa rispetto alle “eccelse vette” della metafisica secentesca. E ciò pone il problema di una corretta interpretazione della filosofia del Settecento e per estensione il concetto stesso di filosofia come ”amore per la conoscenza” laddove essa si coniughi con la scienza. Poiché se il compito della scienza è di descrivere la realtà cosmica nelle sue strutture e nei suoi meccanismi, spetta alla filosofia di fornirne un portato antropico, il cui gradiente di validità si associa a quello della maggiore oggettività possibile. Problema cruciale, dunque, poiché un’errata impostazione può degli imprinting permanenti.

    Ci si consenta una digressione. Se nel Seicento si era consumato il distacco della cultura d’avanguardia (e anti-metafisica) da quella praticata nelle università (dove l’autorità indiscussa era ancora Aristotele) anche oggi si pone il problema di superare una didattica e un’ermeneutica  metafisiche esiziali per la filosofia. Questo nostro libro, che su questo tema si connette al nostro precedente La filosofia e la teologia filosofale, intende essere un ulteriore contributo al chiarimento dei problemi cruciali del filosofare. E ciò non solo per gli sviluppi di un autentico “amore della conoscenza”, ma per la stessa sopravvivenza della filosofia in quanto tale. Perché tutto dipende da ciò che vogliamo fare della filosofia; occorre decidere se calare la nostra barca nel fiume della conoscenza, tra i flutti e le correnti che la scienza ci svela, o restare in quell’immensa golena artificiale che la metafisica ha creato nei millenni e che è diventata palude. A noi la scelta tra la conoscenza del reale e la sua perenne teologizzazione, a noi scegliere tra l’indagine sulla realtà e l’invenzione di una realtà surrettizia, spesso gabellata, in maniera quanto mai arrogante, per verità. E si tratta di un problema, come vedremo, che si era già posto Diderot nelle sue tormentose,  complesse e proteiformi peregrinazioni ontologiche, gnoseologiche ed etiche. 

    Approderemo al tema che dà titolo al presente saggio, l’ateismo filosofico nell’Illuminismo (Parte Quarta), attraverso una triplice contestualizzazione: 1. il contesto politico e socio-economico settecentesco; 2. lo scenario culturale generale; 3. quello teologico. La ri-comparsa di un pensiero ateo dopo ben 2.200 anni dal suo apparire in ambito greco-ionico nel VI sec.a.C., vede dietro di sé un vuoto di quasi duemila dominati dalla teologia; platonico-aristotelico prima e cristiana poi. Ma connesse in un abbraccio ideologico in cui la prima è diventata devota ancella della seconda e sua manutentrice razionalistica, salvo poi battere, in un rigurgito di autonomia teologica, la strada panteistica del “nuovo” idealismo tedesco. Ed ora un’ultima precisazione circa il fatto che la religione non coincide affatto con la teologia come spesso si pensa; la religione (la teologia cultuale) è una delle due forme della teologia; l’altra è la metafisica, la teologia filosofale. La teologia  è “scienza di Dio” e in quanto tale concerne tutte le forme gnoseologiche che hanno come fine primario quello di ratificare, o “dimostrare”, con strumenti logico-dialettici l’esistenza del divino (ovvero del meta-fisico) prescindendo totalmente  dalla sfera del fisico, o trattandolo come aspetto inferiore o deietto dell’essere. La religione è “teologia cultuale” perché le sue operazioni analitiche e dottrinarie concernono la divinità nel suo porsi come “oggetto di adorazione” e “di culto”, a differenza della “teologia filosofale”, la metafisica, per la quale il divino si pone come “fondamento e principio” di ogni conoscenza. Se per questa, quindi, l’aspetto gnoseologico in senso razionalistico e deduttivistico è fondamentale, per quella cultuale, la religione, esso ha soltanto carattere probatorio od ermeneutica. La teologia filosofale opera sotto molti aspetti come la filosofia, ma con una differenza fondamentale e dirimente, che la filosofalità si basa esclusivamente sul “pensato”, mentre la filosoficità assume come punto di partenza il “dato” che il pensiero scientifico gli mette a disposizione come “materia prima” del pensiero stesso.     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                 

             

 

 

 

 



[1] C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, Firenze, Clinamen 2004.

[2] Cfr. ivi, § 4.1, 5.2 e 5.3.

[3] Ne faremo oggetto di indagine in Le epoche dell’ateismo impossibile, opera probabilmente suddivisa in tre parti e che coprirà il periodo dal I al XV secolo.

[4] Dal XV al XVII secolo si può ritenere che compaiano elementi prodromici dell’ateismo che saranno oggetto di uno studio probabilmente in due parti.

[5] Sui fenomeni di incredulità e irreligiosità dal Cinquecento al Settecento sono particolarmente importanti le analisi di Georges Minois nel suo Storia dell’ateismo, Roma, Editori Riuniti 2000.

[6] Morto Cromwell il potere monarchico sarà ripristinato, con varie fasi anche di eccessi assolutistici. Ma nel 1688, con Guglielmo d’Orange, si determina in Gran Bretagna il definitivo superamento dell’asse potere politico-aristocrazia con quello potere politico-borghesia, che sarà all’origine di tutti i successivi rinnovamenti sociali nel resto dell’Europa, avendo luogo la l’avvicendamento del “diritto del feudo” col “diritto del capitale”. 

[7] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, Il Mulino 1987, p..8.

[8] N.Hampson, Storia e cultura dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1969, p.200.

[9] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, Il Mulino 1987, p.246.

[10] Citato in: Michel Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Roma-Bari 1987, pp.21-22.

[11] Come rileva Michel Vovelle nel suo La mentalità rivoluzionaria (Roma-Bari, Laterza 1987, p.10-11) ad un ricordo traumatico dei fatti rivoluzionari persistente nella cattolica Savoia si contrappone quello favorevole delle Cévennes protestanti.

[12] Non possiamo qui che ribadire la definizione di ideologia data in Necessità e libertà (Firenze, Clinamen 2004, p.226, nota) nella quale avevamo delineato gli elementi che la caratterizzano nei termini seguenti: « … un “sistema” organico di idee basato su principi ed assiomi (dichiarati od occultati), che in quanto tali non sono discutibili né sottoponibili a critica o revisione, ma semplicemente creduti in base a presupposti irrinunciabili. Essa può essere di carattere religioso, politico o sociologico e implica una totalizzazione di credenze, di atteggiamenti e di comportamenti in base ai quali l’individualità perde in parte l’esercizio dell’eleuteria [la libertà personale]. aderendo a una “ragione” esterna. Caratteristica di ogni ideologia è la chiara convinzione di ciò che è bene e di ciò che è male e la mancanza di senso critico. Ogni dubbio è bandito sul piano teorico ed esso riguarda solo i modi di agire e di procedere per il trionfo di essa. I singoli individui in quanto soggetti ideologizzati e omologati possono (nell’insieme) diventare quella totalità umana alla quale data spesso la denominazione di massa.»

[13] P.Rossi, Gli illuministi francesi, Torino, Loescher 1971

[14] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, Il Mulino 1987, pp.246-247.

[15] Si veda: D.Outram, L’Illuminismo, Bologna, Il Mulino 1997, p.7.

[16] I. Kant, Scritti politici, a cura di C.Garve, Torino, UTET 1995, p.141..

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p.143.

[19] Ibidem.

[20] Ivi, pp.143-144.

[21] Ivi, p.144.

[22] F.Engels-K.Marx, La sacra famiglia, Roma, Editori Riuniti 1967, p.160.

[23] K.Marx-F.Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti 1969, p.398.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, p.399.

[26] Ibidem.

[27] V.Ferrone e D.Roche, Postfazione a L’Illuminismo, Dizionario storico, Roma-Bari, Laterza 1997, p.559.