XVIII. Diritti civili, tolleranza e felicità
Il vero spirito di eguaglianza
è lontano dallo spirito di estrema uguaglianza
quanto il cielo lo è dalla
terra. Il primo non consiste nel far sì che
tutti comandino o che nessuno sia
comandato, ma nell’obbedire o comandare ai
propri eguali. Tale spirito non
spinge a rifiutare ogni padrone, ma ad accettare
come padroni solo i propri
eguali. Nello stato di natura gli uomini
nascono sì nell’eguaglianza, ma non
riescono a conservare tale condizione. La
società la fa loro perdere, ed essi
ritornano ad esser uguali solo per mezzo
delle leggi. [1]
Non
lo stato di natura produce eguaglianza, bensì
le leggi di uno stato civile ed
evoluto che implica una gerarchizzazione di compiti e
di ruoli ben definiti all’interno di un sistema
sociale basato sull’equità e
non su un’eguaglianza impossibile. Rousseau,
come abbiamo visto, ha un’idea
opposta e vede in maniera cogente la necessità
dell’eguaglianza, partendo dal
presupposto che la civiltà porti disuguaglianza
e che solo un ritorno verso lo “stato
di natura” renda possibile correggerla.
Tutti i problemi etici, sociali o politici
trovano una loro possibile soluzione in “modelli”;
così abbiamo visto come Il
contratto sociale proponga un modello democratico
cui hanno fatto riferimento i primi governi
rivoluzionari. Montesquieu
utilizzava invece il concetto di “compatibilità”
riferito al massimo di libertà
possibile per un contesto “dato”; ne deriva un
concetto di politica come “l’arte del possibile”,
dettata dalla ragione. In
questo senso egli è illuminista mentre Rousseau,
latore di un sogno utopico-teologico non lo è. Si pone allora un problema non
di poco conto e su cui dobbiamo intenderci
con chiarezza, poiché è del tutto evidente che un utopista come
Rousseau abbia una visione socio-politica
molto più
avanzata di quella di Montesquieu, ma il problema è
sempre se un modello sia reale e possibile.
La visione del Contratto sociale
è “morale”, quindi al di sopra del tempo, ma in quanto
tale è anche “fuori” del tempo, Montesquieu ha invece
una visione della politica “razionale”, “contingente”
e “locale”, sicché egli
si pone il problema di che cosa sia il “meglio
possibile” per le varie forme di
società nel Settecento come aggregazioni
di uomini in contesti dati.
È stato detto essere Montesquieu
il fondatore di una “scienza della società”
come superamento di una “metafisica
della società”. In effetti, se si considerano
le ricerche di esimi
giusnaturalisti come Grozio
o Pufendorf, ci si rende conto come il riferimento a
una “società naturale”, sulle cui basi costruire
una “società civile”, sia
quanto mai astratto e teorico. La ricerca
di Montesquieu
è invece “empirica”, poiché egli non si pone
il problema di costruire dei
modelli sociologici astratti e atemporali, bensì del
che cosa, ”qui e ora”, si possa fare per migliorare la
convivenza tra gli uomini ed organizzarla
in maniera adeguata. Le Lettere
persiane del 1721 erano state l’occasione per portare
una pesante critica
ai costumi e alla politica francesi; una
sorta di pars destruens
preparatoria a una construens
che si sarebbe esplicitata con Lo spirito delle leggi, apparso nel 1748
ma rielaborato più volte sino al 1757. In
esse tre immaginari viaggiatori persiani
visitano varie parti d’Europa e si
scambiano lettere nelle quali riportano le
loro impressioni; l’espediente
letterario permette a Montesquieu di attribuire a
stranieri i rilievi critici che intende sottoporre
all’attenzione degli europei,
riservando alla successiva opera maggior
una più attenta analisi dei problemi
con le proposte per la loro soluzione.
Leggiamo in uno dei Pensieri quale sia la sua idea di legalità:
«Una cosa non è giusta in quanto legge; ma deve
essere legge in quanto giusta.» [2], e in
un altro che cosa determini una comunità
di uomini:
«Gli uomini sono governati da cinque cose
diverse: il clima, le usanze, i
costumi, la religione e le leggi. Quanto
più forte è, in ogni nazione, l’azione
di una di queste cause, tanto più deboli
diverranno le altre.»
[3]; in un
terzo: «La libertà, questo bene che permette
di godere di
tutti gli altri beni.» [4] È da
assunti di questo genere, semplici e chiari,
che Montesquieu
si propone di migliorare la convivenza tra
gli uomini e nel Libro Primo (§ I)
de Lo spirito delle leggi scrive: «Le leggi, nella loro accezione
più
vasta, sono i rapporti necessari derivanti
dalla natura delle cose; e, in
questo senso, tutti gli esseri hanno le proprie
leggi» [5]. Aldilà del fatto antropico la legge è una
generalità dell’esistere ed è funzione dello
stato “reale” delle cose per un
sistema di riferimento dato. «Esiste dunque
una ragione primitiva: le leggi
sono i rapporti intercorrenti tra tale ragione
e i diversi esseri, nonché i rapporti di questi esseri tra loro.» Questa
ragione, che Montesquieu definisce “primitiva”,
potrebbe essere tradotta anche con gli
aggettivi “fondante” e “relazionale”, poiché
lo stato fondamentale delle cose umane
è in virtù di una certa relazione tra esse. Qualunque
situazione, per quanto dinamica, “sta” nelle relazioni
che la fanno essere, e tali relazioni obbediscono
a una ferrea necessità
interna.
Ne deriva una visione deterministica
della realtà, che elimina dall’orizzonte
antropologico la casualità, ma non
l’arbitrarietà umana. Perciò:
L’uomo, in quanto
essere fisico, è, come gli altri corpi, governato
da leggi invariabili.
In quanto essere intelligente, viola di continuo le
leggi che Dio ha stabilito e cambia quelle
che egli stesso stabilisce. Deve
governare da solo, tuttavia è un essere limitato;
come tutte le intelligenze
finite, è soggetto all’ignoranza e all’errore;
le sue conoscenze sono nebulose
e per di più egli le perde; come ogni creatura
sensibile soggetto a mille passioni. [6]
Abbiamo
qui un’efficace sintesi di vari elementi,
dell’homo come oggetto del
mondo, dei rapporti sociali, dei limiti intellettuali,
della precarietà delle
conoscenze, del peso di istinti, passioni e sentimenti
nel loro conseguirsi e conservarsi. Sulla
funzione di religione, filosofia e
diritto:
Un tale essere
rischiava di dimenticare ad ogni istante
il proprio creatore: Dio lo ha
richiamato a sé con le leggi della religione;
rischiava ad ogni istante di
dimenticare se stesso: i filosofi lo hanno
avvertito con le leggi della morale.
Creato per vivere nella società, rischiava
di dimenticare gli altri: i
legislatori lo hanno restituito ai suoi doveri
con le leggi politiche e civili.
[7]
Ministri
della religione, filosofi morali e legislatori
hanno condotto l’uomo alla
civiltà, con al primo posto l’idea di Dio e al secondo
il senso della socialità. Montesquieu non crede nella
naturale aggressività dell’uomo avanzata
da Hobbes, essendo
convinto che sia il costituirsi delle comunità
organizzate a determinare un incontro
tra interessi differenti. Sia lo stato di
guerra tra le nazioni e sia quello
tra gli individui all’interno di una stessa
nazione derivano
da una dialettica debolezza/forza che va
regolamentata dal diritto.
Quello tra nazioni è “delle genti”, quello
tra governanti e governati
“politico”, quello tra i cittadini “civile”.
[8]
Il potere può essere messo nelle mani di
uno o di molti, e da ciò tre differenti forme
di governo: il repubblicano, il monarchico
e il dispotico. Il filo-monarchico Montesquieu considera
il dispotismo non come una forma deteriore
di monarchia, ma come un genere di
governo a sé che vede nei regimi medio-orientali,
dove la dissolutezza dei costumi porta il
principe a vivere come un debosciato,
a trascurare il governo e a delegare a servi
ubbidienti i suoi poteri. Nel
Libro Terzo si tratta del principio del governare, distinto dalla natura
del governo, cioè la forma dello stato, poiché: «la
sua natura fa sì che ogni governo sia quello
che è, mentre il suo principio è
ciò che lo fa agire.» [9] Secondo Montesquieu
la democrazia ha come principio del suo sussistere
la virtù dei governanti, ma
appena questa viene meno comincia a prevalere
l’ambizione personale e la
democrazia si degrada e crolla:
Prima i beni di singoli [nella repubblica
virtuosa] costituivano il tesoro pubblico;
ora [in quella corrotta] il tesoro pubblico è patrimonio dei singoli.
La
repubblica è un cadavere: la sua forza è
ormai ridotta al potere di alcuni cittadini e alla licenza di tutti.
[10]
L’oligarchia è già forma più sicura, poiché: «Il governo
aristocratico ha, di per sé, una certa forza
che la democrazia non possiede. I
nobili formano un corpo che per le sue prerogative
e per i suoi interessi
particolari, reprime il popolo, di conseguenza
basta che vi siano delle leggi,
perché vengano eseguite.» [11] Atteggiamento un po’ cinico, ma che va considerato
dal punto di
vista dell’organizzazione e dell’ordine del
“sistema stato”, dove l’importante
sta nell’esistenza della legge e nella sua
rigorosa applicazione. Un
“corpo” omogeneo e forte, infatti, può imporre
meglio di magistrati eletti
periodicamente e di volta in volta un potere
solido. Il governo monarchico non
è affatto virtuoso, anzi è quello che richiede
meno virtù sia nel monarca che
nei cittadini; in esso si instaura un principio sì puramente
formale, però forte e cogente: l’onore. Questo presuppone una struttura statuale fatta di gerarchie, ranghi e ruoli, e soprattutto
del
rispetto di regole e tradizioni fisse. Vediamone
le connotazioni: «Il governo
monarchico presuppone, come abbiamo detto,
delle gerarchie, dei ranghi ed anche
una nobiltà originaria. L’onore, per sua
natura, sollecita distinzioni e
preferenze; esso è dunque di casa in un governo
di questo tipo. » [12] Il quadro è icastico, nessun encomio o
elemento assiologico, ma unicamente apprezzamento
“funzionale”. Ciò che è dannoso in una repubblica può
diventare utile in un regno: «L’ambizione
è dannosa in una repubblica, in una
monarchia, invece, produce buoni risultati,
anzi è la vita di un simile governo
e presenta il vantaggio di non essere pericolosa,
in quanto
la si può soffocare ad ogni istante.» La
struttura ed i meccanismi di un governo monarchico
sono molto più semplici di
quelli democratico-repubblicani: appena qualcuno sgarra, lo si elimina facilmente. Interessante
è l’analogia
cosmologica:
La stessa cosa, si può dire, accade nel sistema
dell’universo, in cui una forza allontana
continuamente tutti i corpi dal
centro, ed un’altra, la gravità li attrae verso di
esso. L’onore fa muovere tutte le parti del
corpo politico, le
lega con la sua stessa azione e finisce che ciascuno
agisce per il bene
comune, credendo di agire per i propri interessi
privati. [13]
Le
forze in gioco nella monarchia, secondo il
Nostro, farebbero sì che “ciascuno”
persegua il proprio interessi e, inconsapevolmente,
faccia quello della comunità. Tesi abbastanza
discutibile, soprattutto dove nel
concetto di “ciascuno” è escluso quel popolo
minuto che non sa che farsene
dell’onore in quanto escluso da ogni decisione e da
ogni diritto. Aggiunge Montesquieu che tale «falso
onore è tanto utile alla cosa pubblica quanto
lo sarebbe il vero ai privati che
ne fossero in possesso.» e
che è una funzione tipica della forma monarchica Le logiche della « cosa pubblica» non
hanno niente a che fare con quelle
dell’ambito privato e ciò che è negativo
nella sfera privata può diventare
utile in quella pubblica.
Si tratta di una forma mentis che
era già presente in Machiavelli. Avendo a sua base la
spregiudicatezza e un certo cinismo, ma rigorosi
principi razionali di utilità e opportunità, se ne dà sviluppo
nei Libri
Quarto, Quinto, Sesto e Settimo, dove il
Nostro si diffonde sui tecnicismi
strutturali, nonché sulla formazione e sull’educazione
dei preposti al governo.
Nell’Ottavo si considera il concetto di uguaglianza
sul qual ci siamo già soffermati all’inizio
con la citazione che nega validità
alla «estrema uguaglianza » Tale concetto,
sostiene Montesquieu,
è in sé falso da un punto di vista antropologico
e sociologico, poiché il
genero umano primitivo e pre-sociale possedeva un’eguaglianza solo precaria e
immediatamente
superata con le prime ed elementari aggregazioni
sociali. L’uguaglianza dello
“stato di natura” non può durare perché l’homo sapiens è animale sociale
e tende quindi ad aggregarsi perdendola:
l’aggregazione,
di per sé, porta ad una gerarchizzazione, quindi a
disuguaglianza. Le leggi la correggono sì
nel senso dell’equità in base a compiti e meriti, ma l’uguaglianza “vera”,
quella
compatibile con la socialità, è sempre relativa. La politica è “l’arte del possibile” e
l’uguaglianza assoluta rientra nell’impossibile;
le buone leggi portano
l’uguaglianza al maggior grado possibile
compatibilmente con l’ordine sociale e
con un bilanciamento tra doveri e privilegi,
tenendo conto dei ruoli sociali e
di un equo riconoscimento del loro contributo
al bene della comunità. Ma l’uguaglianza implica tolleranza:
Noi vogliamo essere dei politici e non dei
teologi; ma per gli stessi teologi altro
è tollerare una religione, altro è
approvarla. Quando le leggi di uno stato prevedono la
coesistenza di parecchie religioni, bisogna
anche che le obblighino a
tollerarsi a vicenda. È principio indiscusso che ogni religione
oppressa
finirà con l’opprimere a sua volta, poiché,
non appena un caso qualsiasi le
permette di scuotere il giogo, essa attaccherà
la religione che l’ha oppressa,
non come una religione, ma come una tirannide.
[14]
Nella
misura in cui opprimere è violentare, l’oppressore
e l’oppresso diventano tiranno e tiranneggiato: il contrasto segue le
leggi dell’odio anche se la fede nel Dio
cristiano lo escluderebbe. Il
proselitismo da parte di una religione al
di fuori del proprio ambito
tradizionale dev’essere evitato, e se in uno stato
una religione è “soddisfacente” è opportuno
che la si la
mantenga e la si difenda [15]. Ma
il potere religioso e quello civile debbono essere
tenuti distinti:
Le leggi della perfezione, tratte dalla
religione, hanno come fine più il miglioramento
dell’uomo che le osserva che
quello delle società in cui esse sono osservate;
mentre le leggi civili hanno
come fine più il miglioramento morale degli
uomini in generale che quello
dell’individuo. Così per quanto rispettabili siano le
idee che discendono direttamente dalla religione,
non sempre esse debbono fornire i principi alle leggi civili, perché
queste hanno un loro fine particolare: il
bene generale della società. [16]
Fatto
“individuale” la fede non deve interferire
nella vita politica se non nella
misura in cui le leggi religiose sono compatibili
con quelle civili.
Quello di eguaglianza
è concetto non privo di ambiguità, passibile
di visioni tanto complesse quanto
differenti. Se per Meslier, Dom Deschamps
e Morelly si intende non
solo parità di diritti e di opportunità ma
una vera parità di condizione
indipendente da ruolo e posizione sociale,
differentemente l’intendono Montesquieu, Raynal e Condorcet. Vi sono poi posizioni intermedie come quella
di Paul-Pierre Mercier de la Rivière (1719-1801), un convinto fisiocrate, che
nel suo L’An 2440 del 1770 (opera ripubblicata dieci volte
nella
sola Francia prima del 1799) pensa che tutti
i cittadini, pur senza condividere
la medesima posizione sociale, debbano in
qualche maniera riprendere
«l’eguaglianza primitiva della natura» [17]. Ma poi egli ritiene inviolabile il diritto
alla proprietà in
tre forme: personale, mobiliare, fondiaria.
Un tema, quello del “ritorno alla
natura” i in relazione all’uguaglianza (lo abbiamo già
visto nella Prima Parte), di grande fascino
e successo nel mondo settecentesco,
pervadente ampli settori della cultura illuministica.
La concezione ugualitaria
trova un altro interessante esponente in
Gabriel Bonnot
de Mably (1709-1785), nemico del dispotismo e favorevole
a una democrazia rappresentativa, ma non nelle
forme estreme
rousseauane. Anch’egli fa in
qualche modo riferimento ad un “diritto naturale”,
auspicando un controllo
sull’eccessiva concentrazione della proprietà
fondiaria e un’equa distribuzione
della terra. Scrive in De la législation,ou Principes
des lois (1759):
Credo che la natura destini gli uomini ad
essere
uguali. Mi sembra che essa abbia confidato
all'uguaglianza l’osservazione delle
nostre qualità sociali e la felicità; e ne
concludo
che il legislatore si darà unicamente delle
pene inutili se tutta la sua
attenzione sarà concentrata soltanto sul
fatto di stabilire l’uguaglianza nella
fortuna e nelle condizione dei cittadini.
[…] L’uguaglianza deve procurare
tutto il bene possibile, poiché tiene uniti
gli uomini. Eleva la loro anima e
li educa a dei sentimenti di mutua benevolenza
ed amicizia; ne concludo che la disuguaglianza produce tutti i mali.
[18]
In maniera non dissimile da Rousseau, per
quanto in senso decisamente comunistico, vede il
concetto di uguaglianza il già citato Morelly, che
riprende in senso religioso la concezione,
già meslieriana,
secondo la quale solo il popolo può conferire
potere politico. Nel poema Naufragio
alle isole galleggianti, o la Basiliade del 1753,
dove immagina uno stato ideale, armonico
e senza classi, il popolo è sovrano; ma
è nel Codice della natura, del 1755 (a lungo attribuito a Diderot)
che egli
definisce il suo modello teorico di socialità.
Il principio di base è che le
leggi della natura non possono che essere
buone poiché Dio, in
quanto bontà assoluta, non ha potuto che farle
tali. Siccome è l’egoismo individualistico a rendere malvagia e ingiusta
la
società bisogna eliminare la proprietà privata,
fonte di avidità e
disuguaglianza. Il modello prevede: A. che
il diritto di proprietà riguardi
solo gli attrezzi d’uso per i bisogni elementari
e per il lavoro, B. che sia lo
stato a provvedere ai bisogni dei cittadini,
C. che ogni cittadino debba
contribuire secondo le proprie possibilità
alle risorse comuni. Ma questo
modello plausibile diventa molto discutibile
quando si prevede: D. il divieto di ogni forma di commercio ed E. l’obbligatorietà
per i
cittadini in una certa fascia di età di un
lavoro obbligatorio stabilito dallo
stato. Non si può negare a Morelly originalità e
coraggio di pensiero, ma non si può trascurare
il rischio totalitario di un
modello (che affascinerà molto Babeuf) privo di
realismo antropologico.
Un altro grande esponente dell’utopia
ugualitaria è il frate benedettino Léger-Marie Deschamps (1716-1774), più noto come Dom
Deschamps; un personaggio interessante e singolare
che è latore di una metafisica della socialità
basata su di
un modello di “stato etico” e comunista che
prevede la comunità dei beni e delle risorse. Dopo
Les lettres sur
l’esprit du siècle,
un‘opera in difesa della vita monastica,
egli pubblica nel 1770 La voix de la raison contre la raison du temps, una confutazione
del Système de la
nature di d’Holbach. Ma è Le vrai système ou le mot de l’énigme metaphysique et morale, scritto
probabilmente poco dopo (ma scoperto nell’800
e pubblicato solo nel 1939), a
costituire il suo capolavoro. In esso si delinea un
sistema di società umana metafisicizzata e astratta,
dove non esiste il diritto di proprietà,
dove tutto è messo in comune (comprese
le donne), dove non esiste alcuna struttura
gerarchica, dove nessuno comanda,
dove l’aggressività umana è del tutto assente
e tutti si vogliono bene.
L’aspetto più curioso di questo sogno utopico sta nel
fatto che questa società ideale non è collocata
nello spazio, in qualche posto,
ma unicamente nel tempo, come “futuro dell’umanità”, in una proiezione teorica che egli chiama
“nullismo” (rienisme).
Questo frate ha il suo momento di notorietà
quando trova un convinto discepolo
nel marchese Marc-René de Voyer
d’Argenson, che lo mette in contatto con numerosi intellettuali
del tempo, tra i quali Helvétius, d’Alembert,
Voltaire, Robinet e Diderot, al fine di convertirli a
questa religione del futuro e costituire
la comunità “dei Veggenti”. Il
tentativo non ha successo, ma non pochi furono coloro
che rimasero affascinati da questo singolare
personaggio di profeta visionario
di un’umanità ideale e beata che si fonda
su una vera e propria mistica
sociale.
Ai tempi in cui scrivono questi apostoli
dell’uguaglianza la Rivoluzione è ancora lontana, ma dopo,
nel 1793, Jean Varlet può
stilare l’articolo 6 della Dèclaration solennelle des droits de l’homme dans l’état social che
recita:
L’uguaglianza è la conseguenza immediata
della libertà. Da questo prezioso principio deriva: 1.
che i cittadini possono essere ammessi a tutte le funzioni
pubbliche, senza distinzioni di nascita, fortuna,
né di stato, ognuno
secondo la propria capacità e in ragione
della stima e fiducia che ispira; 2. che la ripartizione delle cariche richieste
dai bisogni
della società non è uguale se non nella misura in cui
è proporzionale
alle facoltà dei contribuenti; 3. che l’individuo la
cui esistenza dipende da salari mediocri
non può esser tassato sul prodotto di
un lavoro alimentare; 4. che ogni segno distintivo destinato agli impieghi
deriva unicamente dall’esercizio delle funzioni; 5. che
le ricompense sociali sono proporzionate
al valore dei servizi resi e sempre ed
esclusivamente assegnate alle virtù, al merito
personale e dirette
costantemente all’utilità comune. [19]
Si
tratta di un testo fondamentale, che ci fa
comprendere come i tempi siano
maturi e le istituzioni rivoluzionarie possano
ormai far proprie ed attuare le istanze egualitarie frustrate da secoli di dispotismo.
Consideriamo ora il concetto di libertà, che per alcuni versi ha il carattere
di una pre-condizione e per altri
quello di un fine. Su questo tema dobbiamo qui
ricordare un importante
progetto di riforma dello stato in senso
libertario avanzata nel 1774 da Pierre-Samuel Dupont de Nemours, esposto in Mémoire
sur les municipalités.
In esso è prevista una riforma profonda dello stato
francese in senso democratico e su base elettiva,
con un nuovo tipo di
imposizione fiscale in senso proporzionalistico,
abolendo tutte le gabelle inique, i privilegi
indebiti e gli abusi. Questa
singolare figura di politico e di economista, capofila
dei fisiocrati e convinto che la buona politica
possa solo fondarsi
sull’economia, si lega a quella di Turgot, e con la
caduta di questi il progetto è accantonato.
Solo nel 1783 egli torna alla
politica e durante la Rivoluzione è eletto prima
deputato del Terzo Stato e poi presidente
dell’Assemblea Costituente.
Opponendosi alla decapitazione di Luigi XVI
è dapprima imprigionato e poi
espulso dalla Francia; emigra allora negli Stati
Uniti, e qui, su incarico di Jefferson, scrive Sull’educazione
nazionale negli Stati Uniti d’America. Tornato in Francia combatte la
politica economica del regime napoleonico;
osteggiato e battuto torna in
America per morirvi, nel 1817. Un altro
collaboratore di Turgot, Pierre
François Boncerf scrive nel
1776 Les inconvénients
des droit féodaux, dove prevede l’abolizione di
ogni diritto feudale, sì da essere la prima
opera che in Europa delinea
un sistema totalmente privo di quel diritto
feudale [20] che
aveva caratterizzato la storia del continente
dall’inizio del Medioevo.
Il tema della tolleranza religiosa ha come
sostenitori, dal più al meno, gli stessi
promotori di un’estensione della
libertà personale; i suoi modelli storici
sono il Saggio
sulla tolleranza (1667) e le Lettere sulla tolleranza (1689-1692) di
Locke, i Pensieri sulla Cometa (1682), il Commentario
filosofico (1686) e le voci Nicole e Pellisson del Dizionario storico e critico
(1695-1702) di Bayle. Ma il paese all’avanguardia in
fatto di tolleranza religiosa è nel Settecento
l’Olanda, e non è un caso che in
quel paese fosse nata l’Etica di Spinoza, che nelle parti II-V (specialmente l’ultima)
era
stata un inno alla libertà interpretativa
delle Sacre Scritture. Si può essere
stupiti del fatto che nel sedicesimo volume
de l’Encyclopedie,
uscito nel 1764, il formulatore della voce
“tolleranza”, il pastore ginevrino Romilly, non faccia
cenno esplicito a quella religiosa, ma si
deve tener conto che siamo ormai in un epoca in cui tolleranza religiosa e tolleranza
civile sono
considerate coincidenti a seguito del sensibile
indebolimento del potere
religioso in Francia [21].
D’altra parte, nel 1763, era apparso il Trattato sulla tolleranza di
Voltaire e poco dopo il suo Dizionario filosofico, dove la voce era così
introdotta: «Che cos’è la tolleranza? È l’appannaggio
dell’umanità. Noi siamo tutti impastati di
debolezze e di errori:
perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini:
è la prima legge di
natura.» [22] E tuttavia, nulla di acquisito ci poteva essere in una temperie
in cui la
Chiesa stava combattendo la sua “guerra”
contro tutto ciò che le si opponeva in
nome della libertà d’espressione. La feroce
controffensiva integralistica
di periodici clericali come il Journal de Trévoux e l’Année littéraire, aveva portato, appena due anni dopo,
all’incendio simbolico di una copia del Dizionario voltairiano
insieme col corpo del povero Cavalier de La Barre (Jean-François Lefebvre d’Ormesson) il 1° luglio del 1766. Il supplizio di
costui, un
diciannovenne di Abbevillle
(piccola città della Somme), colpevole di
non essersi tolto il cappello al
passaggio di una processione e di essere
un libertino è uno dei più tristi
episodi di una Francia bigotta che tredici
anni dopo avrebbe visto l’assalto
alla Bastiglia. Il giovane (accusato in soprappiù di
un reato di cui non era colpevole (aver anche
rotto un crocifisso
ligneo posto su di un ponte), venne torturato,
gli venne amputata una mano e
tagliata la lingua, infine fu bruciato vivo
sul rogo.
Il tema del progresso umano si estrinseca attraverso un processo evolutivo di
perfettibilità. Un’evoluzione umana che è
sì vista come progressiva e meliorativa, ma nel dettaglio l’atteggiamento rispetto
al
concetto di “progresso” si presenta all’epoca assai
articolato, passando dalle posizioni dall’arcaismo
nostalgico di
Rousseau, per il quale progredire significa
ritornare verso lo stato di natura,
e quelle di Marie-Jean-Antoine Caritat
de Condorcet (1743-1794), che auspica invece il
superamento del passato in un nuovo orizzonte
di socialità. Per lui le premesse
indispensabili del progresso umano sono:
l’eliminazione di tutte le
disuguaglianze sul piano politico, l’instaurazione
di una democrazia rappresentativa,
la fissazione di garanzie giuridiche per
tutti; con ciò si apre la possibilità
di un perfezionamento continuo dell’uomo
basato sul fatto che egli è animale
sociale ed intelligente. A mezza strada si
colloca Guillaume-Thomas Raynal, il
quale, concependo il progresso come miglioramento
del modo di vivere, rileva:
Il desiderio e la libertà riguardano il
godimento; ed essi costituiscono le due basi
di attività,
i due principi della socialità umana. […]
Nella natura dell’uomo debbono essere cercati i suoi mezzi di felicità.
Che cosa occorre all’uomo per essere il più
possibile
felice? La sussistenza per il presente e, se egli
pensa al
futuro, la speranza e la certezza di questo
primo bene. Ma l’uomo
selvaggio, che le società civili non hanno
respinto o confinato nelle regioni
artiche, è forse privo di questo elemento
indispensabile? […] È molto importante, per
le generazioni future, non perdere
di vista il quadro della vita e dei costumi
dei selvaggi. […] Questa scoperta
ha diffuso grandi lumi, ed è stata l’origine
dei piccoli beni prodotti
dall’opera di riforma. Si può pertanto dire
che l’ignoranza dei selvaggi abbia
rischiarato i popoli civili. [23]
Raynal ha una concezione particolarmente
interessante di progresso, intanto perché
pone il benessere materiale e una
certa felicità come suoi presupposti indispensabili,
poi perché la sua
prospettiva implica considerazioni antropologiche
profonde e vede l’attività
riformista in funzione di queste.
Anche Turgot è esponete di maggior del concetto di progresso;
sentiamo
che cosa pensa:
I progressi, benché necessari, sono interrotti
da decadenze frequenti, a causa degli avvenimenti
e delle rivoluzioni che
vengono ad arrestarlo. Perciò essi sono stati
diversi presso i vari popoli … Il
popolo che ha acquistato per primo cognizioni un po’
maggiori è diventato rapidamente superiore
ai propri vicini: ogni progresso
rende più agevole quello successivo. [24]
Ma torniamo a Condorcet
che è il più decido assertore e teorizzatore
del progresso umano. Sin dalla
gioventù i suoi interessi sono di carattere
eminentemente matematico ed egli
immagina un modello matematico anche per
l’evoluzione dell’uomo. Amico di Turgot e di D’Alembert, da vero
“tecnico della socialità”, egli pubblica
poco prima di finire in carcere e morirvi
[25] un Tableau
général de la science qui a
pour objet l’application du calcul aux
sciences politiques et morales, dove delinea un nuovo tipo di scienza sociale basato
sulla
matematica. In Esquisse d’un
tableau historique des progrés de l’esprit humain, pubblicato
poco dopo la sua morte, egli scrive:
[Introduzione] Al perfezionamento delle
facoltà umane non è stato posto alcun termine,
e la perfettibilità dell’uomo è
realmente indefinita: i progressi di questa
perfettibilità, ormai svincolati da
ogni potere che volesse arrestarli, non hanno
altro termine che la durata del
pianeta su cui la natura ci ha collocati. […] [Cap.IX] Tutte le occupazioni
intellettuali degli uomini, per quanto differenti
nel loro oggetto e nel loro
metodo, oppure per le qualità che esigono,
hanno contribuito ai progressi della
ragione umana. […] [Cap. X] Le nostre speranze
sul futuro del genere umano
possono venir riassunte in tre punti importanti: la
distruzione della disuguaglianza tra le nazioni:
i progressi dell’eguaglianza
all’interno di uno stesso popolo, ed infine
il perfezionamento reale dell’uomo.
[26]
Sul tema della legge come su quello della
tolleranza
si innesta anche la figura di Cesare Beccaria (1738-1794), il giurista che nel 1764 dà
alle
stampe Dei delitti e delle pene, dove, ad un accurata analisi delle
distorsioni della giustizia del tempo, si
accompagna la proposta
dell’abolizione della pena di morte. Egli
è dello parere
di Montesquieu nel considerare la fede una realtà della
sfera individuale, che non deve interferire
con quella collettiva e civile ed a
lui ha fatto costante riferimento nei suoi
studi sulla in rapporto alla legge e
alla sua applicazione. A questo intellettuale schivo e
solitario toccherà un’inaspettata fama, poiché
il suo piccolo ma straordinario
saggio, tradotto in quasi tutte le lingue
europee, diventa un testo cult
per un più moderno modo di considerare gli
strumenti della giustizia, sì da far
dire a Melchior Grimm, il grande amico di Diderot:
«Sarebbe auspicabile che tutti i legislatori
dell’Europa prendessero in
considerazione le idee del signor Beccaria per
rimediare alla barbarie fredda e giuridica
dei nostri tribunali.[27]
Nell’Introduzione si sottolinea:
Apriamo le istorie e
vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon essere
patti di uomini liberi, non sono state perlopiù che
lo
stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate de
una fortuita e passeggera necessità; non
già dettate da un freddo esaminatore
della natura umana, che in un sol punto concentrasse
le azioni di una
moltitudine di uomini, e le considerasse
in questo punto di vista: la
massima felicità divisa nel maggior numero. [28]
Di
questo principio, a base di tutte le teorie
eudemonistiche
posteriori, ne darà teorizzazione compiuta l’utilitarista inglese Jeremy Bentham (1748-1832) nei
termini canonici della “maggior felicità
possibile per il maggior numero
possibile di uomini”. Per quanto Bentham
sicuramente lo desuma da Beccaria,
va anche rilevato che già nel Sistema di filosofia morale di Francis Hutcheson (1694-1746),
pubblicato postumo nel 1755, era stato accennato
un principio simile. Ma è solo dopo il libro di Beccaria
che il principio eudemonistico si affermerà diventando condiviso dalla
maggior parte degli intellettuali progressisti
europei. Com’è noto, non però da
Kant, che ne l’Antropologia
dal punto di vista pragmatico (1798) sostenne la felicità individuale
essere inconciliabile con la moralità dello
stato quale espressione della virtù
della comunità.
Relativamente al
diritto di punire Beccaria riprende Montesquieu nel sostenere che: «ogni atto di
autorità di uomo a uomo che non derivi
dall’assoluta necessità è tirannico.» [29] Il
concetto di “utilità” si concilia e con l’eudemonismo
e con il bene comune
attraverso un sistema giudiziario giusto,
forte e sicuro, che realizzi l’utilità sociale [30]:
Osservate che la parola diritto non è
contraddittoria alla parola forza, ma la prima è piuttosto una
modificazione della seconda, cioè la modificazione più
utile al maggior numero. E per giustizia
io non intendo altro che il vincolo
necessario per tenere uniti gli interessi
particolari, che senz’esso si scioglierebbono
nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che
oltrepassano la necessità di conservare questo
vincolo sono ingiuste di lor natura. [31]
La
conclusione è di notevole peso: la comminazione
di pene “non necessarie” si
traduce immediatamente in ingiustizia. Non
solo, l’infliggere pubbliche
sofferenze al reo («Le strida di un infelice»)
oltre a non mutare le conseguenza del delitto compiuto non è neppure dissuasivo
per altri potenziali criminali, sicché: «
Quelle pene dunque e quel metodo
d’infliggerle dev’essere prescelto che, serbata la
proporzione, farà un’impressione più
efficace e durevole sugli animi degli uomini,
e la meno tormentosa sul
corpo del reo.» Un principio dirompente sulla
radicata e diffusa teoria
“dell’esempio” che continuerà a sopravvivere
ben oltre Beccarla e che delle
esecuzioni pubbliche aveva fatto il piacere dei sadici
e degli imbecilli. Ma su questo tema si sviluppa
l’ancor più importante accusa beccariana contro la tortura, pratica diffusissima
sia nei
tribunali ecclesiastici che in quelli pubblici,
mirante ad estorcere confessioni a volte
del tutto false, poiché il torturato
segue l’unico impulso di interrompere la
sofferenza. Per questo, da un punto di
vista morale, l’abolizione della tortura
è ben più importante di quella della
pena di morte, ma anche su questo
terreno in molti contesti la perorazione del Nostro
resterà lettera morta.
La tortura è un’infamia che cala ingiustamente
sulla vittima, poiché: «La tortura medesima
cagiona una reale infamia a che ne è la vittima. Dunque con questo metodo si
toglierà
l’infamia dando l’infamia.» [32] Se l’infamia è un costo che grava giustamente
sul crimine la
sofferenza indebita sul criminale finisce
per cancellare un’infamia con
un’altra infamia ed il crimine della tortura
finisce per alleggerire la colpa
del criminale, con un risultato morale opposto
a quello perseguito dalla
giustizia. Inoltre, « Questo infame crogiuolo della
verità » [33] è una barbarie risalente
ancora ai « giudizi di Dio » (come le “prove
del fuoco”) dove era solo
l’insensibilità al dolore e la resistenza
ad essa a determinare il
riconoscimento dell’innocenza o della colpevolezza.
Qui Beccaria,
che pure è fervente cristiano, si oppone
alla convinzione teologica in base
alla quale si ritiene che ci pensi Dio a
rivelare l’innocenza del supposto reo rendendolo
resistente alla prova. Quest’idea perversa
in qualche modo persisteva, e in relazione alla diversa soglia del dolore o a gradi differenti
dell’istinto di conservazione sotto tortura
poteva accadere che un innocente
poco resistente confessasse una colpa non
compiuta, mentre un colpevole capace
di resistere poteva venire assolto con la
convinzione che “era Dio ad averlo aiutato”;
un vero e proprio stravolgimento degli scopi
della giustizia che Beccarla
evidenzia con forza [34] Ma se le pene devono essere le minori
possibili esse debbono esser “certe”, poiché
a funzionare «non è la crudeltà
delle pene, ma l’infallibilità di esse.»
e «La
certezza di un castigo, benché moderato,
farà sempre una maggiore impressione
che non il timore di un altro più terribile,
unito con la speranza
dell’impunità.» [35]
Relativamente alla
pena di morte: l’infliggerla non è un diritto della comunità, ma è
piuttosto «una guerra della nazione contro
il cittadino, perché giudica
necessaria o utile la distruzione del suo
essere.» [36] Beccaria considera “casi eccezionali”, in cui la
pena di
morte può essere presa in considerazione,
solo quelli in cui l’operato di qualcuno possa mettere a repentaglio
l’integrità
e la libertà della comunità, nonché quelli
in cui la morte di un colpevole
risulti un sicuro fattore dissuasivo di emulazione
[37]. In
generale egli ritiene però che il vero fattore
dissuasivo sia la durata della
pena e non la sua violenza: «Non è l’intensione della
pena che fa il maggior effetto sull’animo
umano, ma l’estensione di essa.» [38],
perciò propone l’ergastolo al posto della
morte, anche perché: «moltissimi
riguardano la morte con viso tranquillo e
fermo, chi per fanatismo e chi per
vanità.» [39] Nel
seguente passo si evidenzia la ragione di fondo che
ispira il Nostro, cioè l’abbandono, per quanto
possibile, del ricorso alla
violenza [40]:
Non è utile la pena di morte per l’esempio
di atrocità che dà agli uomini. Se
le passioni o la necessità della guerra hanno
insegnato a spargere il sangue
umano, le leggi moderatrici della condotta
degli uomini non dovrebbero
aumentare il fiero esempio, tanto più funesto
quanto la morte legale è data con
istudio e con
formalità. Parmi un assurdo che le leggi che
sono l’espressione della pubblica volontà,
che detestano e puniscono
l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e per
allontanare i cittadini dall’assassinio,
ordinino un pubblico assassinio. [41]
Non
si dà, quindi, un buon esempio contro il
delitto, commettendone uno legalizzato, ed i delitti non si riducono
attraverso la
punizione, ma per mezzo della prevenzione:
È meglio prevenire i delitti che punirgli.
Questo è il fine principale di ogni buona legislazione,
che è l’arte di condurre gli uomini al massimo
di felicità o al minimo
d’infelicità possibile, per parlare secondo
tutt’i
calcoli dei beni e dei mali della vita. [42]
Né
le leggi debbono essere troppe, poiché: «A che saremmo
ridotti, se ci dovesse esser vietato tutto
ciò che può indurci al delitto?
Bisognerebbe privare l’uomo dell’uso dei
suoi sensi.» Ma oltre al numero è molto importante la qualità:
Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi
siano chiare, semplici, e che tutta la forza
della nazione sia condensata a
difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a
distruggerle. Fate che le leggi favoriscano
meno le classi degli uomini che gli
uomini stessi. Fate che gli uomini le temano,
e temano
esse sole.[43]
La
legge determina lo stare insieme degli uomini
e va difesa con tutti i possibili
sforzi per la difesa dell’armonia della comunità
e il conseguimento del “bene
possibile”, ma all’interno della comunità
i raggruppamenti e le classi sono
meno importanti dell’individualità, sicché
esse devono “per l’uomo” e non per
“una classe” di privilegiati (il clero e
l’aristocrazia).
La prospettiva eudemonistica
e l’attenzione all’individuo sono due tra
gli elementi emergenti del pensare
illuministico, ma sono strettamente connessi
ai progressi nella cultura
scientifica e alla sua diffusione:
Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi
accompagnino la libertà. I mali che nascono
dalle cognizioni sono in ragione
inversa alla loro diffusione, e i loro beni
lo sono
nella diretta. […] Le cognizioni facilitano
i paragoni degli oggetti e
moltiplicandone i punti di vista, contrappongono
molti sentimenti gli uni agli
altri, che si modificano vicendevolmente,
tanto più facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le medesime
resistenze. [44]
8.2 Per una civiltà della tolleranza
Il XVIII
secolo è quello in cui il principio della
tolleranza comincia ad imporsi come
elemento indispensabile della convivenza
tra visioni del mondo differenti e
soprattutto tra indirizzi religiosi alternativi.
Marsilio da Padova (1275-1343)
era stato il primo a porre in modo chiaro,
nel Defensor pacis del 1324, la distinzione
tra laica societas
ed ecclesialae communitas e
la tesi che la convivenza civile, nello spirito
della prima, non dovesse venire influenzata dalla dottrina e dai precetti
della
seconda; posizione condannata dalla Chiesa
nel 1327. Sarà però in seguito alla
Riforma che il tema della tolleranza tornerà
in primo piano in opere di umanisti come Tommaso Moro (Utopia, 1515) ed Erasmo da Rotterdam (Colloquia familiaria, 1518), trovando nel
savoiardo Martinus Bellius
(pseudonimo di Sébastien Castellion)
il più valido assertore nel De Haereticis an sint
persequendi del 1554. L’opera è ispirata dalla
condanna di Serveto e costituisce una forte apologia della
tolleranza, cui farà seguito anche Jean Bodin coi suoi Traité de la Republique (1576) e Colloquium Heptaplomeres
(1593). Il Seicento, peraltro, aveva visto
un riaccentuarsi
delle guerre di religione e con esse la diffusa
coscienza dei pericoli dell’intolleranza
religiosa ed anche Spinoza
(Etica, Parte Quinta), difendendo la
libertà interpretativa delle Sacre Scritture,
operare a favore della tolleranza.
Ma è Locke a dare il maggior
contributo col Saggio sulla tolleranza
del 1667 e poi con le tre Lettere sulla
tolleranza, scritte tra il 1689 e il 1692.
Vediamo
alcune puntualizzazioni lockiane
relative a tre tipi di costrizione: «1. La proibizione di pubblicare o divulgare
una qualsiasi opinione. 2. L’imposizione di rinunciare od abiurare una
certa opinione.
3. La costrizione di dichiarare un assenso
ad un opinione
contraria.» [45].
Locke sostiene, A.: «Che il magistrato può proibire
di manifestare pubblicamente una di queste
opinioni, quando in se stessa tenda
a creare disturbi al governo della cosa pubblica.» [46]
B.: «Che nessun uomo dovrebbe essere costretto
a rinunciare a
una sua convinzione o a dare il suo assenso
ad una convinzione contraria alla
sua.» [47].
C.: «Che il magistrato ha il potere di ingiungere
o proibire
ogni azione che derivi da una di queste opinioni,
come tutte le altre cose
indifferenti nella misura in cui esse tendono
alla pace e alla sicurezza
» [48].
D.: «Che se il magistrato, in siffatte opinioni
ed azioni, tenti, con leggi ed
imposizioni, di costringere ed indirizzare
gli uomini in una direzione
contraria alle convinzioni sincere della
loro coscienza, è lecito chiedersi se
essi debbano fare ciò che la loro coscienza
esige.» [49]. Considerazioni che possono parere abbastanza
ovvie, ma che non lo
erano affatto alla fine del XVII secolo e
per nulla gradite ai poteri
costituiti e meno che mai alle gerarchie
ecclesiastiche, sia protestanti che
cattoliche. Vediamo gli sviluppi dell’argomentazione:
Considerando,
dunque, il potere che ha il magistrato sulle
azioni buone e cattive, mi pare
che ne debbano seguire le seguenti conclusioni:
1)
Che
egli non è tenuto a punire tutto, cioè può tollerare
alcuni vizi; e vorrei ben sapere quale governo
al mondo non agisce in questo
modo!
2)
Che egli non deve imporre la pratica di nessun
vizio, poiché un ordine siffatto non potrebbe
in alcun modo riuscire utile al
bene
[…]
3)
Dal
momento che gli uomini adottano la loro religione
quasi in blocco e accettano
come loro proprie tutte le opinioni della
professione religiosa cui aderiscono, accade spesso che essi mescolino col loro
culto
religioso e con le loro opinioni speculative
altre dottrine completamente
distruttive della società in cui vivono,
come è chiaro nel caso dei cattolici,
che non sono sudditi di alcun altro sovrano
che non del papa. Pertanto, coloro
i quali mescolano alla loro religione siffatte
opinioni e le riveriscono come
verità fondamentali […] non dovrebbero esser tollerati
dal magistrato. [50]
Seguono altre considerazioni
importanti:
Se
tutte le cose che possono occasionare disordini
o cospirazioni
in uno stato dovessero non essere tollerate,
allora tutti gli uomini scontenti
ed attivi dovrebbero essere allontanati […]
E se non possono esser tollerate
tutte le associazioni e corporazioni promosse
da individui e distinte dallo
stato, allora si dovrebbero abolire tutte
le corporazioni di città, soprattutto
delle grandi città oggi esistenti. [51]
La conclusione
è drastica:
E
se v’è qualche uomo fornito di ragione che
inclini a pensare che la forza e la
costrizione si siano mai dimostrati anche
una sola volta il modo giusto per
distruggere un’opinione o una religione,
o a distruggere un gruppo di uomini uniti nella professione di una religione,
allora
sono tenuto a dire che questo è, invece,
il metodo peggiore di tutti. [52]
Sono poi precisate
le ragioni di tale negatività, mentre la
tolleranza migliora l’industriosità
del popolo e favorisce la ricchezza dello
stato. Le controversie religiose
nascono da elementi «non sostanziali » [53]
della religione stessa e la cristiana è quella
che ha visto le peggiori lotte
intestine per la mancanza di tolleranza reciproca
tra le fazioni.
Con la seconda Lettera sulla tolleranza, del 1790, l’argomento è sviluppato con
ulteriori precisazioni, a partire dalla fondamentale
premessa che: « La tolleranza verso chi dissente
in fatto di religione è così
gradita al Vangelo […] da far apparire mostruoso
il fatto che gli uomini siano
talmente ciechi da non distinguere chiaramente
la necessità e il vantaggio di
essa.» [54].
Da ciò:
Ritengo
che la società politica sia un’associazione
di uomini
costituita solo per curare, difendere e migliorare
i loro interessi civili.
Chiamo interessi civili la vita, la libertà,
la salute e il benessere del corpo,
oltre al possesso di cose esteriori come
denaro, terre, case, mobilio e simili.
[…] l’intera giurisdizione del magistrato
riguardi solo questi interessi civili
[…] [55]
Con estrema
chiarezza il cristiano Locke condanna l’ingerenza religiosa
negli affari civili ribadendo la separazione dei
poteri Alla religione compete gestione di
ciò che riguarda l’anima ma non di
ciò che concerne il corpo, e di converso
«la cura del anime non può dipendere
dal magistrato civile.» [56]
E poi un richiamo che all’epoca non doveva
suonare peregrino:
Non
basta che gli ecclesiastici si astengano
dalla violenza, dalla rapina e da ogni
tipo di persecuzione, Chi pretende di essere
un successore degli apostoli, e si
assume il compito di insegnare, è anche obbligato
a predicare ai suoi ascoltatori
il dovere di pace e di buona volontà verso
tutti gli uomini. [57]
Locke ha visto
chiaramente come sia dai pulpiti che nasce
l’intolleranza e come sia necessario che
siano proprio gli ecclesiastici a
combatterla. E relativamente ai poteri della
magistratura: «ciò che è lecito nella società
politica non può essere
interdetto dall’autorità civile in chiesa.»
[58];
ed ancora: «Si potrebbe chiedere: il magistrato
deve
anche tollerare che una chiesa sia idolatra?
Rispondo: quale autorità potrebbe
essere concessa al magistrato per sopprimere
una chiesa idolatra, che a suo
tempo e luogo non possa esser usata per distruggere
una chiesa ortodossa?» [59]
L’argomento è posto in generale, ma qui pare
rivolto al Calvinismo, che
all’epoca si distingueva per la persecuzione
in quanto “idolatra” di ogni altra
fede alternativa. Un personaggio degno di
essere ricordato è anche Christian Thomasius (1655-1728),
docente di diritto a Lipsia, Berlino e Halle, che col
suo Fundamenta juris naturae del 1705 si espresse duramente contro
un’intolleranza religiosa ancora presente
anche nel mondo luterano. Il suo
bersaglio principale era il defunto teologo-giudice
Benedikt
Carpzov (1505-1666), che soleva vantarsi di essere
riuscito a condannare a morte e mandare al
rogo almeno 20.000 persone [60]
Resta da aggiungere che il principio di tolleranza
troverà compimento
legislativo ufficiale nella Dichiarazione
di indipendenza degli Stati Uniti del 1776,
ripresa e confermata nella Costituzione
federale (Bill of Rights)
nel 1791. La tolleranza teorizzata da Voltaire
trova diretta espressione
all’indomani dello scoppio della Rivoluzione
con l’Articolo 10 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, che recita: « Nessuno deve essere disturbato
per le sue opinioni
anche religiose, purché la manifestazione
di esse non
turbi l’ordine pubblico stabilito dalla legge.»
8.3 La felicità e il diritto al piacere
Pascal verso la fine della sua breve vita scrive
nei Pensées: « [387]
Desideriamo la verità e non troviamo in noi
se non incertezza. Cerchiamo la
felicità, e non troviamo se non miseria e
morte. Siamo capaci di non aspirare
alla verità e alla felicità, e siamo incapaci
di certezza e di felicità. Tale
aspirazione ci è lasciata sia per punirci sia per
farci sentire di dove siamo caduti.» [61] Com’è
noto il matematico-teologo francese aveva
risolto il problema con l’affidamento
alla fede, trovandovi certezza immediata
e felicità differita, ma nel secolo del Lumi questo atteggiamento risultava “medievale”.
Felicità e
piacere non sono necessariamente connessi,
ma nel XVIII secolo, acquistano un
loro nesso preciso in relazione all’affermazione della
dimensione individuale, ed anche al delinearsi
di un nuovo orizzonte di libertà
personale, sia di pensiero che di comportamento.
L’aspirazione dell’individuo a
realizzarsi liberamente ed indipendentemente
da schemi etici tradizionali (con
una nuova attenzione alla sfera del profano,
a scapito di quella del sacro)
determina anche un nuovo rapporto col piacere
e indirettamente con la
sessualità. Nei confronti di essa, anche in relazione
ad una maggior informazione sul piano medico-fisiologico,
muta l’atteggiamento comune, o quanto meno
di buona parte della popolazione. E il Settecento è il secolo in cui anche la
“felicità
generale” diventa oggetto di studio coniugandosi
con la socialità e la
politica.
Vediamo
ora, in rapidissima sintesi, com’era stata vista la
felicità precedentemente. Nel VII sec.a.C. il
naturalista ionico Talete la vedeva nella buona
salute, in un po’ di fortuna e in una buona educazione;
il materialista Democrito in un misurato piacere e
nell’uso della ragione. Poi arrivano Socrate
e Platone, i quali predicano che
la felicità sta nella “virtù” (Gorgia, 508 b; Simposio, 202 c; Repubblica
I, 353 d) e più o meno negli stessi termini
la pensano
Aristotele (Et. Nicomachea
I, 13; Politica VII, 1, 1323) e gli Stoici. I Cirenaici ed Epicuro rompono questa uniformità moralistica portando in primo
piano il
piacere quale grande risorsa per il raggiungimento
della felicità, i primi in
senso dinamico (come corsa al piacere) il
secondo in senso statico (come
assenza di dolore). Per il Neoplatonismo
e il Cristianesimo
la felicità è vita in riferimento a Dio, per
il primo come ascesi alla
sfera del divino e per il secondo nello stato
di Grazia sulla Terra in attesa
della beatitudine eterna. Nel Medioevo il
problema della felicità è del tutto
accantonato come blasfemo, ancorché i
potenti, laici o religiosi, possano permettersi di
realizzarla agevolmente senza renderne conto
a un Dio che sembra punire solo i
deboli.. L’Umanesimo vede una ripresa dell’epicureismo
e con esso una riattualizzazione del tema della felicità terrena, concettualizzata in varie sfumature ma perlopiù inquinata
da elementi platonici e stoici che portano
a formulazioni sincretiche
assai ambigue.
Il problema della felicità occupa Lorenzo Valla (1405-1457) dalla giovinezza alla
vecchiaia. Il suo primo saggio sull’argomento
è il De voluptate,
del 1431, cui seguono successive rielaborazioni di
esso con titoli diversi: De vero falsoque bono del 1433, De vero bono
dal 1444 al 1449, per tornare a De vero falsoque bono nell’ultima edizione. Si tratta del primo
tentativo di approfondire il problema della
felicità in diverse accezioni ma specialmente
sotto il profilo antropologico, in quanto il
”piacevole” e l’”utile” sono le vere molle
dell’agire umano, senza essere per
nulla incompatibili con l’onesta, la rettitudine
e la virtù. L’intento è di
depurare il concetto di felicità da equivoci
inquinamenti moralistici di
matrice stoica, presenti specialmente nel
De consolatione
philosophiae di Boezio
(480-526), un testo tanto prestigioso quanto diffuso
che vede la felicità in uno stato virtuoso
che prevede la rinuncia al piacere e
la repressione del desiderio. Una prima enunciazione
schietta del “principio di
piacere” l’aveva offerta nel 1431 l’umanista
Cosma Raimondi
(1400 c.a-1435), già autore nel 1429 di una
Defensio
Epicuri contra Stoicos, che scrive in una
lettera:
La
figura e la costituzione dell’uomo è fatta in modo che
possa soprattutto ottenere il piacere; essendo
noi tratti ad esso per natura;
essendo state moltissime e notevolissime
cose generate per il piacere;
dirigendosi tutte le nostre azioni a questo
fine, al vivere cioè senza
molestia; tutto essendovi cercato per il
godimento. Chi ci può essere così
avverso ad Epicuro che, essendo la sua dottrina
provata e sostenuta da argomenti così veri
e stringenti, non aderisca infine
alle sue concezioni e non affermi che la
più grande
felicità è nel piacere? [62]
La
“naturalità” del piacere legittima l’aspirazione
incondizionata ad un piacere
“dinamico” che non è quello di Epicuro,
ma piuttosto quello dei Cirenaici, e particolarmente
di Aristippo [63].
Ma l’importante da rilevare è che nel Rinascimento
si comincia a riconoscere il
diritto al piacere fisico quale legittimità
naturale, contrapponendola ad una
millenaria e teologica esecrazione di esso, ma va
detto che si tratta perlopiù di un concetto
di “nicchia culturale”.
Locke, come
abbiamo visto, identifica chiaramente la
felicità col massimo piacere possibile
nell’ambito del lecito, ed anche Gassendi era praticamente su questa linea. Ma è l’inglese ad affermare
esplicitamente l’incompatibilità del dolore
con la felicità, identificando
chiaramente questa come non solo connessa
allo stato fisico, ma dipendente da esso
(Saggio sull’intelligenza, II, XXI, 36) :
E pertanto, ciò che immancabilmente determinerà
la scelta della volontà nostra nei riguardi
della prossima azione, sarà sempre
la rimozione del dolore finché noi ne proviamo
alcuno, come primo e necessario
passo verso la felicità. [64]
E dunque:
42.
Se si domandasse ancora che cosa sia che muove
il
desiderio, risponderei: la felicità, ed essa
sola. […] 43. La felicità, dunque,
nella sua estensione piena, è il massimo
piacere di cui siamo capaci, e
l’infelicità è il massimo dolore; e l’estremo
grado di ciò che può esser
chiamato felicità è di essere tanto liberi da ogni
pena, e di aver tanto piacere presente, da
non poter essere contenti con meno. [65]
La
sensazione di essere felici ha quindi l’assenza di
dolore come suo presupposto ma nello stesso
tempo ciò si costituisce come una
“limite inferiore” dello stato di benessere.
Locke ha
chiarissimo il senso dell’”essere felici”
come fatto individuale e soggettivo e
che la felicità può essere sperimentata tanto
con i piaceri spirituali quanto
con quelli fisici, senza porre pregiudizialmente
su differenti piani assiologici e morali i due tipi di piacere:
Nessuno,
penso, sarà tanto insensato da negare che
vi sia un piacere della
conoscenza; e quanto ai piaceri dei
sensi, essi hanno troppi seguaci perché si
possa mettere in dubbio che gli
uomini ne siano attratti. Ora, poniamo che
una persona riponga la sua soddisfazione
nei piaceri sessuali, un’altra nel diletto
della conoscenza: sebbene ciascuna
di loro non possa non confessare che si trova
un grande
piacere in ciò che l’altra persegue, tuttavia,
poiché nessuno dei due fa del
piacere dell’altro una parte della sua propria
felicità, i loro desideri non ne
sono mossi, bensì ciascuno è soddisfatto
pur non avendo la cosa che all’altro
dà piacere; e così la volontà sua non è determinata
a perseguirla. [66]
Ma
nello stesso individuo i piaceri spirituali
e quelli fisici sono soggetti ad
una “compensazione” e ad una “alternanza”
nella misura in cui l’intellettuale
non accede al piacere
spirituale se soffre di qualche dolore nel
corpo, mentre il sensuale può
essere attratto dallo studio per uscire dal
disagio morale che gli può derivare
dalla noia della pura fisicità. L’analisi
di Locke
dei rapporti diretti piacere-felicità e dolore-infelicità
non significa che
egli assuma un atteggiamento agnostico nei confronti
della morale e della virtù, ma semplicemente
che egli intende operare su un
piano rigorosamente antropologico. Poco oltre precisa:
«55. Da ciò che
si è detto è facile trarre la spiegazione
del perché avvenga che, sebbene tutti desiderino
la felicità, la loro
volontà li trascini in direzioni così contrastanti:
e perciò, in certi casi, a
ciò che è male.»
[67]
La scelta delle vie per essere felici non
sono da
lasciare in gestione al puro desiderio, poiché
lo stato felice, che è di per sé un bene, non esclude un male
secondario, di tipo morale o fisico. E tuttavia
permane l’assoluta soggettività del desiderio
e della sensazione di felicità: «Questa varietà nei loro orientamenti
dimostra che ognuno non ripone la sua felicità
nella medesima cosa, o non
sceglie la stessa via per arrivarci.» [68]
Ma ciò né esclude né infirma la valutazione
morale dei
criteri per perseguire la virtù, poiché (II,
XXVIII, 11): «Che questa sia la natura ordinaria della virtù e del vizio
apparirà
chiaro a chi consideri che, sebbene in un
paese passi per vizio ciò che è considerato
virtù, o almeno non vizio,
in una altro, però, dovunque, virtù e lode
vanno assieme, e così vizio e
biasimo.» [69]
Il giurista-filosofo tedesco Christian Thomasius (1655-1728),
sulla base della fondamentale “socialità”
dell’uomo, aveva definito nel suo Dell’arte di amare ragionevolmente e
virtuosamente (1692) la felicità come «tranquillo diletto.
Essa consiste
nel fatto che l’uomo non percepisce né dolori
né gioia per qualcosa, e in
questo tende ad unirsi con altri uomini che
posseggono
siffatta tranquillità d’animo.» [70];
una nuova atarassia di tipo
“associativo” dove l’uomo «è stato creato
per amare altri uomini, poiché è
creato per la pace.»
[71].
A questo proposito è interessante anche la
posizione di Morelly,
il misterioso proto-comunista e utopista
di cui si ignorano
le date di nascita e di morte, il quale scrive
nel 1755 essere l’uomo debole e non-autosufficiente,
in quanto la natura
sembra aver fatto sì «che i
nostri bisogni eccedano sempre, anche se
di poco, i limiti del nostro potere » [72] Da questa insufficienza individuale di fronte
alla vita nasce la socialità che rende bisognosi
gli uni degli altri, e:
«Desideri e inquietudini, causati dalla distanza
momentanea di un oggetto
capace di soddisfarli » generano la ricerca
dell’altro sotto forma di un «attrazione morale » che ci fa cercare una «affezione
benefica per tutto ciò che allevia o soccorre la
nostra debolezza.» [73]
Il tema è prepotentemente posto nella
letteratura libertina sin dal Seicento, per
diventare tema frequente in molti
pensatori del Settecento, tra i quali emergono
gli atei La
Mettrie, Helvétius, d’Holbach e Diderot,
il pensiero dei quali verrà trattato nella
Parte Quarta, ai capitoli XI, XVI e XVII.
Il conseguimento della felicità è
frutto di un nuovo modo guardare alla vita,
ma in quanto
problema etico per eccellenza si intreccia
con quello della moralità. Diderot
ne tratta nel Il sogno di d’Alembert
e nel Supplemento al viaggio di Bougainville:
nel primo la liberazione sessuale si esprime
come superamento dei tabù per
mezzo della razionalità della scienza, nel
secondo con la riconsiderazione di una
naturalità per noi perduta. Nel Nipote di Rameau
Diderot ci offre la contrapposizione dialettica
tra i due concetti in maniera
flagrante: il filosofo parla in nome della
ragione e della morale illuministica
facendo i conti col salace nipote del grande musicista.
Questi, incline alla crapula e al sesso, rivendica un
“suo” modo d’essere felice, rimproverando
al filosofo di arrogarsi il diritto
di trattare quello di felicità come un concetto
universale. In questa dialettica
Diderot è sdoppiato, assumendo alternativamente
la parte di sé e quella
dell’”altro”, che mette in difficoltà il
“se stesso” moralista. Tra la presa in
giro di questo, la messa in evidenza dell’ipocrisia
moralistica, e la
liberatoria e disordinata aspirazione del
nipote ad essere se stesso, Diderot
traccia una linea tortuosa e problematica
che lascia del tutto aperta la
questione di una possibile conciliazione
di piacere e morale. Conciliazione
forse intravista nella socialità, nel bene
pubblico, scrivendo alla voce Societé dell’Encyclopédie:
L’intera economia dell’umana società si basa
su
questo principio generale e semplice: «Io
voglio esser felice, ma io vivo con
uomini che, come me, vogliono ugualmente
essere felici, ciascuno per loro conto;
cerchiamo i mezzi di procurare la nostra
felicità procurando la loro, o quanto
meno senza mai nuocervi » [74]
Diderot sembra
credere (o vuole credere?) nella possibilità
di conciliare il bene comune con
la felicità individuale. Alla sua posizione
critica, dubbiosa, relativistica,
fanno però riscontro nel secolo utopie sociologiche
che la ritengono
a portata di mano (con esiti, purtroppo,
fallimentari!).
Il problema della felicità si coniuga con
quello dell’infelicità e del dolore, ma il
pensiero illuministico deve ancora
fare i conti con l’onnipresente ottimismo
leibniziano
espresso nel Saggio di Teodicea del 1710. Il
deista Voltaire, che, coerentemente con l’ottimistica
credenza in un mondo
armonico e perfetto pilotato dalla Provvidenza
divina, ci ha creduto, si deve
riscuotere annichilito dal terribile terremoto
di Lisbona del 1755, che uccide
in un istante 30.000 innocenti. Quale giustizia
allora? Egli esprime il suo
turbamento nella stesura della voce Giobbe dell’Encyclopedie,
dove il suo scosso ottimismo metafisico tramuta
il mistero del comportamento fideistico di Giobbe in una sarcastica commedia umana.
Il patriarca biblico, il “giusto” per eccellenza,
che Satana ha
colpito su ordine di Dio per metterlo alla
prova. Un Giobbe che tutto
sopporta in nome del Creatore, ma, alla fine,
domandandosi: «Qual è il mio
peccato?», non ha compreso che il suo peccato
(questa è la morale) è di essersi
posta la domanda. Il turbamento del sensibile
Voltaire contrasta con
l’atteggiamento del cinico Rousseau, che
in una lettera a lui del 18 agosto
1765 gli obbietta quasi beffardamente che
dopo tutto Lisbona
non era che una città, misera cosa della
civiltà umana, e che quelle «ventimila
case di sei o sette piani» non erano opera
della Natura [75].
Guillaume-Thomas Raynal vede il problema in termini quasi “economicistici” e scrive ne L’histoire des deux
Indes (1770): «La società universale esiste per l’interesse
comune e per
l’interesse reciproco di tutti gli uomini
che la compongono. » [76]
Questo criterio dell’« interesse comune »
in
funzione di un «
accrescimento di felicità »
trova oltre la Manica un teorico rigoroso
in Jeremy Bentham (1748-1832), che nel 1789 dà alle stampe
l’Introduzione
ai princìpi della morale e della legislazione,
dove sono esposti i principi dell’utilitarismo. La dualità antropologica felicità/infelicità,
dove il secondo termine ha come causa prima
la sofferenza, impone al sociologo
di trovare gli strumenti “utili” per mettere
i singoli individui nella miglior
condizione per cercare di conseguire il primo,
poiché:
La natura ha posto l’uomo sotto l’imperio
della
“felicità” e del “dolore”. “Felicità” e “dolore”
sono la fonte delle nostre
idee, la sorgente dei nostri giudizi e delle
nostre determinazioni. […] Questi
sentimenti devono costituire il centro dell’indagine
del moralista e del
legislatore. Il principio dell’utilità subordina
ad essi
ogni cosa. “Utilità” è un termine astratto.
Esso esprime la capacità e la
tendenza di una cosa a preservarci da qualche
male o a procurarci del bene.
“Male” significa pena, dolore o causa di
dolori. “Bene” è gioia o fonte di
piaceri. È conforme all’utilità o all’interesse
di un individuo tutto quanto
tende ad aumentare la somma totale del suo
benessere. Ciò che è conforme
all’utilità e all’interesse di una comunità,
è quanto tende ad aumentare la
somma totale del benessere degli individui
che la compongono. [77]
Non è
difficile intuire, sullo sfondo, un chiaro
eco delle analisi lockiane e cogliervi la linea continua che la razionalità
illuministica britannica ha seguito dal XVII
al XVIII secolo, regalando
all’Europa pochi principi semplici e pragmatici
verso una “possibile felicità
dei molti” che non va confusa con la felicità
vera, quella individuale.
Diderot resta certamente il pensatore che
più di ogni altro ha colto la complessità del
sentimento della felicità, la sua relatività,
la sua irrangiungibilità
e da questa posizione nasce il suo disprezzo
per l’altro philosophe
ateo Helvétius, assertore della realizzazione
della felicità solo “nel
sociale”. Egli è un individualista e trova
quindi del tutto astratto, meramente
teorico e inconsistente ogni riferimento
ad un “insieme “ dove l’io-tu si possa realizzare nel noi. La felicità per lui è u un problema dominante
reso con la frase: «Abbiamo un solo dovere.
Essere felici!»
poiché «L’io vuol esser felice. Questa tendenza
costante è la fonte eterna, permanente,
di tutti i suoi doveri. Qualunque legge contraria
è un crimine di lesa umanità,
un atto di tirannia.» [78]
E tuttavia, se egli pone chiaramente come
“fine” il conseguimento della
felicità, si rende conto che si tratta di
un concetto-limite e che non esiste
alcun mezzo sicuro verso di essa. La felicità, qualche
volta, “accade”, ma la strada è già scomparsa
appena ci si accorge che la
felicità è “passata” e Diderot oscillerà
per tutta la vita tra l’utilizzo del
“morale” o del “piacevole” per arrivarci,
entrambi insufficienti e ingannatori.
Da ciò il grande vantaggio di Kant
che persegue solo il morale con il piacevole
come subordinato e lo svantaggio
di Diderot che in un breve scritto erratico
del 1769 dal sarcastico titolo Il
tempio della felicità aperto al pubblico afferma: «Volete che vi esponga
un’idea vera? È del tutto indifferente essere
uomo o coniglio. La felicità può
variare tra gli individui di una stessa specie;
ma credo che sia la stessa tra
una specie e l’altra.» [79]
[1] Montesquieu, Antologia degli scritti politici, a cura di N.Matteucci, Bologna, Il Mulino 1961, pp.136-137.
[2] Montesquieu, Dai pensieri, in: Antologia, a cura di N.Matteucci, Bologna, Il Mulino 1961, p.57.
[3] Ivi, p.60.
[4] Ivi, p.64.
[5] Ivi, p.90.
[6] Ivi, pp.92-93.
[7] Ivi, p.93.
[8] Ivi, p.94.
[9] Ivi, p.106
[10] Ivi, p.108.
[11] Ivi, p.109.
[12] Ivi, p.112.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, pp.179-180.
[15] Ivi, p.180.
[16] Ivi, p.180-181.
[17] R.Reichardt, Uguaglianza, in L’illuminismo, Dizionario storico, cit., p.92.
[18] Ivi, p.96.
[19] Ivi, pp.100-101.
[20] F.Diaz, Libertà, in L’illuminismo, Dizionario storico, cit., p.55.
[21] A.Rotondò, Tolleranza, in L’illuminismo, Dizionario storico, cit., p.65.
[22] Voltaire, Dizionario filosofico, a cura di F.Bonfantini, Milano, Mondadori 1970, p.620.
[23] Raynal, Histoire des deux Indes, in in L’illuminismo, Dizionario storico, cit., pp.365-369.
[24] Turgot, Plan de deux discours sur l’histoire universelle (I, Schelle, p.303) In: Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, p.357.
[25] Condorcet era girondino, sostenitore della legalità, contrario ai processi sommari e fortemente critico nei confronti dei comportamenti violenti dei Giacobini e soprattutto dei Montagnardi. Con l’andata al potere di questi, nel giugno le 1793, venne messo fuori legge. Riuscì a nascondersi e portare a termine i suoi ultimi iscritti. Scoperto e imprigionato si suicidò in carcere.
[26] Condorcet, Esquisse d’un tableau historique des progrés de l’esprit humain. in: Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, pp.369-372.
[27] C.Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F.Venturi, Introduzione, Torino, Einaudi 1965, p.XXI.
[28] Ivi, p.9.
[29] Ivi, p.12
[30] Tale opinione era quella di una classe intellettuale colta e progressista, ma non quella della maggior parte dei magistrati, conservatori e bigotti. Tra questi Pierre-François Muyart de Vouglans, appartenente ad una prestigiosa famiglia di magistrati ed esso stesso prima avvocato e poi consigliere del Parlamento di Parigi dal 1771. Autore anche di un grosso trattato sulla criminalità (Les lois criminelle de la France), obietta nel 1767: «Che cosa pensare di un autore che pretende di elevare il suo sistema sui rottami di tutte le nozioni ricevute sin qui? Che per accreditarlo fa il processo a tutte le nazioni civili; che non risparmia né i legislatori, né i magistrati, né i giureconsulti, che non rispetta le massime sacre del governo, dei costumi e della religione.» (Dei delitti e delle pene, cit., pp.426-427).
[31] Ivi, p.13.
[32] Ivi, p.40.
[33] Ibidem.
[34] Ivi, pp.40-44.
[35] Ivi, p.59
[36] Ivi, p.62.
[37] Ivi, p.62-63.
[38] Ivi, p.63.
[39] Ivi, p.65
[40] Un intellettuale che aveva fatto della lotta alla violenza uno dei suoi primi compiti, Voltaire, fu un grande estimatore di Beccarla, a cui indirizzava una lettera nel maggio 1768 che iniziava con: «Le mie malattie, Signore, mi impediscono di ringraziarvi di mia mano, ma vi ringrazio francamente con tutto il mio cuore.» e così si chiudeva: «Dal momento che non ho potuto avere l’onore di vedervi, di abbracciarvi, oso dire di piangere con voi! Ho almeno la consolazione di potervi dire quanto vi stimi, vi ami e vi rispetti» (Dei delitti e delle pene, cit., pp.450-451).
[41] Ivi, p.67.
[42] Ivi, p.96.
[43] Ivi, p.97.
[44] Ivi, p.98.
[45] J.Locke, Antologia degli scritti politici, a cura di Felice Battaglia, Bologna, Il Mulino 1962, p.123.
[46] Ibidem.
[47] Ivi, p.124.
[48] Ibidem.
[49] Ivi, p.125.
[50] Ivi, pp.128-129.
[51] Ivi, p.129.
[52] Ivi, p.130.
[53] Ivi, p.144.
[54] Ivi, p.150
[55] Ivi, p.151.
[56] Ivi, p152
[57] Ivi, p.162.
[58] Ivi, p.175
[59] Ivi, p.175-176.
[60] N.Merker, Filosofia e libertà borghesi, in: Storia della filosofia, vol.II, Roma, Editori Riuniti 1984, p.133.
[61] B.Pascal, Pensieri, a cura di P.Serini, Torino, Einaudi 1962, p.176.
[62] C.Raimondi, Lettera ad Ambrogio Tignosi; in: F.de Luise-G.Farinetti, Storia della felicità, Torino, Einaudi 2001, p.186.
[63] Va rilevato che Lattanzio (IV sec.) aveva ancora un idea molto chiara della differenza tra la voluptas dei Cirenaici e quella di Epicuro, ma i teologi posteriori ne fecero un‘espressione “viziosa” unica.
[64] J.Locke, Saggio sull’intellligenza umana, vol.I, Roma-Bari, Laterza2006, p.274
[65] Ivi, p.278.
[66] Ivi, p.279.
[67] Ivi, p.288.
[68] Ibidem.
[69] Ivi, pp.393-394.
[70] Cit. da P.Rossi, Storia sacra e storia profana, in: Storia della filosofia, a cura di P.Rossi e C.A.Viano, vol IV, Roma-Bari, Laterza 1995, p.
[71] Ibidem.
[72] Morelly, Codice della natura, in: F.de Luise-G.Farinetti, Storia della felicità, Torino, Einaudi 2001, p.433.
[73] Ivi, p.434.
[74] Ph.Roger, Felicità, in: L’Illuminismo, Dizionario storico, a cura di V.Ferrone e D.Roche, Roma-Bari, Laterza 1997, p.47.
[75] Ph.Roger, Felicità, in: L’Illuminismo, Dizionario storico, a cura di V.Ferrone e D.Roche, Roma-Bari, Laterza 1997, p.44.
[76] G.-F.-T. Raynal, Histoire philosophiqe
et politique sure les établissements et les
commerces des Européens dans les
deux Indes, Genève,
Pellet, 1780, in: http://www.univ.trieste.it/~humdiv/CORSO/Antologia_Raynal.doc, p.7.
[77] J.Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, in: S.Moravia, Filosofia, I testi, vol.II, Firenze, Le Monnier 1991, p.191.
[78] D.Diderot, Commento alla lettera di Hemsterhuis, in: F.de Luise-G.Farinetti, cit., p.389
[79] D.Diderot, Il tempio della felicità, in: F.de Luise-G.Farinetti, cit., p.394.