XVII.
Il Post-Illuminismo
17.1 Premessa
Ci si è chiesti «che cos’è l’Illuminismo?»
e «quando inizia?», non ci si stupirà quindi
se ci si ponga la domanda: «quando
finisce?». Ad essa si può rispondere in due
modi opposti ed entrambi corretti.
Per un verso esso realmente “finisce”, e
per un altro “continua” anche ai
giorni nostri col progresso scientifico e
culturale, il miglioramento delle
condizioni di vita e la diffusione della
democrazia. Due fatti significativi,
uno politico e uno culturale, cambiano la
situazione e segnano la fine
dell’Illuminismo: il primo è l’andata al
potere di Napoleone (e la fine della
democrazia in Francia); la seconda l’imporsi
della kantiana etica del dovere contro
l’eudemonismo (con la cassazione dell’ideale
profano di felicità). Due fatti che
testimoniano a sufficienza, anche se in modo
approssimativo ed incompleto, la
fine dei rimescolamenti sociali e di quell’etica
del piacere che aveva costituito
il principale elemento post-teologico di
un nuovo orizzonte esistenziale. Né
l’uno né l’altro obiettivo si erano realizzati,
ma quanto meno avevano
costituito la base di tendenze e aspirazioni
caratterizzanti una straordinaria temperie
storica. Due motori del rinnovamento sociale
ed etico che si erano affacciati
alla ribalta con qualche realizzazione importante,
nutrendo desideri ancestrali
e speranze umane da sempre frustrate.
L’accantonamento
delle istanze democratiche, i compromessi
con la religione, la cassazione dei
principi eudemonistici e laicistici, costituivano
quanto bastava per un de
profundis dell’Illuminismo. La domanda ritorna: fine
di esso, dunque? Sì e
no. Fine nei suoi aspetti “pubblici”, ma
anche inizio del suo lungo e
sotterraneo corso di fondazione di una base
per l’edificio dell’Europa moderna.
I migliori impulsi culturali dei Lumi, infatti,
non solo sopravvivono
all’Illuminismo “storico” che muore, ma fanno
dell’Europa il continente
illuminista per antonomasia, reso dinamico
dai presupposti gnoseologici della
scienza del Settecento e della filosofia
dei Locke, dei Bayle, dei La Mettrie,
dei Diderot. Presupposti sempre osteggiati
da un contro-illuminismo ancor oggi
vivissimo, per rendersi conto del quale basta
pensare alle critiche di noti
pensatori del XX secolo, sia cattolici che
marxisti, in chiave anti-tecnicistica
e anti-scientifica. E le istanze illuministiche
sono ancor oggi contrastate e
persino esecrate da molti settori della cultura
catto-idealistica, pur
rimanendo esse la linfa vitale della modernità
e di ogni possibile orizzonte
evolutivo umano. A ciò si aggiunga una vera
e propria ”guerra” contro l’evoluzionismo,
che è nato proprio nel ‘700, visto da molti
teologi cultuali e filosofali come un
pericoloso “acido” concettuale che può distruggere
l’idea creazionistica ed
ogni metafisica monistico-deterministica.
Darwin, dunque, come il distruttore
del Dio-Volontà del monoteismo ed insieme
del Dio-Necessità del panteismo: un
pericolo da combattere ferocemente e senza
tregua col cinismo ideologico de “il
fine giustifica i mezzi”.
Per altro verso l’Ottocento post-illuministico
segna anche il fallimento dell’ateismo filosofico,
incapace di porsi in modo
chiaro come orizzonte culturale alternativo
rispetto alle teologie filosofali del
panteismo e del deismo. La filosofia atea,
nelle sue espressioni più note e
riconosciute (quelle di Helvétius e di d’Holbach)
era crollata sotto le sue contraddizioni
e per un’inconsistenza ontologica dogmatica
e deterministica, per quanto avesse
costituito sotto il profilo etico importanti
modelli di un nuova socialità. È soprattutto
il pensiero sistemico di d’Holbach ad assumere
i caratteri di una sorta di metafisica
atea e anti-cristiana, irrigidita nella negazione
del libero arbitrio, del
pluralismo ontologico e della componente
indeterministica del divenire. Il
pensiero di un grande anti-metafisico ed
anti-dogmatico (e perciò ritenuto
confusionario e contraddittorio) come Diderot,
è equivocato e non se ne coglie la
portata filosofica. L’eclissi dell’Illuminismo
inizia con la messa in ombra dei
suoi elementi più specifici, mentre lo spiritualismo
francese e l’idealismo
tedesco preparano la rivincita della teologia.
Anche
uomini come Robespierre segnano la fine dell’Illuminismo
nelle sue fondamentali
premesse eudemonistiche e libertarie. I concetti
di eguaglianza e fraternità,
sovrapposti a quello più profondo di libertà,
si corrompono attraverso l’ideologismo
violento e retorico dell’Incorruttibile e
dei Montagnardi. I precursori ed i
promotori dell’Illuminismo vero non avevano
mai caricato il loro pensiero e i
loro programmi di simboli, ma ora alcuni
ideologi fanatici inventano la Dea-Ragione
e il Grande Essere, di cui addobberanno i
templi della Rivoluzione. Il
messaggio per un’idea concreta e reale di
ciò “che si poteva fare” per il
superamento del dispotismo e dell’ineguaglianza
senza finire nella kermesse
della ghigliottina erano già sfumati miseramente
prima di Napoleone. Il
riformismo turgotiano, fallito sotto Luigi
XVI, trova eco nel fallimento dei
progetti di Condorcet, emarginato da Robespierre
prima e poi spedito alla ghigliottina.
La Rivoluzione, diventata purtroppo l’unica
strada percorribile per abbattere
un regime che intendeva perpetuarsi, non
mette in pratica le migliori istanze
illuministiche, ma le tradisce con l’idea
di “patria” e di “rivoluzione
continua”. La Rivoluzione poteva essere l’apertura
di una nuovo corso della
storia francese? Probabilmente, se avesse
utilizzato veramente le idee dei Lumi.
Le cose avrebbero potuto andare diversamente?
Forse. Ma il fatto è che i
filosofi “pensano” e i politici “fanno”,
e certamente il far bene dei politici
onesti tra altri, ambiziosi arrivisti, che
vogliono solo il potere, è ancora più
difficile che pensare bene.
Per dare un’idea di quel che intendiamo per
Post-Illuminismo (e prima di dare una brevissima
sintesi del pensiero degli idéologues)
abbiamo scelto tre personaggi significativi
della fase di passaggio
dall’Illuminismo ai suoi postumi. Il primo
è Kant, sicuramente il più
importante, del quale ci siamo già ampiamente
occupati nel § 8.3, il secondo è
il Marchese de Sade, il terzo il filosofo-fisiologo-psicologo
Cabanis. Kant, lo
ripetiamo, è forse il più grande pensatore
di tutti i tempi, e sicuramente
colui che ha elaborato il miglior modo, razionale
e analitico, di affrontare i
problemi logici e gnoseologici, ma non è
un illuminista. Egli è un teologo
filosofale che tutto sommato ha dato poco
alla filosofia, all’”amore del
conoscere”, avendo perlopiù rimasticato la
metafisica tradizionale in nuove
forme con un’opera di sistematizzazione che
rimarrà esemplare. Nella manualistica
passata e presente egli è sempre collocato
a conclusione dell’Illuminismo; è un
grave errore. Egli è il primo dei neo-idealisti
e la levatrice di quegli iper-idealisti
che domineranno l’Ottocento. In quanto a
Sade: non ci si stupisca se eleggiamo un
romanziere psicopatico a becchino dell’Illuminismo;
pensiamo di farlo lo
facciamo a ragion veduta e speriamo di darne
conto in maniera adeguata. Per ciò
che riguarda il medico-filosofo Cabanis,
il più importante degli idéologues,
anticipiamo che si tratta di colui che ha
reso la migliore sintesi delle
scienze medico-biologiche del Settecento,
ed anche, come ha ben visto Sergio
Moravia, l’iniziatore dell’indagine psicologica
moderna.
17.2 Gli idéologues
Allo
scoppio della Rivoluzione i philosophes sono già tutti morti, ed intorno alle loro
ceneri si raccoglie e si
compatta un gruppo di pensatori che ne raccolgono
dal più al meno l’eredità,
cercando di conciliarla con le convulsioni
della Repubblica prima e con le
restaurazioni dell’Impero poi. La temperie
repubblicana è stata una
straordinaria occasione di rinnovamento sociale,
ma la Repubblica ha consumato
se stessa nel suo realizzarsi; sorta di Vulcano
che ha divorato molti dei suoi
figli migliori e che si prepara a sprofondare
partorendo dal suo seno un
imperatore. Essa fallisce l’appuntamento
con la storia nella misura in cui “si
storicizza” diventando solo più ricordo e testimonianza di un drammatico passato da dimenticare. La cultura romantica, nata sin dalla metà
del Settecento, esecratrice
del razionalismo e dell’irreligione, può
svilupparsi liberamente in accordo con
una nuova sensibilità, più attenta ai valori
tradizionali e all’intimità, ma
soprattutto stanca di novità culturali e
comportamentali scomposte e troppo
platealmente trasgressive, che vedono i Choderlos
de Laclos, i Restif de La
Bretonne e i Divini Marchesi costituire l’estremo
limite del degrado libertineggiante.
Gli eredi
dei philosophes sono chiamati idéologues in riferimento agli Éléments
d’idéologie di Destutt de Tracy (1754-1836), uno dei
primi e più
autorevoli esponenti del gruppo. La storia
degli idéologues, lo abbiamo già rilevato, si intreccia con
la storia politica della
Francia di inizio Ottocento e con essa si
sfinisce e si esaurisce nel silenzio.
Napoleone, che assume il termine idéologues in senso spregiativo, ad indicare gli intellettuali
irrealisti e
oziosi” (in quanto disutili ai suoi fini),
li accantona e li emargina, sino a
ridurli nelle loro solitarie nicchie di riflessione
e studio, lontane dai
clamori del nuovo corso della Francia imperiale.
Sergio Moravia, ha anche
analizzato i modi con cui l’Imperatore dei
Francesi si è disfatto di loro [1].
Il gruppo degli idéologues, nato come aggregazione di intellettuali
nel salotto di Auteuil della vedova
Helvétius, presto si disfa nella misura in
cui la penetrazione degli ideali
romantici sbriciola gli ultimi mattoni di
un materialismo meccanicistico e di
un sensismo che avevano fatto il loro tempo.
Così Joseph-Marie Degérando (1772-1842)
si stacca da Cabanis aprendo la strada a
una nuova ricerca dell’interiorità
umana che pare ancora feconda lascia di sviluppi
interessanti. Ma presto quest’interiorità,
con Franςois-Pierre de Biran (1766-1824),
tornerà ad assumere i connotati
dell’anima cristiana così come la scienza
dell’uomo tornerà a configurasi come
pura metafisica.
Sergio Moravia, che agli idéologues ha dedicato
due saggi importanti (Il tramonto
dell’illuminismo e Il
pensiero degli idéologues) oltre ad articoli
vari, dice di loro:
Agnostici, almeno programmaticamente, sul
piano
metafisico, gli idéologues erano culturalmente
e praticamente nella prospettiva
d’una concezione unitaria e materialistica
della realtà. Certe proteste di
agnosticismo sui princìpi o i motori primi
scemano assai d’importanza dinanzi
al loro amore per Hobbes, al loro culto per
Helvétius e d’Holbach, al loro
interesse per la materia, per l’organisation physique
dell’uomo. La loro polemica contro la metafisica,
lo spirito, la religione è
già di per sé piuttosto eloquente. [2]
Helvétius e d’Holbach, dunque, i loro referenti,
mentre La Mettrie e Diderot appaiono troppo
complessi per esser utilizzabili,
ma soprattutto non sono deterministi, e gli
idéologi voglio certezze e definizioni. E tuttavia
l’impresa editoriale di
Diderot, l’Enciclopedia, appare come insostituibile strumento di
cultura. Moravia rileva:
Accanto o proprio attraverso le discussioni
particolari, i philosophes
consegnavano d’altra parte agli idéologues
un’eredità di carattere più generale. Essi
davano l’esempio di una cultura
vivace, libera, eppur concretamente ancorata
ai problemi reali della scienza e
della società. Dietro quella loro cultura
e quel loro engagement intellettuale e
civile stava l’impresa dell’ Encyclopèdie.
[3]
Accomuna gli
idéologues anche un atteggiamento sensista, ma nel
rifiuto (che avevamo già visto
in Helvétius) di quanto di spiritualista
vi è in Condillac, che mantiene integro il concetto di anima e la sua essenza
immateriale. Ciò che in Condillac è ancora
metafisica si fa con gli idéologues fisiologia, e
Destutt de Tracy è il primo coerente assertore
di questo nuovo principio che
collega filosofia e medicina. Egli pone il
concetto di “sensibilità” nei
termini già anticipati da Locke, per cui
il pensare è in realtà una conseguenza del sentire. E per Destutt la sensibilità non è solo uno stato ma pluralità di funzioni intellettuali e
corporee interconnesse. Nel
considerare la realtà come un “fuori” dell’uomo
Destutt abbandona il primato
della tattilità posto da Condillac. Per lui
non si conosce “toccando” ma semmai
“urtando” l’oggetto da conoscere in un processo
dinamico di azione/reazione,
tesi che gli sostiene ed elabora in Memoria sulla
facoltà di pensare del 1795. Successivamente, con
gli Elementi di ideologia, l’opera che lo tiene impegnato dal 1801
al 1815, egli sostiene che non
è sufficiente che vi sia un incontro/scontro
con la realtà, ma che esso dev’essere
voluto e messo in atto a fini gnoseologici,
cioè al fine di produrre
consapevolmente conoscenza attraverso esso.
In altre parole, conoscere è il
frutto di uno “sforzo” in relazione a un
“ostacolo”, come se l’oggetto producesse
una “resistenza” a lasciarsi conoscere
che va superata con impegno e fatica.
17.3
Sade: morte dell’erotismo e catechismo del
male
Se le parole hanno un significato e il
linguaggio è strumento non arbitrario di
comunicazione il temine erotismo
va usato quando lo si deve usare e non impropriamente.
Se fosse pur vero che è
l’uso a sancire il significato, e che l’erotismo
è stato bollato senza appelli dalla
morale cristiana come “peccato”, ciò autorizza
sicuramente i teologi cristiani
ad utilizzarlo come sinonimo di vizio, ma
non quelli che non lo sono. La morale
sessuofobica del Cristianesimo nasce con
l’inventore di esso, San Paolo, che ha
criminalizzato “l’amore per l’amore” e delineato
una precettistica morale che
nessuno ha mai più modificato (quantunque
qualche Santo Padre del Rinascimento
non la seguisse troppo). Il termine, peraltro,
non ha radice latina ma greca, nasce
quindi in un contesto, quello pagano politeista,
che nulla ha a che vedere col
monoteismo ebraico e cristiano. Cominciamo
allora a porre alcuni punti fermi: Éros
è la divinità dell’amore, del piacere che
il rapporto amoroso induce e produce,
della gioia, dell’abbandono, del piacere
puro, dell’oblìo di sé nell’unione.
Gli sono correlati la simpatia tra i partner, l’attrazione, la giocosità,
l’entusiasmo solare del godere e del far
godere nell’atto d’amore e nei suoi
preliminari. L’aggettivo erotikòs ha perciò il significato di “ciò che
concerne l’amore” con tutti i correlati che
lo concernono è che abbiamo sopra
indicati. Il suffisso del termine erotismo indica quanto di
intellettuale si sovrappone all’attività
erotica, ma senza che questa esca dal
piano dei correlati che le sono propri. Che
cosa c’entra allora il sadismo con
l’erotismo? Nulla! A meno che qualcuno abbia
qualche interesse a far passare l’uno
per l’altro o sia tanto ottuso da confonderli.
Ma proprio perché il linguaggio si presta
ad esser usato ad libitum, sia un
autore, sia chi lo ama, sia chi lo esecra,
possono modulare i significati in
ragione delle loro idee. Considerazione banale
ma che chiarisce la multiformità
di giudizi su Sade; autore equivoco, ideologico,
bugiardo, mistificatore.
Avremo modo di cogliere nel corso della nostra
analisi la legittimità di questi
aggettivi, ma intendiamo ora soffermarci
sull’espressione catechismo del male. Eravamo tentati da teologia del male, ma avremmo fatto di Sade un satanista,
il che
sicuramente non è, in quanto razionalista.
Egli, dal punto di vista di vista
filosofico “formale” è relativamente vicino
a d’Holbach sul piano ontologico, ma
non su quello etico, essendo questi un
“catechista del bene”. Alla domanda: “perché
Sade catechista del male?”
cercheremo di rispondere a suo tempo, ma
vogliamo qui ricordare come Pierre Klossowski
nel suo Sade mon prochain avesse già
visto come il proclamato ateismo del marchese
nasconda in realtà un background cristiano molto forte, che
egli nega e combatte perché “se lo sente
dentro”, per poi ritrovarlo in
vecchiaia ed appagarsene. La famiglia de
Sade è infatti profondamente cattolica,
e Donatien ha quattro zie suore e uno zio
abate che hanno sulla sua prima
formazione un peso non trascurabile..
Il Nostro “appare” un didatta del male, ma
per
quanto nei più importanti testi sadiani sia
indubbiamente presente l’apologia di
esso, è altrettanto certo che egli non è
un malvagio. Come vedremo, crimini gravi
Sade non ne compie, solo “eccessi” di lussuria
deviata di origine patologica
dove si deve escludere l’intenzione di “far
del male”. Ed è allora in questa
separazione vita/scrittura che si gioca tutta
la problematica esegetica su i
lui, ed è in questa luce che si tratta di
capire “perché” la scrittura sadiana
sia quel che è in rapporto al Sade uomo reale
e perché egli voglia “fare” il
didatta del male, salvo poi rinnegare la
paternità della sua opera più
apologetica della malvagità e più devastante
per la morale cristiana, il romanzo
Justine. In esso si nega la giustizia divina e si proclama
“naturale” e
necessaria la vittoria del male sul bene.
Posta la problematica generale da
essa si generano alcuni problemi esegetici:
quello filosofico (qual è la weltanschauung?), quello morale (perché
si insegna il male?), quello psicologico
(da che cosa nasce tale pulsione?),
quello medico (che tipo di malato era Sade?)
Se
l’illuminismo aveva portato una ventata di
liberazione sessuale e la
valorizzazione dell’erotismo in chiave eudemonistica,
Sade è evidentemente anti-illuminista.
E d’altra parte se sul piano filosofico il
suo pensiero è poco rilevante, sul
piano antropologico la sua vicenda è notevole
ed ha come correlato
l’inevitabile umana compassione per uno psicotico
che sicuramente ha più
sofferto di quanto abbia goduto. Sul piano
letterario egli appare come uno dei
personaggi più geniali che la letteratura
settecentesca abbia espresso e tra i più
sconcertanti della temperie post-illuministica,
per gli “eccessi” e per l’“enormità”
del suo messaggio. Ed è nel contempo uno
di quelli che, per il suo professato
ateismo, più imbarazza gli atei ideologici,
mentre, all’opposto, fa sentire più
forti i fautori della religione. Per essi
il Nostro rappresenta il più compiuto
esito dell’annullamento dei valori religiosi
e dell’amoralità conseguente alla
cassazione dell’idea di Dio. Senza di Lui
il vizio e il crimine, non possono che
trionfare e proliferare, come i personaggi
di Sade dimostrerebbero. Emerge allora
di nuovo la vecchia domanda dei suoi biografi:
al di là della sua “scrittura”,
quanto si è veramente tramutato in “azione”
criminosa, è quanto è invece frutto
di diffamazione?
Quel che ci pare indubitabile è che il
Nostro in realtà non trasmetta éros, quanto piuttosto una caricatura di esso,
e siccome egli possiede un senso del comico notevole, sorge
addirittura il sospetto che in qualche caso
il sovraccarico di drammatico possa
nascondere una sotterranea ma palpabile comicità.
Va anche rilevato che la
perversione sadiana è già anche masochistica,
l’esercizio del sesso diventa
apice del piacere attraverso la sofferenza
di una vittima e il piacere di un
carnefice che possono scambiare i ruoli.
Ma ciò che è importante capire è che
tutto ciò è letteratura, mera “rappresentazione
estetica”, nella quale si può
ravvisare il climax in una possibile “esperienza
mistica” di tipo allucinatorio. Un carnefice
e una vittima (ma complice del carnefice)
mettono in scena una “rappresentazione” dove
il sesso non è fine a se stesso,
bensì strumento della rappresentazione di
un copione criminoso, sconvolgente,
blasfemo e soprattutto “scandalizzante”.
dove “l’effetto che fa” è fondamentale
. Il godimento disteso e solare del piacersi
e del godersi dei corpi in Sade è
del tutto assente: il suo sesso è tutto “di
testa” e niente “di corpo”. Fare
sesso reale a fine di godimento non è mai
operazione meccanica ed ancor meno violenta;
l’arte amorosa sfrutta tutti i centri
della sensibilità corporea utilizzando tutti
i sensi coinvolgibili nell’amore, con fantasia
e improvvisazione.
La maniacalità dei rituali proctocentrici
che
domina le scene sadiane, e addirittura la
numerologia operativa e lo
schematismo razionalistico sono agli antipodi
dell’éros. Che egli abbia tentato
di realizzare i suoi deliri in azioni concrete
è possibile, ma è certo esservi stato
molto di strumentale nell’enfatizzarli per
colpire un uomo da emarginare o
addirittura da nascondere alla società.
Quanto alla negazione di Dio, la vedremo
meglio esaminando i testi, ma possiamo
fare qualche anticipazione, ricordando che
nel Nostro l’ateismo non è soltanto
proclamato (se ne tenta persino una giustificazione
teorica), ma di ateismo
reale, esistenziale, nel corso della sua
lunga vita sembra essercene poco. Anche
se Sade è intelligentissimo, molto furbo
e mentitore incallito, ciò spiega solo
in parte, come mero opportunismo, certi atteggiamenti
devozionali assunti a
Charenton (l’ospizio per malati di mente
in cui morirà), ma non dà ragione dei
rapporti frequenti col confessore e della
sua morte in grazia di Dio. Va
peraltro sottolineato che nell’epistolario
sadiano vi sono frequenti
riferimenti a principi affettivi e morali
che sono diametralmente oppositivi alla
sua letteraria apologia del male e dell’immoralità.
E d’altra parte malgrado le
sue dissolutezze egli ha un ottimo rapporto
con la moglie, come lo avrà con
l’ultima compagna della sua vita.
Per
quanto attiene l’ateismo il suo principale
referente sembra essere d’Holbach, ma
il pensiero holbachiano è da Sade “capovolto”,
poiché si serve del determinismo
ateistico holbachiano per giustificare la
necessità del male e per vederne
nella natura l’origine stessa, mentre per
d’Holbach è l’esatto contrario. L’essere
totale per d’Holbach è una natura benevola,
provvidente, che indica un modello
morale e che conduce alla “necessità” del
bene collettivo quale sua compiuta
realizzazione. Per il Nostro la natura è
“perversa”, ed obbedendole si è
immediatamente condotti alla “necessità”
del male, poiché è la natura che
chiede al super-uomo di contribuire al male
con la promessa di un piacere
privilegiato a scapito della sofferenza “dell’altro”. L’altro, infatti, non esiste se non come
“strumento passivo” del crimine e di un piacere
stravolto e “tutto di testa” che
ne deriva. La realizzazione del crimine,
come delirio di onnipotenza in nome
del male, presuppone la partecipazione voluta
di “vittime” senza le quale
l’estasi negativa non è possibile, ma ava
anche sottolineato che queste vittime
sono sempre entità astratte, simboliche.
Esse esistono soltanto come proiezioni
del delirio di onnipotenza del soggetto parlante,
che attraverso la parola
scritta realizza una sorta di orgasmo fine
a se stesso quale frutto di
fantasia.
Sade era un uomo “normale”? Forse no e
forse sì! Dipende da che cosa si intende
per normalità e a quali circostanze e
situazioni lo si riferisce. Egli è sicuramente
uno psicotico, ma non
necessariamente uno psicopatico ed ancor
meno un pazzo. Vi sono circostanze
nelle quali si comporta da uomo di buon senso,
ad esempio nel periodo in cui ha
responsabilità pubbliche. Diventato segretario
e poi presidente della sezione
rivoluzionaria delle Piques nell’aprile del
1793 è juré d’accusation si trova tra le mani gli odiati
suoceri e non si vendica. Scrive un’Idée sur le monde de la sanction des
lois nella quale ammonisce di stare attenti a
che la Guardia Nazionale non
diventi un’armata di pretoriani al servizio
di nuovi despoti, così come
raccomanda che prima di promulgare una legge
essa venga sottoposta alle
assemblee primarie dei capoluoghi interessati
e secondo un principio elettorale
approvato, respinto od adeguatamente corretto
[4]. A parte le sue escandescenze lamentose, le sue irate invettive e le vere e proprie
liste De mortibus persecutorum (condanne virtuali dei suoi persecutori)
egli sa valutare positivamente le persone
che gli fanno del bene: innanzitutto
il severo pedagogo Amblet («era un uomo severo
e intelligente, adatto a formare
la mia giovinezza, ma ne fui allontanato
troppo presto » [5] del
liceo Louis le Grand (dal quale fu tolto
a 10 anni per avviarlo alla carriera
militare), un prete del quale egli serberà
grato ricordo e nostalgia
intellettuale.
Personalità doppia, forse tripla,
intelligenza eccezionale e creatività vulcanica,
il Nostro, come molti altri
personaggi dell’arte e della letteratura
è un malato unico nel suo genere, creatore
di oggetti letterari inquietanti quanto interessanti,
ma ispiratori di ripulsa assai
più che di spinta ad un éros autentico. Non
la pensano così i suoi fanatici
estimatori, appartenenti prevalentemente
a tre correnti critico-letterarie del
primo ‘900: il surrealismo, il simbolismo
e l’estetismo; tutte fondate sull’épater
les bourgeois e sul colpire gli schemi del più vieto conformismo
per produrre
stupore e indignazione. Sotto questo punto
di vista Sade appare come il più
devastante distruttore della morale, ma,
occorre precisarlo, anche colui che ha
pagato un prezzo eccessivo per averlo fatto.
La sua pare una pulsione auto-lesiva
prossima all’eroismo negativo, sì da rendere
plausibile la definizione di vittima
di un genere stravolto di pulsione “etica”,
molto lontana dai balletti poetici e
letterari dei suoi epigoni da salotto del
‘900. È per questa ragione che, a suo
modo, Sade è stato un eroe della libertà
di espressione, senza dimenticare però
che ha goduto all’inizio del fatto di essere
un aristocratico e quindi in
qualche modo “protetto dal sistema”. E tuttavia
i suoi scritti, tutti
posteriori al 1782, sono comparsi in un’epoca
detentiva per lui di grande
sofferenza ed all’esterno già di grande travaglio
sociale, prossimo alla
sollevazione che porterà alla presa della
Bastiglia. Dopo quest’evento la
posizione atea e amorale di Sade si presenterà,
in quanto anti-cristiana, meno
reprensibile, ed egli potrà vivere per qualche
tempo libero cittadino e
partecipare alla vita pubblica.
Difficile asserire se sin dalla prima
gioventù Donatien-Alphonse sia già bisex, ma sicuramente omosessuale e
pederasta lo diventa in seguito. Relativamente
alla sua dissolutezza va detto però
che forse egli è solo un pò più vizioso e
bizzarro degli altri suoi pari, che
potevano permettersi abusi d’ogni genere
sui plebei, pensando, come estensione dello
jus primae noctis, che tutte le popolane giovani e carine
fossero “a disposizione”.
Abbiamo già notato come il Nostro non si
comporti mai da malvagio: nominato
commissario per l’amministrazione ospedaliera
si adoprerà per migliorare le
condizioni dei degenti. Avrà un “potere”
che potrà esercitare con pochi
scrupoli, ed invece agisce con generosità,
assennatezza e rispetto della
sofferenza altrui. La lettura delle sue Observations relative
all’incarico affidatogli il 28 ottobre e
poi il 2 novembre del 1792 con l’Idée
sur le mode de la sanation des lois testimoniano un uomo con dei principi
etici indubitabili. Il 6 giugno dell’anno
successivo, il 1793, legge alla
Convenzione l’appello noto come Pétition des Sections de Paris che è
pieno di proposte plausibili. Situazioni
di potere in cui un malvagio non si
lascia certamente scappare l’occasione di
soddisfare i suoi bassi istinti, e sappiamo
fin troppo bene come in quella temperie molti
rivoluzionari lo abbiano fatto,
suscitando l’orrore di Sade per la crudeltà
e gli orrori perpetrati. Ma
dobbiamo essere più precisi, perché trattando
di quest’uomo strano e
disgraziato è necessario anche vedere i suoi
scritti alla luce della sua vita..
Assumiamo quindi come riferimento la Vita
del Marchese de Sade (1952) di Gilbert Lely e la Biografia del Marchese di Sade (1986) di Luigi Bàccolo per trarne
elementi significativi. Ottime biografie
entrambe, per quanto non prive di
difetti: molto analitica ma un po’ troppo
apologetica la prima, sintetica ma un
poco romanzata la seconda.
Donatien-Alphonse François nasce nel 1740
e
si sa che i suoi genitori non si occupano
molto di lui (sta perlopiù con nonne
e zie) a parte lo stabilire che cosa debba
diventare: un militare di carriera. Del
periodo passato all’Accademia non si sa nulla,
facile immaginare che la
disciplina da caserma gli produca non poca
sofferenza (si pensi all’effetto che
farà su Nietzsche) e che già in quel periodo
prende qualche cattiva abitudine. A
15 anni è sottotenente di fanteria, a 17
tenente dei Carabiniers, a 19
capitano di cavalleria; nel 1763, ventitreenne,
va in congedo. Quello stesso
anno, in maggio, sposa Renée-Pelagie de Montreuil,
appartenente alla piccola noblesse
de robe, mentre i Sade sono di antica schiatta e
con qualche parte di
sangue-di-re. Al momento Donatien se la fa
con una ballerina e nel contempo frequenta
postriboli malfamati; non è escluso che i
Montreuil ne sappiano qualcosa, ma all’inizio
la sua condotta è buona e la suocera dice
in una lettera del 20 ottobre: «Ma
che ragazzo simpatico […] Litighiamo, ma
subito dopo facciamo la pace […] Sarà uno svanito, ma il matrimonio mette
sempre del piombo in testa.» [6].
Ottimismo eccessivo perché a fine ottobre
il ragazzo è arrestato per reati
contro il costume e rinchiuso nella fortezza
di Vincennes.
La denuncia viene da Jeanne Testard, una
ragazza di strada che Sade porta in un appartamento
e, invece di farle fare ciò
che si richiede a una come lei, le domanda
se crede in Dio, in Gesù e nella Vergine.
A risposta positiva il marchese (così recita
la testimonianza della giovane) dà
in escandescenze e si abbandona a una serie
di bestemmie; orina in un calice,
prende due ostie e le infila nel suo corpo,
urlando «Vendicati, se tu sei Dio!»;
infine calpesta un crocifisso e compie altre
cose che taceremo in omaggio al
buon gusto [7]. Tutto vero? Mah…! Però le
credono. Il nobile rampollo se la cava bene
grazie al suo rango e soprattutto a
qualche intervento “dall’alto” (se fosse
stato un popolano probabilmente non
avrebbe avuto più alcuna possibilità di commettere
altri reati). È da questa “andata
bene” che inizia la catena delle sue gesta
successive; un piccolo ma coriaceo
ispettore di polizia di nome Marais, che
da allora gli starà sempre addosso,
profetizza: «Non si tarderà a sentir parlare
degli orrori del Marchese de Sade »
[8] Ma il
Nostro è furbo e sa recitare (ama il teatro,
lo fa e ne scriverà a più riprese)
e così nella breve carcerazione si protesta
pentito dichiarando: «Piangere le
mie colpe è ora la mia occupazione […] spero
presto di potermi accostare ai
Divini Sacramenti.». La suocera nota indignata:
«È un gran commediante!» [9]
Elementi importanti la finzione e la
menzogna, sì che si tratterebbe di sapere
che cosa passi in quella testa quando
“fa”, quando “parla” e quando “scrive”, ma
da Sade ci si può aspettare di
tutto, anche l’onestà e la bontà. Il vero
mistero è Renée-Pelagie, la scialba
moglie a cui farà fare tre figli, che tenterà
di redimerlo e che gli sarà
fedele per molti anni, prima di decidere,
all’improvviso, di lasciarlo al suo
destino (implorando però per lui la pietà
divina). Intanto, il 3 aprile 1768,
il Nostro prende in strada un’operaia disoccupata
che mendica (ma lui e i suoi cercheranno
di farla passare per una puttana), Rose Keller,
e se la porta in casa col
pretesto di farle rassettare una camera per
uno scudo. Dopo vari trasferimenti
(resi nel dettaglio da Lely [10]) con
l’inganno la porta in un ultima sede dove
la lega e la frusta sulle natiche, con
ciò eccitandosi e raggiungendo l’orgasmo
[11].
Lasciata sola la ragazza forza la porta e
scappa in strada e racconta
l’accaduto, poi entra in scena il già
citato Marais che lo arresta. Questa volta
Sade si fa sette mesi e mezzo di
galera, ma poi esce con un’ammenda pecuniaria,
mentre i Montreuil per salvare
l’onore della famiglia diffondono la voce
che quella puttanella si era presa una
semplice sculacciata. Si dà però il caso
che il 3 aprile fosse la domenica di
Pasqua, e da ciò il significato blasfemo
dell’operazione (una flagellatio
quale simulazione sacrilega della passio?). Eppure in famiglia è
marito normale; la cogenza delle sue saltuarie
malefatte alternata alla
normalità del quotidiano è il segno di un’evidente
dissociazione della
personalità, all’epoca una patologia ancora
poco nota. Ma presto si vedrà in
lui un “posseduto” da Satana.
Per qualche anno non accade più nulla e come
militare di carriera viene spedito nei Paesi
Bassi nel ’70; è sovente ai ferri
e nel ’71 finisce in carcere per debiti,
poi nel 1772 torna in famiglia. È qui
che trova la sorella della moglie, si chiama
Anne-Prospère ed è di qualche anno
più giovane; è molto più graziosa e civettuola
Pare che Donatien-Alphonse se ne
fosse innamorato sin dal fidanzamento con
Renée. Nella dimora di La Coste il
marchese gode anche della fedeltà ruffiana
della cuoca Gothon e della cameriera
Nanon e là dentro qualcosa deve accadere
ogni tanto, ma se se ne sa poco. Per
evadere un pò dalle mura domestiche Sade
va a Marsiglia col servo Latour, che è
anche suo amante, e organizza una festicciola
con alcune ragazze allegre. Bella
nottata per i due gaudenti, se non ché una
di loro accusa subito dolori
viscerali e vomito, seguita il giorno dopo
da un’altra: si parla di
avvelenamento [12]. Il supposto veleno sono
caramelle alla cantaride (un noto afrodisiaco)
fatto loro inghiottire in
eccesso; scatta il mandato d’arresto ma i
due pervertiti sono già spariti. I
contumaci sono condannati alla pena capitale
(in effige) come rei di “avvelenamento
e sodomia” ma nel frattempo Sade convince
la cognatina Prospère a seguirlo per
un bel viaggetto in Italia, e mentre ad Aix
c’è la messa in scena della simbolica
condanna a morte la coppia, nel settembre
del ’72, varca le Alpi col fido servo
Latour.
Forse la paziente Renée stringe i denti e
tace, ma per la suocera la misura è colma
e (sapendo dove si nasconde il
genero) si mette in azione col ministro degli
esteri di Parigi e l’ambasciatore
savoiardo Ferrero della Marmora. A parte
Renée in famiglia sono tutti d’accordo,
persino sua madre, che a Donatien va tolta
la libertà e che la sua carriera di
peccatore impenitente deve finire. Tre mesi
dopo Sade e Latour vengono scoperti
e arrestati nel loro nascondiglio in Savoia
e internati a Miolans presso
Chambery [13]. Il Nostro riserverà
imperituri odio e disprezzo per il monarca
cisalpino (Carlo Emanuele III) e
soffre la detenzione pensando alla fuga,
per quanto i funzionari sabaudi ritengano
“al sicuro” il nobile manigoldo. Alla fine
Donatien riesce ad evadere col
cospicuo aiuto di Renée, la quale, inaspettatamente,
briga, si fa in quattro e
personalmente (vestita da uomo) pilota l’evasione
del marito. All’inizio di
maggio del ’73 Sade è liberato e poco dopo
passa il confine protetto dalla piccola
armata mercenaria messa insieme da dalla
fedele consorte [14]. Il
contumace si nasconde nel suo castello di
La Coste e vi rimane in disturbato
dal maggio ’73 al gennaio ’74, quando, scoperto
il nascondiglio la polizia fa
irruzione, ma ci trova solo più la marchesa.
Sade vaga intanto tra Bordeaux e
Grenoble [15]; poi, calmate le acque,
torna a La Coste.
Tra fine ’74 e inizio ’75 assume cinque
ragazze a Lione e Vienne e se le porta a
casa per “servizi vari”, ma si dà il
caso che i genitori di una delle ragazze
sporgano querela per sequestro di
persona. Si cerca di mettere le cose a tacere
lasciando subito libere le
ragazze e l’avvocato Gaufridy lavora sodo
finché la questione è risolta.
Interessante il giudizio di una ragazza sulla
marchesa Renée: «la prima vittima
di un furore che dev’essere considerato vera
e propria pazzia.» [16] La
libertà di Donatien è agli sgoccioli, da
quell’anno in poi, secondo un destino prevedibile,
peregrinerà da un carcere all’altro ormai
braccato di continuo. Il 13 febbraio
1777 (con lo zampino della suocera) Sade
è arrestato a Parigi e portato nella
fortezza di Vincennes [17]. Soffre
di emorroidi e ce l’ha col mondo cattivo
e ipocrita che lo perseguita, ma nei
periodi di libertà e se la gode a suo modo
e come può. È il periodo in cui
Renée, col suo perdonargli tutto e proteggerlo,
è vista come sua complice, quello
in cui muore sua madre, ma anche quello in
cui la terribile suocera trova un nuovo
aiuto persecutorio nel luogotenente di polizia
Sartine (Sade dirà: «Se si parla
di uno scellerato, è facile capire che si
tratta di Sartine » [18].
Comincia
il periodo “querulo” di Donatien, oltre che
per emorroidi ora soffre anche per
un bruciore agli occhi, impreca contro tutti
e insulta tutti, ma scrive alla
moglie: «Con quanta tenerezza abbraccerei
te e i miei figli ». All’amico notaio
Gaufridy scrive: «Dillo al mio zio abate
che soffro terribilmente di emorroidi,
gli farà tanto piacere che si sentirà ringiovanire
» [19], è infatti
convinto che si possa godere della sofferenza
di chi si disprezza. Nel luglio
del 1778 compare nella vita di Sade un’altra
donna straordinaria di nome Marie-Dorothée
de Rousset, è la dolcissima figlia
di un notaio di Apt, e lui la chiamerà “la
Santa” quando fa il mistico, “Milli”
o “Madamigella Primavera” se è lucido, ma
anche “puttana” quando è arrabbiato. Bruttina,
ma dolce e gentile, Donatien dice di lei:
«di tutte le bestioline femmine
respiranti tra un polo e l’altro la più amabile
e quella che scrive meglio.» [20] Poca
stima per il gentil sesso ma apprezzamento
se ci sono amabilità e capacità
letterarie. Milli ama platonicamente e disinteressatamente
il suo amico
pervertito e disgraziato, e lo aiuta nei
momenti peggiori. La spiegazione? Che
gli eterni adolescenti come l’ex tenentino-marchesino
Donatien-Alphonse-Franςois
restano sempre tali anche da spelacchiati
e con pancia. I “mai cresciuti” pare
trovino spesso amorevoli seconde-madri che
nella speranza di redimerli li tutelano.
Quand’è rinchiuso a Vincennes, Renée lo ricopre
di tutte le premure; ma lui rimprovera:
«i biscotti savoiardi non sono per niente
quel che ti avevo chiesto: 1°. li
volevo glassati di sopra e di sotto, come
i tuoi biscottini; 2°. volevo che
dentro ci fosse del cioccolato, e in questi
non ce n’è ombra. » La marchesa scrive
trepida: «Non sei soddisfatto delle cose
che ti mando? Il tuo silenzio mi uccide!»,
e il marchese nota a margine del foglio:
«in culo!».
Nel 1779 la psicopatia di Sade si accentua:
nasce la fissa dei numeri e un nuovo universo
allucinato pare profilarsi.
Scrive a Renée: «Il 28 marzo ho prestato
6 candele al comandate della prigione,
il 6 di aprile me ne ha chieste altre 6,
ma io gliene ho date 4. Dopo 9 mesi,
il 6 gennaio, me ne ha restituite 25, il
che significa che devo ancora fare 9
mesi di prigione per arrivare a 25.» [21] Non
c’è sera che prima di addormentarsi non inveisca
contro i secondini e i
compagni di galera in quanto scellerati che
“ce l’hanno” con lui. Della moglie
dice: «scrive lettere al latte » o «è degna
figlia di sua madre », però la
blandisce per farsi mandare i suoi dolci
preferiti, un berretto da notte, un
cuscinetto di piume da mettere sotto il sedere
per attenuare il bruciore [22]. Poi
si mette a fare il geloso; il sospettato
è un segretario: «È a un tipo del
genere, a un contadinotto delle mie terre,
a un crapulone, che ti sei data?» Renée
si mette in ghingheri quando va a trovarlo,
e lui: «Se tu dovessi presentarti a me vestita da
puttana come l’ultima volta, parola d’onore
che non ti riceverò!» [23] Nell’aprile ’82 scrive una Preghiera della
sera piena di devozione, in cui tra l’altro scrive:
«Mettete, mio Dio, il
mio destino nelle mani degli uomini virtuosi.
La virtù è la Vostra immagine in
terra.» [24]
Nel gennaio del 1784 muore di tisi la dolce
Marie-Dorothée, la “Santa”, l’unica donna
che Donatien abbia veramente stimato;
in compenso il suo servo e compagno di crapula
e libidine “La Jeunesse” (Martin
Quiros Carteron) gli scrive lettere sconce
e a cui replica: «Come vanno i
piaceri? È Bacco o Amore che riporta su voi
vittoria? […] Andiamo,
scarabocchiate, scorreggiate e intonate per
me: Margot a fait biribi…» [25] Della
figlia Madeleine-Laure, che è bruttina, dice:
«tanto peggio per lei, che almeno
abbia dello spirito e sia virtuosa, ciò le
servirà più che un bel viso.» [26] Ma a
carico della suocera («l’indegna puttana»),
inventa nel febbraio 1783 supplizi
terribili: « […] scorticata viva, trascinata
sulle spine dei cardi, poi gettata
in una tinozza d’aceto […] Trema! Già una
nube nera si sta formando in Cielo,
scoppierà sulla tua insaziabile sete di vendetta
la vendetta di Dio!». Da tempo
Sade invoca la grazia del re, e quando, nel
febbraio ’84 viene trasferito alla
Bastiglia, prende ciò come un buon segno.
Ma poi non succede nulla, ed allora
ricominciano le lamentele ( «la cella è piccola,
la stufa fa fumo, mi sanguina
il naso, devo farmi il letto e lavarmi…»).
Ingiunge alla marchesa: «senza fallo
alla vostra prima visita due camicie, due
fazzoletti, sei asciugamani, tre paia
di pantofole, quattro paia di calze, due
berretti, due cuffie da notte, […]
quattro pannolini di cinque pollici quadri
per gli impacchi agli occhi e
qualcuno dei libri dell’elenco che vi ho
fatto avere.» [27] È in
questo periodo che incomincia a scrivere
Le 120 giornate di Sodoma e Gli
infortuni della virtù.
Piccolo uomo piagnucoloso quanto iroso, senza
speranza in una piccola cella del piccolo
mondo concentrazionario di un piccolo
posto sperduto, Donatien-Alphonse sogna in enorme il suo riscatto
letterario («Il mio cervello s’infiamma,
la mia immaginazione si ingigantisce
nella solitudine » [28]). Così
scrive il famoso incipit della sua prima “enormità”: «Amico lettore,
è
tempo che tu prepari cuore e intelligenza
al racconto più impuro che sia mai
stato scritto da che il mondo esiste ». Ormai
vive solo nel suo immaginario allucinato
e gonfio, dove il ricordo del poco reale
e del molto sognato si gonfia a sua
volta assumendo l’enormità mostruosa del
“mai stato scritto”. D’altra parte è la
sua ultima risorsa, l’unica cosa che può
ancora fare e che pensa di saper fare
bene («La bestia è troppo vecchia!»). Dice
alla moglie in una lettera
dell’agosto ’72:
Datemi
retta, rinunciate a correggermi […]. Esistono
sistemi troppo intimamente legati
all’esistenza stessa perché sia mai possibile
rinunciarvi; soprattutto quando
si sono succhiati col latte. Lo stesso dicasi
delle abitudini: se son legate
prodigiosamente al fisico di una persona,
diecimila anni di prigione e
cinquemila libbre di catene non fanno che
conferirgli maggior forza. Vi
stupirei se vi dicessi che quelle certe cose e il ricordo di esse sono
proprio ciò che io chiamo in soccorso quando
voglio stordirmi sulla mia
situazione. I nostri costumi non dipendono
da noi, ma dalla nostra costituzione,
da com’è fatto il nostro organismo; da noi
dipende di non diffonde il nostro
veleno al di fuori di noi, in modo che ci
è accanto non solamente non abbia a soffrirne
ma neppure li sospetti […] Non ci creiamo
le nostre virtù, non si è padroni di
adottare un gusto piuttosto che un altro
in quelle certe cose, più di
quanto non siamo padroni di farci dritti
quando si è nati storti. [29]
Si
noti la delicatezza del quelle certe cose per uno che ha già varcato
tutti i confini della decenza verbale. È
questo il linguaggio di un debosciato?
Parrebbe di no. Si tratta dell’auto-analisi
di un disperato-rassegnato che ha
psicanalizzato se stesso in migliaia di ore
passate a riflettere e a sognare su
una piccola branda nella penombra di quattro
stretti muri scuri che la chiudono.
È sincero? Probabilmente; ma non possiamo
neppure dimenticare quella frase lapidaria
della suocera, che forse è stata la prima
a capirlo veramente: «È un gran
commediante!» Ancora una volta mente? Non
lo sapremo mai. Ma lasciamo
l’introspezione psicologica per cogliere
qui un elemento filosofico
fondamentale: quello deterministico. È roba
sua o è il frutto della lettura di pensatori
come Helvétius e d’Holbach? Anche questo
è difficile a dirsi; Sade su quella brandina
può aver pensato a lungo alle tesi dei due
materialisti-deterministi atei, dal
momento che il loro modo di sentire la realtà
poteva accordarsi col suo (aspetti
etici a parte). Oppure il determinismo gli
fa comodo per scaricare sul destino le
sue responsabilità morali?
Nel giugno 1783 si lamenta in una lettera
che gli viene negata la lettura delle Confessions
di Rousseau dopo avergli permesso di leggere
Lucrezio e Voltaire:
[…]
Ahimè, mi fanno troppo onore considerano
che l’opera di un deista possa esser
cattiva per me [..] sappiate che è lo stato
in cui ci si trova che rende una
cosa buona o cattiva, e non la cosa in se
stessa […] abbiate il buon senso di
inviarmi l’opera che vi chiedo, che se
Rousseau può essere dannoso per i grevi bigotti
della vostra razza, per me
diventa un libro eccellente […] la morale
e la religione di Rousseau sono cose
molto severe per me e quando voglio
edificare il mio spirito mi ci accosto. Se
non volete che diventi migliore,
benissimo! Per me il bene è uno stato di
pena e di disagio e non chiedo di
meglio che restare nel mio brago: ci sto
benone. […] Ci sono mille situazioni
in cui bisogna tollerare un male per distruggere
un vizio. Per esempio, scommetto
che voi avete pensato di fare un bel colpo
costringendomi a un’atroce astinenza
dal peccato della carne. Ebbene, vi siete
sbagliati; avete acceso nella mia
testa, mi avete spinto a creare dei fantasmi
che dovrò ben realizzare. Cominciava
già a passarmi, e invece ora tutto ricomincerà
da capo. Quando la pentola sta troppo
al fuoco, trabocca. [30]
Il
traboccamento della fantasia sadiana in realtà
è già in corso, poiché Le centoventi giornate di Sodoma sono
già in stesura. In una lettera alla moglie
di fine novembre dice di sé:
«Imperioso, collerico, violento, eccessivo
in ogni cosa, con un’immaginazione
sregolatissima a proposito dei costumi, tale
che non è stata mai eguagliata,
eccomi in due parole: ed ora prendetemi come
sono o ammazzatemi perché non cambierò
mai.» [31]
Ma viene il luglio 1789, e lui è lì, alla
Bastiglia. Il governatore del carcere, il
marchese De Launay, non ne può più di
quell’ospite esagitato che strepita e urla
di continuo. Gli ha tolto l’ora
d’aria per punizione, e lui si agita ancora
di più. Un giorno va alla finestra e
grida in una specie di megafono (un tubo
con cui scarica le sue immondizie): «Al
soccorso! Mi vogliono sgozzare!» [32]. De
Launay scrive al ministro di stato Villedeuil
che quel prigioniero è ormai
ingestibile, concludendo: «Tutto lo stato
maggiore della Bastiglia vi sarà infinitamente
obbligato se potrete trasferire il più presto
possibile detto Monsieur de Sade »
La sede proposta è il manicomio di Charenton
o un altro simile, a discrezione
del ministro. Il 3 luglio, senza alcun preavviso
e in segreto, si opera il
trasferimento a Charenton. Undici giorni
dopo, il 14, la testa di De Launay giace
sulla piazza di Grève, che sta accanto alla
Bastiglia semidistrutta. E “Mai
dire mai!” avrà pensato lo stordito Sade
quando il 2 aprile 1790 varca in
uscita il portone di Charenton grazie a una
delibera del 13 marzo
dell’Assemblea Costituente. Essa stabilisce
che i detenuti per lettre de
cachet (ed è il caso suo) devono essere messi in
libertà entro sei
settimane. Donatien-Alphonse si avvia al
convento di Sainte-Aurore, dove sa
esserci Renèe dopo una fuga in campagna di
pochi giorni, terrorizzata dagli
eventi. L’incontro forse c’è stato e forse
no, quel che è certo è che la
marchesa non intende più vivere con lui,
la sua pazienza è esaurita e pretende
la “sua” libertà. In una lettera gli dice:
«Mio tenero amico, se tu fossi in
buona fede, Dio non ti rifiuterebbe la grazia;
chiedila a Lui che non mancherà
di concedertela.» [33]
Libero, ma solo e senza un soldo; ha
cinquant’anni ma ne dimostra molti di più;
non è più un marchese ma solo un cittadino.
Trova una stanzetta coi pochi soldi che ha
e si mette a scrivere. Qualche tempo
dopo va alla Sezione delle Picche per arruolarsi
nella Rivoluzione; è uomo
colto e ne diventa presto segretario. Poi
trova una nuova seconda-madre (ma più
giovane di lui) in Marie-Constance Quesnet,
la quale fa coppia della propria
solitudine con quella di lui e l’accoglie
in casa sua (Donatien la
soprannominerà la Sensibile). Ha bisogno di soldi e teme che i suoi
romanzi “enormi” non abbiano mercato, così
decide di scrivere drammi. Propone
le sue pièces a tutti i direttori di teatro di Parigi
e qualche suo
lavoro finalmente va in scena, ma il pubblico
si annoia; poi i soldi arrivano
con la pubblicazione d Justine, nell’autunno 1790. Le oscenità piacciono;
guadagna così per vivere dignitosamente con
la buona Marie-Constance, ma continua
a lamentare che il suo genio non sia riconosciuto.
Nel ’93, come abbiamo già
visto, è juré d’accusation, ma quell’impegno lo disgusta; sono i giorni
del “Vive la mort!”, ed egli scrive a Gaufridy: «Niente eguaglia
l’orrore dei massacri nelle giornate di settembre».
L’orrore che egli
concepisce e crea è solo estetico e non reale;
l’odore del sangue che cola è tutt’altra
cosa. Ma egli crede anche nel teatro, si
sente dotato (da giovane ha anche
recitato un po’) e ha ormai oltre venti dammi
nel suo cassetto; ne parla di uno
per i suoi «bei contrasti », di un altro
«quadri freschi e voluttuosi ma nella
decenza», e poi: «di grandissimo effetto»,
«veramente teatrale», «della massima tragicità», ecc.
Il cittadino Sade vuol essere finalmente
un
“normale” intellettuale della Repubblica,
ma viene scoperto che a suo tempo aveva
inoltrato una domanda per entrare nella Guardia
del Re (naturalmente respinta!).
Così, nel dicembre 1793, sospettato di tradimento,
torna in galera alle
Maddelonnettes, poi ai Carmelitani e infine
a Saint-Lazare. Invoca l’aiuto dei
compagni della sezione delle Picche, che
ha rappresentato più che degnamente e questi
in un primo tempo lo difendono [34]; poi,
scoperto il suo sangue blu e i suoi trascorsi
affermano: «individuo
immoralissimo, sospetto,e indegno della società
[…] I veri patrioti non si
erano lasciati ingannare dalle apparenze
» [35] Lui si difende: «Io non sono mai stato un
nobile. È parso bene ad alcuni schiavi dell’antico
regime di aggiungere al mio
nome, contro la mia volontà, un titolo nobiliare;
i miei antenati hanno quasi
sempre esercitato l’onorato mestiere di coltivatori
». Bugie e faccia tosta, il
lupo ha perso il pelo ma non il vizio; aggiunge:
« […] vidi preparare le armi e
l’artiglieria della fortezza e una tal perfidia
mi colmò di orrore. Il 3 luglio
dalla mai finestra ne diedi notizia ai cittadini
radunati in rue Saint-Antoine
[…] Quando si tagliò la testa al re […] vedevo
la mia patria liberata dal più
vile, dal più disonesto, dal più indegno
tiranno.» Niente da fare, il 27 marzo
di quel 1794 viene spedito nella casa di
cura di Picpus. Il 27 luglio viene
processato come «vile satellite del Tiranno.»
Su 28 accusati 21 salgono sulla
carretta per il patibolo, ma di sette non
c’è più traccia e tra questi il
Nostro, che forse, come suppone Gilbert Lely,
in quei giorni di caos, con
prigioni strapiene e trasferimenti continui,
riesce a sparire o è perduto di
vista.
Non è chiaro come egli in ottobre rientri
a
Picpus, ma in seguito ne esca e torni da
Constance, la Sensibile. Tenta ancora con il teatro, ma senza esito,
allora scrive a un membro della Convenzione
proponendosi come tuttofare («Il
sottoscritto Sade […] atto alle trattative
diplomatiche […] può collaborare alla
composizione o alla relazione di qualsiasi
opera, alla manutenzione e amministrazione
di una biblioteca o di un museo. Implora
la vostra giustizia e la vostra benevolenza
per trovagli un impiego.» [36] Ma non
succede nulla e Donatien scrive al vecchio
amico Gaufridy: «Sto letteralmente
morendo di fame, eccomi qui nudo, costretto
a ricorrere ad ogni bassezza. Volete un esempio?
Ho dovuto vendere la
camera, i mobili e gli effetti personali
di proprietà di mio figlio perché mi
mancava il pane. Ho derubato mio figlio.»
[37] Nel gennaio 1800 si fa ricoverare all’ospedale
di Versailles «morente di fame e di freddo»,
ma riesce a starci poco: una volta
fuori ritenta con la letteratura. Nel 1797
aveva redatto un terza versione del Justine,
ancora più demenziale delle precedenti per
truculenza e perversità. Ma quando più
tardi gli viene attribuita la paternità di
una sua opera ben meno criminale e
più casta come Les crimes de l’amour (del 1799), la nega e grida alla
calunnia, aggiungendo: «Non ho potuto leggere
senza indignazione questi quattro
volumi di rivoltanti atrocità; e neppure
si è ripagati del disgusto che
ispirano il pregio dello stile, stile da
far pietà, sempre eccessivo, pieno di
frasi di cattivo gusto, di controsensi, di
riflessioni triviali […] » Eppure è
in quelle cose che sta il “vero” Sade narratore.
Che cosa prova scrivendo ciò? Forse
disperazione, ma Donatien è stufo di soffrire
e si difende da se stesso come
può, rinnegandosi e tradendosi.
Con l’andata al potere di Napoleone i
benpensanti si ricordano di lui, e il 6
marzo 1801 Sade è arrestato «come autore
dell’infame romanzo Justine » e
condotto a casa di Constance che deve subirne
la messa sottosopra. Finisce in
una delle poche prigioni che non conosce
ancora: Sainte-Pelagie; ma qui accade
che due anni dopo gli mettono a portata di
mano alcuni giovanotti scapestrati
ma bellini, la tentazione è forte e Sade
allunga le mani: lo sbattono nel
manicomio criminale di Bicêtre. In questo
lazzaretto degli innominabili
racconta Mirabeau che pagando sei centesimi
individui crudeli (anzi, sadici)
possono assistere allo spettacolo di
quel girone infernale (la legge del contrappasso!) [38]. E
tuttavia, nell’aprile 1803, il Nostro ne
esce per ritornare al manicomio di
Charenton. La buona Constance invia una supplica
e le permettono di entrarci anche
lei per assisterlo; così, nel 1805 il Mostro
e la Sensibile sono di nuovo
insieme, e lui può distribuire il pane benedetto
e far le collette durante la
messa [39]. Al
fedele Gaufridy scrive: «Non sono felice,
ma sto bene di salute » [40]; evidentemente
però i suoi sogni “enormi” non l’abbandonano
e continua a scrivere pagine che
pensa di nascondere bene. Non è così, perché
nella primavera del 1807 gli vengono
trovati in camera 72 quaderni relativi a
un nuovo romanzo, Les Journée de
Florbelle. L’ultima summa del Trionfo del Male in letteratura? Non
lo sapremo mai perché l‘opera verrà più tardi
bruciata. Né sappiamo se nel
frattempo accada dell’altro, ma solo che
il ministro della polizia circa un
anno dopo, nell’agosto del 1808, trova sul
suo tavolo una missiva del dottor Antoine-Athanar
Collard. È il medico capo del manicomio e
scrive: «Si trova a Charenton un uomo
reso anche troppo famoso dalla sua temeraria
immoralità, la cui presenza in
quest’ospizio comporta inconvenienti estremamente
gravi: intendo parlare
dell’autore dell’infame romanzo di Justine.» Fin qui si è definito
l’oggetto, ma poi viene l’interessante:
L’uomo
non è un alienato. Il suo delirio è nel suo
vizio, e non è in un luogo
consacrato alle cure mediche dell’alienazione
che un tal vizio può essere
represso. L’individuo che ne è affetto dev’essere
sottoposto alla più severa
relegazione, sia per mettere gli altri al
riparo dei suoi furori, sia per
vietargli il contatto con tutti coloro che
possono esaltare ed eccitare la sua
vergognosa passione. [41]
È la prima volta che viene stilato un
referto medico che non riconosce Sade come
soggetto psichiatrico. Per quanto spinto,
forse, da moralismo e antipatia (ma probabilmente
il Nostro continua anche “ad
allungare le mani” a Charenton) il dottor
Collard ha capito che Sade non è
pazzo in senso stretto. Il momento è comunque
assai critico e, a quasi
settant’anni il Nostro rischia di tornare
a Bicêtre; per fortuna la pratica passa
in molte mani fino a perdersi in qualche
cassetto e il Nostro, per il momento, è
salvo. Ma i problemi non sono finiti: Donatien
può restare ancora a Charenton
se paga 3000 franchi all’anno di retta per
vitto alloggio e bucato, e lui soldi
non ne ha. Indignato per la richiesta di
arretrati replica concludendo: «vi
comunico l’indirizzo di mio figlio». Viene
coinvolta anche Renée, che però è
ormai così lontana da Donatien che si limita
a suggerire la vendita di residue proprietà
del marito, che però risulta nullatenente.
Si torna al figlio primogenito (il secondo
è morto in guerra), che non
tira fuori un soldo, ma a Charenton egli
riesce a restare, e Marie-Constance
gli è vicina; continua a scrivere ed a proporre
a editori e teatri cose “più
normali”, ma senza alcun riscontro. Però
la burocrazia è lenta ma alla fine
arriva, e il direttore di Charenton tempo
dopo riceve un ordine del ministero di
polizia che gli ingiunge di mettere Sade
in isolamento, quale condizione più
consona «alla più perniciosa delle follie
», e che «gli sia interdetto l’uso
della penna dell’inchiostro e della carta».
Per Donatien-Alphonse ciò sarebbe
assai peggio della ghigliottina, ma il direttore
Coulmier è un coraggioso,
garantisce per Sade, e conclude: «Come io
dedico, Monsignore, ogni mio momento
a soccorrere gli infelici e a fare di questo
Istituto, pur economizzando sui
fondi del Governo, un luogo degno del suo
paterno interessamento […] mi
sentirei veramente umiliato di impiegare
il mio tempo a perseguitare un uomo,
senza dubbio colpevole, ma che da molto tempo
sembra desideroso di far
dimenticare le sue colpe con una condotta
responsabile.» [42]
Con un direttore come Coulmier e la Sensibile
al suo fianco il vecchietto-vecchiaccio si
avvia alla conclusione del suo
tormentato viaggio, tra i fantasmi della
sua mente e le miserie del suo corpo. Nel
gennaio 1806 fa testamento e chiede che
nella sua fossa vengano seminate delle ghiande:
[…]
affinché in seguito il terreno della
detta fossa trovandosi coltivato, e il bosco
folto come prima, le tracce della
mia tomba scompaiano dalla superficie della
terra, come io spero che il mio
nome scomparirà dalla memoria degli uomini.
[43]
Nel
giugno del 1808, molto male in arnese e senza
un soldo scrive a Napoleone:
«Sire, il signor de Sade trascina da oltre
vent’anni in tre diverse prigioni
l’esistenza più disgraziata di questo mondo.
È un settuagenario quasi cieco,
tormentato dalla gotta e dai reumatismi al
petto e allo stomaco che gli fanno
soffrire orribili pene […] lo spingono a
reclamare la propria scarcerazione,
assicurando che non si avrà motivo di rimpiangere
d’avergliela concessa.» [44] È
l’ultima chance, ma senza esito e Donatien
trascina i suoi ultimi sei anni di
vita ormai rassegnato. Il 2 dicembre 1814
assistito dal medico Ramon e dal
cappellano Sade muore. Al dottor Ramon è
parso che il cappellano che gli ha
impartita l’estrema unzione e che negli ultimi
tempi visitava spesso il malato,
uscisse dalle sue visite: «se non edificato,
quanto meno soddisfatto ». [45]
Perché abbiamo prestato tanta attenzione
a
questo piccolo e debole uomo, adolescente
“mai cresciuto”, vittima delle proprie
pulsioni e incapace di trovare un dimensione
accettabile di essere se stesso? E
soprattutto, perché dedicare tante pagine
a raccontare (sia pure in sintesi) la
sua lunga vita. Per due ragioni, la prima:
perché riteniamo che egli, a cavallo
tra il ‘700 e l’800, sia il protagonista
esemplare della fine dell’Illuminismo;
la seconda: perché egli è il personaggio
che meglio di altri incarna, almeno
all’epoca, la dicotomia necessità/libertà.
Schiavo della prima in quanto
turbato psichico egli anela alla libertà
di essere se stesso vivendo una
dimensione totalmente autoreferenziale e
allucinata che lo contrappone a un Diderot,
l’illuminista per eccellenza, , colui che
si è portato al confine più avanzato
di una possibile libertà, della possibile
eguaglianza, di una certa felicità acquisibile
anche con i piaceri di un autentico e sano
éros condiviso. Sade cerca
solo il piacere e lo stordimento erotico
“per sé”, e mentre La Mettrie e
Diderot hanno fatto dell’erotismo una delle
grandi risorse positive del vivere
umano, il Nostro lo distrugge con le sue
fantasie criminali. Per Denis le possibilità
del sesso sono tutte nel piacere solare,
per Donatien nella tenebra della
sofferenza. Il sadismo (che lo ricordiamo
è anche masochismo) non può dare vero
piacere poiché non è “libero”, mentre la
prima condizione dell’éros è la
libertà assoluta. Il sadismo è malattia cogente,
o se si vuole persino l’estasi
del male, mai libertà di godere.
È la vita stessa dell’inventore dell’estetica
del male che ci fa capire quanto quella manìa
sia necessitata e lui la patisca
come una schiavitù in una sofferenza psico-fisica
prolungata prossima allo
strazio. Per sua fortuna tale sofferenza
è alleviata dalla presenza di tre
donne amorevoli e generose: Renée-Pelagie
(la madre dei suoi figli), Marie-Dorothée
(l’amica “Santa”) e Marie-Constance (la compagna
“Sensibile”). Ciò non è privo
di significato: il Settecento è il primo
secolo in cui le donne incominciano a
venire alla ribalta per ciò che sono; prima
esse erano prese in considerazione o
perché grandi sante o perché grandi puttane.
Nel Settecento incomincia l’epoca di
grandi donne “normali”, e le tre seconde-madri
di Donatien lo sono. Quel che
resta da capire è perché le tre donne, tutte
consapevoli della malattia di lui,
siano riuscite ad amarlo, proteggerlo e lenirne
le sofferenze. Sade era un
maschilista, un egoista, un erotomane bisessuale,
pedofilo, ed infine un
sado-masochista violento, ma anche un grandissimo
creatore di narrativa
esaltata e liberatoria. Può bastare ciò a
una donna per amare un uomo?
Evidentemente sì, ma solo se essa ha deciso
di fargli anche da madre.
Si tratta ora di occuparci dell’opera, consistente
in molte migliaia di pagine, per cercare
di scoprire l’essenza del suo pensiero.
Ne vale la pena? Sì per le ragioni sopra
esposte ed anche perché Sade si
proclama ateo e noi ci occupiamo di ateismo.
È possibile che il Nostro conosca l’obiezione
fondamentale espressa da d’Holbach nel Buon senso (§ 118): «non vedete che
in questo mondo tutto smentisce le belle
qualità che attribuite al vostro Dio?
Nella numerosa progenie di un padre così
amorevole io non vedo che infelici.
Sotto il regno di questo sovrano così giusto,
non vedo che il delitto
trionfante e la virtù oppressa.» [46] Ma va anche
tenuto presente che egli è forse ancor più
vicino all’estetica del sublime,
dove l’estasi emotiva che produce l’iper-bellezza
del “terribile” trova in lui il
suo esito abissale e orrifico. L’esperienza
para-estatica di chi vive l’estasi come
esperienza del divino ha in Sade il corrispettivo
negativo. E tuttavia alla
base è ancora sempre una sofferenza, che
stravolge ed annichila, a porsi come
soggetto attivo di un’esperienza di cui l’uomo
è solo oggetto. Quando Burke (A
Philosophical Inquiry into the Origin of
Our Ideas of the Sublime and the
Beautiful) scrive che il sublime è:
«ciò che produce la più forte emozione che
l’animo sia capace di sentire»,
cui corrisponde uno “stupore” come «quello
stato d’animo in cui, ogni moto
sospeso, regna un certo grado di orrore.»
[47] pone
in qualche modo anche le premesse di quell’abisso
orrifico-estatico in cui si
scatena il piacere sadico.
La prima opera che intendiamo considerare
è
Dialogo fra un prete e un moribondo
del 1782. Si tratta della prima opera in
cui Donatien rivela il suo ateismo
utilizzando il vecchio argomento del dio
malvagio che fa l’uomo sapendo che
peccherà e che sarà infelice [48]. Abbiamo qui la prima enunciazione del
materialismo deterministico sadiano in questi
termini:
Quest’anima,
amico mio, è quello che è piaciuto alla natura
ch’ella fosse, vale a dire il
risultato degli organi che la natura s’è
compiaciuta di foggiarmi in vista dei
suoi fini e dei suoi bisogni. E poiché ella
ha pari bisogno di vizi e di virtù,
mi ha volto a quelli quando le è parso e
quando ha voluto queste me ne ha ispirato
il desiderio e io mi sono abbandonato senz’altro,
da solo. Non cercare dunque
altro che le sue leggi come unica causa della
nostra umana incoerenza e nelle
sue leggi soltanto la sua volontà e il suo
bisogno. [49]
Sade
parla proprio di una natura personificata,
a cui «è piaciuto», «s’è compiaciuta» che ha «fini e
bisogni», «le è parso», «ha voluto» e le cui leggi rispondono a
«volontà » e «bisogno ». Non può passare
inosservato che proprio nell’ultima
frase noi abbiamo la congiunzione dei sue
concetti di Dio-Volontà e
Dio-Necessità che abbiamo più volte evidenziato
in precedenti ricerche. Questa
Dea-Natura che qui è ancora “neutra” diventerà
“malvagia” nelle opere
successive definendo il pensiero sadiano
come un apologia del male, che diviene
espressione fondamentale dell’essere.
Il moribondo aggiunge più avanti che il male
va represso dalle istituzione, ma che
chi lo fa non deve tormentarsi con alcun
rimorso, poiché “ciò che facciamo è in
regione di ciò che siamo”.
Nello stesso anno in cui vede la luce il
Dialogo inizia l’elaborazione de Le centoventi giornate di Sodoma, uno
straordinario “sistema” di malvagità basato
su “macchine” della
sofferenza. Iniziato nell’82 è finito
nell’85, quando Sade decide di metterlo in
bella copia su un rotolo di carta
sottile lungo dodici metri e alto dodici
centimetri. L’una e l’altra facciata
vengono riempite di una scrittura microscopica,
ottenendo un oggetto facilmente
celabile di quell’opera amata e sofferta
che Sade, dopo il trasferimento dalla
Bastiglia, non vedrà mai più. Il teatro della
finzione è un castello immerso
nella Foresta Nera dove quattro pervertiti
arricchitisi col male decidono di
realizzare un “evento” abominevole. Il progetto
prevede 42 oggetti umani da
usare ai loro fini ,a cominciare dalle 4
bellissime “spose” dei pervertiti, cui
si aggiungono 8 giovanetti e 8 fanciulle
rapite alle loro famiglie. Ci sono poi
8 “montatori” sodomiti dotati “fuori misura”,
4 governanti per la gestione di
scenari e attrezzi, e poi 4 megere “narratrici
che hanno il compito di
descrivere 600 perversioni sessuali; l’evento
copre 4 mesi, da un 1° novembre a un 28 febbraio
per un totale di 120
giornate. Abbiamo qui la prima espressione
di quella numerologia che
ossessionerà sempre Sade, convinto che organizzare
in modo matematico sia il
culmine della razionalità. L’organizzazione
delle giornate nel castello di Silling
è di un rigore iper-maniacale, con alcune
regole inviolabili, la più
significativa delle quali è la proibizione
di nominare Dio se non per
bestemmiarlo.
Della Justine
si contano tre versioni di dimensioni sempre
crescenti a partire dal 1787 fino
al 1797; la versione che utilizzeremo è la
seconda, quella del 1791. Justine
(che si fa chiamare Thérèse) è la ragazza
che conclude con la morte l’iter
delle disgrazie della virtù, mentre la fortunata
sorella Juliette (la contessa di Lorsange) è una “sacerdotessa
di Venere” che contrappone alla delicatezza
e all’ingenuità della sorella
spregiudicatezza, avidità ed astuzia [50], e
che «a questi orrori aggiunse anche tre o
quattro infanticidi.» [51].
Dopo la presentazione dei personaggi e della
situazione Sade aggiunge: «Ma
questa crudele e fatale verità non allarmi
nessuno […] la felicità nel crimine
è ingannevole, illusoria, a parte la punizione
sicuramente tenuta in serbo
dalla provvidenza.» [52] Il
primo malvagio a comparire è il conte di
Bressac, con «il fascino della
giovinezza e un aspetto seducente », « un
che di indolenza e mollezza femminili
», ma possessore di «tutti i vizi degli scellerati»
[53]
Naturalmente è ateo e siccome odia la buona
zia, che lo mantiene, decide di
sopprimerla con l’aiuto di Justine diventata
servetta di famiglia. Bressac, che
si ritiene filosofo, catechizza al male la
ragazza dai «poco filosofici occhi »
[54] e la
circuisce per farne l’esecutrice del crimine.
L’opera di convincimento vuole
mostrarle che l’omicidio non è da fuggire,
poiché si produce secondo “leggi”
fissate dalla natura, in quanto le sue creazioni
vanno bilanciate da
“distruzione” alle quali le persone elette
devono collaborare. Ciò perché la
natura è “dinamismo”, sicché:
La
prima qualità della natura e la più bella
è il moto che la scuote senza tregua.
Questo moto è un’eterna sequela di crimini;
dai crimini è fatto perenne.
L’essere che più alla natura somiglia, il
più perfetto dunque, necessariamente
sarà chi, con la sua attività e il suo tumulto,
causerà molti crimini. [55]
La
natura è resa eterna dal suo moto “per il
male” e determinato che le è
intrinseco e necessario. Eternità e determinazione
della natura sono gli
attributi che fanno della filosofia di Bressac
(alias Donatien) un determinismo assoluto che eccheggia
d’Holbach.
Naturalmente Juliette combatte, ma il demoniaco
conte è troppo forte per lei,
tanto più che, vista la sua resistenza, la
minaccia costringendola infine all’assenso:
«Sei deliziosa, bambina mia; un raggio di
saggezza è dunque penetrato nel tuo
spirito?» [56] Le
spiega il piano e le consegna il veleno da
versare nella cioccolata, ma la
ragazza rivela il piano alla signora mostrandole
il pacchetto con la venefica
pozione. Bressac viene a sapere del tradimento,
l’attira nel parco, la lega a
un albero e la fa azzannare da tre mastini.
Il secondo malvagio della storia si chiama
Rodin ed è un quarantenne «con sopracciglia
folte, occhi vivaci, un’aria di
forza e di salute, ma al tempo stesso di
libertinaggio.» [57].
Egli sostiene che «la virtù ha niente di
reale» e impartisce la sua lezione
all’ingenua ragazza: l’idea del male è stupida,
l’incesto è legittimo e così
via. Rodin è inoltre un chirurgo che afferma:
«mai l’anatomia raggiungerà la
sua perfezione se l’esame di vasi non sarà
fatto su un fanciullo di quattordici
o quindici anni, morto di morte crudele.».
Ha in Rombeau un degno collega che
gli propone di effettuare esperimenti sulla
sua stessa figlia, sostenendo che
il padre è padrone della vita dei figli anche
secondo il Pentateuco (vicenda Abramo/Isacco)
[58] Rodin
alla fine accetta e la piccola Rosalie viene
condannata; ma anche questa volta
Juliette-Thérèse cerca di sottrarla al supplizio
favorendone la fuga, ma i
malvagi scoprono tutto e la condanna cala
anche du lei. Sevizie e stupri riportano Justine sulla
strada
sino a farla finire in un convento benedettino
con soli quattro occupanti, a
capo del quale è Don Severino («parente prossimo
del Papa» [59], «fisionomia bella e ancora giovanile» e
«membruto come un Ercole, ma senza durezza
» [60]) naturalmente un sadico, che si accompagna
ad
altri tre frati della sua risma.
L’avventura inizia da una richiesta di
confessione da parte di Justine: «Mia cara
figliola […] ascolterò la vostra
confessione e poi vedremo come farvi trascorrere convenientemente la notte; domani poi,
potrete ossequiare la santa immagine che
vi ha attirato sin qui.». Sorvoliamo
naturalmente sul quel che capita alla nostra
ragazza nelle mani dei quattro, a cui
si aggiungono (ancora la numerologia) 4 giovinette
recluse, ovvie sacrificande,
più altre 4 megere nude che fanno da serventi
[61] (si
ricordino quelle delle Centoventi
giornate). Jerôme è il più anziano degli eremiti
ed anche il più dissoluto
(«tutte le perversioni più mostruose trovavano
asilo nell’animo di quel monaco»
[62], il
quale si eccita mordendo a sangue le vittime
e «ogni morso lascia una traccia e
il sangue subito scorre» [63] (ma poi
si fa mordere a sua volta). In tutto
questo teatro dell’orrore a volte l’esagerazione
nasconde il comico come
inversione dell’eccesso truculento e lussurioso.
È veramente difficile non coglierlo
quando si legge della donna incinta che viene
issata su un piedistallo alto 8
piedi sulla quale deve stare in equilibrio
su un piede solo. I quattro
pervertiti si godono la scena dei suoi tentativi
di rimanere su mentre «una o
due donne a testa li eccitano durante lo
spettacolo». Alla fine la donna, inevitabilmente,
sfracella su una coltre di rovi e spine,
posta ai piedi della “macchina”, che
la straziano; al che «i nostri scellerati,
ebbri di lussuria, si accalcano sul
suo corpo per spargere l’ultimo abominevole
omaggio della loro ferocia » [64] Le
orge continuano a suon di frustate e altre
sevizie condite da stupri, con un
dettaglio importante: i quattro fratacci
«Vogliono esser certi che i loro crimini
costino lacrime; rifiuterebbero
una giovane che si offrisse loro spontaneamente.»
[65]
Superfluo fornire altri dettagli sulle
“inginocchiature”, sulle “cavalcate”, ecc.
e quindi passiamo alla parte
“filosofica”. Clément (l’intellettuale del
gruppo) dopo aver abusato di
Justine-Thérèse la catechizza per bene:
Se
dunque esistono al mondo esseri i cui gusti
cozzano contro tutti i pregiudizi
correnti, non solo non bisogna stupirsi di
loro, né far sermoni, né punirlo:
bisogna compiacerli, invece, accontentarli,
rimuovere gli ostacoli che li
intralciano e dar loro per pura equità, di
che soddisfarsi senza rischi; non è
dipeso da loro aver quel gusto bizzarro,
più di quanto non sia dipeso da noi
esser intelligenti o stupidi, ben fatti o
gobbi […] Chi ha da esser scellerato, scellerato sarà.
[66]
Riconfermato
il determinismo comportamentale; ma vi si
aggiunge subito anche l’egoismo
maschilista che non riconosce alla donna
il diritto al piacere: « Perché
sarebbe necessario, domando io, che una donna
goda quando noi godiamo?», «com’è potuto saltate in testa a un uomo
che
la delicatezza abbia, nel godimento, un pregio
qualsiasi?», « Diversissime cose
sono amare e godere, prova ne sia che si
ama tutti i giorni senza godere e
ancor più spesso si gode senza amare. Mescolandosi
alla voluttà, la delicatezza
impoverisce il piacere dell’uomo per favorire
quello della donna.» [67]. Non
solo il piacere femminile ma anche l’uomo
generoso che vuol farla sono da
esecrare e da ciò la logica conclusione:
«L’egoismo è la prima legge della
natura; lo è soprattutto nei piaceri lubrichi.
La natura, questa madre celeste,
desidera che esso sia il nostro solo movente.»
[68] Si
noti l’aggettivo “celeste” e il «desidera»;
senza appellarsi ai lapsus
freudiani è evidente che Sade vede non solo
la natura “al maschile”, ma le attribuisce
un sentimento che ne fa qui il Dio-Volontà.
Sul filo dell’elogio dell’egoismo viene
posta una dicotomia soggetto/oggetto che
è però del Dio-Necessità, poiché la negazione
dell’éros piacevole è apologia di una sessualità
egoistica e autoreferenziale
“necessitata”. Ma il fine di Sade è anche
dimostrare che ogni tentativo
conciliatorio nell’esperienza di un piacere
nella “reciprocità” amatoria è da
escludere e negare. Si può godere, semmai,
solo “a turno”, tra un carnefice una
vittima che si scambiano i ruoli. Infatti:
Il
turbamento voluttuoso è una sorta di vibrazione
dell’anima, uno scuotimento dei
sensi; lo producono o l’immaginazione infiammata
dal ricordo di un oggetto
lubrico o la presenza di un oggetto, o meglio
ancora un certo tumultuoso
scompiglio che l’oggetto subisce, e che scuote
noi più fortemente di ogni altra
cosa; la nostra voluttà, questo inesprimibile
fremito che ci fa delirare e ci
trasporta al più alto punto di felicità raggiungibile
dall’uomo, si accende
dunque per due cause: o per la percezione
reale, ma anche fittizia,
dell’oggetto che ci serve, di quel tipo di
bellezza che più ci lusinga, o per
lo spettacolo di quell’oggetto posseduto
dalla più energica delle sensazioni.
Ora, quale sensazione è più viva del dolore?
Le sue manifestazioni sono chiare
e non ingannano; ingannano invece quelle
del piacere, perpetua messinscena
delle donne che quasi mai lo provano veramente.
[69]
Partiamo
dal fondo: è evidente che alla donna (o alla
pseudo-donna quale oggetto di pedofilia
o pederastia) viene qui negata ogni soggettività
in quanto ridotta a mera oggettività
paziente. Non basta: la si considera inaffidabile
e falsa quando sembra godere,
perché “fingerebbe” un piacere che non prova.
Quando invece l’oggetto (« che ci
serve ») soffre, essendo la sofferenza “reale”,
essa diventa “produttiva” a
vantaggio del carnefice, che grazie a ciò
“gode”. Abbiamo qui espressa la più
compiuta teoria sadica, che enuncia: A. la
dicotomia soggetto/oggetto; B.
l’impossibilità del piacere condiviso; C.
la funzione rappresentativa del
sofferente “in atto”; D. il godimento sino
al delirio come sensazione estatica.
Siamo ad una classica fenomenologia della
sacralità mistico-estatica, dove l’estasi,
tipica del sacro, vien qui prodotta
dall’anti-sacro come sua diretta specularità.
Il male è speculare al bene, per
cui se si produce il male da una parte ne deve derivare bene nell’altra
faccia dello specchio come “virtuale allucinatorio”.
Conclusa la lezione
l’allieva esclama atterrita: «Che sistemi
spaventosi, padre mio!», e poi: «Ma
l’uomo di cui voi parlate è un mostro.» -
«L’uomo di cui io parlo è l’uomo
della natura.» - «È una bestia feroce.» -
«E sia […]» [70] Indignazione
di lei: «non ammetterò questa lubricità distruttrice
», e la replica:
Perché
temi di diventarne la vittima: questione
di egoismo: cambiamo il ruolo e potrai
concepirla benissimo. Interroga l’agnello:
neppure lui ammetterà il diritto del
lupo a divorarlo; domanda al lupo a che cosa
serve l’agnello: a nutrirmi,
risponderà. Lupi che mangiano agnelli, agnelli
divorati dai lupi, il forte che
sacrifica il debole, il debole vittima del
forte, ecco la natura […] un
perfetto equilibrio risultante dall’eguaglianza
di bene e di male sulla terra. [71]
Il
perfetto equilibrio ontico in un’eterna e
necessaria natura che lo racchiude, rende
indispensabile che l’ontologia si traduca
nell’etica; poiché se nel mondo vi
sono degli sprovveduti che producono del
bene, occorre che i sapienti rimedino,
producendo del male che lo equilibri.
Nella seconda parte del romanzo la ragazza
è ospite dei Gernande, dove il padrone di
casa, il conte, tematizza la
sottomissione della femmina al maschio, affermando:
«è falso che la natura
abbia destinato i sessi a darsi felicità
reciproca.» [72] E siccome
il debole non ha diritto alla pietà del forte
si deve sottomettere, poiché: « Quella
felicità che i due sessi non possono trovare
l’uno nell’altro, la troveranno
uno nella cieca obbedienza e l’altro nell’energica
interezza del suo dominio.» [73] Un dominio che il conte intende esercitare
su
Justine salassandola tre volte al giorno
sino alla morte, ma il progetto andrà
in fumo perché dopo averle spillato tre scodelle
di sangue commette
l’imprudenza di non chiudere la porta e la
nostra eroina se la svigna. Ma non è
finita perché finisce nelle grinfie di Saint-Florent,
che le confessa: «È la
mia storia, ogni giorno due bambine sono
necessarie ai miei sacrifici […]
un’ora dopo che le ho usate emissari fidati
imbarcano le ragazze e le vendono alle
tenutarie [dei bordelli] di Nîmes, di Montpellier,
di Tolosa, di Aix e di
Marsiglia.» [74] Seguono altri soggiorni e
vicende, in cui Justine tenta ogni volta
di rimettere il malvagio sulla strada
della virtù con esiti disastrosi. Ma poi
la storia deve finire e Sade non trova
di meglio che farla uccidere dal fulmine
(la folgore divina che non uccide più
gli empi bensì i virtuosi!). È il caso di
dire Amen, requiescat in pacem
per la povera Justine, ma non per noi che
dobbiamo ancora occuparci di Sade.
La filosofia nel
boudoir vede
la luce prima del 1795 e può essere considerata
un dramma comico nei suoi
eccessi verbali di opera pedagogico-formativa,
dove l’educanda è una ragazzina
che dopo un timido avvio diventa lussuriosa
e crudele quanto i suoi docenti. Un’opera
pedagogica “al contrario”, ma dove l’unità
di luogo, di tempo e di azione della
tragedia classica si concretizza in un salotto
alto-borghese, in una giornata e
in un orgia. L’evento educativo è però poco
credibile nelle eccezionali performances
sessuali, e l’elemento comico sottostante
pare già annunciato nell’epigrafe che
un Sade sarcastico che recita: «La madre
ne prescriverà la lettura alla figlia.»
[75] Ciò
che caratterizza precipuamente l’opera è
la bestemmia, né vi sono altre opere sadiane
in cui la bestemmia accompagni in modo
sistematico i ripetuti e abbondanti climax
libidici, sì da porsi come quasi
indispensabile complemento del piacere. I
personaggi (due all’inizio e cinque
alla fine) hanno orgasmi continui conditi
da bestemmie che possono apparire
possibili per le due donne non lo sono per
quelli dei maschi superando le
diverse decine nella giornata. Introduce
l’inizio la Signora di Saint-Ange (il
nome è tutto un programma) che dice al fratello:
«Insomma, mio caro, io sono un
animale anfibio, amo tutto, mi diverto di
tutto, voglio provare tutti i piaceri
possibili.» [76] Gran donna questa
Saint-Ange, la vera ostetrica del male rinchiuso
nella fragile e dolce figura
di Eugénie, la ragazza vergine “da educare”
alla lussuria e al male.
Ma il maître è Dolmancé, l’affascinante
personaggio che deve arrivare in scena: «famoso
per il suo ateismo è l’uomo più
immorale… la corruzione fatta persona »,
al che la signora: «Eccitante! Sento
già che impazzirò per lui.» [77] In
quanto ai suoi “gusti”: «Gli sono care le
delizie di Sodoma, sia nella parte
attiva che passiva, non gli piacciono che
gli uomini, e se qualche volta
acconsente a provare le donne, non è che
a condizione che siano tanto
compiacenti da cambiare sesso per lui.» [78] Vengono
in mente le “trasposizioni” di D’Annunzio,
che avrà interessi simili e imiterà Dolmancé
anche nella coprofilia. La
signora è disposta a tutto e si eccita quando
apprende che il fratello (il
Cavaliere) si propone come “stallone pedagogico”
della ragazzina («Che delizia
per te corromperla, soffocare nel suo giovane
cuore tutti i semi della virtù! » [79]
Compito facile, come si vedrà dal terzo dialogo in poi. Quando
finalmente iniziano le lezioni i maestri
ce la mettono tutta nel loro impegno
pedagogico e la Signora di Saint-Ange incomincia
a spiegare alla vergine che
cos’hanno gli uomini tra le gambe e che cosa
possono farci, sottolineando la
sconvenienza dell’uso “generativo” e la sublimità,
invece, di quello “voluttuario”.
La lezione anatomica prosegue e si comincia
con gli “esempi” che Dolmancè e la signora
cominciano a mettere in atto tra sussulti,
sospiri e umori vari sparsi sui
divani. Però la signora ama anche la poesia
amorosa e le piace tanto sentirsi
dare della puttana quando è in azione («questo insulto mi fa
perdere la
testa » [80]) così come sotto l’aitante
Dolmancé esplode nei: «basta, non ne posso
più» e cose del genere intercalate
da bestemmie [81]. Il maître, come
da copione, tra un orgasmo e l’altro, propina
anche la sua lectio sui «piani
irresistibili della natura » e sul fatto
che «Dio è impossibile.» Ma qui
compare un nuovo elemento interessante, laddove
il nostro stallone-bisex-filosofo-coprofilo,
dopo aver sostenuto che Dio non esiste spiega
alle due donne:
Un
essere più potente di questo Dio grossolano,
il Diavolo, conservando sempre intatto
il suo potere, beffandosi sempre del suo
autore, riesce sempre con le sue
seduzioni a corrompere il gregge che l’Eterno
si era riservato per sé. Niente
può annullare il potere di questo demone
su di noi. [82]
Qui
è la “scrittura” a dettare le sue leggi e
in un contesto lussurioso dove il
Diavolo ci sta sempre benissimo, sia perché
dominandoci rende evidente la
vittoria del male e sia perché pare beffi
il suo celeste «Autore ». Se per la
lussuria l’impotenza è il massimo dell’umiliazione,
l’impotenza di Dio a
impedire il male ne rivela la sua irrimediabile
debolezza e per la filosofia
sadiana il debole è sempre condannato a strisciare
ai piedi del forte. Dunque,
Sade, per umiliare Dio, è costretto a riconoscerne
l’esistenza attraverso la
messa in scena di Satana.
In realtà Dio è per Donatien è una vera
ossessione. Negato in continuazione esso
è sempre lì, onnipresente, a giudicare
il crimine anche se pare impotente a fermarlo.
Dal momento che Dio si conferma
attraverso la stessa esistenza del crimine,
che lo irride ma nel contempo lo
riconosce, bisogna continuamente ri-negarlo
e soprattutto bestemmiarlo durante
l’orgasmo, perché l’insulto risulta più forte
e più forte il piacere che
stordisce sino al delirio. Il terribile è
che più lo si bestemmia e più “Dio
c’è”! Ed allora, al reiterato invito di Dolmancé
a commettere tutto il male
possibile, abbandonandosi sempre alla «sottile
piccante cattiveria di non fare
il bene» [83], la bestemmia si
trasforma nell’invocazione «Ah, Dio!» che
erompe dalla bocca di Eugénie «come
mi infiammano le vostre lezioni! Credo che
ora mi farei uccidere piuttosto che
compiere una buona azione.» [84] Vocazione
al martirio, dunque, invocandone Dio a testimone;
il male va fatto perché gli
eletti sono investiti del privilegio di commetterlo,
ma ciò implica il
riconoscimento dell’esistenza di Dio: è la
“tassa del peccatore”. È questo il tormento misterioso e
inconsapevole che Sade avverte nel profondo
della sua coscienza di cristiano
ribelle che finirà la sua vita (era quasi
inevitabile) da buon cristiano.
La sacralità è sempre ambigua. Posto il
Sacro, di cui Dio è latore, il Bene diventa
il suo stigma e il suo simbolo. Da
Platone a Rousseau Dio è il Bene; egli “deve”
essere buono e (almeno
alla”fine”) debellare il male. Immaginare
Dio significa volere una sicura vittoria
sul male, ma che risulta sempre differita.
Così Sade, perseguendo la vittoria
del male umilia Dio, ma nello stesso tempo
“volere” la vittoria del male è
“patire” la rivincita dell’esistenza di Dio.
E tuttavia nell’allucinazione
della scrittura sadiana è anche possibile
che il Bene si travesta da Male e Dio
appaia come il malvagio Creatore di una natura
malvagia, che agisce “per
commissione”. Ma questo Sade non arriva a
permetterselo e preferisce giocare
coi suoi fantastici personaggi, le loro
false imprese e le loro menzogne. Così metta
in bocca alla signora di
Saint-Ange quella che appare poco più che
una compiaciuta bugia: «Ho fatto la
civetta con quindici uomini. Mi hanno sfottuta
novanta volte in ventiquattro
ore sia davanti che di didietro.» [85] Alla
lettera sono centottanta orgasmi da parte
di quindici uomini in ventiquattr’ore:
dodici a testa; un po’ troppi per uomini
normali (ma per saints ed anges
forse no!). E la Saint-Anges, dopo varie
altre sparate, si eccita all’idea dei
crimini che potrà commettere la sua giovanissima
allieva e la incita: «Ai
crimini, scellerata, ai crimini più neri
e spaventosi…» [86]
Dolmancé è più teorico, lui vuole la distruzione
assoluta, poiché: «La distruzione, di cui
l’uomo si vanta, è puramente
chimerica, l’assassinio non è affatto una
distruzione, chi lo commette non fa
che variare le forme » [87] Poi
per prendersi un po’ di relax sodomizza le
due donne bestemmiando, al «Mi fate
morire di piacere » di Eugénie segue prima
e il «Ah fottimi!... fottimi!
Dolmancé, vengo! » della Saint-Ange, che
poi cui fa seguire l’incitamento: «Su
bestemmia piccola puttana! Bestemmia dunque!»
[88]
Abbiamo reso un piccolo esempio del linguaggio
corrente ne La filosofia del Boudoir
affinché ci si renda conto di come in esso
“l’orgia scritturale” trascini Sade sempre
oltre la logica della rappresentazione. Ma
il “filosofo” Dolmancé intende
essere preciso, la bestemmia è meglio della
profanazione di reliquie di ostie,
di crocifissi, eccetera, che danno soddisfazioni
modeste, mentre: «vale la pena
di conservare solo la bestemmia, non perché
abbia maggiore validità, dal
momento che se Dio non esiste, a che serve
insultare il suo nome? Ma perché è essenziale
pronunciare parole forti o sporche nell’ebbrezza
del piacere e quelle blasfeme
servono assai bene all’immaginazione [..]
bisogna che scandalizzino al massimo, perché è molto
dolce scandalizzare.» [89] Il
“teorico” si confessa qui provocatore per
il piacere che dà lo scandalo, ed è
indubitabile che in Sade ci sia molto di
questo.
Spiega Dolmancé che siccome veder soffrire
è una sensazione forte: «gli choc che avremo
dall’aver procurato negli altri
questa sensazione, imprimeranno una vibrazione
più violenta, si ripercuoteranno
più energicamente in noi, metteranno in circolo
con più forza gli spiriti
animali che, con la tendenza a determinarsi
nelle ragioni basse per il
movimento di retrogradazione che è loro essenziale,
interesseranno anche gli organi
della voluttà e li disporranno al piacere.»
[90] È qui tentata una spiegazione di tipo
iatro-meccanico in un maldestro tentativo
di “meccanicizzare” il processo
sofferenza-piacere, quasi a rafforzarne la
credibilità. Se la spiegazione fosse
plausibile, la “normalità” del sadismo risulterebbe
infatti rinforzata, poiché
non sarebbe più nella psiche del singolo
che ne andrebbe ricercata l’origine, bensì
nel corpo umano stesso. Ma Dolmancé, lanciatosi
in una digressione storicistica
sui sommi goditori di crudeltà della storia
sente poi il bisogno impellente di
fare sesso. E questo straordinario atleta-acrobata
di esso, nel prendere e nel
contempo offrirsi alle due donne si perde
in un delirio estatico accompagnato da
sospiri lussuriosi e logorrea blasfema [91] che
non riportiamo per decenza, ma che sono estremamente
comici.
La libido verbale si accentua nel Quarto
Dialogo
con l’aggiunta al gruppo del fratello della
Saint-Ange, il Cavaliere di Mirvel,
già visto nel Primo Dialogo. Novità di rilievo
sono ormai assenti, il già visto
delirio verbale, debitamente condito dalla
bestemmia, accompagna la successione delle azioni libidiche ripetute.
Ma il Quinto Dialogo (in cui entra anche
Augustin, il servo superdotato) ci
riserva una sorpresa, allorché Sade vi introduce
un elemento abbastanza estraneo
alla scena e all’azione, che nel suo carattere
digressivo ricorda un po’ la Confessione
del vicario savoiardo nel IV capitolo dell’Emilio. Il Cavaliere,
sospendendo le lussurie, tira fuori un opuscolo
fresco di stampa dal titolo Francesi,
ancora uno sforzo se volete essere repubblicani. Invitato dalla comitiva legge
l’operetta, che tratta della religione e dei costumi: una specie
di summa del pensiero sadiano che, non a caso, dopo
l’ascolto, Eugénie ritiene
attribuibile a Dolmancé. Vediamone qualche
punto, per quanto non vi siano
novità a parte l’elemento politico qui presente.
L’abolizione della religione come
conditio sine qua non per realizzare la Repubblica riguarda tutta
la
prima parte del testo («l’ateismo è attualmente
il solo sistema di tutti coloro
che sanno ragionare » [92]) con
un curioso invito a ripristinare il politeismo
pagano («Rendeteci gli dèi del
paganesimo. Noi adoreremo volentieri Giove,
Ercole o Pallade» [93]). È
ribadita l’eternità del mondo e la sua immutabilità
in conformità col
materialismo deterministico, cui segue l’invito
“patriottico” a pensare al
futuro della nazione «distruggendo per sempre
ogni di Dio.» [94] Quest’ossessione
di Dio, lo abbiamo già rilevato, non ha nulla
di ateo, ma è invece l‘espressione
di un odio profondo verso un’entità pensata
di cui non ci si riesce a sbarazzare
e che perciò si tenta di eliminare con la
forza della parola. Non è solo il
fatto che Sade muoia “in grazia di Dio” a
farne un credente, bensì proprio
questa voglia di cancellazione ossessiva
del Sacro che egli persegue
sistematicamente e che caratterizza la maggior
parte della sua produzione.
Per quanto riguarda i costumi il Francesi,
ancora uno sforzo esorta a porne di nuovi, ma vi è anche la
perorazione
dell’abolizione della pena di morte, poiché
essa: «è ingiusta » e « non ha mai
represso il crimine » [95]. Sade arriva poi al punto che più gli preme,
la
depenalizzazione dei costumi sessuali non
ortodossi:
Dobbiamo
dunque applicarci a mettere ordine in quella
materia, a stabilirvi tutta la
sicurezza necessaria affinché il cittadino,
che il bisogno avvicina agli
oggetti di lussuria, possa dedicarsi con
quegli stessi oggetti a tutto ciò che
le sue passioni gli impongono, senza essere
mai vincolato da nulla. [96]
Gli
impedimenti all’esercizio di una sessualità
“senza vincoli” sono colpa della
religione cristiana e Sade combatte la sua
guerra disperata contro di essa, “dovendo”
a se stesso quest’impegno implacabile che
si esprime in una vera e propria
ideologia dell’eterodossia sessuale. Quando
negli ultimi anni di Charenton,
ormai ridotto a una larva umana, egli non
avrà più libido sessuale da spendere,
potrà tranquillamente riabbracciare il Cristianesimo
e, come abbiamo visto,
fare il chierichetto e distribuire ostie.
L’ammissione della perversione sessuale sarebbe
anche un antidoto al dispotismo e nell’esplicazione
delle sue proposte Sade difende
anche la pedofilia nei termini seguenti:
Chi
ha diritto di mangiare il frutto di un albero
può certamente coglierlo maturo o
verde a seconda delle inclinazioni del suo
gusto. Ma, si obietterà, vi è un’età
in cui i procedimenti dell’uomo nuoceranno
decisamente alla salute della
fanciulla. Questa considerazione è senza
alcun valore, dal momento che mi
accordate il diritto di proprietà sul godimento,
questo diritto è indipendente
dagli effetti prodotti dal godimento, da
quel momento diventa la stessa cosa
che quel godimento sia vantaggioso o nocivo
all’oggetto che deve sottomettersi.
[97]
Superfluo
ogni commento a questa logica per cui il
diritto a un’azione renderebbe
irrilevante considerare il tipo di soggetto
che la patisce. In compenso
andrebbe accordato alle donne «avendo ricevuto
inclinazioni ben più violente di
noi ai piaceri della lussuria» la facoltà
«di darsi a quanti uomini piacerà
loro» Naturalmente ciò implica la produzione
selvaggia di bambini o l’aborto
sistematico, ed allora Sade propone (si ricordi
il Platone di Leggi) che
tutti i bambini che nascono diventino “figli
della Patria” [98]
Perciò:
Vi
saranno dunque delle case destinate al libertinaggio
delle donne e, come quello
degli uomini, sotto la protezione del governo;
là saranno forniti tutti gli
individui dell’uno e dell’altro sesso che
esse potranno desiderare e più
frequenteranno quelle case e più saranno
stimate. [99]
La
“fornitura della Patria” degli oggetti di
piacere legittima tutte le forme di
sessualità e, in virtù di ciò, approfittare
di detta fornitura sarà titolo di
merito patriottico. Basta con le barbarie:
«che facevano appassire le vostre
grazie e imprigionavano gli slanci divini
dei vostri cuori.» E Sade aggiunge in nota: «Le donne non sanno quanto la loro
lascivia le rende belle» [100]
La «carriera dei combattimento di Venere»
è
aperta a tutti e senza alcuna restrizione,
quindi l’incesto va legittimato: « Com’è
possibile che uomini ragionevoli abbiano
potuto portare l’assurdità fino al
punto di credere che il godimento della propria
madre, della propria sorella o
della propria figlia possa mai essere criminale!»
[101] Anche
lo stupro va’ammesso poiché non fa «che mettere
un po’ prima l’oggetto di cui
ha abusato nella stessa condizione in cui
l’avrebbero di lì a poco messo le
nozze e l’amore.» Due pretese, per un uomo
che sicuramente non è macchiato di
incesto ma forse neppure del secondo (avendo
sempre abusato di prostitute di
mestiere), assumono il carattere provocatorio
di chi si diverte a devastare la
morale con la consapevolezza che anche la
società più disinibita e libertaria,
in base a considerazioni di carattere medico
prima che morale, non potrebbe mai
accogliere. È questo che induce a pensare
che il gusto del paradosso nasconda il
divertimento di prefigurarsi la comicità
delle reazioni dei benpensanti. Ma quest’ipotesi
plausibile può solo aggiungersi alla realtà
del momento terribile che Sade sta
passando entro i muri del carcere. È la disperazione
che gli fa sentire analgesica
una scrittura paradossale e un linguaggio
delirante, poiché è con essi che
Donatien “evade “ dal carcere per portarsi
in un suo mondo fantastico, dove
trova sollievo in un certo senso “andando
fuori di testa”.
Il seguito di Francesi, ancora uno
sforzo è una scontata apologia della sodomia e
della pederastia («il vizio
dei popoli guerrieri » [102]) e
in quanto all’omicidio vi è la comica assimilazione
dell’uomo al vegetale («Che
cos’è l’uomo, e che differenza c’è fra lui
e le altre piante, fra lui e gli
altri animali della natura? Nessuna sicuramente»
[103]) Se
la natura opera in continuazione la distruzione
di vita per crearne di nuova, anche
l’omicidio è un modo di accordarsi con la
natura e renderle anzi un servizio prezioso.
Il discorso è logico solo in apparenza, poiché
la natura “seleziona” in
funzione della vita e l’assassino in funzione
della morte. L’assassino potrebbe
sentirsi legittimato se la natura selezionasse
a caso, ma il
determinista Sade nega il caso per riferire tutta alla necessità
tanto ontologica quanto biologica. Il
seguito del dialogo non ha molto interesse,
salvo il momento in cui l’assatanata
signora di Saint-Ange si mette a sparare
peti per eccitare Dolmancé [104]. Il
Sesto Dialogo, brevissimo, prelude al Settimo,
col quale l’opera si conclude e
l’orgia conosce l’ultimo eccesso, decisamente
delittuoso. Ai quattro lussuriosi
si aggiungono la madre di Eugénie e il valletto
Lapierre. La prima una
caricatura della genitrice premurosa e bigotta,
il secondo una sorta di “ spada
della giustizia” della combriccola, un bel
ragazzo superdotato ma malato di
sifilide. La vendetta escogitata è terribile
quanto grottesca : il valletto violenta
la signora Mistival e la figlia di questa
completa l’opera con un rammendo
anatomico.
Concludiamo con pochi cenni ad alcune
interpretazioni su Sade, non dimenticando
che per lungo tempo le sue opere sono
rimaste inaccessibili, mentre altre sono
state scoperte un secolo fa.. All’inizio
del ‘900 la psicanalisi ha trovato in lui
un oggetto d‘indagine di grande
interesse, ma è solo intorno agli anni ’30,
con Maurice Heine, che si comincia
ad analizzare scientificamente l’opera sadiana
sottraendola ad interpretazioni emozionali
o ideologiche. Da molto ciarpame interpretativo
(sia tra i detrattori e sia tra
gli apologi) emerge che quella di Sade debba
essere considerata una “scrittura
del desiderio”. In realtà essa è proprio
la proiezione fantasmatica di un uomo distrutto
dalla detenzione, che solo fabbricando scenari,
situazioni, tipi umani,
linguaggi, regole, riti, ecc., in un’iperbole
rappresentativa e ossessiva,
riesce a salvarsi dalla pazzia. Se Donatien
non è diventato pazzo è solo grazie
alla sua fantasia e alla sua scrittura; infatti
da uomo libero ha scritto niente,
da detenuto ha trovato la prodigiosa medicina
che gli ha aperto le porte del
meraviglioso e ne ha fatto un grande creatore
di simboli e immagini. Si può
supporre che i sogni erotici adolescenziali
trovino in una residua ”libertà di scrivere”
la valvola di sfogo delle sue frustrazioni
e delle sue ossessioni, tra cui
emerge, principalmente, quella di Dio. E
dati gli eccessi della fantasia
repressa che esplode e si concretizza in
scrittura, saremmo propensi a definirla
“scrittura della pulsione”, sia per evidenziare
l’elemento qualitativo (l’aspetto
psicanalitico di essa), e sia quello quantitativo
(come energia psichica
esplosiva ed ”enorme”). Ma abbiamo anche
rilevato che non si può fare a meno di
cogliere, dove c’è, il grottesco che si fa
comico, e ridere di gusto, come il
poeta inglese Swimburne (1837-1909), uno
che di sesso e lussuria se ne
intendeva, che dopo aver letto Justine affermava in una lettera: «Ho
veramente creduto di morire, di spezzarmi
in due o rimanere soffocato dalle
risa.» [105]
I Surrealisti sono stati i primi a scoprire
negli anni ’20 del Novecento l’opera di Sade
in quanto “cornice espansa” dei
loro orizzonti letterari, ma in una maniera
un po’ scomposta e approssimativa.
Ne è sintomo la posizione di Georges Bataille
contro coloro (come André Breton)
che avrebbero fatto una “apologetica strumentale”
di Sade, scrivendo in Il
valore d’uso di D.A.F. de Sade (1930): «Il comportamento degli ammiratori
riguardo a Sade assomiglia a quello dei sudditi
primitivi nei riguardi del re
che adorano esecrandolo ». [106]. Ed
ancora (La vecchia talpa): « Sade, vigliaccamente evirato dai suoi
apologisti, prende l’aspetto di idealista
moralizzatore » [107] Ciò
che Bataille vede emergere in Sade è ciò
che chiama «sovranità» in
contrapposizione a ”normalità” (L’erotismo):
Sovrano
è invece l’uomo che (nel momento in cui )
trasgredisce i divieti, che si libera
dalla schiavitù del lavoro […] Sovrano è
l’uomo che agisce in maniera
improduttiva e irrazionale, disordinata e
inconsulta, passionale e violenta,
che si oppone alla riduzione di se stesso
a cosa, operata dal tempo umano,
anti-animale del lavoro, e si pone, al contrario,
al disopra delle cose. [108]
Sappiamo
che Bataille è un mistico dello “spreco”
metafisico, dell’”improduttività”, dell’erotismo
e di una sofferenza sublimati, che difficilmente
può tollerare una
volgarizzazione di colui che considera proprio
“antenato”. Ma è verso la metà
del secolo che le interpretazioni di Sade
si fanno più frequenti, dando corso a
una serie di letture sadiane importanti e
chiarificatrici. In riferimento a cinque
autori tra gli altri (oltre a Bataille, Klossowski,
Blanchot, Barthes e
Bàccolo) possiamo dire che se Bataille ha
un approccio a Sade di tipo “mistico”,
quello di Klossowski è “filosofico”, “sentimentale”
quello di Blanchot, “linguistico”
quello di Barthes ed “esistenziale” quello
di Bàccolo.
Klossowski dà alle stampe nel 1947 il
saggio Sade mon prochain, che è una delle letture più profonde della
scrittura di Sade, del suo mondo, della sua
psiche. Egli ritiene che il
pensiero sadiano tenda alla “liquidazione
della nozione di male” attraverso le
“forme” di una teologia distruttrice, ponendosi
come il primo esegeta che dà una
lettura ”filosofica” di Sade, con l’individuazione
della forma ”teologica” del
suo pensiero. Colta la teologia “invertita”
è facile vedere che l’irreligiosità
non nega Dio come l’egoismo non nega l’”altro”
«ma intrattiene con loro una
“relazione negativa”.» Ed allora:
Relazione
negativa con Dio; la coscienza del libertino
non è atea “a sangue freddo” per
dirla con Sade; lo è con eccitazione, quindi
con risentimento; il suo ateismo è
unicamente una forma di sacrilegio: soltanto
la profanazione dei simboli della religione
può convincerla del suo ateismo apparente.
[109]
Ed
effettivamente è solo apparente, cioè “formale”,
l’ateismo sadiano, perché
proclamato nel risentimento, nell’ira e nella
frustrazione. Dio è “fatto“
responsabile dei suoi guai e delle sue disgrazie,
in quanto vuole costringerlo,
con “innaturali” leggi divine, ad essere
ciò che egli non è e non può essere.
In vecchiaia questo “non poter essere” perde
cogenza con l’affievolirsi della libido
sessuale, e Sade può infine conciliare la
“naturalità” del degrado fisico con
la “sacralità” della legge, essendo venuti
meno i mezzi per trasgredirla. Solo una
“religione del male” quella di cui Sade compone
il catechismo, e Klossowski
nota:
Al
punto che si potrebbe vedere in Dio il colpevole
originale che avrebbe
attaccato l’uomo prima di esserne questo
attaccato: l’uomo avrebbe in tal modo acquisito
il diritto e la forza d’attaccare il suo
simile. Ora, tale aggressione divina
sarebbe talmente incommensurabile da legittimare
per sempre l’impunità del
colpevole e il sacrificio dell’innocente
[110]
Siamo
qui di fronte a un’evidente forzatura interpretativa,
che deborda un poco dal
quadro dei testi sadiani per tentare un’introspezione
dell’uomo, ma essa può
essere considerata plausibile alla luce della
sintomatologia esistenziale del
divino marchese. Il Nostro immagina anche
che Sade pensi: «sono felice del male
che faccio agli altri come lo è Dio di quello
che fa a me » [111] Ma
Klossowski si dimentica di precisare (elemento
mai trascurabile) che in Sade
tutto è “finzione” e “rappresentazione”,
e l’odio verso Dio si realizza solo
nel “teatro” fantastico della pirotecnica
lussurioso-criminosa. E ancora:
L’esistenza
del male nel mondo gli fornisce il modo di
ricattare Dio, il Colpevole eterno
in quanto Aggressore originario, e a questo
scopo essa è sempre ricorsa alle
categorie morali come un patto che Dio avrebbe
violato. La sofferenza diventa
una cambiale su Dio. [112]
Ne Il filosofo scellerato però
Klossowski coglie, ancora con grande acutezza,
che il sedicente ateo Sade enfatizza
una trasgressione che legittima ciò che vuol
trasgredire:
La
trasgressione presuppone l’ordine esistente,
la conservazione apparente delle
norme a beneficio d’un accumulo di energia
che rende la trasgressione
necessaria. Così, la prostituzione universale
[si ricordi la seconda parte
di Francesi, ancora uno sforzo] ha
senso soltanto in funzione della proprietà
morale del corpo individuale. Senza questa
nozione di proprietà, la prostituzione perderebbe
il suo valore attrattivo:
l’oltraggio colpirebbe a vuoto. [113]
In
altre parole, la “messa a disposizione” dei
corpi anche con la rinuncia alla
proprietà del “proprio”, presuppone la proprietà
stessa che si intende negare. La
trasgressione di una norma è tanto più affascinante
e appagante quanto più la
norma è forte, ma grazie a tale trasgressione
la norma si rafforza
ulteriormente.
Maurice Blanchot si è occupato di Sade a
più riprese, ma due testi sono particolarmente
importanti, La ragione di
Sade (in Lautréamont e Sade, del ’63) e L’insurrezione, La follia
di scrivere (in L’infinito intrattenimento, del 1969). Blanchot è
uno dei più notevoli e affascinanti pensatori
e critici letterari del Novecento,
che di Sade dà una lettura quasi affettuosa
che ci ha indotti a definire sentimentale.
Il meglio della sua opera, a nostro avviso,
riguarda Lautréamont, Nietzsche, Bataille,
Kafka e Rilke, ma anche su Sade la sua esegesi
è di eccezionale valore. La
specificità del Nostro sta nello stabile
un particolare feeling
evocativo con l’autore che interpreta, mettendo
in opera una fenomenologia di
andata/ritorno che è un “andare” all’autore
ed ”entrare” nel suo testo per poi
uscirne e tradurre in scrittura la sintonia
così realizzata. Anche Blanchot constata
che è l’idea di Dio il principale tormento
di Sade, ma la su interpretazione
filosofica (che prevale su quella letteraria
nel testo del ’63) differisce da
quella di Klossowski. Egli scrive:
Non
è certo nelle scene di lussuria che Sade
dà prova di passionalità; ma la
violenza, il disprezzo, la fiamma dell’orgoglio,
la vertigine del potere e del
desiderio si destano immediatamente ogni
qual volta l’Unico [ciò che si sente
Sade] si imbatta, sulla strada, in qualche
segno di Dio. L’idea di Dio è, in
certo senso, la colpa inespiabile dell’uomo.
[…] La fede in un Dio onnipotente che
non lascia all’uomo se non la realtà di un
filo di paglia, di un atomo del
nulla, impone all’uomo integrale il dovere
di appropriarsi di questo potere
sovrumano, assolvendo, in nome dell’uomo,
e sugli uomini, al diritto sovrano
che questi hanno voluto riconoscere in Dio.
Quando uccide il criminale è Dio in
terra, giacché realizza tra sé e la propria
vittima i rapporti di
subordinazione che costituiscono, agli occhi
di quest’ultima, la definizione
della sovranità divina. [114]
Viene
qui ripreso il concetto batailliano di sovranità,
e ciò che Blanchot vede in
Sade non è, come per Klossowski, il rifiuto/legittimazione
dell’idea di Dio,
quanto piuttosto l’indignazione del super-uomo
che in nome dell’uomo ideale (e
non degli uomini normali che disprezza) vuole
appropriarsi del “potere divino”.
Ma Blanchot ha anche ben compreso che l’altra
ossessione di Sade è la
scrittura, l’unico farmaco che gli torna
esistenzialmente come concretizzazione
della fantasia. Egli è quindi un “malato
di scrittura” che si cura con la
scrittura, ma non omeopaticamente (gradualmente
e a piccole dosi) bensì in
colpi singoli ma continuativi di dosi da
cavallo. Sade cerca la verità del «dire
tutto», ed allora:
La
bestemmia da proferire, il male da esaltare,
le passioni del delitto da
sostenere, sono il meno: non se ne priva,
ma è da escludere che si accontenti.
In questo furore di scrivere si fa luce qualcosa
di più violento; una violenza che
tutti gli eccessi di un’immaginazione superba
o feroce non riescono ad esaurire
né a placare, ma che è sempre inferiore all’impeto
di un linguaggio che non
tollera pause né concepisce un termine. [115]
Per Roland Barthes, come Charles Fourier
e Ignacio
di Lodola, Sade è un “logoteta”, fondatore
e creatore di una nuova lingua. Il logoteta opera e realizza attraverso una
situazione, l’isolamento (volontario od obbligato) e due operazioni
creazionali:
l’articolazione della nuova lingua e il suo
ordinamento organizzativo [116]. In
questa prospettiva l’interpretazione di Sade
diventa puramente formalistica,
poiché il testo sadiano, secondo Barthes
(Sade I), “non ha nulla da
dire”: «Quello che accade in un romanzo di
Sade è propriamente favoloso,
impossibile, inconcepibile e perciò irreale
ed inesistente. I romanzi di Sade
non hanno contenuto: in essi “non si tratta
di raccontare ma di raccontare che si
racconta” » Essendo il fine sadiano il raccontare
e non ciò che si racconta (il referente), questo è sempre irreale, come
abbiamo gia
visto per prestazioni sessuali del tutto
“fantastiche” per numero e natura. Rileva
Barthes in Sade II (con riferimento a Le centoventi giornate) che
le operazioni del sesso in Sade sono come
il lavoro a catena:
Quella
che è qui descritta è in realtà una macchina
[…] bambini, ganimedi, preparatori,
tutti formano un immenso e sottile ingranaggio,
una minuta orologeria che ha la
funzione di legare il godimento, di produrre
un tempo continuo, di portare al
soggetto il piacere su un nastro trasportatore
(il soggetto è magnificato come
esito e finalità di tutto il macchinario,
e tuttavia negato, ridotto a un pezzo
del suo corpo). Ogni combinatoria ha bisogno
di un operatore di continuità; una
volta è la copertura simultanea di tutti
i siti del corpo, un'altra è, come
qui, la stessa rapidità delle otturazioni.
[117]
Finiamo con Luigi Bàccolo, acuto studioso
della vita come dell’opera di Sade, che a
proposito dei tre romanzi scritti dal
1807 a Charenton rileva:
Sade
si rende conto che il mondo degli uomini
è uscito indenne dalla scarica ad alto
potenziale delle sue opere. Abbassandosi
a piacere “alle anime sensibili cupe e
malinconiche” (il romanticismo sta per invadere
la terra lasciata deserta dalla
tramontata Ragione), Sade accetta ormai in
blocco ciò che aveva combattuto: la bellezza
della natura che con i suoi quotidiani miracoli
parla di Dio, la santità della
religione e dei costumi, la preminenza degli
ecclesiastici, “i più rispettabili
degli uomini”. […] La triste palinodia di
Sade, il suo arrendersi all’ipocrisia
del mondo; ma in realtà è piuttosto una
misera parodia. [118]
Ciò
che Bàccolo chiama un “arrendersi” non è
detto che lo sia. Sade non è mai stato
felice, ha soltanto avuto orgasmi, sessuali
o intellettuali, intercalati da più
o meno lunghi periodi di sofferenza, dopo
il 1782 si è trattato quasi di una sofferenza continua.
Noi
tendiamo a credere piuttosto ad un “convertirsi”
alla norma”. Stanco di fare
l’”eccezionale” Donatien forse ha trovato
un po’ i pace nel fare il “normale”. È
il destino di molti trasgressori che sopravvivono
alle loro trasgressioni: perché
le trasgressioni ad un certo punto diventano
noiose e ripetitive, ed allora,
noia per noia, tanto vale annoiarsi in modo
“normale”. Il fatto che i testi sadiani
posteriori al 1807 non abbiano più nulla
dell’esplosività concettuale e scritturale
degli anni 1782-1797 è il chiaro segno di
questa trasformazione. E ciò anche
perché Sade a Charenton non è più un recluso
in senso stretto, per quanto l’ambiente
sia quello che è, egli è libero di muoversi
e di parlare con chi vuole, di leggere
e di scrivere non più nel buio di una cella,
di organizzare e gestire feste e spettacoli
con testi di cui è autore. E poi ha
vicino a se la buona e generosa
Constance che lo coccola. In altre parole,
nei limiti del significato che può
avere l’aggettivo “libero” in un manicomio,
è indubitabile che egli è in
qualche misura libero e non è più certamente
il “coatto” nelle prigioni di
Luigi XVI. D’altra parte, nell’epoca del
trionfo di un libro come Il trionfo
del Cristianesimo (e il ripristino della cattolicità più retriva),
per le
sconcezze trasgressive di Sade non c’è più
posto (almeno alla luce del sole!)
17.4
Cabanis: la scienza medica e la nascita della
psicologia moderna
Trattare di Cabanis subito dopo Sade è come
passare dalla lava di un vulcano alle calme
acque di un lago, e tuttavia tra i
due esiste un rapporto: quello tra colui
che ha dato le massime isteresi di una
psiche sostanzialmente sana e colui che pone
le premesse per studiarle. Ai
tempi di Sade e Cabanis la psichiatria era
agli inizi e la psicologia era ancora
considerata un genere letterario, ma col
nostro medico-filosofo idéologue
la prospettiva cambia e cominciano a venir
svolti studi sul funzionamento del
cervello (molto notevoli quelli di Pinel)
che sottraggono il pensiero, e
soprattutto il sentimento, agli schematismi
iatro-meccanici che avevano
dominato buona parte del Settecento. Le facoltà
mentali, dopo il superamento sia
del dualismo metafisico corpo/anima e sia
del blocco unico materiale cervello-anima,
cominciano ad esser vista nelle loro infinite
gradazioni fisiologiche e
patologiche. Gradazioni riferibili ad un’ampia
gamma di condizioni mentali, relative
sia ad una psiche perfettamente tonica e
sia ad una totalmente distonica (e
Sade, probabilmente, le ha sperimentate entrambe).
Il Nostro è un pensatore
poliedrico, nella cui formazione culturale
hanno avuto un ruolo determinante le
riunioni nel salotto della vedova Helvétius
ad Auteuil, dove conosce Condillac, Voltaire, d’Holbach,
D’Alembert,
Franklin, Condorcet e Mirabeau. Nel 1784
si laurea in medicina a Reims, lavora
negli ospedali ed intesse rapporti con i
più importanti clinici del tempo, ma
si interessa anche delle condizioni di ricovero,
cura e degenza, mostrando
grande attenzione ai problemi sociali ed
una certa propensione alla politica.
Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808)
nasce in una cittadina del dipartimento della
Corrèze ed approda a Parigi nel
1771, dove frequenta ambienti intellettuali
e dove ha l’occasione di conoscere
sia poeti come Roucher e sia economisti come
Turgot. Ed è tramite questo che
accede al salotto di Madame Helvétius, dove
entra più compiutamente in contatto
con le idee illuministe in generale e filosofiche
in particolare. Il giovane si
fa apprezzare per la sua intelligenza e la
signora gli concede di risiedere
nella villa di Auteuil. I suoi inizi sono
letterari e avrà modo più tardi di conoscere
e divenire amico anche di un giovanissimo
Manzoni, che per la sua gentilezza lo
gratificherà dell’epiteto di “angelico”;
ma poi si orienta verso la filosofia e
la medicina, facendo di questa la professione
in cui eserciterà, avendo come
paziente anche Mirabeau (Gabriel-Honoré Riqueti
de) e curandolo fino alla prematura
morte, nel 1791. Ma nel contempo egli continua
ad interessarsi di letteratura,
traducendo sia Omero che Goethe e dando alle
stampe nel 1797 delle Mélanges
de letterature allemande.
I suoi studi sulla situazione dei nosocomi
francesi lo portano a pubblicare nel 1790
le Observations sur les hôpitaux,
scritto nel quale egli mostra di avere idee
molto chiare sulla complessità dell’attività
medica, scrivendo:
Le
malattie sono infinitamente più varie di
quanto non creda la maggior parte
della gente ed anche dei medici. […] e se
il modo di curarle non è altrettanto
vario come le malattie stesse, se cioè ad
una determinata particolarità morbosa
non si applica una corrispondente particolarità
terapeutica, la medicina finirà
sicuramente col fare più male che bene. [119]
Egli
raccomanda anche che la descrizione della
malattia sia sempre molto rigorosa,
distinguendo le fasi di insorgenza, sviluppo,
stasi, declino e convalescenza,
anticipando così la necessità di una dettagliata
”cartella clinica”, all’epoca ignorata.
Ma soprattutto egli porta la sua maggiore
attenzione al “soggetto” ammalato e
al “luogo” di cura che lo accoglie e che
lo deve guarire: l’unico posto dove il medico
può “imparare” veramente il suo
mestiere. Le lezioni di medicina devono tenersi
non più nelle aule
universitarie: «È nelle sale stesse di un
ospedale che devono essere impartite
le lezioni; sono le diverse malattie che
devono servire da testo.» [120] Il consenso
e l’apprezzamento riservati alle Observations portano il Nostro a
conoscere e frequentare importanti clinici
del tempo, e tra questi Philippe
Pinel (1755-1826), uno dei primi medici a
dedicarsi specificamente ai malati di
mente, fornendo le prime basi della psichiatria.
Pinel è anche colui che nel
famigerato ospedale-carcere di Bicêtre (dove
brevemente ha soggiornato anche
Sade) riuscirà a far togliere le catene ai
pazienti, eliminando una secolare barbara
usanza. I suoi trattati Nosographie philosophique ou la méthode de
l’analyse
appliqué à la medicine e Traité médico-philosophique sur l’aliénation
mentale ou la manie sono per Cabanis una ricca fonte di suggerimenti
e
saranno due testi fondamentali per la psichiatria
della prima metà dell’Ottocento.
Alle Observations il Nostro fa seguire
le Vues sur les secours publics, e subito si delinea in modo documentato
e chiaro l’intento di affinare l’esercizio
della medicina e di trasformare l’arte
medica in scienza medica. Sergio Moravia, che del pensiero
post-illuministico e in particolare di Cabanis
si è occupato a lungo, sostiene
aver egli operato «Reagendo allo scetticismo
di coloro i quali negavano
qualsiasi validità scientifica alla medicina,
in quanto incapace di
oltrepassare l’esperienza sensibile e di
cogliere i principi essenziali nonché
i nessi causali ‘assoluti’ relativi alle
malattie.» [121] È con Sul grado di
certezza della medicina, del 1798, che il Nostro affronta di petto
il problema
motivando la sua posizione e fornendo elementi
metodologici e critici del tutto
nuovi. Quattro anni dopo con Rapporti tra il fisico e il morale nell’uomo
egli, entrando in rotta di collisione sia
col materialismo riduzionista degli
iatro-meccanici e sia col sensismo semplicistico
di Condillac, imbocca una nuova
via di ricerca sulla psiche. Partendo da
alcune intuizioni di La Mettrie e coniugandole
con princìpi nati nell’ambito della scuola
medica di Montpellier, che aveva avuto
tra i suoi maggiori esponenti Théophile Bordeu,
il coprotagonista che avevamo visto ne Il sogno di d’Alembert di Diderot,
e che nell’elaborazione dell’ontologia di
questi aveva avuto un ruolo assai importante.
Da La
Mettrie il Nostro trae il concetto di una
struttura eterogenea e pluralistica della
materia, fondamentale per comprendere come
il funzionamento coordinato
dell’organismo animale derivi in realtà dalla
collaborazione di innumerevoli
organi e funzioni. La metafisica aveva invece
sempre teso a condensare gli enti
materiali o viventi in macro-enti astratti
come il corpo, il sui solo
scopo era di fare la controparte dell’anima nella dualità oppositiva materia/spirito.
Ora, con la nuova prospettiva scientifica,
il corpo diventa solo il nominale
contenitore di una macchina biologica articolata
e complessa, con
sottostrutture, funzioni, connessioni, ecc.
Se la medicina, come arte, era
perlopiù basata sull’”introdurre” o “sottrarre”
liquidi al corpo, oppure sul “manipolare”
parti di esso, diventa ora scienza ed assume
nuovi compiti più raffinati. Essa
deve studiare, analizzare, sperimentare,
riprodurre una miriade di elementi e
fattori concernenti non il corpo in sé, ma
la sua “funzione” globale alla luce
delle funzioni particolari e viceversa. Ciò
implica la messa a punto di una
metodologia operativa che diventa una delle
prime preoccupazioni di Cabanis, e
della quale egli elabora sia una teoria e
sia una procedura pratica. Questa
sistematicità e metodicità della ricerca
medica cabanisiana, al fine di
sottrarla a una ciarlataneria metafisica
ancora largamente presente nel XVIII
secolo, è un obiettivo dal Nostro perseguito
in maniera sistematica ed instancabile.
L’aver scoperto che il morale non
può esse disgiunto dal fisico, ovvero che la psiche e il corpo
sono interconnessi è uno degli importanti
risultati gnoseologici raggiunti da Cabanis,
che porta a compimento un’analisi affrontata
dai materialisti che lo hanno preceduto
in maniera troppo grossolana. Il suo grande
merito è quindi quello di aver
superato la rozzezza del riduzionismo materialistico
sensista e meccanicista, ma
non “buttando il bambino con l’acqua sporca”,
bensì portandolo in acqua pulita ed
evitando di risporcarlo con brodaglia metafisica
e ciarlatanesca. Su questa
strada sono state importanti le precedenti
le intuizioni di Antoine Le Camus (1722-1772)
che si era posto il problema di indagare
le funzioni mentali con i metodi della
medicina, pubblicando una Medicina dello spirito in due volumi (1744-1753) dov’erano posti tre obbiettivi: A. esaminare
come i meccanismi del corpo influenzano l’anima;
B. le cause fisiche che
differenziano i meccanismi; C. i mezzi terapeutici
che possono riportare gli
stati patologici a quelli fisiologici. Anche
il contemporaneo Charles-Louis
Dumas (1765-1813), un fisiologo della Scuola
di Montpellier, col suo Discours
sur les progrés futurs de la science de l’homme (1804), pone, come ”scienza dell’uomo”, un nuovo
orizzonte
della medicina incentrato sullo studio del
cervello, in base al presupposto (già
di La Mettrie) che:
Lo
studio della filosofia e quello della medicina
sono nati insieme, poiché gli stessi
bisogni concernevano la loro comune origine.
Il medesimo destino le associa
infatti in uno scambio reciproco di nozioni
ed obbiettivi. La loro unione,
vecchia come il mondo, dev’essere così duratura,
così necessaria quanto
l’indissolubile unione di uomo e di natura.»
[122]
Cabanis fa tesoro di tutta la ricerca
precedente che abbia fornito qualche contributo
utile al problema che si pone,
dandone sviluppo con quelle ricerche e riflessioni
che troviamo nei Rapporti
tra il fisico e il morale nell’uomo; un’opera che consta in 12 Memorie
su temi specifici e molto differenti per
lunghezza e profondità. Un primo punto
importante da ribadire è che Cabanis si stacca
nettamente da Condillac (col
quale ha peraltro ripetuti colloqui ad Auteuil),
avendo rilevato una certa
astrattezza nei suoi giudizi sull’istinto:
Esaminando
con attenzione le asserzioni di Condillac
relative alla determinazioni
dell’istinto le si trova (almeno in termini
generali) del tutto contrarie ai
fatti; e per poca famigliarità si abbia con
l’analisi razionale e con le leggi
dell’economia animale si vede che tali determinazioni
in effetti si confondono,
fa un lato con le operazioni dell’intelligenza,
e dall’altro con tutte le
funzioni organiche, costituendosi come una
sorta di intermediarie tra le prime
e le seconde, apparendo destinate a servir
loro da legame. [123]
Ciò
che al Nostro preme sottolineare è che non
esiste una separazione netta tra i
fenomeni mentali e quelli organici, poiché
anche i sentimenti sono legati alle funzioni
corporee e nel contempo le condizionano:
Risulterà,
credo, dalla lettura di questo scritto che
tale è in effetti la base delle scienze
morali. La vaghezza delle ipotesi azzardate
per spiegare fenomeni che
parrebbero di primo acchito estranei all’ordine
fisico conferiscono a tali
scienze il carattere d’incertezza; e non
ci si deve stupire che la loro stessa
esistenza, come corpo di dottrine, sia stato
messo in dubbio. [124]
Fatte
queste premesse il Nostro passa nella Prima
Memoria ad esaminare più da vicino
le connessioni tra funzioni organiche e mentali.
Al § II, in una breve
digressione storica, Cabanis si chiede come
mai la sfera morale sia stata
monopolizzata dalla religione, rilevando:
È
vero che la maggior parte dei saggi si persero
in vane ricerche sulle cause
prime, sulle forze attive della natura, che
personificarono con favole
ingegnose; ma le teogonie per essi non furono
altro che sistemi fisici o
metafisici, come per noi i vortici o l’armonia
prestabilita, che sarebbero
senza dubbio divenuti delle divinità, se
quel posto non fosse già stato preso. Essi
se ne sono serviti per usare le fantasie
primitive e piegarle a diventare
costumi sociali; questi primi benefattori
dell’umanità pare fossero convinti
che si potesse ingannare il popolo per il
suo bene. Una massima corruttrice, scusabile
prima che tante funeste esperienze ne avessero
dimostrata la falsità, ma che
non sono più ammissibili nel secolo dei lumi.
[125]
La religione trova terreno fertile nei
vuoti di conoscenza, divinizzando le cause
e creando teogonie fantastiche. Ma
le menzogne che ne erano alla base erano
tollerabili quando le conoscenze
mancavano, non più quando ci sono, ed il
fatto che la teologia continua ad
imperversare non è più ammissibile. In un
excursus sulla storia del
pensiero filosofico in rapporto alla medicina,
Democrito è visto come
l’iniziatore di un nuovo corso della filosofia;
egli: «aveva sentito che
l’universo va studiato in se stesso, nei
fatti evidenti che presenta.» [126]
Cabanis dà credito ad una leggenda secondo
la quale Ippocrate sarebbe stato
chiamato dagli Abderiti a guarire la temuta
follia di Democrito, giunto casa sua lo trova intento a «dissezionare
cervelli di animali per cercare di spiegarsi
i misteri della sensibilità fisica
e riconoscere organi e cause del pensiero.»
[127] Allora
accade che:
I
due saggi s’intrattennero sull’ordine generale
dell’universo e di quello del piccolo
mondo, o dell’uomo, del quale l’uno e l’altro
si stavano contemporaneamente
occupando, considerandolo ognuno sotto il
proprio punto di vista. In quella
conversazione pare che Democrito avesse ben
colto le strette connessioni tra lo
stato fisico e quello morale: e il medico
concluse che era agli Abderiti, e per
nulla al presunto malato, che occorreva somministrare
l’ellèboro. [128]
Nel
rapporto sintonico tra il filosofo e il medico
si realizza quel nesso teorico
tra filosofia e medicina che già La Mettrie
aveva posto e che Cabanis intende
ribadire. Epicuro, un secolo dopo, è visto
come colui che rinverdisce il
pensiero democriteo; mentre Aristotele sarebbe
stato in parte stravolto da
interpreti e traduttori e mescolato con l’eredità
di un Platone i cui sogni «si
alleavano a un fanatismo ignorante ed oscuro»
[129].
Questo blocco culturale sclerotico continua
a dominare le scholae sino
al salutare irrompere del metodo baconiano,
che porta grandi «progressi
nell’arte del ragionamento ». Il Nostro conclude:
«Bacone arriva, tutto d’un
tratto, nel mezzo delle tenebre e la barbarie
delle scuole, ad aprire le nuove
strade dello spirito umano.» [130]
Di Descartes il Nostro dice che, malgrado
i
suoi errori, «non si devono dimenticare gli
immortali servigi resi alle scienze
e alla ragione umana » [131] e
che Hobbes può essere visto come un allievo
di Bacone per quanto fu estraneo
alla maggior parte delle scienze quale ragionatore
puro che possiede «una
precisione di linguaggio che nessun altro
ha eguagliato»; ma del quale è
stupefacente constatare «a quali miserabili
sofismi sulle più grandi questioni
politiche si sia lasciata trascinare tale
forte testa » [132] Dopo un vuoto di decenni finalmente Locke:
«giunge
alla vera origine delle idee», ma va notato
che egli «era medico e attraverso lo studio del corpo
era potuto giungere alle sue scoperte » [133] Dopo
una citazione di Charles Bonnet come metafisico-naturalista
Cabanis dice di
Helvétius: «Infine la nostra ammirazione
per lo spirito saggio, vasto e
profondo di Helvétius » [134] Arriviamo
al § III che si apre con la tematizzazione
della sensibilità e con la
connessione-identità tra il fisico e il morale:
La
sensibilità fisica è il temine ultimo al
quale si giunge con lo studio dei
fenomeni della vita e con le ricerche metodiche
sul loro vero concatenamento.
Esso è anche il risultato finale, per così
dire, cui giunge l’analisi delle
facoltà intellettuali e delle affezioni dell’anima.
Così dunque il fisico e il
morale si confondono nelle loro origini;
o meglio, il morale non è che il
fisico considerato da un punto di vista più
specifico.[135]
In
base a tale fondamentale premessa Cabanis
inizia a sviluppare la sua tesi prendendo
in considerazione sia gli stati d’ansia sia
il sonno quali effetti di un certo
stato fisico, per arrivare ai problemi morali
e rilevare che se i bisogni
fisici dipendono dall’organizzazione del
corpo, forse che «i bisogni morali non
ne dipendono anch’essi, sia pure in nodo
meno diretto? » [136] Nota
Sergio Moravia che quella del Nostro può
essere considerata una psicofisiologia
unitaria, con la quale: «All’uomo caratterizzato
dal pensiero si sostituisce
l’uomo caratterizzato dalla sensibilità.»
[137] e su
tale base due importanti sentimenti come
la compassione e la simpatia sono
visti come aspetti della sensibilità e non
della morale.
Nella Seconda Memoria Cabanis abbozza una
«storia
fisiologica delle sensazioni» e, dopo aver
fatto al § I alcune osservazione
sulle teorie di Haller e di Stahl relative
ai concetti di irritabilità e sensibilità,
arriva nel § II ad enunciare un criterio
eziologico importante che riecchegia
Locke:
Soggetto
all’azione degli enti della natura l’uomo
trova nelle impressioni che essi producono
sui suoi organi la fonte delle sue conoscenze
e le cause stesse del suo vivere:
poiché vivere è sentire. In tale mirabile
concatenamento dei fenomeni
costituenti la sua esistenza, ogni bisogno presiede allo sviluppo di
qualche facoltà. Ogni facoltà, per il suo stesso sviluppo,
soddisfa
qualche bisogno e le facoltà si accrescono
con l’esercizio, come i bisogni
aumentano con la facilità a soddisfarli.
[138]
Ciò
che in Locke era però solo teoria gnoseologica,
in Cabanis diventa fisiologia. Ma
nella misura in cui il vivere è sentire (l’aveva
affermato Diderot in Elementi
di Fisiologia) e questo produce conoscenza, il cerchio
si chiude in una
totalità organica dove corpo, mente ed anima
diventano una cosa sola sotto
aspetti differenti. E le impressioni, prima considerate in una loro oggettività
generica, acquistano in Cabanis un significato
soggettivo a partire da una considerazione
molto importante:
Si
vede dunque chiaramente, come risulta dalle
più semplici osservazioni, che le
impressioni non si verificano in modo uniforme;
esse sono, al contrario,
relative all’individuo che le riceve, con
risultati molto differenti. Le une
vengono dagli oggetti esteriori; le altre,
ricevute negli organi interni, sono
il prodotto delle differenti funzioni vitali.
L’individuo ha quasi sempre
coscienza delle prime e può almeno rendersene
conto: ignora le altre; non ne ha
alcun sentimento distinto. [139]
Per quanto il passo non sia chiarissimo
(soprattutto in che cosa si debba intendere
per «funzioni vitali» che
attraverso gli «organi interni» agiscono
sulle impressioni) ciò che emerge è
che: A. La specificità di ogni organismo
individuale fa sì che siano differenti
le impressioni relative agli stessi oggetti
o fatti; B. Questi fenomeni
“interni” all’individuo nella sua unicità
sono “inconsci”. Per quanto ci consti
è la è prima volta che viene tematizzato
in modo preciso l’inconscio come
spazio vitale interiore, sottratto alla consapevolezza.
Il § VI si apre con la riaffermazione del
binomio piacere/dolore come rilevatore effettuale
del nostro stato psico-fisico:
Gli
psicologi e i fisiologi hanno definito, quasi
di concerto, le impressioni in
rapporto agli effetti generali nell’organo
sensorio, sotto due elementi che li
comprendono tutti: il piacere e il dolore. [140]
Il
rapporto tra il piacere e il dolore ha la
propria origine nella sensibilità e
determina, attraverso il sistema nervoso,
ogni forma del vivere che prescinda
dalla mera organicità, essendo essi alla
base degli equilibri dello stesso
esistere:
Non
mi attardo a dimostrare che l’uno e l’altro
concorrono ugualmente alla
conservazione dell’animale; poiché essi dipendono
dalla stessa causa e si
corrispondono sempre reciprocamente in equilibri
necessari. [141]
La
stessa conservazione dell’organismo animale
è legata alla loro azione sul
cervello quali sentinelle della sua integrità
e del suo benessere o malessere. Dal loro
rapporto e dagli equilibri che
vengono ad instaurarsi, in termini fisiologici
o patologici, dipende lo stato
dell’animale e lo ineriscono come tale:
Basti
rimarcare che la natura animale non è concepibile
senza piacere e dolore,
essendo i loro fenomeni essenziali alla sensibilità, come quelli della
gravitazione e dell’equilibrio delle grandi
masse dell’universo. Ma essi sono
accompagnati da circostanze particolari che
meritano attenzione. [142]
Sono
essi a costituire la sensibilità in termini generali, potendo essere
considerati degli analoghi della gravità
e dei rapporti dinamici tra le grandi
masse del cosmo, per quanto con specificità
particolari.
Tali specificità derivano dall’estrema
complessità del sistema nervoso che è qualcosa
di totalmente differente da ciò
che i meccanicisti avevano immaginato. Infatti:
Le
operazioni della sensibilità si possono considerare
realizzate in due tempi. Anzitutto
accade che le estremità nervose ricevono
e trasmettono i primi segnali a tutto
il sistema sensorio, oppure, come si vedrà,
ad uno solo dei sistemi isolati; in
seguito l’organo sensitivo reagisce su esse
mettendole in condizione di
ricevere tutte le impressioni. Così la sensibilità,
che in un primo tempo
pareva fluire dalla circonferenza al centro
[del sistema] torna nella seconda
fase dal centro alla circonferenza. [143]
Troviamo
qui teorizzato uno dei principali fondamenti
di tutti i sistemi biologici, la retroazione
(feed-back), che si manifesta in quell’avanti-indietro
complesso dove
l’effetto diventa causa di retro-effetti
nella propria causa. E poi la
precisazione di carattere fisiologico:
I
nervi esercitano su essi stessi una vera
reazione per produrre sentimento, simile
a quella che si ha tra i muscoli durante
il movimento. L’osservazione giornaliera
mostra che le cose vanno così relativamente
alle impressioni dall’esterno; si
può dimostrare che ciò avviene in modo non
differente per quanto riguarda gli
organi interni. [144]
Ciò
che a Cabanis preme sottolineare è la sostanziale
analogia fenomenica dei vari
sottosistemi che costituiscono l’organismo
animale, tra i quali quello
psico-sensorio è sicuramente il più complesso,
ma senza che ciò legittimi la
messa in campo di entità meta-fisiche come
l’anima. La sensibilità trova
piuttosto adeguata descrizione analogica
in riferimento a ciò che in natura
rivela elevata mobilità molecolare:
Sottolineiamo
allora che la sensibilità si comporta come
un fluido, la cui quantità totale è
determinata e che tutte le volte che si getta
con maggiore abbondanza in certi
canali diminuisce proporzionalmente negli
altri. Ciò diventa evidente nelle
emozioni violente, ma particolarmente nelle
estasi, dove il cervello insieme a
qualche altro organo simpatetico godano dell’ultimo
grado di energia e d’azione,
mentre la facoltà di sentire e muoversi,
e la stessa vita, paiono aver
abbandonato completamente tutto il resto.
[145]
Si
teorizza qui l’organismo vivente come presieduto
da un sistema energetico dove
una sorta di fluido vitale percorre e alimenta
in ogni sua parte l’organismo in
maniera equilibrata nella vita normale. Ma
nel momento in cui una forte
emozione altera tale equilibrio, quel fluido
va ad alimentare il canale vitale
che più ne richiede, come conseguenza del
bisogno energetico dovuto al sentimento
in corso. Si depauperano così gli altri canali
che alimentano altri organi, i
quali, diventando ipotonici perdono vitalità
a fronte dell’ipertonìa di quella
parte del cervello coinvolta dall’emozione.
Alla luce di ciò è evidente che l’estasi
(nel
suo generare uno “star-fuori” sia rispetto
alla coscienza e sia al resto dell’essere),
assorbendo molta energia, è il caso limite
di uno stato emozionale disturbato che
induce ad uno stato patologico generale.
La riflessione cabanisiana, quindi,
non solo sottolinea lo stato patologico dell’estasi
mistica, ma riduce a mero fatto
fisiologico ciò che da millenni è considerato
metafisico e determinato da agenti
trascendentali. Il Nostro va oltre nell’aggiungere
poco oltre:
Per
avere un’idea esatta di come si produce il
pensiero bisogna considerare il
cervello come un organo particolare destinato
specialmente a produrre; come operano
lo stomaco e gli intestini per la digestione,
come il fegato filtra la bile, le
parotidi e le ghiandole mascellari e sublinguali
producono i succhi salivari. [146]
L’affermazione
suona provocatoria ma non nuova; già Diderot
aveva parlato negli Elementi di
fisiologia del cervello come un “organo di secrezione”.
Ma Cabanis precisa:
Le
impressioni, arrivando al cervello, lo mettono
in attività, come gli alimenti
entrando nello stomaco […] La funzione propria del primo è di percepire
le
impressioni particolare, di conferir loro
segni, di combinarle, di compararle,
di estrarne giudizi e deduzioni. […] Concludiamo,
con la stessa certezza, che il
cervello digerisce in qualche maniera le
impressioni; che fa organicamente la
secrezione del pensiero. [147]
La
fisiologizzazione del pensiero ha il solo
scopo di sottrarlo alla
metafisicizzazione, e non quello riduzionistico
di materializzarlo secondo
principi meccanicistici. Ma ciò significa
innanzitutto separare la logica del
vivente da una certa rozzezza riduzionistica
che anche La Mettrie aveva abbastanza
cavalcato. Cabanis assume piuttosto il punto
di viste di Diderot e di Bordeu,
tendenti a fare del vivente una parte dell’essere del tutto “a sé” e come
tale da studiare con criteri particolari.
Ma siccome la sintonia tra il
filosofo e il fisiologo avevano prodotto
importanti passi avanti, ben oltre le
teorie vitalistiche della Scuola di Montpellier,
il Nostro fa suoi i punti
posti da Diderot per svilupparli secondo
il principio della sostanziale
connessione tra l’operare della medicina
e quello della filosofia. La Seconda
Memoria si conclude con un riassunto delle
tesi precedentemente esposte e con
una considerazione sui limiti del conoscere:
In
una parola, i fatti generali sono perché essi sono, e non si deve
più oggi pretendere di spiegare la sensibilità
con la fisica animale o la
filosofia razionale più di quanto si faccia
per l’attrazione nella fisica delle
masse. Peraltro, si avverte che queste differenti
questioni attengono a quelle
delle cause prime, che non possono esser conosciute per il
fatto stesso
che sono prime, e per molte altre ragioni
che non è qui il caso di sviluppare. [148]
Più
che un’elusione una delimitazione del campo
d’indagine al ”come” data
l’inconoscibilità del “che cosa”. Ma poi
Cabanis aggiunge una definizione della
sensibilità (nota 1) che ci fa capire meglio il suo atteggiamento:
La
sensibilità è il fatto generale della natura
vivente; è evidente che la sua
causa rientra nelle cause prime. Supponendo,
ciò che non è in effetti impossibile,
che si possa scoprire un giorno il legame
che la sensibilità può avere con
certe proprietà ben note della materia, resterebbe
tuttavia da scoprire da dove
derivano quelle stesse proprietà, e così
via. Ma è vero che seguendo questa
strada, e per arrivare a questa conclusione,
si saranno risolti problemi
importanti. [149]
La
conclusione è interlocutoria e possibilista
(non potrebbe essere altrimenti per
uno scienziato), ma si ha l’impressione che
egli sia scettico circa i passaggio
dalla materia inorganica a quella vivente
e che lo ritenga determinato da una
causa prima ma specifica del mondo vivente,
e che non può essere la stessa del
mondo inorganico.
Le Memoria dalla Terza alla Nona affrontano
approfondimenti specifici che rivestono per
la nostra indagine minore interesse,
saltiamo pertanto alla Decima che reca il
titolo: Considerazioni relative
alla vita animale, alle prime determinazioni
della sensibilità, all’istinto,
alla simpatia, al sogno e al delirio.
È la parte dei Rapports nella quale è posto in qualche modo un
pre-concetto di di inconscio, di cui troviamo traccia anche in questo
passaggio:
Per
quanto senza dubbio verificato che la coscienza
delle impressioni presuppone
l’esistenza e l’azione della sensibilità,
la sensibilità non è meno presente nei
numerosi casi in cui l’io non ne percepisce
per nulla la presenza; essa non ne
è meno determinata in un gran numero di funzioni
importanti e regolari, senza che
l’io riceva alcun segnale dalla sua azione.
[150]
L’io
cosciente non è sempre in attività per dirci
ciò che accade “in noi”, sicché di
ciò che produce la sensibilità vi è molta
parte che sfugge alla consapevolezza.
Posto che noi abbiamo sicuramente un “centro
generale” come sede principale
dell’io, della volontà e della coscienza, è evidente
che possono
esistere degli io “parziali” dei quali non
abbiamo alcuna nozione:
Ma
se l’io non esiste che nel centro comune, e per
mezzo delle impressioni
che gli vengono trasmesse, è evidente che
quelle che vi arrivano gli divengono
percepibili; ma ve ne sono, al contrario,
un gran numero che gli restano
assolutamente estranee. [151]
Dunque
la nostra vita reale si sviluppa in parte
non soltanto fuori del nostro
controllo, ma anche della nostra consapevolezza,
poiché vi sono impressioni che
vanno ad interessare dei punti del nostro
essere non individuabili.
Qui è anche notevole lo sviluppo
dell’argomento della simpatia, il primo sentimento
preso in considerazione, relativamente
al quale si afferma:
La
simpatia, in generale, deriva dal sentimento
dell’io, della coscienza, almeno
vaga, della volontà: essa è anche necessariamente
inseparabile dalla coscienza
e da quel sentimento. Noi non riusciamo a
condividere gli stati d’animo di
chiunque, a meno che non supponiamo in lui
una facoltà di sentire come noi. In
effetti, senza ciò, come concepire degli
affetti? Per supporre che egli senta,
occorre necessariamente prestargli un io. [152]
Siamo
qui molto oltre le generali concezioni fisiologiche
esposte in precedenza, ma stiamo
entrando in un ambito in cui un’io, l’individualità considerata, esce
totalmente dall’ambito di un generico “vivere
è sentire”. È “quella” vita
particolare e “quel” sentire particolare
che diventano nuovi oggetti di studio.
Per la prima volta, in modo chiaro (e dopo
la cassazione dell’anima come essenza
divina extra-biologica), un’entità specifica,
unica e differente da ogni altra,
si pone all’attenzione. Cabanis aggiunge
che i poeti, per interessarci sugli
oggetti che cantano, devono attribuir loro
sentimenti umani per consentirci di
riconoscerci in essi proprio in termini di
simpatia, e questo è l’elemento
paradigmatico del “rapporto sentimentale”
tra degli io reali o tra entità
di fantasia che per esser colte “con sentimento”
devono ricevere in qualche
modo delle identità.
Nel 1804 il Nostro dà alle stampe un saggio
dal titolo Coup d’œil sur les révolutions et sur la
riforme de la médecine,
nel quale egli tratta di gnoseologia e riespone
la propria metodica con
importanti precisazioni circa l’“analisi”
quale fondamento di ogni conoscenza scientifica.
Si comincia col contestare la metafora di
Condillac (Logica, I, II), che
considera il conoscere come il frutto dell’improvvisa
apertura di una finestra su
un paesaggio sconosciuto, e in base alla
quale la conoscenza si darebbe
all’improvviso, tutt’intera. Cabanis obietta
che la finestra non deve aprirsi una sola
volta, bensì molte volte affinché il
paesaggio si possa ritenere conosciuto; e
che il processo conoscitivo, essendo
sempre complesso, deve avvenire per gradi.
Perciò:
Dopo
aver ricevuto la prima impressione dell’insieme,
il suo occhio distingue le
parti; le esamina separatamente, le confronta,
cerca di fissare i loro rapporti; poi li riunisce di nuovo
in
uno sguardo che li abbracci contemporaneamente
ricomponendo la visione globale,
di cui avrebbe avuto un’idea soltanto vaga
se non ne avesse operata tale specie
di dissezione. [153]
Alla
semplicistica “visione” cognitiva condillachiana è qui sostituita un procedimento analitico
accurato,
che necessita di un metodo del procedere:
Chi
non vede che in queste operazioni successive,
il cui scopo e risultato sono di
fornire l’esatta descrizione del paesaggio,
c’è decomposizione e ricomposizione
dell’oggetto; che il giudizio portato sui
rapporti tra le diverse parti dà
luogo a una deduzione di idee e di conseguenze
da esse ricavate. Infine, se
l’analisi del paesaggio dura abbastanza a
lungo, affinché ogni sua parte sia
esaminata sotto differenti gradi di illuminazione
solare, seguendo la
successione dei mutamenti, oppure dei fenomeni
relativi al loro stato
percepibile, l’esposizione non sembra configurarsi
come un’analisi storica?
[154]
La
conoscenza è un processo “nel tempo”, che
storicizza l’analisi (diacronica) di
una serie di fasi d’approccio e le ricompone
in un quadro cognitivo sincronico.
Ma nel Coup d’œil troviamo anche ulteriori
precisazioni sul rapporto fisico/morale,
ribadendo che il medico deve essere
anche filosofo, poiché la morale è implicata
in una medicina pragmatica, sicché
essa più che accompagnare dev’essere “sorella”
della medicina. E siccome lo
stato del corpo può dipende da quello mentale:
Gli
errori dell’immaginazione, o quelle delle
inclinazioni e del desiderio, sono
evidentemente la causa di quasi tutti i mali
dell’uomo. Le sue malattie stesse
dipendono quasi sempre dai suoi errori o
da quelli della società, e sempre esse
possono esser aggravate da stati anomali
della sfera morale. Quanto i giudizi falsi
e tendenze sviate possono turbare il funzionamento
degli organi! Quanto
abitudini viziose influenzano tutte le funzioni
corporee! E se è vero che il
crimine è sovente, come la pazzia, una malattia
psichica, allo stesso modo le
malattie sono il prodotto di una follia che,
nella sua generalità, può portare
disordini in tutte le funzioni vitali, o
tendenze criminose che non sono
evidentemente che una loro varietà. [155]
Abbiamo
qui una psichizzazione nosologica evidentemente
eccessiva, ma ciò che interessa
cogliere è la tematizzazione della malattia
psicosomatica in genere e persino l’attribuzione
della tendenza al crimine come un male di
origine psichica (il che è vero, ma
solo in parte!). L’impressione che se ne
ricava è che il pacato Cabanis qui
intenda farsi provocatore contro inveterate
teorie che ritenevano i turbati
psichici o tarati geneticamente o indemoniati
ed i criminali dei malvagi deviati
per non avere il sano e santo “timor di Dio”.
Il medico che non sappia «leggere nel cuore
dell’uomo» è un cattivo medico, come lo è
quello che non sa capire già dal modo
in cui si esprime il malato «uno spirito
in disordine o un cuore ferito» [156]. Vi
sono malattie che sono eminentemente di carattere
”morale” e il medico che non
lo capisce è difficile che riesca a guarire
l’ammalato. Ma può accadere anche
il contrario ed essere il male organico a
determinare lo psichico:
Come
potrebbe calmare tale spirito agitato, quell’anima
che si consuma per una
malinconia inesauribile, se ignora le lesioni
che possono occasionare tali
disordini morali e a quali disordini funzionali
si legano? Come si può
riaccendere la voglia di vivere in un corpo
indebolito o divorato dall’angoscia,
se si ignorano i dolori che si devono innanzitutto
lenire e quali chimere si
devono dissipare? [157]
Il
Nostro, che risulta qui perfettamente consapevole
della malattia che oggi chiamiamo
depressione, intende sottolineare non solo le connessioni
tra lo
psichico e il somatico, ma anche che il medico
incompetente o disattento possa
scambiare la causa con l’effetto, e quindi,
sbagliando diagnosi, precludersi
ogni possibilità di terapia adeguata. In
ogni caso, ciò che ci importa rilevare
è che Cabanis, oltre a proporre una metodica
medica analitica e sistematica, introduce
anche nuovi criteri eziologici, con un ampliamento
importante dell’orizzonte
gnoseologico e nosologico.
Passiamo ora ad occuparci della Lettera
a M.F.[Charles Fauriel] sulle cause prime, del 1806 o poco dopo,
nella quale Cabanis rivela un ripensamento
circa il suo materialismo a favore di
una posizione vitalista ma di tipo pluralistico
e non monistico come è spesso
formulata. Relativamente alle religioni istituzionalizzate
egli riconosce che «All’origine
delle società quell’influenza [delle religioni]
contribuì a riunire gli uomini
e rinserrare il comune legame », per quanto
precisi: «Se dunque si pone in un
giudizio imparziale il bene e il male che
le religioni positive hanno fatto
agli uomini, il male senza dubbio le riguarda
di molto » [158]. Ma
anche la nascita di una religione ed i motivi
che la fanno abbracciare non sono
razionalizzabili e spiegabili, poiché: «
Sin qui noi abbiamo considerato l’uomo
come un essere giudicante e ragionante; ma
esso è assai più, senza dubbio, un
essere sensibile e dotato di immaginazione.»
[159] La
fede può contare su cause emozionali non
razionalizzabili, che vanno evidentemente
a colpire centri di sensibilità che
sfuggono al controllo della ragione, generando
dei bisogni che non hanno nulla
a che fare con quelli fisiologici. Qui il
fisiologo pare arrendersi
all’evidenza che l’indagine medica non è
in grado di penetrare nelle profondità
della nostra mente, dove sussistono motivazioni
inconsce sulle quali la
medicina in senso stretto ha poco da dire.
Ma se è così, occupandosi la psichiatria
dell’anormalità mentale, e le motivazioni
religioso-metafisiche attenendo alla normalità,
è la filosofia (in quanto psicologia) a doversene
occupare.
Si tratta di un territorio antropologico
dove
filosofia e teologia sono limitrofe, e dove
questa può giocare le sue carte
irrazionalistiche. Se: «Sin qui noi abbiamo
considerato l’uomo come un essere
giudicante e ragionante; ma esso è assai
più, senza dubbio, in quanto essere
sensibile e dotato di immaginazione » è questo
il territorio dove la ragione
cessa di agire ed entra in azione la fantasia,
della quale ci si deve in qualche
modo occupare. Ma allora, quale disciplina
deve entrare in azione? Cabanis non
ce lo dice, lasciandoci intendere che possa
essere una sorta di “medicina
filosofica” (la psicologia). Dalle considerazione
su questo territorio sconosciuto
dell’inconscio, egli passa ad occuparsi di
ontologia, cominciando con
l’osservare:
È
ugualmente certo che l’universo considerato
sotto il rapporto delle forze che
lo muovono e lo mantengono nella sua eterna
attività, non potendo essere comparato
a nulla, tali forze non si rapportano che
ad esso stesso, e non possono essere
veramente studiate che negli effetti osservabili
come risultati delle loro
azioni. [160]
Ancora
una volta: le cause originarie che muovono
il cosmo sono “proprie” di esso e
noi possiamo soltanto studiarne gli effetti
senza nulla poter inferire circa la
loro natura. Ma ciò non significa che ci
si debba astenere dal far congetture,
mentre il Nostro esclude anche l’adesione
a qualche weltanschauung nota:
Io
scarto dunque termini, quasi privi di senso,
come deismo, ateismo,
spiritualismo, materialismo, e tutti quelli che ne derivano o che
hanno con essi qualche rapporto oggettivo
e di significato; né utilizzerò
quello di Dio, poiché il suo senso non ne
è mai stato determinato e
circoscritto con esattezza. [161]
Del tutto problematica resta l’ipotesi di
una “causa universale” dell’essere per il fatto stesso di essere
universale e non riferibile a nulla di noto:
essa, in qualità di causa prima,
non si rapporta a nulla. Ma lo spirito dell’uomo
non si ferma a quel limite: è
nella sua natura di collegare e raggruppare
tutti gli oggetti delle sue ricerche.
[162] L’uomo,
ci dice Cabanis, pur essendo consapevole
dei suoi limiti gnoseologici non
riesce ad astenersi dal creare analogie e
trarre induzioni dal conosciuto in
direzione dell’inconoscibile. Ed ecco il
punto in cui egli pare aderire al punto
di vista vitalista: «È evidente, inoltre,
che il principio dell’intelligenza è
sparso ovunque, poiché ovunque la materia
tende senza sosta a organizzarsi in
esseri sensibili.» [163].
Però questo è materialisticamente inserito
nel campo di fenomeni reali di
attrazione e affinità chimica, ed egli aggiunge:
Sia
quel che sia, non si può disconoscere che
delle forze attive animano tutte le
parti della materia, nulla è più stupefacente
e più certo. Non soltanto esse la
tengono in uno stato di moto continuo, esse
le fanno anche subire ogni tipo di
trasformazione, ma queste trasformazioni
seguono dei piani d’azione molto
ingegnosi, molto complicati, molto diversificati,
e tuttavia costanti e
uniformi, ciascuno nel suo genere e nella
in una sua specificità, cioè operando
con gli stessi mezzi, manifestando gli stessi
fenomeni, tendenti allo stesso
scopo. [164]
L’unitarietà
del mondo vivente è solo fenomenica e non
ontologica, ma rivela mezzi comuni,
processi comuni e soprattutto uno scopo comune:
la vita. Non è tutto:
Infine,
queste forze fanno nascere, sviluppano e
conducono al termine della loro perfezione
e della loro maturità, degli esseri sensibili
e per di più intelligenti. Ora,
lo confesso, mi pare che a numerosi filosofi,
ai quali peraltro non si possono
imputare eccessi di credulità, accada che
l’immaginazione si rifiuti di
concepire come una causa o delle cause, sprovviste
d’intelligenza, possano
dotarne i loro prodotti. Io penso nello specifico,
col grande Bacone, che
bisogna essere altrettanto creduli per rifiutarla
in modo formale e positivo
alla causa prima, quanto credere a tutte
le favole della mitologia e del
Talmud. [165]
Il materialista Cabanis che sin’ora si era
apparentemente
mantenuto, col pluralismo causale, su una
linea ateistica, rilascia a questo
punto della Lettre la sua confessione di credente in un Dio-Intelligenza,
aggiungendo:
Quest’esito
del ragionamento, che sarà facile rafforzare
entrando nell’esposizione
dettagliata dei fenomeni, insistendo sull’ammirevole
coordinazione che li lega
tra loro e fa concorrere tutte le parti di
ognuno al fine prescritto. Mi sembra
dunque condurci a questo risultato, che lo
spirito dell’uomo, in base alla sua
maniera di sentire e ragionare (non possiamo
servirci di un altro strumento nel
nostro esame) non può astenersi dal riconoscere
nella forze attive
dell’universo intelligenza e volontà. [166]
Il
Nostro, che all’inizio della lettera faceva
pensare di propendere verso il deismo,
ora, introducendo il concetto di volontà,
si getta inopinatamente nelle braccia
del monoteismo, precisando che i concetti
di intelligenza e volontà sono
inseparabili e che quindi un’intelligenza
impersonale (come concepita dal panteismo
e in qualche misura anche dal deismo) appare
inconcepibile. Ma egli vuole anche
subito farci capire che la sua posizione
non è cristiana, nel negare attributi «i
più indegni per l’Essere-Supremo » [167] e
negando inoltre ad Esso anche l’infinitezza,
poiché: «la parola infinito,
e tutti i suoi derivati dovrebbero allo stato
attuale del lumi essere banditi
dal linguaggio filosofico. Essa è priva di
senso poiché non possiamo concepire
che cosa significhi. Senza dubbio la potenza
della causa prima è immensa […] »
Relativamente agli attributi di giusto e
buono
dell’Essere Supremo il Nostro ne tenta quindi
una spersonalizzazione,
affermando:
La
giustizia e la bontà di questa causa sono
nelle leggi dell’universo: la
giustizia nel compimento rigoroso delle stesse
leggi; la bontà nell’ordine che
ne risulta, nei beni ch’esse spandono su
tutti gli esseri, nei doni che esse prodigano
loro; e, in riferimento alla razza umana,
nelle facoltà più delicate del
sentire, e nei piaceri indefiniti relativi
all’esercizio delle più nobili
funzioni. Ma è fantasia del tutto assurda
supporre nella fonte di tutti questi
fenomeni, così regolari e costanti, una bontà
o una giustizia fatti per uscire
dall’universalità che li caratterizza, ed
anche di piegarli a tutti i casi particolari
che la parzialità e la fretta che ispirano
le corte vedute e le passioni
dell’uomo. Se si riflette attentamente si
vedrà che nulla potrebbe fornire armi
più potenti a coloro che non vogliono vedere
nell’universo che un meccanismo
cieco, senza un disegno definito e voluto.
[168]
Il
quadro teologico è ora definito chiaramente
come una forma di teismo non
lontana da quella di Voltaire, dove la principale
preoccupazione è di negare
l’esistenza del caso, ma neppure di affidare
alla necessità pura il corso
dell’universo. È il ragionevole compromesso
di chi non intende aderire alla
teologia di un Dio-Volontà tradizionale,
ma neppure rinunciare a una serie di
suoi elementi che lo oppongano all’ateismo.
Difficile dire se si tratti di una
conversione o di un atteggiamento teologico
occultato nel pensiero esplicito
cabanisiano. Va comunque ribadito che il
materialismo in se stesso (lo abbiamo
constatato in più occasioni) non è per nulla
a-teologico: lo diventa soltanto
nel momento in cui, ammettendo il caso, nega risolutamente sia il
Dio-Volontà che il Dio-Necessità ed esce
totalmente dall’ambito della teologia
che essi definiscono.
[1] S.Moravia, Il tramonto dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1986,, pp.445-451.
[2] Ivi, p.25.
[3] Ivi, p.46.
[4] L.Bàccolo, Biografia del Marchese di Sade, Milano, Garzanti 1986, pp.128-129.
[5] Ivi, p.15.
[6] G.Lely, Vita del Marchese de Sade, Milano, Feltrinelli 1983, p.50.
[7] L.Bàccolo, Biografia del Marchese di Sade, cit., p.23.
[8] Ivi, p.24. Lely, p.60.
[9] Ibidem.
[10] Lely, cit., pp.67-71.
[11] Ivi, pp.71-73.
[12] Ivi, 112-117..
[13] Ivi, pp.126-137.
[14] Bàccolo, pp.42-43.
[15] Lely, p.159.
[16] Ivi, p.167.
[17] Ivi, pp.180-182.
[18] Bàccolo, p.61.
[19] Ivi, p.65.
[20] Ivi, p.69.
[21] Ivi, p.78.
[22] Ivi, p.81.
[23] Ivi, p.82. Lely, cit., p.227
[24] Ivi, p.93.
[25] Ivi, p.89.
[26] Ivi, p.90.
[27] Ivi, p.96
[28] Ivi, p.100.
[29] Ivi, pp.100-101. Lely, pp.236-237.
[30] Lely, p.239.
[31] Ivi, pp.241-243
[32] Ivi, pp.256-257.
[33] Bàccolo, p.113
[34] Lely, p.345.
[35] Bàccolo, pp.131-132.
[36] Ivi, p.135
[37] Ivi, p.136.
[38] Ivi, p.146.
[39] Ivi, p.148.
[40] Ivi, p.149.
[41] Ivi, pp.149-150.
[42] Ivi, pp.159-160.
[43] Ivi, p.161. Lely, pp.440-441.
[44] Lely, p.404-405.
[45] Ibidem.
[46] D’Holbach, cit., p.107.
[47] E.Burke, A
philosophical Inquiry into the Origin of Our ideas of the Sublime and the
Beatiful, cit: in: E.Franzini,
L’estetica del Settecento, Bologna, Il Mulino, p.92.
[48] D.A.F. de Sade, Opere, Milano, Mondadori 1988, pp.12-13.
[49] Ivi, p.15.
[50] D.A.F. de Sade, Justine, in Opere, cit.,
pp.406-407.
[51] Ivi, p.415.
[52] Ibidem.
[53] Ivi, p.465.
[54] Ivi, p.475.
[55] Ivi, p.477.
[56] ivi, p.479.
[57] Ivi, p.491.
[58] Ivi, pp.512-513.
[59] Ivi, p.520.
[60] ivi, p.523.
[61] Ivi, p.525
[62] Ivi, p.527
[63] Ivi, p.537.
[64] Ibidem.
[65] Ivi, p.551.
[66] Ivi, p.567.
[67] Ivi, pp.569-570.
[68] Ivi, p.570.
[69] Ivi, p.572.
[70] Ivi, p.574.
[71] Ivi, pp.574-575.
[72] Ivi, p.617.
[73] Ibidem.
[74] Ivi, pp.630-631.
[75] D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, in Opere, cit., p.27.
[76] Ivi, p.30.
[77] Ivi, p.30.
[78] Ivi, p.31.
[79] Ivi, p.34.
[80] Ivi, p.53.
[81] Ivi, pp.50-53.
[82] Ivi, p.57.
[83] Ivi, p.63.
[84] Ivi, p.84
[85] Ivi, p.83.
[86] Ivi, p.84.
[87] Ivi, p.88.
[88] Ivi, pp.94-95.
[89] Ivi, p.103.
[90] Ivi, p.104.
[91] Ivi, p.111.
[92] Ivi, p.158.
[93] Ivi, p.159.
[94] Ivi, p.166.
[95] Ivi, p.172.
[96] ivi, pp.178-179.
[97] Ivi, p.183.
[98] Ivi, pp.184-185.
[99] Ivi, p.186.
[100] Ibidem.
[101] Ivi, p.189.
[102] Ivi, p.193.
[103] Ivi, p.195.
[104] Ivi, p.216.
[105] Interpretazioni di Sade, a cura di V.Barba, Roma, Savelli 1979, p.71.
[106] Ivi, p.111.
[107] Ivi, p.112.
[108] Ivi, p.113.
[109] P.Klossowski, Sade prossimo mio, Milano, ES 2003, p.85..
[110] Ivi, p.87.
[111] Ibidem.
[112] Ivi, p.89
[113] Ivi, p.25.
[114]
M.Blanchot, Lautréamont e Sade, Bari, Dedalo 1974, p.92.
[115] M.Blanchot, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi 1977, p.297.
[116] R.Barthes, Sade, Fourier, Lodola. La scrittura come eccesso, Torino, Einaudi 1977, pp. XXI-XXV.
[117] Ivi, p.113.
[118] L.Baccolo, Che cosa ha veramente detto de Sade, Roma, Ubaldini 1970, pp.107-109.
[119] P.Cabanis, Osservazioni sugli ospedali, in: S.Moravia, Filosofia e scienze umane nell’età dei lumi, Milano, Sansoni 2000, p.230..
[120] Ivi, p.232
[121] S.Moravia, Il pensiero degli Idéologues, Firenze, La Nuova Italia 1974, p.15.
[122] Ivi, p.181n.
[123] P.Cabanis, Rapports du phisique et du
morale, in: Œvres philosophiques de Cabanis, vol.I, Paris, Presse
Universitaire de France 1956, p.113.
[124] Ivi, p.115.
[125] Ivi, p.129.
[126] Ivi, p.132.
[127] Ivi, p.133.
[128] Ivi, pp.134-135.
[129] Ivi, pp.138-139.
[130] Ivi, p.139.
[131] Ivi, p.140.
[132]
Ivi, pp.140-141..
[133] Ivi, p.141.
[134] Ibidem.
[135] Ivi, p.142.
[136] Ivi, p.157.
[137] S.Moravia, Il pensiero degli Idéologues, cit., p.188.
[138] P.Cabanis, Rapports du phisique et du
morale, cit., p.168.
[139] Ivi, p.173.
[140] Ivi, p.190.
[141] Ibidem.
[142] Ibidem.
[143]
Ivi, p.191.
[144] Ivi, p.191-192.
[145] Ivi, p.192.
[146] Ivi, p.195.
[147] Ivi, pp.195-196.
[148] Ivi, p.198.
[149] Ibidem.
[150] Ivi, pp.535-536.
[151] Ivi, p.538.
[152]
Ivi, p.568.
[153] P.Cabanis, Coup d’œil sur les
révolutions et sur la riforme de la médecine, in: Œvres philosophiques de Cabanis,
cit., vol.II, p.187.
[154] Ibidem.
[155] Ibidem.
[156] Ibidem.
[157] Ibidem.
[158] P.Cabanis, Lettre a M.F. sur le cause
premières, in: in: Œvres philosophiques de Cabanis, cit., vol.II,
p.261.
[159] Ivi, p.265.
[160] Ivi, pp.269-270.
[161] Ivi, pp.271-272.
[162] Ivi, pp.274-275.
[163] Ivi, p.277.
[164] Ivi, p.278.
[165] Ibidem.
[166] Ibidem.
[167]
Ivi, p.279
[168] Ivi, pp.279-280.