XVIII. Il bilancio dell’Illuminismo

 

 

18.1 Il senso dell’Illuminismo, le contraddizioni, il contesto francese

 

    L’Illuminismo, come indirizzo culturale complesso e articolato afferente un periodo della storia d’Europa caratterizzato da profonde contraddizioni, presenta esso stesso contraddizioni, ma va precisato che molte di quante gli si attribuiscono dipendono unicamente dalla confusione che concerne il concetto stesso di Illuminismo. Noi proponiamo di vederlo come un “modo di pensare”, non come un contesto culturale ed ancor meno come un’epoca, poiché altrimenti l’Illuminismo si squaglia in un coacervo di indirizzi incoerenti. Noi pensiamo anche che il suo significato più proprio sia quello di “illuminazione”, ben reso dal termine inglese enlightenment, in riferimento ad un buio culturale che aveva caratterizzato la cultura precedente e che l’Illuminismo più significativo ha inteso combattere o almeno superare. Ma se esso è una forma mentis che caratterizza l’”Età dei Lumi” ma ammette in questa correnti di pensiero che illuministe non sono, occorre un discrimine tra ciò che è illuminista e ciò che non lo è. A titolo esemplificativo va detto che considerare illuminista un pensatore come Rousseau è del tutto improprio e alimenta una confusione che inficia l’Illuminismo stesso come espressione dotata di senso. Egli infatti, se si  esclude l’elemento socio-politico (importante per gli sviluppi rivoluzionari) e quello pedagogico (originale ma anti-illuministico), dal punto di vista filosofico è un reazionario. Egli, anziché illuminare ed aprire al nuovo, intende riportare all’arcaicità un’umanità che sta tentando faticosamente di superare un passato teocratico verso un avvenire basato sulla scienza e sulla tecnica (ciò che Jean-Jacques aborre). Nel suo progetto di austerità arcaistica egli, pur convivendo con gli Illuministi e ad essi accompagnandosi per un certo periodo, finisce per cavalcare tendenze incoerenti con l’Illuminismo che abbiamo cercato di evidenziare nel § 7.3. Il meglio di sé Rousseau ce lo regala sul piano letterario, quello dell’introspezione e della psicologia, poiché si tratta di un’anima tormentata non meno di quella di Sade (seppure per problemi opposti), una vittima delle sue pulsioni inconsce e ripiegato su se stesso. Da ciò nasce non solo l’inconsistenza della sua filosofia ma anche il rosario di contraddizioni che caratterizza il suo pensiero.

    Va tuttavia rilevato che in quanto a contraddizioni non gli è da meno un suo avversario ateo (e sicuramente più illuminista di lui) come Helvétius, sicché Norman Hampson li associa in quest’interessante giudizio:  

 

L’evidente contraddizione fra il ruolo di Rousseau come rivoluzionario e individualista in morale, per un verso, e come quietista sociale e radicale fautore della sovranità morale della comunità, per l’altro, può essere risolta solo nei principi correnti dell’età sua. Una società predarwiniana e premarxista provvidenziale, la voce interiore non avrebbe potuto che imporre la stessa dura scelta tra anarchia morale e determinismo sociale, che si era tormentosamente imposta ai razionalisti. Scilla era rappresentata dal ‘genio’ di Helvétius, un’intima legge morale; Cariddi dalla concezione rousseauiana della volontà sovrana della comunità: «per il semplice fatto che esiste, essa è sempre ciò che deve essere». Solo l’identificazione della coscienza individuale con la volontà divina consentiva di evitare tanto l’anarchia quanto il totalitarismo. La natura incarnava la provvidenza, e la società umana era manifestamente innaturale: la rivolta, dunque, non soltanto era lecita, ma costituiva un sacro dovere; non però nell’interesse d’una classe oppressa, bensì in nome della natura oltraggiata. Il suo fine ultimo era di restaurare, per quanto era ancora possibile, un’armonia naturale che non si esprimesse nei termini dell’eguaglianza economica o della prosperità materiale, ma nei termini della finalità morale. [1] 

 

La credenza nel determinismo cosmico, antropico e morale, la visione necessitaristica del trionfo del bene e della virtù insieme con il destino etico dell’uomo accomunano Helvétius e Rousseau, ma il primo vede tutto ciò in un “avanti” e il secondo in un “indietro”. Il concetto di “natura violata” dalla civiltà, posto da Rousseau, determina un finalismo religioso inconciliabile con lo spirito laicistico, premessa fondamentale dell’Illuminismo, e siccome il vincolo teologico è forte non riesce a porsi contro il settarismo di molti suoi seguaci che ne faranno un profeta della Rivoluzione. Alimentata anche da scorie teologiche di questo tipo e dall’Ideologia totalitaria dei Montagnardi la Rivoluzione patirà l’anarchia e il Terrore poiché la maggior parte dei suoi protagonisti hanno ignorato il concetto di libertà metafisica alluso da La Mettrie e posto da Diderot.   

    Le contraddizioni e le incoerenze evidenti tra le varie correnti di pensiero ed azione del Settecento, se gettate in un unico pentolone etichettato col nome di “Illuminismo”, diventato disastrose sul piano storiografico quanto su quello ermeneutico. Si fa innanzitutto un pessimo servizio alla storia e poi si snatura uno dei più importanti indirizzi culturali di tutti i tempi, che data la sua complessità ha già fin troppi elementi non univoci. Lo ribadiamo, l’Illuminismo è un indirizzo di pensiero né omogeneo e né assolutamente coerente, ma occorre sottrarlo a quell’autentico caos ermeneutico che trova la propria origine in un’indebita estensione del concetto stesso in direzioni improprie. Queste ne depauperano ed indeboliscono gli elementi caratterizzanti; ma soprattutto generano una confusione  concettuale tale da farlo apparire ancor più contraddittorio di quanto già non lo sia di suo, come riteniamo di aver sufficientemente evidenziato nella Parte Prima del presente lavoro. Né vanno dimenticate le componenti etnico-religiose concernenti i vari contesti nazionali che le idee illuministe accolgono; poiché esse, nate in ambito britannico sin dal Seicento, passando via via ad interessare altre nazioni europee devono adattarsi alla cultura locale.. Ma è particolarmente in Francia che le idee illuministe trovano fertile terreno di sviluppo e dove alcuni pensatori porteranno alle estreme conseguenze atee le premesse laicistiche di Bacone e di Locke.

    Ai fini delle nostre considerazioni sulle coerenze o sulle contraddizioni del pensiero illuministico il fatto geografico è quindi importante. Poiché è sufficiente spostarsi di poche decine di chilometri varcando i confini tra la Francia e i suoi limitrofi per cogliere differenze notevoli in relazione alla tculturale dominante. Una Francia erede del cartesianesimo e del gesuitismo, insieme con i forti settarismi cattolici, ha un back-ground culturale molto differente da una Germania luterana fortemente impregnata di pietismo e dominata da Leibniz e dai suoi epigoni. Noi peraltro abbiamo privilegiato il pensiero illuministico francese perché è quello che conduce alla rinascita dell’ateismo filosofico. Ma un’altra ragione sta anche nel fatto che solo nella nazione transalpina l’Illuminismo, forse perché paese in crisi e quindi più dinamico, la cultura illuministica presenta tanta ricchezza di voci. Sono queste le ragioni che  ci inducono a concludere questo breve paragrafo con un paio di citazioni dall’articolo Francia di Georges Berenkassa nel più volte citato Illuminismo. Dizionario storico. L’autore, pur rilevando che l’Illuminismo non è solo francese, nota tuttavia che esso ne è «prospettiva fondamentale», aggiungendo:

 

La Francia del XVIII secolo è stata in effetti un luogo che appariva, e spesso era, doppiamente privilegiato. Un luogo in cui agli occhi di tutti giungeva a perfezione una cultura intellettuale e materiale, sociale ed estetica e, imprescindibilmente, un modello di vita privilegiato che, imitato, invidiato o rifiutato, era in ogni caso il metro di misura di ogni tentativo di vita civile. Al contempo, a un livello più profondo, la Francia è stata uno spazio sociale originale, propizio all’espansione di una rinnovata intelligenza critica, per quanto agli occhi dello storico tale spazio non fosse il più “moderno” dal punto di vista economico sociale e politico. [2]

 

Il rilievo è importante. La Francia, lo abbiamo visto, è nel Settecento il paese più popoloso del vecchio mondo, ma anche il più malconcio economicamente e socialmente tra quelli avanzati centro-occidentali. Da tempo sull’orlo della bancarotta per spese sconsiderate, con una struttura sociale sclerotizzata, nella quale due classi sociali dominanti, l’aristocrazia e il clero, vivono di privilegi e sinecure. Entrambe parassitarie e improduttive, vivono a carico del paese che produce, specialmente quello contadino, lavorando solo nell’esercizio della spada la prima e nell’ostensione della croce la seconda. Ma la Francia è anche l’unico paese in cui un Cattolicesimo settario, e diviso al suo interno, convive con minoranze protestanti culturalmente forti e avanzate, come gli ugonotti, generando uno stato conflittuale sordo, radicale e in qualche caso cruento.

    Un crogiolo sociale, dunque, dove i conflitti (anche interni al potere regio stesso) sono un campo di battaglia ideale tra idee vecchie e nuove in conflitto. Prosegue Berenkassa:

 

Ed è proprio grazie a quest’aspetto che poté svilupparsi, nei suoi rapporti con tutto il mondo occidentale, un movimento intellettuale, contraddittorio e diversissimo, quale l’Enlightenment, l’Illuminismo e l’Aufklärung. Il suo duraturo emblema, il philosophe, scrittore, privilegiato attore sociale e persino politico, non solo è una  vera peculiarità francese (quella del direttore di coscienza e del “generalista” intellettuale) ma è anche rivelatore di una specificità insita nel movimento di emancipazione illuminata, nonostante i suoi sviamenti o le sue ambiguità. L’unione di questi elementi, difficile ma indispensabile, restituisce, senz’altro meglio di quanto possa fare un saggio ideologicamente unitario, le ambiguità della Francia illuminista nonché il suo peso specifico, per non dire la sua supremazia. [3] 

                 

 

 

 

 

18.2 L’anti-ateismo di Hegel in rapporto alla filosofia”inglese”

 

    Sull’ovvio anti-ateismo viscerale dei teologi cristiani non è il caso di soffermarsi, ciò anche perché, nel riconoscimento della sua piena legittimità, nessun confronto pare possibile a livello filosofico. Diverso è il rapporto con i teologi filosofali, che pretendendo di fare filosofia fanno (perlopiù a sproposito) una critica alla filosofia, ma lasciando la possibilità di un confronto su concetti comuni alla filosofia e alla metafisica. In realtà l’unico terreno sul quale gli atei e gli anti-atei possono incontrarsi e confrontarsi è quello dell’etica e dovendo convivere si deve cercare di valorizzare le idee comuni. Idee che attengono condivisi ideali di civiltà che rendono possibile un’unione di sforzi per progettare un futuro della nostra posterità fondato sulla democrazia e sulla tolleranza nei confronti di ogni weltanschauung disposta a riconoscere l’”altro-diverso”. Ma l’anti-ateismo di cui ci vogliamo occupare qui è altra cosa: è quello teorico dei metafisici, che vedono con alterigia e disprezzo l’occuparsi della materia e non dello spirito. Ed allora il pensiero del sommo Hegel diventa paradigma della critica dell’ateismo filosofico. Con Hegel e la sua metafisica inizia la guerra teologica all’ateismo illuministico visto quale esito finale della volgare “filosofia degli Inglesi”. Vediamo qualche passo significativo dell’ultima parte delle Lezioni sulla storia della filosofia, quelle in cui vengono presi in considerazione i filosofi atei di cui ci siamo occupati nella Parte Quarta di questo lavoro. Siccome però abbiamo indicato in Bacone e Locke due significativi anticipatori del pensiero illuministico (ma non sicuramente atei) vogliamo registrare sinteticamente alcuni giudizi di Hegel su tali autori. Sentiamo che cosa si dice di Bacone:

 

Bacone è ancor oggi esaltato come colui che avrebbe indicato alla conoscenza la sua vera fonte: l’esperienza. Egli è infatti propriamente l’antesignano e il rappresentante di quel che in Inghilterra si suol denominare filosofia, e su cui gli Inglesi non sono ancora riusciti a sollevarsi. Infatti essi sembrano costituire in Europa il popolo che, limitato all’intelletto della “realtà”, sia destinato, come nello stato i bottegai e gli artigiani, a viver sempre immerso nella materia ,e ad aver per oggetto la “realtà”, ma non la ragione. [4]

 

Significativa sintesi della dicotomia tra due modi opposti di concepire il pensiero teoretico, l’”amore per la conoscenza” proprio di una speculazione che parte dalla realtà e si accompagna alla scienza, e la metafisica (la teologia filosofale) che “crea” entità sovra-reali o ideali (meta-fisiche) rese “razionalmente” pseudo-reali con i meccanismi della logica e gli strumenti linguistico-dialogici della dialettica. Una volta assunta questa pseudo-realtà metafisica e ideale (basata sul pensiero-idea e non sulla realtà) come “vero” oggetto del filosofare ne consegue che il “reale” viene o decisamente espunto o collocato in un ambito conoscitivo “accidentale” lontano dalla verità. Una dicotomia, come abbiamo già rilevato, che percorre tutta la storia del pensiero in generale e di ciò “che passa per filosofia”, e a partire dal IV secolo d.C. L’abbassamento della realtà, da parte di Hegel, a “roba da bottegai e commercianti”, e la strigmatizzazione del pensiero analitico-pragmatico come qualcosa di cui gli Inglesi “non sono ancora riusciti a sollevarsi”, conferma quell’a priori metafisico che in ogni tempo e in ogni luogo segna l’abisso che divide la filosofia come “amore per la conoscenza del reale” e la teologia filosofale come invenzione del  meta-reale, ciò del divino come istitutivamente sovra-reale immateriale. Stiamo evidentemente parlando di Dio comunque lo si voglia chiamare: Essere, Necessità, Spirito, Lógos o altro.

    Troviamo poco dopo un’altra affermazione importante, laddove si dice che Bacone «non amò il “ragionamento astratto”» [5],  poi che è «contro la considerazione teleologica della natura» [6] e quindi non ha colto il “concetto” di essa. L’occasione consente a Hegel di precisare il punto di vista teleologico-teologico già esposto altrove come antitesi di ogni pensiero ateo che ritiene avere la natura ragion d’essere in se stessa, mentre Hegel sostiene il contrario [7]. Bacone si è limitato ad occuparsi di cause efficienti e materiali e gli aspetti materiali («le disparatissime parvenze della materia») ignorano quella panteistica unità-totalità astratta che il “modo empirico” degli Inglesi non può cogliere. Dopo aver trattato esaurientemente di Spinoza, erroneamente accusato di ateismo, poiché «se mai in lui c’è troppo Dio», ed il cui sistema è «panteismo e monoteismo assoluto elevato nel pensiero» [8], Hegel passa poco oltre ad occuparsi di Locke ed il giudizio è ovviamente negativo. Sulla ricerca lockiana delle origine delle idee una prima conclusione è lapidaria: «Possiamo ben dirlo: nulla è più superficiale di questa deduzione delle idee» [9]. In seguito spiega:

 

Questa è la filosofia lockiana, in cui non è neppure il presentimento di quel che sia la speculazione. In essa l’interesse della filosofia, che è la conoscenza della verità, ha da appagarsi in modo empirico […] Ma non solo codesto filosofare è il mero punto di vista della coscienza volgare, cui tutte le determinazioni del suo pensiero appaiono date, umiliandosi sino a dimenticare la propria attività; ma in codesto dedurre, in codesto sorgere psicologico, non si ha affatto quel che solo importa alla filosofia, di sper cioè se questi pensieri rapporti abbiano verità in sé e per sé. [10]

 

La verità in sé e per sé! Ovvero l’Assoluto, lo Spirito, l’Idea, tutte cose che il “pensiero volgare” non può cogliere. Sono passati i secoli ma il parere di Platone sui materialisti ritorna sempre come un’onnipresenza divina, o una cogenza psichica che non conosce defezioni ma è sempre pronta ad ammantarsi di ragione riempirsi la bocca di “verità”.  D’altra parte:

 

Platone aveva indagato l’infinito e il finito, l’essere e il determinato ecc., e aveva detto che nessuno di questi contrapposti è per sé il vero, che essi lo sono in quanto entrambi si pongono come identici, da qualsiasi parte provenga poi la verità di questi contenuti. Qui invece si fa totale rinuncia alla verità in sé e per sé, mentre pure il principale è appunto la natura del contenuto. [11]

 

    A parte il fatto che Platone non aveva affatto indagato né il finito né il determinato di cui si occupa Locke, si coglie qui come la ricerca della “sintesi” metafisica ossessioni a tal punto Hegel da non permettergli di cogliere altra relazione che non sia esclusivamente quella tra un Tutto (in sé e per sé) e le sue parti. Per lui queste parti non possono offrirsi ad un indagine relazionale che le renda perspicue in relazione al nostro modo di coglierle, alla nostra intellezione reale basata su cose e fatti, non solo su idee e bizantinismi linguistici. Per lui il successo del pensiero dell’inglese si deve alla sua accessibilità, alla sua superficialità: 

 

La filosofia di Locke è certamente di facile comprensione, e appunto per ciò filosofia popolare, cui si collega anche oggi tutta la filosofia inglese. [12]

 

L’Illuminismo, avendo molto preso da Locke è già svalutato in partenza metodologicamente e contenutisticamente. Di La Mettrie che ha sostituito il “sentire” al “pensare” si nota:

 

In tal modo anche la psicologia trapassò in materialismo, per esempio con La Mettrie nel suo libro L’homme machine: ogni pensiero, ogni rappresentazione ha senso solo se li si intende come materiali; soltanto la materia esiste. [13]

 

Su Helvétius si sofferma un po’ di più, riconoscendogli “arguzia” nella riduzione della virtù all’egoismo:

 

Tal riduzione [il materialismo] ha preso in Helvétius la forma che, quando nell’uomo morale si cerca un’unità, questa la si deve chiamare amor di sé (egoismo) […] [14]

 

Di d’Holbach, che Hegel considera esponente di un indirizzo dell’Illuminismo che egli qualifica come suo “lato positivo” (propositivo) avendo posto «la sorgente positiva del sapere e in generale del giusto […] nel buon senso, non nella forma del concetto» [15], si dice:

 

A questo indirizzo appartiene il Système de la Nature scritto a Parigi da un tedesco, dal barone d’Holbach […] Il Système de la Nature si troverà presto noioso: esso difatti si dilunga in rappresentazioni generali, spesso ripetute: non è un libro francese, gli manca la vivacità ed è scritto in forma sciatta. […] Tutto secondo d‘Holbach è movimento, la materia muove se stessa: la birra fermenta, l’anima si agita nelle passioni. [16] 

 

La birra e l’anima messe insieme sono la miglior sintesi di ciò che pensa il principe dell’idealismo del noioso materialista ateo franco-tedesco.

 

 

 

 

 

 18.3 L’ateismo illuminista secondo Marx

 

    È abbastanza sorprendente dover rilevare come Karl Marx, parlando dei filosofi atei settecenteschi ne La sacra famiglia (scritto con Engels e apparso nel 1845), possa peccare di tanta superficialità e distrazione; e ciò tanto più se si pensa che Marx è stato ritenuto persino un teorico dell’ateismo. Considerato l’acume di alcune sue analisi storiche ciò non può che sorprendere, ma forse dipende dalla sostanziale indifferenza di lui nei confronti della filosofia atea del Settecento (in quanto inconciliabile con l’hegelismo). Da ciò un’incomprensione che corre sul filo di un’insufficienza d’analisi conseguente al fatto che per Marx l’inesistenza di Dio è un a priori, indispensabile correlato dell’anti-clericalismo. Egli infatti non è per nulla un filosofo dell’ateismo, per lui nient’altro che un simbolo, una bandiera, uno strumento politico per colpire la vecchia struttura del potere clericale. L’irrilevanza sul piano speculativo, legato com’è Marx al modello della dialettica hegeliana, rivela la sua totale estraneità ai procedimenti analitici dell’Illuminismo impostati da Bacone, Locke, Bayle, La Mettrie e Diderot. Il fatto poi che la filosofia atea illuminista sia espressione della borghesia, la squalifica totalmente ai suoi occhi, in quanto espressa dalla categoria sociale da lui esecrata e nella lotta alla quale profonde tutte le sue energie intellettuali. Del materialismo ateo Marx si limita ad affermare: «Il materialismo meccanico francese ha accolto la fisica di Descartes in opposizione alla sua metafisica.» [17] Asserzione curiosa. Ma com’è possibile scindere una fisica cartesiana dalla metafisica che la fonda, la definisce e la delimita? I materialisti post-cartesiani non hanno opposto il meccanicismo della res extensa al creazionismo della divina res cogitans, avevano semplicemente “eliminato” questa, e un’“opposizione” teorica tra un’entità reale e una creata con la fantasia e la dialettica è impossibile per l’inconfrontabilità dei due livelli ontologici.

    In una prima sintetica citazione nella Sacra Famiglia relativa a La Mettrie e Cabanis egli riesce soltanto ad osservare:

 

Questa scuola [il materialismo meccanicistico] ha inizio con il medico Le Roy, raggiunge il suo punto più alto con il medico Cabanis, e il medico Lamettrie è il suo centro. Descartes viveva ancora quando Le Roy estende all’anima umana la costruzione cartesiana dell’animale, come farà similmente nel secolo XVIII Lamettrie, e spiega l’anima come un modo del corpo e le idee come movimenti meccanici. Le Roy credeva persino che Descartes avesse celato la sua vera opinione. Descartes ha protestato. Alla fine del secolo XVIII Cabanis completava il materialismo cartesiano nel suo scritto: Rapports du physique et du moral de l’homme. [18]

 

Poi si lancia in una distinzione “caratterial-nazionale” tra il materialismo francese e quello inglese nei termini seguenti:

 

La distinzione fra il materialismo francese e quello inglese è la distinzione tra due nazionalità. I francesi dotano il materialismo inglese di esprit, di carne, di sangue, di persuasività. Essi gli conferiscono il temperamento, che ancora gli mancava, e la grazia. Lo inciviliscono. [19]

 

E sentiamo il suo parere su Helvétius:

 

Con Helvétius, che muove pur da Locke, il materialismo riceve il carattere più propriamente francese. Helvétius lo concepisce subito in relazione alla vita sociale (De l’homme). Le proprietà sensibili e l’amore di sé, il godimento, l’interesse personale bene inteso, sono il fondamento di ogni morale. L’eguaglianza naturale delle intelligenze umane, l’unità tra il progresso della ragione e il progresso dell’industria, la bontà naturale dell’uomo, l’onnipotenza dell’educazione, sono i momenti principali del suo sistema. [20] 

 

Di La Mettrie dice poco più oltre:

 

Un’unificazione del materialismo cartesiano e di quello inglese si trova negli scritti di Lamettrie. Egli utilizza, fino nei particolari, la fisica di Descartes. Il suo L’homme machine è una trattazione condotta secondo il modello dell’animale-macchina di Descartes. [21]

 

Evidentemente, secondo Marx, tutta la speculazione di La Mettrie sarebbe consistita nel fare dell’uomo un animale e attribuire al primo ciò che Cartesio aveva già detto del secondo. Su d’Holbach si legge poi quanto segue:

 

Nel Système de la nature di d’Holbach la parte fisica risulta egualmente dalla connessione del materialismo francese con l’inglese [di derivazione lockiana]; la parte morale poggia essenzialmente sulla morale di Helvétius. [22]

 

Infine su Cabanis:

 

Alla fine del secolo XVIII Cabanis completava il materialismo cartesiano nel suo scritto: Rapports du physique e du moral de l’homme. [23]

 

Dopo un’altra puntata polemica contro Bauer e la sua “critica” fa seguito, un paio di pagine più avanti, la citazione di alcune frasi o passaggi di Helvétius e di d’Holbach, associati a quelli di Bentham, dopo di che la breve parentesi sull’ateismo illuministico si chiude.

    Se si pensa che Marx è visto in tutta la seconda metà dell’800 e nel ‘900 come latore di una delle definitive espressioni dell’ateismo, anzi, per molti versi come “l’ateismo” per antonomasia, ci si rende conto del colossale equivoco: l’ateismo per lui è unicamente una petizione di principio e nient’altro. Voler vedere una filosofia atea nel comunismo è solo fenomeno cristiano, poiché esso è sicuramente ateo sul piano “pragmatico” ma non su quello “teorico”, poiché Marx ha eluso l’ateismo teorico in quanto inutile per il conseguimento della dittatura del proletariato. D’altra parte egli in filosofia si è fermato a Hegel, limitandosi a tradurre la fenomenologia dello spirito in una fenomenologia del proletariato che soddisfa le istanze messianiche è l’afflato morale che caratterizza il sociologo di Treviri. Ed egli finge anche di ignorare che, probabilmente, i primi gruppi umani comunisti sono stati quelli del cristianesimo primitivo, unica religione a mettere in atto un egualitarismo (di fronte a Dio) poi tradito dai teologi “di mestiere” che presiedono con Costantino il Concilio di Nicea del 325. E il primo a re-interpretare il comunitarismo proto-cristiano in versione decisamente comunista è Jean Meslier, che di esso cambia il segno, da teologico ad ateo. Se Marx avesse prestato un po’ d’attenzione a questo prete apostata avrebbe compreso quanto di fondamentalmente teologico ci fosse nel comunismo che andava teorizzando.          

                                      

 

 

 

17.4 La critica anti-illuministica del XX secolo

 

    Questo paragrafo nasce dall’esigenza di bilanciare i giudizi positivi nei confronti dell’Illuminismo con quelli negativi (o contenenti riserve), ma ciò avrebbe potuto suonare come un’appendice inessenziale della nostra esposizione. Siccome noi siamo estimatori di esso, il lettore deve ave aver contezza di una vasta letteratura critica nei confronti di esso, sia storica (quella di De Maistre, Taine, Tocqueville, ecc.) sia contemporanea. Ciò che è importante rilevare fin da subito è che se la critica storica nasce prevalentemente da un conservatorismo che vede nell’Illuminismo il turbamento di un ordine, la critica moderna mette in evidenza come esso sia alla base di tutte le perversioni della società tecnologica contemporanea determinata dal capitalismo borghese, dominata da un’arida ragione strumentale. Noi presenteremo un paio di esempi significativi della critica moderna: la Dialettica dell’Illuminismo dei “francofortesi” Adorno e Horkheimer, apparsa nel 1944, e la Critica illuminista e crisi della società borghese di Reinhardt Koselleck, apparso alla fine degli anni ’60.

    Com’è noto i francofortesi, pur rimanendo fedeli ai fondamenti teorici ed etici del marxismo, ne rifiutano l’irrigidimento come modello socio-economico, ritenendo che il mutamento del quadro sociale imponga degli aggiornamenti. Tuttavia, la messa in discussione della validità del marxismo come teoria, non implica l’abbandono del progetto messianico marxiano, che è quello di fondere teoria e prassi in un orizzonte rivoluzionario che deve cassare la borghesia. In realtà, l’analisi di Horkheimer e di Adorno più che delineare un nuovo orizzonte si limita ad indicarne confusamente un fantasma attraverso la negazione e la criminalizzazione della società borghese tecnologizzata ( “illuministica”) Di più, questo progetto critico si rafforza attraverso un’iniezione di “immaginazione” dalla quale Marx si era tenuto lontano, ed accanto a questa aleggia una sorta di “nostalgia” per una perduta armonia tra uomo e natura sconvolta da sistemi produttivi perversi e disumanizzanti. Un atteggiamento, che Horkheimer comincia ad elaborare fin dalla metà degli anni ’30, che trova corrispondenza in Fromm e Marcuse (con i quali firma nel 1936 Autorità e famiglia) e poi con Adorno col quale realizza la Dialettica dell’Illuminismo.

    L’opera raccoglie cinque saggi lunghi e ventidue brevi scritti, raccolti sotto il titolo collettivo di  Appunti e Schizzi. I saggi sono: Concetto di Illuminismo, Excursus I (Odisseo, o mito e illuminismo), Excursus II (Juliette, o illuminismo morale), L’industria culturale (Illuminismo come mistificazione di massa) ed Elementi dell’antisemitismo (Limiti dell’illuminismo). Già dai sottotitoli si comprende qual è il percorso teorico proposto degli autori, tendente ad evidenziare una discutibile assonanza tra capitalismo e fascismo in quanto complementari alla rovina dell’umanità. Per comprendere adeguatamente l’opera va sottolineata la forte carica morale che caratterizza il marxismo francofortese, alimentata dall’esperienza di vita in una paese, gli Stati Uniti, che deve il suo sviluppo e la sua prosperità proprio alla negazione dei principi del marxismo. La ricchezza scompensata dei nord-americani e le disuguaglianze sociali causate dalla competizione appaiono ai Nostri come il frutto perverso di un’alienazione umana molto differente da quella stigmatizzata da Marx. Non è più la “penuria” che aliena l’uomo nella società capitalistica moderna, bensì l’ “abbondanza” da parte di una sola parte della società e il sovra-consumo di essi fuori di ogni logica del bisogno. Il lavoratore americano è “povero” non perché guadagni poco, ma perché i meccanismi capitalistici lo stritolano e spreca il suo guadagno nel superfluo, sollecitato da un meccanismo diabolico che ne fa una “macchina” quando produce e una “macchina” quando consuma.

    Sul piano più strettamente analitico-critico i Nostri vedono nell’illuminismo borghese non già l’abbandono del mito, come espressione ingenua ma “autentica e incontaminata” dell’essere uomo, ma soltanto la sua “dissacrazione” e la sua secolarizzazione, sì da farne una nuova mitologia profana fatta di naturalezza solo apparentemente razionale, in realtà soltanto “tirata a lucido”. [24]  I cinque saggi, tutti magnifici per brillantezza d’analisi e finezza letteraria, sono a mezza strada tra l’analisi estetica e quella filosofico-ideologica, ma a dominare in sottofondo è la Fenomenologia dello spirito di Hegel più che il Capitale di Marx. Il primo saggio, Concetto di illuminismo, illustra compiutamente il punto di vista degli autori sul piano teorico, mentre i successivi accentuano l’aspetto estetico o sociologico dell’analisi. L’origine della mentalità illuministica moderna è attribuita a Bacone, che «ha saputo cogliere esattamente l’animus della scienza successiva.» [25]  La tecnica diventa così, dopo di lui, l’essenza di un sapere-fare perverso, infatti: «Esso non tende, sia nell’Occidente sia nell’Oriente, a concetti ed a immagini, alla felicità della conoscenza, ma a metodo, allo sfruttamento del lavoro, al capitale privato o statale.».  La conoscenza è così asservita allo sfruttamento, sicché: «Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini.» [26]

    La forza dell’Illuminismo sta così nella negazione dello Spirito e della sua sfera, in un materialismo totalitario e disincantato; la condanna è senza appello:

 

D’ora in poi la materia dev’esser dominata al di fuori di ogni illusione di forze ad essa superiori o in essa immanenti, di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo, sospetto. E quando l’illuminismo può svilupparsi indisturbato da ogni oppressione esterna, non c’è più freno. Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che aumentare. Ciò deriva dal fatto che l’illuminismo riconosce se stesso anche nei miti. Quali che siano i miti a cui ricorre la resistenza, per il solo fatto di diventare, in questo conflitto, argomenti, rendono omaggio al principio della razionalità analitica che essi rimproverano all’illuminismo. L’illuminismo è totalitario. [27]

 

Secondo i Nostri l’Illuminismo (colpevole innanzitutto di essere borghese e capitalistico) va considerato nemico di ogni umanità (di ogni “spiritualità”) e capace, come un mostro totalitario, di divorare nella sua realizzazione ogni aspetto del pensiero per farne una totalità “posseduta” e “dominata”. Una totalità caratterizzata dal mito dell’utilità e dell’uso dettati dalla “ragione strumentale”, il demone illuministico per eccellenza. Sono argomenti assai simili a quelli che Hegel aveva già utilizzato in Fenomenologia dello spirito (VI, B) [28] per la sua condanna dell’Illuminismo:

 

È questo il corso della civiltà europea. L’astrazione, lo strumento dell’illuminismo, opera coi suoi soggetti come il destino di cui elimina il concetto: come liquidazione. Sotto il dominio livellatore dell’astratto, che rende tutto ripetibile nella natura, e dell’industria, per cui esso lo prepara, i liberati stessi finirono per diventare quella «truppa» in cui Hegel ha mostrato il risultato dell’illuminismo. [29]

 

    La natura asservita diventa così “industria”, produzione di beni,  per via di “astrazione” finalizzata al dominio di quella e dell’umanità che in essa si colloca. Perciò:

 

L’illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli. Lo scienziato conosce le cose in quanto è in grado di farle. Così il loro in.sé diventa per–lui. Nella trasformazione l ‘essenza delle cose si rivela ogni volta come la stessa: come sostrato del dominio. [30]

 

La condanna del “conoscere per poter fare” dello scienziato post-illuminista, arido e rapace, è irrevocabile e finisce col coincidere con la condanna che da Platone in poi l’idealismo ha calato come una mannaia sulla scienza. Una scienza che per gli idealisti dev’essere “contemplazione del divino”, poiché solo il divino può salvare l’umanità dalla tirannia del profano. Se si pensa a come il comunismo “riformato” abbia potuto trovare in epoche recenti grandi sintonie col Cristianesimo ne ha già qui più compiuta espressione:

 

Poiché l’illuminismo è totalitario più di qualunque sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi nemici romantici – metodo analitico, riduzione degli elementi, riflessione dissolvente – è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in anticipo. Quando nell’operare matematico, l’ignoto diventa l’incognita di un’equazione, è già bollato come arcinoto prima ancora che ne venga determinato il valore.  La natura è, prima e dopo la teoria dei quanti, ciò che bisogna concepire in termini matematici; anche ciò che non torna perfettamente, l’irrisolvibile e l’irrazionale, è stretto da vicino dai teoremi matematici. [31]

 

   La condanna non concerne la matematica come “divina scienza” dei numeri come la pensava Platone, bensì quella profana, che “serve”, che è utile al conoscere e al fare, considerate azioni strumentali e disumanizzanti. Per Horkheimer e Adorno è “l’operare” della matematica che è perverso, perché dell’ignoto fa il termine di un’equazione, la cui ricerca di risoluzione distrugge “in anticipo” il mistero del presunto irrisolvibile e dell’irrazionale. Essi andrebbero lasciati in quel “fondo” misterioso da cui i metafisici e i mistici traggono da sempre il loro materiale immaginario. La natura non dev’esser vista in termini matematici ed indagata scientificamente, perché ciò è dominio totalitario su di essa.  Né poteva mancare un concetto classico dell’idealismo hegeliano: l’alienazione oggettivante, l’estraniazione della coscienza umana a se stessa, per cui «con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni fra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso […] L’animismo aveva vivificato le cose, l’industrialismo reifica le anime.»  [32] . Lo scenario è fosco e l’economia la perversa e tetra ombra che lo avvolge e: «L’apparato economico dota automaticamente, prima ancora della pianificazione totale, le merci dei valori che decidono del comportamento degli uomini.» [33] 

    Dunque, le merci e le borse al posto degli uomini come soggetti pseudo-umani dominanti e schiavizzanti gli uomini stessi nei loro meccanismi capitalistici sicché: «Attraverso le innumerevoli agenzie della produzione di massa e della sua cultura, i modi obbligati di condotta sono inculcati ai singoli come i soli naturali, decorosi e ragionevoli. Egli si determina più solo come una cosa, come elemento statistico, come success or failure.» [34] Il riferimento al mondo americano, la patria del capitalismo tecnologico e competitivo, è qui preciso e non certo ingiustificato, ma sappiamo anche qual è l’unico modello alternativo reale, il comunismo, un modello nei confronti del quale però Adorno e Horkheimer sono critici. Essi paiono pensare a un comunismo “dal volto umano”, che riposa sull’eterno sogno di realizzare armonia sociale, giustizia e prosperità “per tutti”. Ma per fare ciò bisogna per un verso abbattere l’egoismo, ma per altro verso limitare l’influenza dell’”individualità” a favore della “socialità”. Si imputa così al capitalismo di uccidere l’individualità attraverso la massificazione. Horkheimer e Adorno fanno una diagnosi del mondo contemporaneo non scorretta, ma commettono un errore grave vedendo nell’Illuminismo la causa principale della disarmonia sociale. In realtà, ciò che i due francofortesi vogliono colpire è la tecnologia, quel fare/sapere umano che sarebbe responsabile dell’”alienazione” dell’uomo.

    La dissacrazione e profanazione della natura e dello spirito umano è il vero tema che i due francofortesi sviluppano come alienazione prodotta dal sistema produttivo capitalistico. Ne emerge uno spirito soteriologico e messianico intriso di pessimismo alla cui base sta una “speranza” più voluta che sentita. E non è un caso che Horkheimer “liberi” finalmente il fondo teologico del suo pensiero quando, settantacinquenne, rilascia un intervista a Helmut Gumnior, giornalista di Der Spiegel. Ad essa segue, nel 1970, il piccolo libro Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen, La nostalgia del totalmente altro, nel quale, riprendendo proprio un’espressione di Adorno (il Totalmente Altro), rivela una sorta di teologia negativa evocante il Dio sconosciuto dichiarando:

 

La teoria critica contiene almeno un rimando al teologico, all’Altro. Questo non significa che venga negato il tentativo di costruire una società più razionale, e cioè più giusta. Solo cha anche un ordine relativamente giusto, che d’altra parte dev’essere pagato, come ho già detto, con la limitazione della libertà, non è un valore ultimo […] [35]

 

Un ordine “relativamente giusto” è meno di ciò che aveva sognato Marx, di cui Horkheimer dice: «Secondo me Marx è stato influenzato del messianismo ebraico, mentre la questione centrale per me rimane che Dio non è rappresentabile, e che tuttavia questo non-rappresentabile è oggetto della nostra nostalgia.» [36]  È quindi la nostalgia di Dio che si ribella al pensiero illuministico, ma non a quello teologico di Rousseau o di Voltaire, bensì a quello degli atei, che hanno cassato Dio dall’orizzonte umano in nome della ragione e teorizzato l’“uomo macchina” senz’anima. Fautori della deriva scientifica, materialistica e tecnologica che egli aborre e che coglie in un paese bigotto ma tecnologico. Un paese che lo ha salvato dalla Germania nazista, ma egli li riconduce entrambi  a malati di “ragione strumentale”, associando il capitalismo democratico al totalitarismo razzista. 

    Nella Dialettica dell’illuminismo troviamo anche un’analisi hegeliano-marxista un po’ cervellotica relativa a una presunta “fenomenologia” illuministica dove si ipostatizza un ente onto-sociologico del Sé spogliato delle sue preposizioni “in” e “per”:

 

Il Sé, che dopo la metodica estinzione di ogni segno naturale, concepito come mitico, non doveva più essere corpo, né sangue, né anima, e nemmeno io naturale, costituì – sublimato a soggetto trascendentale o logico – il punto di riferimento della ragione, dell’istanza legiferante dell’agire. […] L’impulso in sé è mitico come la superstizione; servire un Dio che non è postulato dal Sé, assurdo come l’ubbriachezza. Il progresso ha riservato la stessa sorte all’una e all’altra; […] Il lavoro sociale di ogni singolo è, nell’economia borghese, mediato tramite il principio del Sé; deve restituire agli uni, il capitale accresciuti, agli altri la forza per il lavoro. Ma quanto più il processo dell’autoconservazione si realizza tramite la divisione borghese del lavoro, e tanto più esso esige l’autoalienazione degli individui, che devono modellarsi, anima e corpo, secondo le esigenze dell’apparato tecnico. [37]

 

L’Illuminismo nell’analisi di Adorno e Horkheimer è diventato un Leviatano, un Sé totalitario, che: a) estingue ogni naturalità e ogni spontaneità, b) espunge nell’”assurdità” tutto ciò che non gli si confà,  c) impone l’iniqua legge retributiva capitalistico-borghese, d) col suo apparato tecnico aliena l’individualità in un sistema antropico artificiale dove le anime e i corpi risultano snaturati. La vera vittima, sottintesa dai Nostri, di questa macchina infernale che distrugge l’uomo alienandolo dal suo più profondo io è il mito quale espressione del pensiero umano ingenua e fragile, quindi vulnerabile da parte di un’arma potente e subdola come la tecnica asservita alla sete di dominio dei pochi sui molti. Per questo:

 

Nelle grandi svolte della civiltà occidentale, dall’avvento della religione olimpica fino al rinascimento, alla riforma e all’ateismo borghese, ogni volta che nuovi popoli e ceti espulsero più decisamente il mito, il timore della natura incontrollata e minacciosa, conseguenza della sua stessa materializzazione e oggettivazione, fu abbassato a superstizione animistica, e il dominio della natura interna ed esterna fatto scopo assoluto della vita. [38]

 

Il mito, come espressione della natura viene espunto dal “principio del dominio tecnicistico” e l’assoggettamento della natura, sia quella interna (la soggettività, l’anima e il “senso” dell’essere) e sia quella esterna (la sua estensione materiale, l’ambiente, le risorse), diventa lo scopo primario per l’esistere di tale sistema perverso e dei suoi gestori. 

   L’Odisseo omerico è l’eroe negativo precursore dell’esercizio della “ragione strumentale” e del dominio borghese di cui il pensiero illuministico è latore storico. Ne risulta una delle più affascinanti e brillanti esegesi dell’episodio delle Sirene di cui non riusciremo a rendere qui che pochi passaggi come il seguente:

 

Gli stessi vincoli con cui si è legato irrevocabilmente alla prassi, tengono le Sirene lontano dalla prassi; la loro tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte. L’incatenato assiste ad un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione muore già in un applauso. Così il godimento artistico e il lavoro manuale si separano all’uscita dalla preistoria. L’epos contiene già la teoria giusta. Il patrimonio culturale sta in esatto rapporto col lavoro comandato, e l’uno e l’altro hanno il loro fondamento nell’obbligo ineluttabile del dominio sociale sulla natura. [39] 

 

Fin dall’uscita dalla preistoria (tale è l’epoca omerica) la mentalità pre-illuminista di Ulisse realizza compiutamente con la sua azione/imposizione/esperienza la separazione definitiva della sfera poetico-estetica da quella tecnico-produttiva, con la quale la divisione del lavoro si istituzionalizza e nello stesso tempo subordina sia la poeticità che la produttività all’esercizio del potere. Un potere e una subordinazione che dicotomizzano l’uomo e riflettono la dialettica signore/servo dell’hegeliana Fenomenologia dello spirito (B, IV, A) [40]. Così: «lo schiavo [il rematore] rimane soggiogato nel corpo e nell’anima, il signore regredisce. Nessuna forma di dominio ha ancora saputo evitare questo prezzo […] » [41]

    Ma anche il dominio contiene elementi di illusorietà, nella misura in cui la “società razionale”, quale espressione del potere dell’uomo sulla natura, sarebbe da parte dell’uomo quasi inevitabile per evolversi, poiché: «La sua necessità è illusoria, non meno della libertà degli imprenditori, che finisce per rivelare il suo carattere coattivo nelle loro inevitabili lotte e accomodamenti.» [42]    Persino il progresso, quale superamento dell’ignoranza e condanna delle credenze irrazionali, si rivela un’illusione e viene smascherato come tale via via che progredisce il dominio razionalistico, infatti:

 

La condanna della superstizione ha significato sempre, insieme al progresso del dominio, anche lo smascheramento del medesimo. L’illuminismo è più che illuminismo; natura che si fa udire nella sua estraniazione. Nella coscienza che lo spirito ha di sé come natura in sé scissa, è la natura che invoca se stessa, come nella preistoria, ma non più direttamente col suo nome presunto, che significa onnipotenza, come mana, ma come qualcosa di mutilo e cieco. [43]

 

Ma l’illuminismo, che presume di dominare la natura, finisce per essere in realtà nient’altro che natura snaturata, mutila e cieca, estraniata a sé e deietta dal suo centro originario. Bacone, epigono di Ulisse, ha trovato nella borghesia moderna la realizzazione del suo sistema:

 

Come egli si augurava [le “mille cose” acquisibili con la ragione] esse sono toccate ai borghesi, agli eredi illuminati dei re. Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l’economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c’è più bisogno, per amministrarle, non solo dei re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di tutti. Essi apprendono dal potere delle cose, a fare infine a meno del potere. [44] 

 

Non sarebbe difficile trovare nell’enciclica di qualche Bianco Padre espressioni assai simili contro il “materialismo” di una modernità alienata al divino, così come i nostri due sacerdoti “del Totalmente Altro” stigmatizzano questo “potere delle cose” che destituisce di potere la borghesia illuministica stessa che l’ha perseguita.

    L’Illuminismo “in chiaro” è anche un grande mistificatore, perciò gli unici a dire la verità sono i figli dell’Illuminismo “in scuro”, come Sade. Nel terzo saggio (Justine, o illuminismo morale) in riferimento al Divino Marchese si dice:

 

Gli scrittori «neri» della borghesia non hanno cercato, come i suoi apologeti, di palliare le conseguenze dell’illuminismo con dottrine armonicistiche. Non hanno dato ad intendere che la ragione formalista sia in rapporto più stretto con la morale che con l’immoralità. Mente i chiari o sereni coprivano, negandolo, il vincolo indissolubile di ragione e misfatto, società borghese e dominio, gli altri esprimevano senza riguardi la verità sconcertante. [45]

 

Dunque due “vincoli” indissolubili determinano l’equazione “società borghese = ragione = dominio = misfatto” dove il primo e l’ultimo termine chiudono il cerchio attraverso il legame ragione/dominio. 

    Il tema della scienza torna nel breve scritto Filosofia e divisione del lavoro, che si apre con le seguenti parole:

 

Il posto della scienza nella divisione sociale del lavoro è facilmente riconoscibile. Essa deve accumulare fatti e nessi funzionali di fatti nella massima quantità possibile. L’ordinamento dev’essere chiaro e perspicuo, dovendo consentire alle singole industrie di trovare subito la merce intellettuale richiesta nell’assortimento voluto. La raccolta stessa ha già luogo, in larga misura, in vista di precise ordinazioni industriali. [46]

 

Dopo tale severissima conclusione rimane solo da chiedersi: 1) Le industrie debbano esistere o no?;                                            2) Se esistono che cosa devono fare se non “produrre”?; 3) Si possono produrre dei beni “senza scienza”?; 4) Che cosa dovrebbe fare l’istruzione pubblica se non produrre “merce intellettuale”?

     Lasciamo i francofortesi e passiamo a Reinhart Koselleck. La tesi di questo autore è che l’intellettualità borghese si è inventata una filosofia della storia priva di fondamento al solo scopo di giustificare la propria ascesa a danno delle altre classi, creando una serie di concetti filosofici ad hoc [47]. Ne nasce la svalutazione dell’azione culturale della borghesia settecentesca e l’accusa di strumentalismo spregiudicato ed utopistico per eccesso d’uso della “critica”:

 

La critica del secolo decimottavo dovette diventare utopistica per potersi mettere dalla parte del diritto. Infine, l’oggetto ultimo della critica, lo Stato utopistico, contribuì a suo modo a fissare l’immagine utopistica della storia propria della borghesia. [48]

 

Secondo il Nostro il borghese, una nullità sul piano politico in quanto suddito impotente, non potendo nulla sul piano politico si inventa un proprio ruolo morale come arma di lotta al potere. In questo modo si estrania dalla politica reale per votarsi e seguire principi di moralità fondati sull’utopia. Sicché:

 

Il fatto che la politica sia il destino, ma appunto non nel senso di una cieca fatalità, non è compreso dagli illuministi. Il loro tentativo, di negare attraverso la filosofia della storia la fatticità storica, di «rimuovere» il fattore politico, ha per la sua origine carattere utopistico. La crisi, messa in moto dal processo intentato dalla morale alla storia, permane fino a quando la storia è estraniata in senso storico-filosofico. [49]

 

E ancora:

 

L’utopismo scaturì da un errato rapporto con la politica condizionato storicamente, ma poi fissato in modo storico-filosofico. Sotto il fuoco incrociato della critica non fu soltanto fiaccata la politica del tempo; nel medesimo processo anche la politica stessa, in quanto compito permanente dell’esistenza umana, si dissolse in utopistiche costruzioni del futuro. [50]

 

    L’analisi storiografica è condotta sul puro piano dei moventi, degli atti e degli esiti degli intrecci tra la morale e la politica. In un tentativo di sintetizzare la complessa tesi di Koselleck si può forse partire dal binomio da lui posto di istanza morale (come realtà privata) e di istanza politica (come realtà pubblica). Il passaggio dall’una all’altra, ovvero la trasformazione di un’idea etica in prassi politica sarebbe stata tipica dell’Illuminismo, con istanze morali di equità, di giustizia, di libertà, ecc. che si sarebbero snaturate strada facendo. L’idea etica si sarebbe trasformata in una critica al sistema dilatata oltre i limiti della logica e della razionalità, finendo per porsi come un’entità giudicante e sanzionante che come un automa sfuggito al suo costruttore diventa macchina di gestazione, produzione e gestione di potere. Tutto ciò è stato possibile, secondo il Nostro, perché tale processo ha trovato il suo catalizzatore e il suo medium in una nuova realtà sociale nata nel Rinascimento e nell’Illuminismo ormai maturo: la borghesia:

 

Così dalle paurose esperienze del guerre civili confessionali nacque l’ordine statale europeo. La legge che presiedette alla sua creazione fu la subordinazione della morale alla politica. […] La caratteristica del secolo decimottavo è che lo sviluppo del mondo morale ebbe come fase appunto la stabilità politica precedentemente assicurata [con la pace di Vestfalia e quella di Utrecht]. Soltanto con la neutralizzazione politica delle contese religiose e con la limitazione delle guerre a mere guerre tra Stati venne a crearsi quello spazio sociale in cui poté svilupparsi la nuova élite. [51]  

 

Koselleck sottolinea come solo il superamento della conflittualità secentesca, che impediva alla borghesia mercantile ed imprenditoriale di emergere, porta quella condizione di stabilità indispensabile per una fase nuova politico-sociale, che vede l’emersione della borghesia e della cultura laica di cui è foriera:

 

Soltanto sullo sfondo di questa sicurezza dominante, la fede storico-filosofica nel progresso morale dell’uomo della borghesia ottenne la sua evidenza storica. Il progresso morale, immesso nel suo contesto storico, è dunque un prodotto della stabilità politica. [52]  

 

La considerazione può apparire persino ovvia (solo nella pace e nella sicurezza le forze sociali di intrapresa e scambio hanno modo di esprimersi), ma essa sottintende anche una realtà non sempre tematizzata adeguatamente e di cui occorre tener conto. Il Settecento è il secolo che vede on l’Illuminismo una stravolgente rivoluzione sociale e culturale, ma essa secondo il Nostro nasce nella stabilità dell’assolutismo francese come sua culla per diventarne poi nemico e giustiziere attraverso un processo di iper-critica ad esso. Attori principali di questo processo, in gran parte sotterraneo, di disgregazione dell’immagine del monarca  e della sua messa sul banco degli accusati furono, secondo Koselleck, la cosiddetta Repubblica delle Lettere e la Massoneria, che avrebbero operato il sistematico svuotamento morale del sistema assolutistico. La prima avrebbe utilizzato l’allusività letteraria di intellettuali che in modo sistematico colpivano l’immagine del potere parlando d’altro e attraverso la metafora e la favola. Tipica in proposito la scrittura di Voltaire, che parlando di letteratura, di teatro, di filosofia, di scienza o di storia tirava terribili stoccate al cristianesimo, alla monarchia, ai loro ministri e ai loro istituti. La Massoneria avrebbe invece usato quelle stesse armi della segretezza e dell’insindacabilità tipiche dell’Ancièn Régime.

    Quello del Re Sole era già uno stato in bancarotta, ma mai dichiarata o accuratamente evitata; coi suoi successori la bancarotta strisciante era proseguita e Antoine de Rivarol annotava nelle sue Mémoires (pubblicate postume nel 1824) a proposito della curiosa concentrazione di poteri e di debiti nelle mani del re di Francia alla vigilia della Rivoluzione : «Quasi tutti i sudditi sono creditori del padrone …, che è schiavo come ogni debitore» [53]. Ma ora, questa la tesi di Koselleck, alla luce della morale illuministica la bancarotta aveva assunto una nuova connotazione: quella “morale”. La borghesia “creditrice” di un potere che cancellava od occultava i debiti non poteva che stigmatizzare la situazione ed avanzare una delegittimazione del potere su base morale. La revoca nel 1685 dell’Editto di Nantes, inoltre, aveva portato quattrocentomila protestanti e giansenisti a riparare all’estero, specialmente in Prussia e in Russia. Ma erano specialmente gli ottantamila che avevano passato la Manica che dall’Inghilterra davano man forte alla contestazione del regime. Essi fondano quella Rain Bow Coffee House massonica che diventa mezzo di diffusione in terra francese di notizie sul costume, sulla filosofia e sul sistema politico britannico che viene assunto a modello positivo da contrapporre ad un fatiscente sistema francese. 

    Il problema, secondo il Nostro, è che gli intellettuali borghesi sono sì esclusi dal potere ma fanno politica per quanto in contesti “apolitici”. Alla borsa dei cambi,  nelle accademie, nelle biblioteche, nei clubs letterari, nelle associazioni mussali, nei salotti, si poteva parlare di tutto e anche di ciò che la censura di una Sorbona dominata da monarchici ed ecclesiastici aveva reso illegale. In essi si parlava di affari, di scienze, di letteratura, di arte, di costume ed insieme si faceva politica; ma politica troppo critica con il potere. La repressione della discussione politica pubblica, proibita dalla legge e perseguita d’ufficio, alimentava la discussione privata generando la segretezza delle nuove idee. Ed il “segreto” è il maggior elemento di fascino della Massoneria, la sua misteriosità, la sua esclusività, la sua gnosticità ed anche il suo indiscusso misticismo concettuale e rituale: l’Essere Supremo aveva trovato nelle logge le sue chiese, i suoi altari e i suoi sacerdoti. Secondo Koselleck l’avvento del “metodo critico” del pro e del contro si fa processo morale-politico al potere già col Dictionnaire historique et critique di Bayle (1695). L’impiego dei rigori della ragione a fini di critica, sia essa letteraria, filosofia o politica, trova in Bayle compiuta realizzazione didattica e il fine della critica è una ricerca di verità, per quanto non assoluta, che diventa fine morale. Ma la critica è di per se stessa un’azione “che suddivide” (per meglio considerare i differenti aspetti) e da ciò nascono le polarizzazioni illuministiche che portano la critica ad andare oltre i suoi limiti fisiologici, ed è allora che «dalla critica scaturisce l’ipocrisia» [54] come sua controparte, mentre l’Éncyclopedie, con la rete dei suoi concetti dualistici e dicotomici, fa il resto. E quindi:

 

Una volta compiuto il passo dalla repubblica dei dotti allo stato, tutte le posizioni dualistiche ormai non servirono che a mettere il signore dalla parte del torto per eliminare tutte le differenze. E ciò significò mettersi dalla parte della giustizia a prezzo di un torto. Non il re ma il critico fu il vero usurpatore. […] La costante demistificazione degli altri provoca l’accecamento del nostro demistificatore. [55]  

     

Ma non solo:

 

Il potere del principe è spogliato del suo carattere rappresentativo e sovrano, ma in pari tempo il potere in quanto funzione non è toccato, perché deve diventare una funzione della società. [56]

 

Strumentalità, dunque, che si sarebbe connessa all’utopia e al moralismo nella stessa lotta all’assolutismo monarchico. La critica implicita va a Turgot e a Voltaire, ma ancor più ai philosophes atei Helvétius e d’Holbach, che avevano fatto dell’istanza etica uno dei fondamenti del loro pensiero. Ma la critica di Koselleck va oltre, per colpire la stessa società moderna nata dall’Illuminismo nei termini seguenti:

 

L’utopia come risposta all’assolutismo inaugura così il processo dell’età moderna, che da tempo si era lasciata alle spalle la situazione di partenza. Ma l’eredità dell’illuminismo è ancora onnipresente.

 

E ancora:

 

L’Illuminismo, costretto a mascherarsi politicamente, fu quindi vittima della propria mistificazione. La nuova élite visse sotto il segno di leggi morali il cui significato politico fu di essere l’antitesi della politica assolutistica; la scissione tra morale e politica guidò la critica superiore e legittimò una presa indiretta del potere, la cui effettiva importanza politica tuttavia continuò a rimanere nascosta agli attori proprio per il loro modo dualistico di intendere la loro funzione. Velare questo mascheramento in quanto tale fu la funzione storica della filosofia della storia. È l’ipocrisia dell’ipocrisia in cui era degenerata la critica. Fu così compiuto un salto qualitativo che impedì a tutti coloro che ne erano partecipi di accorgesi del proprio accecamento. [57]

 

    Giudizio pesantissimo sul corso della storia europea iniziato con l’Illuminismo; un corso sì con molte luci e molte ombre, ma noi vediamo perlopiù queste come conseguenti a pulsioni e a motivazioni del tutto estranee alla cultura socio-politica illuministica. Non così per Koselleck; il critico delle mistificazioni della filosofia della storia prodotte dalla borghesia illuministica giunge a una conclusione molto originale, che denuncia un’etica illuminista ipercritica tradotta impropriamente in arma politica. Se, tra speranze e illusioni, eroismi e crimini, ingenuità e furbizie, la stagione dei Lumi pone anche un problema morale, l’analisi del Nostro, più o meno condivisibile nelle sue conclusioni, ci conferma comunque la complessità che avevamo richiamato nella nostra prefazione e la pressoché inesauribile riserva di novità e sorprese che lo studio del secolo XVIII riserva sempre e riserverà anche in futuro.

 

 



[1] N.Hampson, cit., p.233.

[2]G.Berenkassa, Francia, in: L’Illuminismo, Dizionario storico, a cura di V.Ferrone e D.Roche, cit., p.373.

[3] Ivi, pp.373-374.

[4] G.W.F.Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, 3/II, cit., pp.17-18.

[5] Ivi, p.19.

[6] Ivi, p.30.

[7] Ivi, p.31.

[8] Ivi, p.136

[9] Ivi, p.163

[10] Ivi, pp.166-167.

[11] Ivi, p.168.

[12] Ivi, p.169.

[13] Ivi, p.258.

[14] Ivi, p.259.

[15] Ivi, p.251.                                                           

[16] Ivi, pp.252-253.

[17] F.Engels-K.Marx, La sacra famiglia, a cura di A.Zanardo, Roma, Editori Riuniti 1967, p.165.

[18] Ivi, pp.165-166.

[19] Ivi, p.171.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem

[23] Ivi, p.166.

[24] M.Horkheimer e Th.W.Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi 1966, p.36

[25] Ivi, p.12.

[26] Ibidem.

[27] Ivi, p.14.

[28] Cfr. G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito, II vol., Firenze, La Nuova Italia 1985, pp.42-135.

[29] Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit, p.21.

[30] Ivi, p.17.

[31] Ivi, p.33.

[32] Ivi, pp.36-37.

[33] Ivi, p.37.

[34] Ibidem.

[35] M.Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro, Brescia, Queriniana 1977, p.90.

[36] Ivi, p.91.

[37] Ivi, p.38.

[38] Ivi, p.40.

[39] Ivi, p.43.

[40] G.W.F.Hegel, cit., pp.159-160.

[41] Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit, p.44.

[42] Ivi, p.47

[43] Ivi, p.48.

[44] Ivi, p.50.

[45] Ivi, p.128.

[46] Ivi, p.259.

[47] R.Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna, Il Mulino 1972, pp.7-16.

[48] Ivi, p.14.

[49] Ivi, p.15.

[50] Ivi, p.16.

[51] R.Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna, Il mulino 1972, pp.46-47.

[52] Ivi, p.47.

[53] Ivi, p.80.

[54] Ivi, p.133.

[55] Ivi, pp.134-135.

[56] Ivi, p.191.

[57] Ivi, pp.228-229.