XV. Paul-Henry Thiry d’Holbach
15.1 Il materialista gentiluomo
D’Holbach è importante nella nostra ricerca
per due ragioni fondamentali. La prima, perché
è il pensatore che più di ogni
altro (almeno nel primo periodo della sua
produzione) ha posto chiaramente
l’ateismo alla base del suo orizzonte ontologico
ed esistenziale. La seconda,
perché è l’illuminista che più compiutamente
ha riassunto le varie istanze
dell’epoca in termini etici e politici chiari
e definiti. Esaminando la sua
vasta produzione e conducendo un’analisi
attenta sui singoli testi, non si fa
fatica a rendersi conto che è un forte afflato
morale a guidare il lavoro di
d’Holbach e che esso è alla base di tutto
il suo pensiero. La sua ontologica
materialistica per contro, dispiace dirlo,
si rivela da un punto di vista
teorico debole e carente, ma essa costituisce
la base su cui l’afflato etico
del Nostro si dispiega; una base sempre presupposta
e mai messa in discussione da
cui emerge ogni sua considerazione etico-politica.
E tuttavia essa pare omessa
(ma forse solo per opportunità) negli scritti
posteriori al 1772, man mano che
d’Holbach definisce meglio il suo pensiero
etico, le sue intenzioni e i suoi
fini, che sono precipuamente morali. E però
è proprio dall’opera più
discutibile, ma anche più famosa, il Sistema della natura, che iniziamo
la nostra analisi, in quanto è quella che
vede meglio teorizzato l’ateismo del
Nostro. Ci correrà quindi l’obbligo di mettere
in evidenza le carenze teoriche
del Sistema holbachiano, senza che nulla venga tolto
alla sua carica
morale e nulla possa sminuire la portata
del suo pensiero.
Paul Henry Dietrich d’Holbach nasce nel
1723 quale rampollo di una famiglia nobile
del Palatinato, che abbandonerà
presto per passare in Olanda, vivendo a Heesen
e poi a Leida, dove frequenterà
la locale università, trasferendosi infine
a Parigi. Nel 1750 apre la sua casa
di città e la sua dimora di campagna a letterati,
filosofi e scienziati per
discutere degli argomenti più differenti
e anticonvenzionali. Ha così inizio quel
“salotto” culturale dove si riunisce periodicamente
un gruppo di pensatori che
diverrà famoso quanto deprecato dalle frange
più conservatrici della cultura
francese, e che un deista anti-ateo come
Rousseau chiamerà sprezzantemente la coterie
d’Holbach (la “cricca” di d’Holbach). Nel 1753 eredita
una grossa fortuna
che gli permette di vivere di rendita e dedicarsi
allo studio. La sua prima
attività, tra il 1751 e il 1760, consiste
nella traduzione di opere
scientifiche relative alla chimica e alla
mineralogia, nonché nella stesura di
numerose voci di carattere scientifico per
l’Encyclopedie. Nel decennio
successivo egli orienta i suoi interessi
in senso filosofico; traduce
inizialmente vari testi inglesi di ispirazione
deista, poi comincia a scriverne
di propri, ma sotto pseudonimo, per non incappare
nelle tenaglie della censura.
A questo periodo risale Le christianisme dévoilé del 1761, un’opera
fortemente anticristiana, che rende subito
chiaro il taglio blasfemo che
d’Holbach conferirà a tutte le sue ricerche
e formulazioni successive.
Nel 1770 riesce a pubblicare ad Amsterdam
il Système de la nature, ou Les lois du monde
physique et du monde moral,
suo capolavoro ed opera fondamentale nell’enunciazione
del suo pensiero. Appena
due anni dopo, nel 1772, esce Le bon sens, ou Idées naturelles opposées
aux
idées surnaturelles, dove sono ripresi molti temi del Système, ma
accentuandone ulteriormente i contenuti anticristiani.
Spostando
successivamente i suoi studi nel campo morale
pubblica nel 1776 La moral
universelle, ou Les Devoirs de l’homme fondés
sur sa nature. Come per
Meslier, d‘Holbach è fatto oggetto di deprecazione
tanto dal mondo cristiano
quanto da quello deista, diventando il suo
pensiero quasi “canonico” per
indicare l’ateismo del Settecento, per quanto
intriso di stoicismo e di
spinozismo. Ciò non deve sorprendere, poiché,
come è già stato notato, il
concetto di “ateismo” rimane allora come
oggi fortemente ambiguo, e identificato
molto spesso come semplice negazione del
Dio della Bibbia. Ma ciò che colpisce in
d’Holbach è anche il dogmatismo, che lo distingue
nettamente dal pensiero di un
ateo più autentico come Lamettrie, che è
relativista. Tanto La Mettrie è
“leggero” e spesso ironico quanto d’Holbach
è “pesante”, sistematico e assolutista, con una forte carica
ideologica.
La fragilità ateistica del sistema
d’holbachiano sta soprattutto nel fatto che
egli, per eliminare dall’orizzonte
la trascendenza e ridurre tutto all’immanenza
della materia, si vede costretto
a introdurre un concetto di “attività” di
essa ingenuamente fondato su fenomeni
come l’autogenerazione biologica o l’autocombustione
degli infiammabili, intese
come testimonianze della “dinamica intrinseca”
della materia stessa, che sarebbe
quindi auto-creativa. Concetto molto ambiguo
per una teoria che si pretenda
atea, in quanto suppone due aspetti del pensiero
arcaico e antico tipicamente
teologici, quello dell’ilozoismo e quello
del vitalismo. In altre parole,
d’Holbach, non disponendo di elementi scientifici
probanti (all’epoca ancora
ignoti), opera una forzatura sul piano filosofico
per riuscire a dare coerenza
e finitezza a un “sistema”, laddove il pensiero
illuministico più tipico è
sempre a-sistemico. Quel che cementa e definisce
il tutto, offrendo a d’Holbach
i bulloni e i dadi per bloccare la costruzione
in tutto unico solido ed
omogeneo, non è altro, ancora una volta,
che la “necessità” del determinismo
teologico. Rifacendosi agli Stoici e a Spinoza
(senza citarli) d’Holbach ne
riprende in pieno la teologia, ma operando
una de-teologizzazione strumentale.
In altre parole, d’Holbach è sicuramente
anti-cristiano, come lo erano i deisti
e i panteisti, ma non per questo è (da un
punto di vista strettamente
filosofico) altrettanto a-teo, proprio perché
il ricorso al necessitarismo, e
quindi al determinismo, lo fa ripiombare
nell’ambito di Parmenide, di Platone,
di Aristotele, di Plotino, di Bruno e di
Spinoza, anticipando nello stesso tempo Fichte, Schelling ed Hegel
e i loro epigoni.
Detto questo, non risulta sminuita la
portata dell’ateismo holbachiano nella cultura
europea del Settecento, anche
perché nessun altro è riuscito a costruire
una “sistema” ateistico tale da
imporsi all’attenzione. Ma ciò ad un prezzo
piuttosto alto in termini filosofici,
cosa però completamente sfuggita ai suoi
contemporanei e che non poteva che
sfuggire in una situazione fortemente intrisa
di ambiguità teologica. Non é
allora solo un caso se la figura di d’Holbach
e il sistema da lui elaborato
sono diventati i simboli dell’ateismo settecentesco,
finendo per costituire un
punto di riferimento irrinunciabile per chi
si riconosce nell’ateismo non tanto
per la sua portata filosofica quanto per
quella morale, essendo egli riuscito
ad espungere totalmente dal suo sistema ogni
trascendenza, cassarne la morale
dottrinaria, e delineare una morale atea
fondata unicamente su valori civili e
solidaristici. Con ciò risultano cassate
le mitologie e le superstizioni della
religione, liberando l’uomo dalle catene
fideistiche e mostrandogli la sua
natura animale e le dinamiche del suo agire.
Per molti versi d’Holbach anticipa
anche il concetto marxiano di religione come
“oppio dei popoli”, poiché la
religione nasce per il Nostro dalla paura
e dall’angoscia, costituendo
l’anestetico e il mezzo terapeutico al servizio
del potere che svia l’uomo
dalla consapevolezza di sé, potremmo dire
“lo estrania”, appagandolo e
tranquillizzandolo. Si comprende bene come
se sul piano ontologico l’ateismo di
d’Holbach può rivelarsi inconsistente, su
quello psicologico centra invece
perfettamente il problema, mettendo in evidenza
una fenomenologia del religioso
che ha come punti di partenza la paura e
l’angoscia, fenomeni antropici che già
Epicuro e Lucrezio avevano, ma che solo Feuerbach
riuscirà a spiegare
adeguatamente.
15.2 Ontologia e gnoseologia.
Occuparci
ora in modo più puntuale dell’ontologia holbachiana
qual è esposta nel Sistema
della natura, opera ponderosa che, contraddice la diffusa
avversione del
pensiero illuministico nei confronti di ogni
“spirito di sistema” in nome dello
“spirito sistematico” quale modo di approccio
gnoseologico assunto in generale
dai philosophes nel loro contrapporsi ai sistemi metafisici.
D’Holbach,
all’opposto, pare resuscitare (e in tal senso
quasi anti-illuministicamente) la
“costruzione” di un sistema che è sì anti-spiritualistico
e anti-teologico, ma
non per questo anti-metafisico. Se il pensiero
illuministico ha combattuto ogni
“definizione”, avendo in Diderot il campione
di questa elasticità di pensiero,
quello holbachiano è il tentativo di “definire”
un sistema rigido. Già nell’incipit
del primo capitolo d’Holbach enuncia in modo
chiaro tre punti fondamentali: 1.
la contrapposizione gnoseologica tra ciò
che proviene dall’”esperienza” e ciò è
frutto di”immaginazione”; 2. l’origine dell’uomo
“dalla” natura-materia, il suo
essere “in” essa e il dipendere completamente
“dalle” sue leggi; 3.
l’impossibilità teorica di ogni evasione
dalla sfera del sensibile, costituita
da un “grande tutto” deterministico che implica
l’inesistenza di ogni libertà
di pensiero e di azione per l’uomo. Premesse
puntualizzate nei seguenti
termini:
Gli uomini si inganneranno sempre quando
abbandoneranno l’esperienza per sistemi partoriti
dall’immaginazione. L’uomo è
l’opera della natura, esiste nella natura,
è sottomesso alle sue leggi, non può
affrancarsene, non può, anche col pensiero,
uscirne; vanamente il suo spirito
vuole slanciarsi al di là dei limiti del
mondo sensibile, è sempre costretto a
rientrarvi. Per un essere formato dalla natura
e circoscritto da essa, non
esiste alcunché al di là del grande tutto
di cui fa parte e di cui sente le
influenze; gli esseri, che si suppongono
al di sopra della natura o distinti da
essa, sono sempre chimere, delle quali non
sarà mai possibile formarsi delle
idee veritiere, non più che del luogo che
occupano e del loro modo di agire. [1]
Dunque
le idee veritiere sono possibili soltanto
a partire dall’esperienza sensibile [2] degli
enti di natura ed ogni altra elucubrazione
al di fuori di essa è pura chimera. Qui
non solamente si stigmatizza ogni fantasia
umana come produttrice di idee
“false”, in quanto eccedenti la sfera del
sensibile, ma si definisce anche
l’ambito di quelle “vere” . Nella nota a. che segue d’Holbach precisa
che la fantasia è la facoltà più forte e
viva nell’uomo e che «L’immaginazione
è madre della speranza e dell’illusione.»,
due sentimenti responsabili
dell’alienazione dell’uomo dalla realtà fisica
e quindi da ogni verità.
Sovvertendo così l’orizzonte antropologico
posto dalla religione cristiana che pone
una trinità di virtù teologali (fede-speranza-carità) con la speranza
quale elemento centrale , noi abbiamo qui
la chiusura ad ogni orizzonte
extra-materiale ed escatologico tale da indurre
illusioni ed erramenti. Da ciò
l’ammonimento:
Cessi dunque l’uomo di cercare fuori del
mondo
che abita degli esseri che gli procurano
una felicità che la natura gli
rifiuta; studi questa natura, apprenda le
sue leggi, contempli la sua energia
ed il modo immutabile in cui essa agisce;
applichi le sue scoperte alla sua
felicità, si sottometta in silenzio a leggi
cui niente può sottrarlo; si
disponga ad ignorare le cause avvolte per
lui in un velo impenetrabile, subisca
senza lamentarsi gli arresti di una forza
universale che non può ritornare sui
suoi passi e che non può mai allontanarsi
dalle regole che la sua essenza le
impone. [3]
Il passo è complesso e
merita un’analisi attenta. In primo luogo
abbiamo la cassazione di ogni
“felicità” puramente psicogena e fittizia
provocata dalla speranza
dell’esistenza non solo di esseri sovrannaturali,
ma in special modo di un
orizzonte escatologico in cui sia possibile
un qualche tipo di beatitudine
extra-terrena. L’attesa speranzosa di questa
non soltanto è mistificatoria, ma
aliena l’uomo dalle verità che può acquisire
solo dalla natura e dalle sue
leggi. Va però notato che il Nostro espunge
sì dall’orizzonte antropico le
chimere sur-naturalistiche e trascendenti
ma re-introduce un elemento
metafisico come la necessità altrettanto chimerico. Non solo, lo assume
in
maniera dogmatica non si capisce su quale
base, finendo per far rientrare dalla
finestra ciò che pareva aver buttato fuori
dalla porta.
Quanto sopra non significa che si debba
ritenere la filosofia di d’Holbach una teologia,
ma indica a quali pericoli
concettuali vadano in contro i determinismi,
sempre coincidenti con le teologie
panteistiche sul piano teorico, al punto
di distinguersi da esse solo in
termini nominalistici. Né d’Holbach chiarisce
come dall’insieme di parti possa
derivare un tutto omogeneo, se non come un
assemblage necessitato:
L’universo,
questo vasto assemblaggio di tutto ciò che
esiste, ci presenta dappertutto solo
materia e movimento: il suo insieme ci mostra
solo una catena immensa e
ininterrotta di cause ed effetti: alcune
di queste cause ci sono note, perché
colpiscono immediatamente i nostri sensi;
altre non ci sono note, perché
agiscono su di noi solo attraverso gli effetti
spesso lontanissimi dalle loro
prime cause. [4]
Si teorizza un
“insieme” di cui non si conosce in definitiva
né il modo in cui si dà né dove
inizi e né dove concluda. L’affermare che
solo alcune cause ci sono note perché
“prossime”, ovvero accessibili, e poi parlare
di “cause prime” delle quali non
si potrà mai sapere nulla perché troppo lontane,
ma con la pretesa di ipostatizzare
una “causa prima delle cause prime”, la necessità, è incoerente con
l’assunto stesso e aprioristico.
Procediamo con un concetto molto importante
nella filosofia holbachiana e che occupa
tutto il secondo capitolo del Sistema,
quello di movimento. Esamineremo passo passo la parte iniziale
della
trattazione, poiché è in essa che ci è dato
cogliere compiutamente come
d’Holbach lo consideri e come lo incunei
nel suo sistema. Il capitolo (Il
movimento e la sua origine) inizia così:
Il movimento è uno sforzo attraverso il quale
un
corpo cambia o tende a cambiare posto, cioè
a corrispondere successivamente a
differenti parti dello spazio o a cambiare
distanza relativamente ad altri
corpi. È il movimento soltanto che stabilisce
i rapporti tra i nostri organi e
gli esseri che sono dentro o fuori di noi;
è solo attraverso i movimenti che
questi esseri agiscono su di noi, che ne
conosciamo l’esistenza, che ne
giudichiamo le proprietà, li distinguiamo
gli uni dagli altri, li distribuiamo
in differenti classi[5]
Il discorso suona come
una cassazione dell’atomismo antico, la culla
del materialismo, per due ragioni.
La prima perché elimina il concetto di vuoto
tornando al cosmo “tutto pieno” di
Cartesio; la seconda perché nel materialismo
atomistico il movimento è
intrinseco agli atomi in quanto tali. Se
il movimento è sforzo e quindi
“risposta” a una sollecitazione esogena si
espunge il pluralismo atomico per
sostituirlo con una “forza” cosmica che permea
e “spinge” ogni singolo ente del
cosmo. Siamo tornati per un verso al concetto
aristotelico di “motore” e per un
, quale ente che imprime moto a un altro
ente, per un altro a un cosmo dove
tutto agisce su “per contatto”, per un altro
ancora a una forza nascosta che
non è poi altro che l’impetus [6],
o il conatus [7],
o (termine specificamente usato da d’Holbach)
un nisus. Il rapporto tra
gli esseri, ovvero tra gli enti diventa solo quello tra un
“motore” e un “mosso”, ed il movimento, nel
senso di impulso/reazione, unico
tipo di relazione dinamica possibile tra
gli enti del cosmo. Se correliamo il
concetto di “sforzo” (il conatus spinoziano e leibniziano) alla ripresa,
e anzi alla radicalizzazione del concetto
di necessità, che d’Holbach
assume e teorizza come principio cosmico
totalizzante e onnipervadente, ci
rendiamo conto come quella che vorrebbe essere
una filosofia materialistica
rischi persino di riattualizzare uno spiritualismo,
quello di Spinoza, insieme
a tutte le fantasie logico-metafisiche così
ben poste e dogmatizzate more
geometrico. Proseguiamo:
Gli esseri, le sostanze o i corpi vari di
cui la
natura è l’assemblaggio, effetti essi stessi
di certe combinazioni o cause,
divengono cause a loro volta. Una causa è un essere che ne mette un
altro in movimento o che produce qualche
mutamento in esso. L’effetto è
il mutamento che un corpo produce in un altro
con l’aiuto del movimento. [8]
Qui si direbbe che
d’Holbach si renda conto del rischio d’incoerenza
insito nel porre il movimento
a base della dinamica cosmica nel suo complesso,
anche perché non può
sfuggirgli che in campo biologico è difficile
pensare la formazione di un
essere vivente grazie a qualcosa “che lo
muove”. Allora introduce il concetto
di “mutamento” ed il “movimento” è declassato
ad “aiuto” di esso. Egli spiega:
Ogni essere, in ragione della sua essenza
o
della sua natura particolare, è suscettibile
di produrre, di ricevere o di
comunicare movimenti diversi, per cui alcuni
esseri sono idonei a colpire i
nostri organi, e questi sono capaci di riceverne
le impressioni o di subire dei
mutamenti alla loro presenza; quelli che
non possono agire su nessuno dei
nostri organi, sia immediatamente o attraverso
essi medesimi, sia mediatamente
e attraverso l’intervento di altri corpi,
non esistono affatto per noi, perché
non possono né muoversi né di conseguenza
fornirci delle idee né essere
conosciuti e giudicati da noi. Conoscere
un oggetto è l’averlo sentito;
sentirlo significa esserne stati mossi. [9]
Siamo in pieno
sensismo condillachiano, col rischio di assumerne
anche elementi extra-materiali
con cui lo spiritualista Condillac ha rivestito
il tatto (senso primario per la
conoscenza), dotato di uno status metafisico che lo riscatta dalla
materialità “locale” dei contatti. Anche
per d’Holbach conoscere significa
“essere toccati” da qualche cosa che in quanto
tocca si fa conoscere; lo stesso
metabolismo degli organi interni del nostro
corpo è visto come un fenomeno
meccanico di “toccare ed esser sentito”,
ma non si capisce bene “da” che cosa e
“in” che cosa. È infatti veramente difficile
immaginare come l’amido dei
farinacei possa diventare zucchero “toccando”
i tessuti dell’apparato
digerente, e come il fegato produca sangue
dal ”tocco” del liquame digerito, o
come il polmone investito dall’ossigeno depuri
il sangue e lo rimetta in
circolo rigenerato e pronto a cedere nuova
energia. Ma il Nostro insiste:
Dall’azione e dalla reazione continua di
tutti
gli esseri che la natura contiene, risulta
una serie di cause e di effetti o di
movimenti, guidati da leggi costanti e invariabili,
proprie di ciascun essere,
necessarie o inerenti alla sua natura particolare,
che fanno sempre in modo che
agisca o si muova in una maniera determinata;
i differenti principi di ciascuno
di questi movimenti non ci sono noti, perché
ignoriamo ciò che costituisce
primitivamente le essenze di questi esseri;
poiché gli elementi dei corpi
sfuggono ai nostri organi, li conosciamo
solo in massa, ne ignoriamo le intime
combinazioni, le proporzioni di quelle stesse
combinazioni da cui devono necessariamente
risultare modi di agire, movimenti ed effetti
molto differenti. [10]
Noi possiamo conoscere
solo “in massa” la natura degli enti, in
maniera grossolana e generica,
ignorando tutto sulla loro essenza, sulla
natura delle intime combinazioni che
li costituiscono sulle proporzioni stesse
di quelle combinazioni. Però
“sappiamo”: A. che ogni essere risponde a
leggi particolari e che si muove e
muta in maniera determinata e B. che tutto
avviene “necessariamente”. In altre
parole, nella catena dell’ignoto in cui siamo
immersi dal macrocosmo al
microcosmo, e potendo accedere solo all’”in
massa”, a ciò che “ci tocca”,
ignorando tutto il resto, godiamo del miracolo
gnoseologico di “sapere” che
ogni essere è organizzato in un modo specifico
e che ciò che è e fa è diretto
da un’onnipevadente, immutabile, e assoluta
necessità. Ma d’Holbach ci
precisa che se il “movimento di massa” è
la fonte delle nostre conoscenze, vi è
un movimento che ignoriamo (et ignorabimus):
L’altro è un movimento interno e nascosto,
che
dipende dall’energia propria di un corpo,
cioè dall’essenza, dalla
combinazione, dall’azione e dalla reazione,
delle molecole insensibili di
materia di cui il corpo è composto: questo
movimento non ci si mostra affatto,
lo conosciamo solo attraverso le alterazioni
o mutamenti che notiamo in capo a
qualche tempo sui corpi o sui miscugli. Di
questo genere sono i movimenti
nascosti che la fermentazione fa subire alle
molecole della farina […] Tali
sono ancora i movimenti impercettibili attraverso
i quali vediamo una pianta o
un animale crescere […] Da ultimo, tali sono
ancora i movimenti interni che
hanno luogo nell’uomo, che abbiamo chiamato
le sue facoltà intellettuali,
i suoi pensieri, le sue passioni, le sue volontà, di cui
non siamo in condizione di giudicare se non
dagli effetti sensibili che li
accompagnano o li seguono. È così che, quando
vediamo un uomo fuggire,
giudichiamo che è interiormente agitato dalla
passione della paura ecc. [11]
Un’obiezione immediata
all’ultima affermazione potrebbe essere che
siccome il fuggire si manifesta
nella corsa è abbastanza difficile stabilire,
vedendo un uomo correre, se lo
faccia per paura o per fretta di fare qualcosa
(o magari addirittura per
aggredire qualcuno), mentre se uno sta perfettamente
immobile non è sempre
facile stabilire se lo faccia per riposarsi
o perché è “inchiodato” dal
terrore. Ma punto importante è dove si dice
che le molecole (intese come
elementi-base della materia) sono “insensibili”,
poiché la questione che si
pone, e a cui non ci viene data risposta,
è: a partire da quale livello di
aggregazione si danno “sensibilità” (reattività)
e “corpo” (motilità) affinché
il movimento “sia”? Ed altra questione
seria nasce dall’affermazione che il pensiero
sarebbe simile a qualsiasi altra
“reazione” fisica, sì da farne l’esito di
un “toccamento” esogeno che lo
farebbe sprigionare. Su questo argomento
che d’Holbach tratta nei capitoli
successivi (e in particolare dal VI al X)
torneremo per constatare come questa
teoria del “contatto” venga poi sfumata e
complessata negli approfondimenti sui
movimenti “acquisiti” e su quelli “spontanei”.
Porre un spontaneità dei movimenti pare
escluderne la meccanicità di azione/reazione
sin qui considerata, ma vediamone
i termini:
I movimenti, sia visibili che nascosti, sono
chiamati movimenti acquisiti quando sono impressi ad un corpo da una
causa estranea o da una forza che esiste
fuori di lui, che i nostri sensi ci
fanno percepire; perciò chiamiamo acquisito
il movimento che il vento fa
prendere alle vele di una nave. Chiamiamo
spontanei i movimenti
suscitati in un corpo che contiene in se
stesso la causa di mutamenti che
vediamo operarsi in lui; allora diciamo che
questo corpo agisce e si muove per
energia propria. [12]
Precisazione
importante che pare mettere in mora il principio
stesso di movimento
holbachiano, ma fugata dall’affermazione
successiva dove capiamo che il
movimento spontaneo è solo apparenza, poiché:
Di questa specie sono i movimenti dell’uomo
che
cammina, che parla, che pensa; e tuttavia,
se consideriamo la cosa più da
vicino, saremo convinti che, strettamente
parlando, non vi sono affatto
movimenti spontanei nei differenti corpi
della natura, visto che essi agiscono
continuamente gli uni sugli altri e che tutti
i loro mutamenti sono dovuti a
cause, sia visibili che nascoste che li muovono.
La volontà dell’uomo è mossa o
determinata segretamente da cause esterne
che producono il movimento in lui;
crediamo che essa si muova per se stessa,
perché non vediamo né la causa che la
determina né la maniera in cui agisce né
l’organo che mette in azione. [13]
Abbiamo qui il
passaggio dal discorso ontologico a quello
antropologico, ma è solo
apparentemente che quello determina questo,
in realtà a d’Holbach (che nega il
libero arbitrio) interessa la conclusione
antropologica, che è poi la vera
matrice teorica della premessa ontologica.
Quello di d’Holbach è sempre un
discorso implicitamente antireligioso, e
siccome la dottrina cristiana ammette
il libero arbitrio per poter legittimare
il concetto di peccato, egli si vede
costretto ad assoggettare l’uomo alla necessità.
Ma se tutto ciò che avviene
nell’uomo da lui fatto è necessitato, pre-stabilito,
anche essere credenti o
atei è necessitato e pre-stabilito “fuori
di noi”: questo fuori di noi o è il
Dio-Volontà o è il Dio-Necessità (anche se
non lo si chiama Dio). Il principio
generale deterministico è ribadito:
Quale che sia la loro natura, i movimenti
degli
esseri sono sempre conseguenze necessarie
delle loro essenze o delle proprietà
che li costituiscono e di quelle cause di
cui sentono l’azione. Ogni essere non
può agire e muoversi se non in una maniera
particolare, cioè secondo leggi che
dipendono dalla sua essenza, dalla sua combinazione,
dalla sua natura
peculiare, in una parola dalla propria energia
e da quella dei corpi di cui
riceve l’impulso. [14]
Il concetto di essenza
“particolare” di ogni singolo essere è coniugato
con quello di cause esterne
“generiche”, a costituire una fenomenologia
causale pilotata da leggi
molteplici e differenti che nascono dall’unicità
assoluta della necessità
meta-fisica, ma che si frantumano poi in
una miriade di sottocause fisiche che
da essa dipendono. Queste (i veri motori
della realtà che creano e
diversificano) sono assolutizzate dalla necessità ma anche relativizzate
da sotto-sistemi di contatto, tutti differenti
e differentemente coniugabili,
che “dovrebbero” restare immutabili affinché,
dalla più piccola parte al
generale, via assoluta “omogeneità di principio”.
E da ciò:
È qui ciò che costituisce le leggi invariabili
del movimento; dico invariabili, giacché
non potrebbero mutare senza che
avvenga un rovesciamento nell’essenza stessa
dell’essere. È così che un corpo
pesante deve necessariamente cadere, se non
incontra un ostacolo capace di
arrestarlo nella sua caduta. È così che un
essere sensibile deve
necessariamente cercare il piacere e fuggire
il dolore. È così che la materia
del fuoco deve necessariamente bruciare e
spandere luce ecc. [15]
Il termine
“assemblaggio” usato all’inizio, che poteva
lasciare qualche dubbio circa
l’assoluto ordine progettuale dell’insieme,
è qui sostituito qui sostituito da
una cogente “organizzazione” (ma chi è
l’organizzatore?) poiché soltanto in un insieme
rigorosamente organizzato ogni
ente singolare può avere la stessa proprietà,
e quindi la stessa essenza, del
Tutto che lo comprende. Ogni singola
legge particolare di movimento di ogni infima
parte del tutto garantisce la
necessità dell’insieme ed è a sua volta garantita
da questa.
D’Holbach passa poi a ribadire che «Tutto è in movimento nell’universo» e che la quiete non può esistere:
Tutto ciò che sembra
in uno stato di quiete non resta tuttavia
un istante nello stesso stato: tutti
gli esseri non fanno continuamente che nascere,
crescere, decrescere e
dissiparsi con maggiore o minore lentezza
o rapidità. [16]
Abbiamo qui una sorta di panta rei
eracliteo dove il logos è una necessità originaria e fondamentale
che si estrinseca come nisus, sforzo, a costituire il fattore fenomenico
dell’essere:
I fisici, per la
maggior parte, sembra che non abbiano abbastanza
riflettuto su quello che hanno
chiamato nisus, cioè sugli sforzi continui che fanno gli
uni gli uni
sugli altri corpi che sembra d’altra parte
godano di uno stato di quiete. […]
Un corpo che subisce un impulso, un’attrazione
o una pressione qualunque, cui
resiste, ci mostra che reagisce con questa
resistenza stessa; onde segue che
c’è per esse una forza nascosta (vis inertiae) che si esplica contro
un’altra forza; e ciò prova chiaramente che
questa forza d’inerzia è capace di
agire e di reagire effettivamente: Da ultimo,
si avvertirà che le forze che si
chiamano morte e le forze che si chiamano vive o moventi
sono forze della stessa specie che si spiegano
in maniera differente. [17]
La precisazione non è nuova ma importante,
dal
punto di vista fisico le forza “attive” e
quelle “passive” si offrono in
maniera differente alla percezione, ma sono
della stessa natura. D’Holbach fa
qui esplicitamente riferimento all’opera
di Georg Bernhard Bilfinger
(1693-1750), un leibniziano che aveva pubblicato
nel 1725 un Dilucidationes
philosophicae de Deo, anima humana, mundo
et generalibus rerum affectionibus
in cui aveva precisato che «La forza
d’inerzia e la forza motrice nei corpi è
una sola e medesima forza.» Il Nostro fa poi una serie di esempi abbastanza
convincenti a chiarimento dell’affermazione
fatta, a conclusione dei quali
ribadisce che «tutto nella natura è in un
movimento continuo.» [18]
Veniamo ora al punto in cui si affronta l’”origine”
del movimento (e
implicitamente della stessa materia):
Così, l’idea della
natura implica necessariamente l’idea del
movimento. Ma, si dirà, da dove
questa natura ha ricevuto il suo movimento?
Risponderemo che lo ha ricevuto da
se stessa, poiché è il grande tutto, fuori
del quale di conseguenza niente può
esistere. Diremo che il movimento è un modo
d’essere che deriva necessariamente
dall’essenza della materia; che essa si muove
per energia propria, che i suoi
movimenti son dovuti a forze che le sono
inerenti; che la varietà dei suoi
movimenti e di fenomeni che ne risultano
provengono dalla diversità delle
proprietà, delle qualità, delle combinazioni
che si trovano originariamente
nelle differenti materie primitive di cui
la natura è l’assemblaggio. [19]
Si tratta di uno dei più bei passaggi del
Sistema
per chiarezza e concisione. L’unico problema
sta nell’interpretazione della
frase di chiusura, poiché: «in termini di
“origine” il “grande tutto” (la
natura-materia) precede le «differenti materie
prime primitive», le segue o le
accompagna nella coesistenza? La risposta
corretta parrebbe la terza, poiché un
“assemblaggio” è operazione che può solo
seguire l’esistenza di assemblandi, e l’assemblato
è un a posteriori. Affinché si
verifichi un assemblaggio in un’ontologia
deterministica ci vuole anche un assemblante,
coesistente con gli assemblandi, ma d’Holbach
adombra anche una tesi olistica
rara nella cultura occidentale, poiché l’olismo cosmico è la base delle
religioni orientali.
D’Holbach
ci precisa alla nota (c) che ogni singolo movimento è una «gravitazione relativa», spiegando:
La gravitazione non è
che un modo del movimento […] ciò che cade
relativamente a noi, si alza
relativamente ad altri corpi, onde segue
che ogni movimento dell’universo è
l’effetto di una gravitazione, dato che non
c’è nell’universo né alto né basso,
né centro positivo. [20]
La cassazione della dicotomia alto/basso
è
ovvia, ma alla fine del Settecento non era
poi così solida nella coscienza dei
molti, anche perché l’idea che la gravità
“tiri” verso il basso è naturale solo
se la coniuga con l’idea di massa quale causa della gravitazione. Qui
abbiamo però implicita la proposta di considerare
la gravitazione non solo come
uno dei tipi di movimento ma, in un certo
senso, come il modello di un
movimento non-apparente e non-intuibile ai
sensi del muovere stesso.
D’Holbach prosegue occupandosi del campo
in
cui ha le migliori conoscenze, la chimica,
per arrivare alla biologia. Per fare
ciò il Nostro fa riferimento a An Account of Some New Microscopical
Discoveries, pubblicato nel 1745 dal naturalista inglese
John Turberville
Needham, operando però una forzatura non
di poco conto. Se Needham, infatti,
aveva ipotizzato la generazione spontanea
di esseri viventi dalla materia
morta, ma facendo una netta distinzione tra
la vita in senso elementare (quella
dei vegetali) e quella più evoluta degli
animali implicante la sensibilità, il
Nostro massimalizza il tutto sostenendo:
«È così che la materia inanimata può passare
alla vita, la quale è
unicamente un assemblaggio di movimenti.»
[21]
Abbiamo qui la chiara conferma che per “assemblaggio”
d’Holbach intende
“organizzazione”, ma in questa affermazione
vi è molto di più, poiché il
concetto di materia qui posto è molto più raffinato di quanto
la
materialità, dal punto di vista intuitivo-sensistico,
possa essere
considerata. Abbiamo per la prima volta
nella storia della filosofia una relativa
“smaterializzazione” della materia in
senso energetico; è l’energia che qui assume
la priorità dell’essere nei
termini seguenti:
Si può soprattutto notare
la generazione del movimento o il suo sviluppo,
come l’energia della materia,
in tutte le combinazioni in cui il fuoco,
l’aria e l’acqua si trovano congiunti
insieme. Questi elementi o piuttosto questi
miscugli, che sono i più volatili e
fuggevoli degli esseri, sono nondimeno nelle
mani della natura i principali
agenti di cui essa si serve per operare i
suoi fenomeni più sorprendenti.[22]
Dunque il movimento è in realtà null’altro
che
energia latente e nascosta, la quale esplode
solo occasionalmente in fenomeni
eclatanti (come gli uragani, le eruzioni
e i terremoti) che colpiscono la
nostra attenzione, ma che è reale e presente
sempre e dovunque in quanto
intrinseca alla materia stessa. E tuttavia
d’Holbach si trova a dover
affrontare nella Francia di fine ‘700 un
idea tanto radicata nel monoteismo e
nel deismo di un elemento metafisico individuato
(Dio) come causa prima,
ordinatore ed agente dell’essere del cosmo,
che su questo punto dirimente deve
chiarire la sua posizione ateo-materialistica:
Tutti questi fatti
[gli eventi catastrofici] ci provano invincibilmente
che il movimento si
produce, si aumenta e si accelera nella materia
senza il concorso di alcun
agente esterno; e siamo indotti a concluderne
che questo movimento è una
conseguenza necessaria delle leggi immutabili,
dell’essenza e delle proprietà
inerenti agli elementi diversi e alle combinazioni
varie di questi elementi. [23]
L’osservazione appare convincente, ma va
rilevato
che se non vi è nessuna evidenza per l’intervento
di un “agente esterno” sul
cosmo è altrettanto vero che manca l’evidenza
che le leggi fisiche siano
necessarie ed ancora meno che debbano essere
immutabili.
La materia
è essenzialmente “movimento e mutamento”
ed è solo dalla costanza dei fatti
fisici che noi induciamo l’esistenza di leggi;
è la materia con i suoi
comportamenti che crea le leggi, non il contrario.
Se quello in cui siamo è un
determinato “stato/momento” del cosmo, relativo
al “tempo antropico” delle
nostre possibili verifiche, che cosa ci autorizza
a pretendere dogmaticamente
che nel “tempo cosmico” pregresso le cose
siano sempre state così e che in
quello futuro sarà altrettanto? Quali titoli
gnoseologici abbiamo noi affermare
che l’universo è eterno ed è sempre stato,
oppure che è nato e finirà, oppure
che le sue leggi sono mutevoli o immutabili,
e così via? Ed ancora, per quale
ragione le leggi dovrebbero essere “necessarie
e fisse” soltanto perché tale a
priori rende coerente una posizione filosofica
e il suo modello? Se questa
filosofia si pretende “verità”, che cosa
la distingue dalla religione; è
possibile non “fare religione” e nello stesso
tempo porre dogmi e assiomi? Che
cosa distingue una teologia metafisica da
una filosofia gnoseologica se non il
fatto che la prima pone degli assiomi e la
seconda dei modelli interpretativi
della realtà (che è poi ciò che fa anche
la scienza)? Il fatto è che il materialismo di d’Holbach
non si pone solo come un modello, bensì come
la sostituzione di un’impostura con
una verità e da qui il rilievo:
Se gli uomini avessero
fatto attenzione a ciò che avviene sotto
i loro occhi, non avrebbero affatto
cercato fuori della natura una forza distinta
da essa che la mettesse in azione
e senza la quale hanno creduto che essa non
potesse muoversi. [24]
Curioso monito quello del richiamo
all’attenzione! Siamo sicuri che Platone
ed Aristotele, Tertulliano od
Agostino, Tommaso d’Aquino o Guglielmo di
Ockham, Cartesio o Leibniz, fossero dei
disattenti? Il problema è che essi credevano
nel Dio-Bene, nel Dio-Motore, nel
Dio-Salvazione, nel Dio-Volontà, come d’Holbach
crede nel Dio-Necessità! Il Dio
creatore ed ordinatore e la Necessità motrice
e legislatrice, in che cosa
realmente differiscono dal punto di vista
conoscitivo, se sono entrambi
inverificabili? Ma egli non si pone domande
del genere, poiché ritiene che il
punto dirimente sia quello della falsità
della Creazione. Così si sofferma in
una lunga nota (f) a sottolineare il fatto che la traduzione
corretta
del primo versetto della Genesi non è «Dio
creò» bensì «Dio foggiò» o «Dio ordinò»
un mondo che era «una massa informe e vuota»,
come recita il secondo
versetto.
L’osservazione di d’Holbach va però riconosciuta
corretta (peraltro
fatta ripetutamente e in tutti i tempi anche
da teologi eterodossi), ma il
problema è che se anche Dio non avesse creato,
ma soltanto foggiato ed ordinato
il cosmo, rimane il fatto che egli, essendone
formatore ed ordinatore, ne è
anche legislatore. Ora, se le leggi “esistono”,
dal punto di vista ontologico,
che cosa cambia qualora si dica che il legislatore
è una “volontà personale” o
invece una “necessità impersonale”? La questione
è solo nominalistica, e in
ogni caso l’ateismo non c’entra più per nulla,
poiché stiamo sempre parlando di
un “principio” che precede ontologicamente
sia l’esistenza di leggi e sia della
materia stessa. Perché la materia non dovrebbe
essere semplicemente “così
com’è”, cioè anche eventualmente casuale,
ma invece “così e non altrimenti”
perché leggi necessarie così l’avrebbero
determinata? A d’Holbach interessa
solo dimostrare che la materia deve essere
e incerata e eterna, ma
l’increazione e l’eternità della materia
sono forse più dimostrabili di quanto
non siano la sua creazione e la sua temporalità?
Egli però non ha dubbi ed
afferma che un Dio spirituale, essendo privo
di estensione e di parti, non
potrebbe creare un bel nulla, concludendo
perentoriamente: «D’altronde, tutti
convengono che la materia non può affatto
annientarsi totalmente o cessare di
esistere; e, allora, come si comprenderà
che ciò che non può cessare di essere,
abbia potuto mai cominciare?»
Se
“tutti convengono”, hic et nunc (nel nostro mondo), non significa che si
possa inferire che fu così e così sempre
sarà; il nostro convenire, peraltro
scontato, non ipoteca per nulla un tempo
pregresso o futuro in cui l’homo
sapiens non c’è ancora o quello in cui potrebbe
non esserci più. Ma il
Nostro con sicurezza afferma:
Così, quando si
chiederà da dove è venuta la materia, diremo
che è sempre esistita. Se si
domanda da dove è venuto il movimento della
materia, risponderemo che essa per
la stessa ragione si è dovuta muovere dall’eternità,
visto che il movimento è
una conseguenza necessaria della sua esistenza,
della sua essenza e delle sue
proprietà primitive quali l’estensione, la
pesantezza, l’impenetrabilità, la
figura ecc. In virtù di queste proprietà
essenziali, costitutive, inerenti ad
ogni materia e senza le quali è impossibile
formarsi un’idea, le differenti
materie, di cui l’universo è composto, hanno
dovuto dall’eternità pesare le une
sulle altre, gravitare verso un centro, urtarsi,
incontrarsi, esser attirate e
respinte, combinarsi e separarsi, in una
parola agire e muoversi in maniere
diverse, secondo l’essenza e l’energia proprie
di ciascun genere di materie e
di ciascuna delle loro combinazioni. L’esistenza
suppone delle proprietà nella
cosa che esiste; dal momento che essa ha
delle proprietà, i suoi modi di agire
devono necessariamente derivare dal suo modo
di essere. [25]
Dunque, esistere è possedere un’essenza
specifica che è determinata da proprietà
specifiche. Proprietà, essenza ed
esistenza costituiscono le materie particolari
che nell’insieme (l’assemblato)
costituiscono la materia in generale. Ma
esistere e possedere proprietà
significa anche muovere, ovvero agire, ed
allora d’Holbach si rifà Cartesio per
ribadire che «Per formare un universo bastano
materia e movimento.» ed
aggiungere:
Così, dal momento che
la materia esiste, deve agire; dal momento
che è diversa, deve agire
diversamente; dal momento che esiste dall’eternità,
non cesserà mai di essere e
di agire per energia sua propria, ed il movimento
è un modo che possiede in
forza della propria esistenza. [26]
Si sostiene
che esistere è muovere perché ciò che esiste
muove, ma non allo stesso modo.
Muovere è un modo d’essere non univoco, quindi
la materia non è onticamente
“una” ma “molte”, e ciò a seconda dei modi
di agire, in quanto sono essi, i
movimenti, a determinare le diversità e ad
evidenziarle. E un chiarimento:
In effetti, è un
errore credere che la materia sia un corpo
omogeneo le cui parti differiscono
unicamente per le diverse modificazioni.
Tra gli individui che conosciamo, in
una stessa specie, non ce n’è uno che rassomigli
esattamente ad un altro; e ciò
dipende dal fatto che la sola differenza
del posto deve necessariamente
comportare una diversità più o meno sensibile,
non solo nelle modificazioni, ma
anche nell’essenza, nelle proprietà, nel
sistema intero degli esseri. [27]
Il passo non è chiaro, tanto più che sostenere
essere il “posto” a determinare le differenze
tra gli esseri e le cose sarà
conforme al rigore deterministico ma poco
credibile. Parrebbe però che l’autore
si renda conto dell’inconsistenza dell’asserto,
sì da sentire la necessità di
corredarlo con una nota (g) più interessante, nella quale non solo
si
rileva, giustamente, che «due granelli di
sabbia non sono affatto del tutto
uguali.» e che le circostanze o le modificazioni
sono diversificate e
diversificanti, ma anche che «Questa verità
è stata molto ben avvertita dal
profondo e sottile Leibniz». E in relazione
al teorico delle monadi, riportando
un passo del già citato Bilfinger, d’Holbach
mostra di aver fatto suo il
“Principio degli indiscernibili”, sì da far
pensare che la “suggestione
monadica” abbia colpito anche lui. Rivelandosi
nettamente pluralista in
ontologia, il Nostro ci rende chiaro il fatto
che il suo determinismo non è
quello spinoziano, monista e olista, ma tendenzialmente
leibniziano.
La
differenza con Leibniz sta però nel fatto
che il materialista ateo d’Holbach,
non potendo pensare ad un Creatore che fa
il mondo e poi lo consegna a una
necessità che lo diversifica, pensa la diversificazione
come originaria, ed
essa stessa originariamente necessaria. Se
poi ci si chiede su che cosa si basi
una teoria della differenziazione ontica
si rimane un poco delusi, poiché
d’Holbach ne fa una questione meramente percettiva.
Sono infatti i nostri sensi
che percepiscono le differenze, quindi bisognerebbe
supporre che l’apparenza
trovi corrispondenza nella struttura interna.
Sicché, ciò che appare differente
dev’esserlo anche strutturalmente, ma non
si capisce bene quale potrebbe essere
non diremo la cogenza ma nemmeno la plausibilità
teorica di quest’analogia apparenza/essenza”.
Vediamo se il passo successivo ci aiuta:
Se ci riferma a questo
principio, che l’esperienza sensibile sembra
constatare, ci si convincerà che
gli elementi o materie di cui i corpi sono
composti non sono affatto della
stessa natura e non possono di conseguenza
avere né le stesse proprietà né le
stesse modificazioni né gli stessi modi di
muoversi e di agire. Le loro
attività o i loro movimenti, già differenti,
si diversificano ancora
all’infinito, aumentano o diminuiscono, si
accelerano o si ritardano in ragione
delle combinazioni, delle proporzioni, del
peso, della densità, del volume, e
delle materie che entrano nella loro composizione.
[28]
Qui il “chimico” d’Holbach profonde le sue
nozioni per sottolineare le infinite possibilità
di differenziazione, ma ciò
che non convince è il fatto che egli ci parli
di ciò «che l’esperienza
sensibile sembra constatare » facendolo seguire
da un « ci si convincerà »,
lasciando supporre che dall’ipotesi di una
constatazione si passi direttamente
a una convinzione, il che, detto da un filosofo
razionalista che si batte
contro le illusioni ed i frutti della fantasia,
non può che lasciare perplessi.
Ma una precisazione rende il pluralismo holbachiano
assai più complesso di
quanto sembri:
I movimenti degli
esseri particolari dipendono dal movimento
generale, che è, esso stesso,
alimentato dal movimento degli esseri particolari.
[29]
Una compenetrazione strutturale dinamica
tra il
tutto e le parti, dunque, per cui i movimenti
di queste “dipendono” da quello
del tutto, ma esse “alimentano”
retroattivamente il movimento generale. Dal
punto di vista teorico
l’affermazione è interessante, poiché precorre
molte acquisizioni della
chimico-fisica e della biologia del XX secolo,
che hanno messo in evidenza la
realtà del fenomeno del flash-back in molti processi evolutivi dei
sistemi complessi. Ma il sensista d’Holbach
è un po’ incoerente nel mescolare
supposizioni e certezze, dove quelle riguardano
le esperienze della percezione
e queste convinzioni aprioristiche ed acritiche.
Si segua attentamente questo
passaggio:
Voler risalire oltre,
per trovare il principio dell’azione nella
materia e nell’origine delle cose, è
sempre un differire la difficoltà e sottrarla
assolutamente all’esame dei
nostri sensi, che non possono farci conoscere
e giudicare se non le cause
capaci di agire su di essi ed imprimere loro
dei movimenti. Perciò,
accontentiamoci di dire che la materia è
sempre esistita, che essa si muove in
virtù della sua essenza, che tutti i fenomeni
della natura sono dovuti ai
movimenti diversi delle materie varie che
contiene e che fanno sì che, simile
alla fenice, rinasca continuamente dalle
sue ceneri. [30]
Accontentarsi è una bella cosa, ma non sempre
per la filosofia. Si comprende bene come
qui, da un lato, si pone la sensibilità come
fonte della conoscenza, però se ne
limita la portata gnoseologica, in quanto
i sensi possono solo farci conoscere
« le cause capaci di agire su di essi ed
imprimere loro dei movimenti ». Poi si
propone di «accontentarsi di dire che la
materia è sempre esistita, che essa si
muove in virtù della sua essenza». Ottimo
modo per indebolire teoricamente un
“sistema”, poiché se ci si affida alle conoscenze
dei sensi per confermare ciò
che a priori si dà per inconoscibile, non
si capisce poi su quale base (forse
innata?), si possa “sapere” che la materia
è eterna e necessitata. Ancor più sorprendente
l’analogia con la fenice, una figura mitica
che non può che essere divina, ed
anzi “puro spirito”, se può sempre rinascere
dopo l’annientamento della sua materia.
Il
fatto è che l’idea di un particolare spirito,
ben inteso “materiale”,
originario, onnipotente e onniagente, c’è
nel Nostro, e si chiama movimento.
Onnipresente nel pensiero holbachiano esso
fonda la stessa materia non come
l’insieme dei movimenti bensì come loro origine.
Il fatto è che i movimenti “si
constatatano”, mentre il movimento-origine
lo si può solo immaginare. Ma passiamo decisamente
al capitolo III con titolo La
materia, le sue differenti combinazioni ed
i suoi diversi movimenti o il corso
della natura. Qui il
protagonista è una forma di movimento a cui
è dato il nome di combinazione.
Nome non casuale per un conoscitore della
chimica, poiché è questa la scienza
che sa cogliere l’essenza intima delle sostanze
e le loro trasformazioni
combinatorie come reazioni tra sostanze reciprocamente
attive. Reazioni che presuppongono
un rapporto tra le proprietà chimiche tale
da renderle reciprocamente attive, combinandosi
per dar luogo a un processo trasformativo
alla fine del quale il sistema non è
più quello di partenza, essendone cambiati
i costituenti. Fin dall’incipit
del capitolo viene ribadito il nostro invalicabile
limite conoscitivo, quello
dei sensi, che però non ci permette di cogliere
l’intima essenza delle materie.
Tuttavia d’Holbach ci ribadisce che il
fatto che il movimento delle materie “colpisca”
i nostri sensi ci
permette di coglierne l’esistenza e i modi
di attività. Leggiamo:
Non conosciamo affatto
gli elementi dei corpi, ma conosciamo alcune
delle loro proprietà o qualità e
distinguiamo le differenti materie dagli
effetti o mutamenti che producono sui nostri
sensi, cioè dai differenti movimenti che
la loro presenza fa nascere in noi.
Troviamo di conseguenza in essi estensione,
mobilità, divisibilità, solidità,
gravità, forza di inerzia. Da queste proprietà
generali e primitive ne derivano
altre, come la densità, la figura, il colore,
il peso ecc. Così, relativamente
a noi, la materia in generale è tutto ciò
che agisce sui nostri sensi in una
maniera qualunque; e le qualità che attribuiamo
alle differenti materie sono
fondate sulle differenti impressioni o sui
diversi mutamenti che producono in
noi stessi. [31]
Si noterà come venga reinterpretato il principio
galileiano delle qualità primarie e secondarie,
distinte qui in
generali-primitive e particolari-derivate.
Siccome sono evidentemente le
derivate a rendersi conoscibili ci troviamo
ancora una volta di fronte a
un’affermazione, quella che « la materia
in generale è tutto ciò che agisce sui
nostri sensi in una maniera qualunque »,
dove si ribadisce che i sensi
esauriscono ogni nostra possibilità di conoscenza.
Torna allora la domanda di
come sia possibile teorizzare il fondamento
di tutto il sistema, la necessità,
se essa é estranea ai sensi. Il fatto è che
d’Holbach è animato dallo “spirito
di sistema”, ed avendo come riferimenti i
sistemi metafisici del Seicento ne
tenta un sintesi materialistica ed atea utilizzando
sincreticamente elementi
cartesiani (come il movimento), elementi
spinoziani (come la necessità) ed
elementi leibniziani (come l’individuazione),
lasciando però cadere l’elemento
fondamentale e primario a loro comune: Dio.
L’operazione holbachiana è originale, ma
non essendo libera da premesse metafisiche
diventa incoerente.
Il
principio “combinatorio” è l’elemento attivo
della materia, sì da far dire al
Nostro che sono stati i pregiudizi degli
uomini ad impedire di cogliere
l’autonomia della materia nelle sue dinamiche
facendole dipendere da forze ad
essa esterne. Egli sostiene che anziché vederla
come un « essere unico, rozzo,
passivo, incapace di muovesi, di combinarsi,
di produrre alcunché da se stesso
» essi avrebbero dovuto accorgersi che essa
è «un genere di esseri, tutti gli individui diversi del quale, benché
avessero alcune proprietà comuni [le generali-primitive]
[…] non dovevano
tuttavia esser raccolti sotto una stessa
classe né esser compresi sotto una
stessa denominazione ». Il rimprovero qui
è mosso a Leibniz, che aveva distinto
l’individualità monadica degli esseri viventi,
ma l’aveva negata alla materia
in generale. Non è una caso che d’Holbach
usi il termine “essere” indifferentemente
per gli enti minerali, vegetali ed animali,
e faccia della materia generale un
“genere” che “assembla” gli esseri particolari.
Ma se la materia assembla ed il
movimento combina egli sente il bisogno di
esemplificare l’asserzione con
riferimento al ferro:
Il ferro, in quanto
materia in generale, è esteso, divisibile,
figurabile, mobile in massa; se la
materia del fuoco si combina con esso in
una certa proporzione o quantità, il
ferro acquista allora nuove proprietà, cioè
quella di suscitare in noi le
sensazioni del calore e della luce, che precedentemente
non possedeva affatto
ecc. [32]
Il ferro e il fuoco sono due “materie” il
cui
incontro fa sì che la più ricca in movimento,
la seconda, ne ceda mutando le
proprietà della prima. In realtà sappiamo
che il fuoco non si combina col
ferro, ma gli cede energia; ma il Nostro
mette in gioco “materie” e “movimento”
all’unico fine di cassare in maniera radicale
l’alone mistico che circonda
ancora il fuoco e la luce nel Settecento.
Quest’assimilazione di tutte le
materie sotto un unico genere, la materia
in generale, permette a d’Holbach di
andare anche oltre la tradizionale suddivisione
dell’essere in “regni della
natura”: i tre diventano infatti uno solo.
Prestiamo ora attenzione al lungo periodo
seguente, in cui il Nostro
enuncia in modo esaustivo i meccanismi basilari
del tutto:
In quell’universo che
i fisici hanno chiamato i tre regni della natura, avviene, mediante il
movimento, una trasmigrazione, un mutamento,
una circolazione continua delle
molecole della materia. La natura ha bisogno,
in un luogo, di quelle che aveva
collocato per un lungo periodo in altro luogo:
queste molecole, dopo avere,
attraverso combinazioni particolari, costituto
degli esseri dotati di essenze,
di proprietà, di modi di agire determinati,
si dissolvono o si separano più o
meno facilmente, e, combinandosi in una maniera
nuova, formano esseri nuovi.
L’osservatore attento vede che questa legge
è rispettata, in una maniera più o
meno sensibile, da tutti gli esseri che lo
circondano; egli vede la natura
colma di germi erranti, dei quali alcuni
si sviluppano, mentre altri attendono
che il movimento li collochi nelle sfere,
nelle materie, nelle circostanze
necessarie per estenderli, accrescerli, renderli
più sensibili con l’aggiunta
di sostanze o materie analoghe al loro essere
primitivo. In tutto ciò vediamo
unicamente gli effetti del movimento, necessariamente
diretto, modificato
accelerato o rallentato, rafforzato o indebolito
in ragione delle differenti
proprietà che gli esseri acquistano e perdono
successivamente. E ciò che produce infallibilmente in ogni
istante alterazioni più o meno notevoli in
tutti i corpi: questi non possono
essere rigorosamente gli stessi in due istanti
successivi della loro durata:
essi sono in ogni momento costretti ad acquistare
o a perdere, in una parola
obbligati a subire variazioni continue nel
loro essenze, nelle loro proprietà,
nelle loro forze, nelle loro masse, nei loro
modi d’essere, nelle loro qualità.
[33]
Si
tratta di un grandioso affresco ontologico
suggestivo quanto caotico, però
d’Holbach “blocca” il caos sottoponendolo
ad un “ordine” per mezzo di avverbi come «infallibilmente» ed aggettivi
come «costretti» e «obbligati», che funzionano
egregiamente per tenere insieme il
tutto. In realtà esso sembra
squagliarsi nella causalità, riproponendo
la domanda del come si possa riferire
un conoscibile attraverso i sensi ad un
principio che si sottrae all’esperienza.
Il Nostro, che ha qui affermato che il movimento
« produce infallibilmente in
ogni istante alterazioni più o meno notevoli
in tutti i corpi: questi non
possono essere rigorosamente gli stessi in
due istanti successivi della loro
durata » come se la sarebbe cavata se invece
del ferro avesse dovuto occuparsi
di altre sostanze più stabili ed inerti,
come l’oro o il diamante?
Ma il
Sistema di d’Holbach è interessante anche
perché propone una rilettura di
Empedocle e della sua ontologia degli elementi in termini di “giusta
proporzione” (formativa) e di “cattiva proporzione”
(distruttiva) e di
“analogia” e “non-analogia”. L’amicizia e
la contesa empedoclee diventano
qualità dei “rapporti” tra gli elementi,
e in riferimento agli animali:
Gli stessi elementi
che servono a nutrire, a rafforzare, a conservare
l’animale, divengono in certe
circostanze i princìpi e gli strumenti della
sua dissoluzione, del suo
indebolimento, della sua morte: essi operano
la sua distruzione, dal momento
che non sono affatto nella giusta proporzione,
che li rende idonei a conservare
l’essere. È così che l’acqua, divenuta troppo
abbondante nel corpo dell’animale
lo debilita, ne allenta le fibre ed impedisce
l’azione necessaria degli altri
elementi. È così che il fuoco fatto entrare
in troppo grande quantità, suscita
in esso movimenti disordinati e distruttivi
per la sua macchina; è così che
l’aria, carica di principi poco analoghi
al suo meccanismo gli procura contagi
e malattie pericolose. Da ultimo, gli alimenti,
modificati in certe maniere,
invece di nutrirlo, lo distruggono e lo portano
alla rovina. Tutte queste sostanze
non conservano l’animale s non in quanto
gli sono analoghe; lo rovinano quando
non sono più nel giusto equilibrio che le
rendeva idonee a conservarne
l’esistenza. [34]
Lo spirito di sistema porta il Nostro a porre
dei sottosistemi bloccati in affinità, idoneità
e corrispondenze, facendo
dell’“eterna trasformazione” il frutto di
una necessità biologica che
l’evoluzionismo smentirà totalmente. Eppure
egli vede tutti i sottosistemi rispettare un
paradigma fisso al quale risponde anche il
mondo inorganico e minerale. Il
sistema deterministico che alimenta i sottosistemi
e che è da essi alimentato si
offre in una circolarità immutabile dell’essere:
Gli animali, le piante
ed i minerali restituiscono, dopo qualche
tempo, alla natura, cioè alla massa
generale delle cose, al magazzino universale,
gli elementi e i princìpi che ne
hanno attinto. […] Tale è il corso costante
della natura; questo è il cerchio
eterno che tutto ciò che esiste è costretto
a descrivere. [35]
L’”eterno ritorno” della teologia rivive
in
queste affermazioni che delineano un orizzonte
ontologico nel quale d’Holbach
si è preoccupato di eliminare ogni traccia
di una qualche “volontà” agente
“dall’esterno”. Per fare questo è ricorso
all’unica strada da sempre percorribile,
quella di sostituire la volontà con la necessità;
ma se tutto è necessario,
tutto è già dato e tutto può solo tornare
su se stesso. I conti apparentemente tornano e il Dio del
monoteismo è espunto, ma i l fantasma del
Dio- Necessità è diventato il nuovo
tiranno. D’altra parte, di fronte alle religioni,
così ben determinate nelle
loro dottrine, può darsi che per controbatterle
efficacemente sia necessario
“definire”, e sotto questo punto di vista
nulla è più efficace che assumere
come principio ciò che per antonomasia “definisce”
tutto: la Necessità appunto,
il Dio degli Stoici e di Spinoza.
Il
Terzo Capitolo si chiude con uno splendido
passaggio naturalistico che si rifà
al Contro Colote di Plutarco in riferimento ad Empedocle.
Un inno alla
continua rigenerazione del cosmo e all’impossibilità
del “trionfo della morte”
nei tenebrosi termini posti da certa mitologia
cristiana. Nulla di nuovo ma
vale la pena citarlo, poiché in un panorama
che ha espunto ogni ottimismo
religioso prende qui corpo un anelito verso
la natura e un ottimismo
fisico-biologico sottolineati dall’asse ontico
tra la materia bruta e l’uomo
quale traguardo combinatorio ed interprete
privilegiato:
Nella generazione,
nella nutrizione, nella conservazione, non
vedremo mai altro che materie
diversamente combinate, ciascuna delle quali
ha movimenti suoi proprî, regolati
da leggi fisse e determinate e che le fanno
subire mutamenti necessari. Nella
formazione, nella crescita e nella vita istantanea
degli animali, dei vegetali
e dei minerali, vedremo solo materie che
si combinano, si aggregano, si
accumulano, si estendono e formano a poco
a poco esseri senzienti, viventi,
vegetanti o sprovvisti di queste facoltà
e che, dopo esser esistiti per qualche
tempo sotto una forma particolare, sono costretti
a contribuire con la loro
rovina alla produzione di un altro. [36]
Il
Quarto Capitolo rifinisce il principio del
movimento nelle sue differenti forme
coniugate con la necessità. I concetti di
attrazione e repulsione,
di simpatia e di antipatia, di affinità e di rapporto,
insieme con quello di mediazione (di catalisi) tipico della chimica,
vengono messi in campo e definiti. I movimenti
complessi si scompongono in
quelli elementari e da essi si ricompongono,
ma soprattutto si ribadisce
l’assoluta identità tra fisicità e moralità
nell’uomo, sì ché la formazione di
amicizie, di coppie, di famiglie, di società
avvengono in base ad esigenze dove
il fisico e il morale si identificano nella
virtù, mentre il vizio trama alla
loro distruzione. Formare e conservare è
il fine dell’essere nei seguenti
termini:
Ma quale è la
direzione o tendenza generale e comune che
vediamo in tutti gli esseri? Quale
il fine visibile e noto di tutti i movimenti?
È quello di conservare la loro
esistenza attuale, quello di perseverare,
di fortificarla, di attirare ciò che
le è favorevole, di respingere ciò che può
nuocerle, quello di resistere agli
impulsi contrari al suo modo di essere e
alla sua tendenza naturale. Esistere è
subire i movimenti proprî di una essenza
determinata. Conservarsi è dare e
ricevere movimenti, da cui risulta la conservazione
dell’esistenza; è attirare
le materie idonee a corroborare il suo essere;
allontanare quelle che possono
indebolirlo o danneggiarlo. Perciò, tutti
gli esseri che conosciamo tendono a
conservarsi, ciascuno alla propria maniera.
[37]
Passo interessante che sotto alcuni aspetti
prefigura perfino l’evoluzionismo, dove l’adattamento
non è poi altro che l’istinto
di conservazione. Il fatto è che Darwin comprende
che l’adattamento non è mai
necessitato ma contingente, perché le modificazioni
del clima e degli equilibri
biologici non sono predeterminati. Il caso,
questa “bestia nera” delle
religioni e delle metafisiche, gioca nell’evoluzionismo
un ruolo fondamentale.
Come
si può invocare il dominio della necessità
e poi teorizzare la capacità di un
essere di “scegliere” tra ciò che lo aiuta
a conservarsi e ciò che attenta alla
sua persistenza? Se la materia è necessitata,
se lo sono anche le leggi
dell’essere, se tutti i movimenti sono determinati,
se ogni essere nel cosmo ha
un modo d’essere, se ogni parte si connette
al tutto necessariamente, ciò
significa che un determinismo assoluto esclude
ogni possibilità d’essere al di
fuori di ciò è già predeterminato. Il tutto
è in realtà solo necessità originaria, immutabile,
inviolabile ed ineluttabile; e d’Holbach
la elegge a boia del suo competitore:
il Dio-Volontà. Egli “ha bisogno” della necessità
per rendere coerente il suo
sistema con quell’eternità e quell’immutabilità
che fanno fuori la Creazione e
con essa una Volontà esterna al cosmo. Il
prezzo è ancora una volta
l’inconsistenza di una tesi che vuole adattamento
e conservazione come opzioni giuste
o sbagliate dei singoli esseri dove aver
affermato che le leggi che li
governano sono immutabili e necessarie. Poi
però d’Holbach chiarisce:
Ma tutti i movimenti,
tutti i modi di agire sono, come si è visto,
determinati dalle loro nature,
essenze, proprietà, combinazioni. Bisogna
dunque concluderne che, poiché tutti
i movimenti o tutti i modi di agire degli
esseri sono dovuti a certe cause e
poiché queste cause possono agire e muoversi
solo secondo il loro modo di
essere o le loro proprietà essenziali bisogna
concluderne, dico, che tutti i
fenomeni sono necessari e che ogni essere
della natura, nelle circostanze e secondo
le proprietà date, non può agire altrimenti
da come agisce.[38]
Sia l’essere in generale, sia i singoli i
movimenti e sia le singole cause che determinano
l’esistenza di ogni singolo
essere sono determinate e quindi esso non
può che fare quel che fa ed essere
quel che è. E poco dopo si ribadisce: « Per
poco che riflettiamo, saremo
indotti a riconoscere che tutto ciò che vediamo
è necessario, non può
esser altrimenti da quello che è », e: «Da
ultimo, siamo indotti ad ammettere
che non può esservi energia indipendente,
causa isolata, azione separata, in
una natura in cui tutti gli esseri agiscono
senza interruzione gli uni sugli
altri e che non è altro se non un cerchio
eterno di movimenti impressi e
ricevuti secondo leggi necessarie. » Una
caparbia deterministica che inficia un
sistema per alcuni versi interessante, e
che con la tesi di un disordine che si
risolve sempre nell’ordine necessario come
suo “superamento” in un ordine
ulteriore, ci pare possa essere considerato
quasi un’anticipazione della processualità
dialettica hegeliana. Ma Hegel, citando
d’Holbach nelle Lezioni sulla storia della filosofia ci offre l’esempio
non solo di una critica sbrigativa e superficiale
su una filosofia il cui
contenuto non gli interessa, ma della quale
bolla anche come “noiosa” la forma
letteraria [39].
D’Holbach è animato dalle migliori
intenzioni di rinnovare la filosofia, ma
non riesce a scrollarsi di dosso il
macigno metafisico portatogli dai grandi
teologi “sistemici” del ‘600 e finisce
per mutuarne numerosi elementi. Cartesio,
Spinoza e Leibniz gli regalano
suggerimenti pericolosi per la sua teoria
e uno esiziale: la necessità.
Nel quinto capitolo d’Holbach distende la
sua indagine ontologica e dal titolo
stesso (L’ordine, il disordine, l’intelligenza, il
caso) si comprende
l’argomento. All’inizio abbiamo un
osservazione di peso:
È dunque nel nostro spirito soltanto che
si
trova il modello di ciò che chiamiamo ordine
o disordine: come tutte le idee
astratte e metafisiche, non suppone niente
fuori di noi. In una parola,
l’ordine sarà sempre solo la facoltà di coordinarci
con gli esseri che ci
circondano o con il tutto di cui facciamo
parte. [40]
Rispetto a un pensiero ancora abbarbicato
(da
parte di cristiani, deisti e panteisti) intorno
ai concetti di armonia cosmica
e di ordine divino d’Holbach è già oltre
dicendoci che solo la psiche dell’uomo
li “crea”. Ma basta già l’osservazione
seguente per deluderci là dove si aggiunge:
«Tuttavia, se si vuole applicare
l’idea dell’ordine alla natura, quest’ordine
non sarà che una serie di azioni o
di movimenti che riteniamo cospirino a un
fine comune.», affermazione
pericolosa perché allude al finalismo. Poi
spiega:
Così, in un corpo che
si muove, l’ordine è la serie, la catena
delle azioni o di movimenti idonei a
costituirlo com’è, e a conservarlo nella
sua esistenza attuale. L’ordine,
relativamente alla natura intera è la catena
delle cause e degli effetti
necessari alla sua esistenza attiva e alla
conservazione del suo insieme
eterno. [41]
La serie-catena delle azioni e dei movimenti
“idonei” che serve alla conservazione si
inserisce nel fine più generale
dell’«insieme eterno». È evidente che
siamo in pieno finalismo, ma camuffato, come
se il materialismo fosse
sufficiente per disfarsi della base metafisica
che lo supporta come speculare
dello spiritualismo. Non basta essere materialisti
per fare dell’anti-teologia;
anzi, la specularità oppositiva tra materialismo
deterministico e spiritualismo
creazionistico mette in evidenza gli stessi
aspetti dogmatici che li caratterizzano
entrambi. La successiva considerazione:
Quello che chiamiamo
disordine non è che un termine relativo destinato
a designare le azioni o
movimenti necessari per cui esseri particolari
sono necessariamente alterati e
turbati nel loro modo di esistere istantaneo
ed indotti a mutare modo di agire;
ma nessuna di queste azioni, nessuno di questi
movimenti può, per un solo
instante, contraddire o fuoriuscire dall’ordine
generale della natura, dalla
quale tutti gli esseri prendono l’esistenza,
le proprietà, i movimenti
particolari. [42]
Se il fatto reale è determinato da un ordine
necessario inviolabile perché quest’ordine
dovrebbe venir turbato “per poi
ripristinarlo»? La religione ci dice che
il turbamento dell’ordine divino è il
”male”, personificato o no. Ma il materialista
a chi/che cosa dovrebbe pensare?
E tuttavia si badi, d’Holbach non ha usato
a caso l’aggettivo “istantaneo”,
infatti l’unità di tempo non compromette
l’eternità, e il “fine”
necessitato/necessitante è, come abbiamo
visto, “eterno”. Però è detto: « ma
nessuna di queste azioni, nessuno di questi
movimenti può, per un solo
instante, contraddire o fuoriuscire dall’ordine
generale della natura ». Delle
due l’una, o l’istante contraddice l’eternità
o ne è compreso, in entrambi i
casi il finalismo dell’immutabilità dell’essere
è confermata come “ordine”. Ma
allora il “disordine dell’istante” è favorevole
all’ordine, contrario o
indifferente? D’Holbach ci dà questa risposta:
Il disordine, per un
essere, è sempre il suo passaggio a un ordine
nuovo, a un nuovo modo di
esistere che comporta necessariamente una
nuova serie di azioni e di movimenti
differenti da quelli di cui quest’essere
si trovava precedentemente
suscettibile. [43]
Il disordine quindi in funzione di un nuovo
ordine.
Il nuovo però dovrebbe essere migliore del
vecchio, altrimenti non si capisce
la ragione dell’avvicendamento; ma l’ordine
è eterno in quanto tale non può
essere né nuovo né vecchio. E se l’ordine
attuale è necessitato e compiuto che
necessità c’è dell’irrompere del disordine
per poi ripristinare l’ordine? Ma il
Nostro ripete: «Quello che chiamiamo ordine della natura è un modo di
essere o una disposizione delle sue parti
rigorosamente necessaria.» e
più oltre «Così, vi ripeto, l’ordine non è che la necessità.» Ma se
l’ordine muta verso un nuovo ordine che cos’era
il vecchio ordine? E che cosa
può essere che cassa il vecchio ordine verso
il nuovo se non una sospensione
della necessità? E che cos’è la sospensione
della necessità se non il caso?
D’Holbach ribadisce: «L’ordine e il disordine
della natura non esistono
affatto. Troviamo ordine in tutto ciò che è conforme al nostro essere
e disordine
in tutto ciò che gli è opposto » [44] Ma,
allora. il “nostro essere” è natura o no?
E ciò che è “difforme” all’essere di
qualcosa/qualcuno è ordine o disordine? Egli
insiste: «Tuttavia, tutto è
nell’ordine, in una natura tutte le parti
della quale non possono mai
allontanarsi da regole certe e necessarie
che derivano dall’essenza che hanno
ricevuto.» E da chi/che cosa avrebbero “ricevuto”
essenza le parti se per
assioma sono da sempre “nel Tutto”? Il Tutto,
la natura-materia, è “da sempre”,
le sue parti sono quindi connesse per un
rapporto inscindibile e necessario che
è proprio l’“ordine” cosmico. Però leggiamo:
Non vi è affatto
disordine in un tutto per conservare il quale
il disordine è necessario, in un
tutto il cui corso generale non può mai delirare,
in cui tutti gli effetti sono
conseguenze di cause naturali che agiscono
come devono infallibilmente agire. [45]
Par
di capire che il disordine c’è e nello stesso
tempo non c’è. Ovvero, sembra
esserci perché noi lo constatiamo coi nostri
sensi, ma non c’è “onticamente”
parlando. I sensi sono essi stessi “natura”
,e tuttavia d’Holbach ci ha detto
che il disordine costituisce « le azioni
o movimenti necessari per cui esseri
particolari sono necessariamente alterati
e turbati nel loro modo di esistere
istantaneo ed indotti a mutare modo di agire
». Ora, se gli esseri particolari,
necessari come il Tutto, possono venir “alterati”
nel loro modo di esistere, il
disordine che porta tale alterazione è reale
o no? No, non è reale, intendendo probabilmente
che
il disordine fisico e biologico è solo un
falso disordine e che il vero
disordine sarebbero le violazioni delle leggi
fisiche. Il problema viene
evidentemente eluso, ma dobbiamo ugualmente
seguire gli sviluppi del discorso:
Ne segue che non
possono esservi né mostri né prodigi né meraviglie
né miracoli nella natura.
Quelli che chiamiamo mostri sono combinazioni
con le quali i nostri occhi non
hanno alcuna famigliarità e che non sono
effetti meno necessari. I cosiddetti prodigi,
meraviglie, effetti sovrannaturali, sono fenomeni della natura di
cui noi non riconosciamo i principi né il
modo di agire e che, non conoscendone
le cause autentiche, attribuiamo follemente
a cause immaginarie che, come
l’idea dell’ordine, esistono unicamente in
noi stessi, mentre le collochiamo
fuori di una natura, al di là della quale
non può esservi niente. [46]
Posizione condivisibile, ma, se « l’ordine
non è che la necessità » e di questa noi
abbiamo idea chiara e precisa avendola
posta a base di ogni altra realtà, anche
dell’ordine, come suo correlato
identitario, dobbiamo necessariamente avere
di
esso, parimenti, idea chiara e precisa. Prodigi
e meraviglie
accadrebbero realmente, ma noi non li sappiamo
interpretare in maniera
“naturale”, che parrebbe essere quella di
considerarli “passaggi” disordinati
in attesa del costituirsi di un nuovo ordine,
poiché: « Il disordine, per un
essere, è sempre il suo passaggio a un ordine
nuovo, a un nuovo modo di
esistere ». Ma, se il disordine è solo
apparente (e quindi non esiste) se ne deve
dedurre che non possano esistere né
un “ordine nuovo” né un “nuovo modo di esistere”
e che il tutto resta nella sua
immutabilità, il che contraddice però la
mutabilità “reale” sopra sostenuta. Per
una filosofia che si pretenda sensistica,
e tale è quella holbachiana,
l’assunzione della Necessità diventa devastante
per la coerenza dell’intero
sistema. In misura meno eclatante anche Anassagora
aveva commesso un errore
analogo, quando aveva voluto introdurre il
nous come deus ex machina
della dinamica formativa dei semi-omeomerìe. Come peraltro aveva già
rilevato Aristotele, il nous è un elemento ridondante e incompatibile
col sistema anassagoreo stesso, ma soprattutto
foriero di interpretazioni
spiritualistiche laddove l’anassagorismo
è in se stesso profondamente
materialista.
D’Holbach
dopo averci detto che «L’ordine e il disordine
non sono dunque che parole»,
ripete che un essere « è nel disordine, quando le cause lo agitano,
lo
turbano o disturbano l’armonia e l’equilibrio
necessario alla sua conservazione
allo stato attuale», poi che «il disordine
in uno stato è unicamente, come s’è
visto, il passaggio ad un nuovo ordine »
per finire col dichiarare:
[…] diciamo che questo
corpo [quello umano] è in disordine non appena
la sua tendenza è turbata,
quando alcune delle sue parti cessano di
concorrere alla sua conservazione e di
soddisfare le funzioni che gli sono proprie.
È ciò che avviene nello stato di
malattia, in cui nondimeno i movimenti che
si suscitano nella macchina umana
sono necessari, sono regolati da leggi
così certe, così naturali, così invariabili,
come quelli il cui concorso
produce la salute: la malattia non fa che
produrre in esso una nuova serie, un
nuovo ordine di movimenti e di cose. [47]
Chiudiamo l’argomento per passare al concetto
di
“intelligenza”, vista come una dote antropica
priva di validità generale. Si
osserva acutamente:
Consideriamo privi di intelligenza
gli esseri nei quali non troviamo né la stessa
nostra conformazione né gli
stessi organi né le stesse facoltà, in una
parola gli esseri di cui non
conosciamo l’essenza, l’energia, lo scopo
e, di conseguenza, l’ordine che loro
conviene. [48]
Considerazioni assai sagge, cui segue una
precisazione di notevole peso teorico: «Il
tutto non può aver scopo, poiché
fuori di esso non c’è alcunché cui possa
tendere; le parti che il tutto
comprende hanno uno scopo.» Che il tutto
non possa aver scopo è chiaro, per il fatto
che esso è causa di se stesso e
quindi scopo “in sé” e “a sé”, essendo ciò
al di fuori del quale non vi è
nulla. Il problema è che se esso è sottoposto
alla necessità, “dipende” da essa
e “tende” a conservarsi in essa né più e
ne meno di ogni sua parte. La quale,
ci è stato detto, a differenza del tutto,
aver lo scopo di conservarsi
nell’ordine che le è “proprio”. Ma siccome
anche il tutto ha la propria
perfezione nell’ordine della pura necessità,
questo, essendo perfetto e
immutabile, non può essere che un ordine
“intelligente”. Elementare concludere
che proprio la necessità è la più alta forma di intelligenza possibile, poiché il concetto di
un’essenza che non implica alterazioni nel
suo essere è in sé “perfetta”, e la
perfezione è il più alto grado immaginabile
dell’autosufficienza e dell’immutabilità.
Ma anche l’intelligenza di ogni essere, come
parte della intelligenza-necessità
generale, essendo ciò che lo indirizza alla
conservazione di sé e alla
perpetuazione in sintonia col perpetuarsi
del tutto, è essa stessa e necessità
e intelligenza. La perpetuazione, che nel caso del tutto
è la sua
eternità, è già realizzata nell’intelligenza
della materia che lo costituisce,
ovvero nella necessità, e di riflesso, inevitabilmente,
in ogni sua parte. Come
potrebbe mai la materia non essere “intelligente”
se, non avendo altro scopo
fuori di sé, non avesse bloccato il sé nella
necessità come massima perfezione
e nello stesso tempo come suprema intelligenza
d’essere? E come potrebbero mai
i singoli enti non essere necessitati e intelligenti,
essendo “nel tutto” e
dovendo restare assemblati gli uni agli altri
nel tutto che li racchiude e li
riassume? Rimane però sullo sfondo, estraneo,
il concetto di “errore” umano. Se
l’uomo fantastica dell’ordine o dell’intelligenza come concetti
estranei all’essere e quindi “sbaglia” quale
può essere la causa dello sbaglio?
Nelle religioni lo sbaglio è sempre dovuto
a più o meno precisate “forze del
male”, ma per un materialista quale potrebbe
esserne la causa?
Ci avviveremo, ma per ora torniamo
all’intelligenza dei singoli enti. D’Holbach
prosegue:
Se è in noi stessi che
attingiamo l’idea dell’ordine, è ancora in noi stessi che attingiamo
quella dell’intelligenza. La rifiutiamo a tutti gli esseri che non
agiscono
alla nostra maniera; l’accordiamo a quelli
che supponiamo agiscano come noi;
chiamiamo questi esseri intelligenti, diciamo che gli altri sono cause
cieche, agenti inintelligenti che agiscono
a caso: parola vuota di senso
che opponiamo sempre alla parola intelligenza, senza annettervi un’idea
precisa. [49]
L’opposizione di caso e intelligenza significa
che il caso sarebbe comunque stupido, ma
la parola caso è vuota di
senso, poiché le “cause cieche” non esistono:
Ed invero attribuiamo
al caso tutti gli effetti di cui non vediamo
la connessione con le relative
cause. Così, ci serviamo della parola caso, per coprire la nostra
ignoranza della causa naturale che produce
gli effetti che vediamo con mezzi di
cui non abbiamo alcuna idea, o che agisce
in una maniera in cui non vediamo
ordine o sistema coerente di azioni simili
alle nostre. Dal momento che vediamo
o crediamo di vedere l’ordine, attribuiamo
quest’ordine ad un’intelligenza,
qualità parimente presa in prestito da noi
stessi e dal nostro peculiare modo
di agire e subire azione. [50]
Non si può che convenire, però sorge una
domanda: se i concetti di ordine e di intelligenza sono puramente
antropici, e quindi impropri riferiti ad
esseri differenti dall’uomo (ma,
ovviamente, ancor più se riferiti al cosmo
nella sua neutra generalità) come
mai il concetto di necessità invece sarebbe ontico? Perché l’ordine e
l’intelligenza sono concetti antropologici
e quello di necessità sarebbe
ontologico? Ma la risposta ci viene appena
riflettiamo sul fatto che d’Holbach vede
l’intelligenza come un concetto di fantasia
(e quindi erroneo) in quanto
riferita al Dio dei monoteismi. E trascura
che l’intelligenza assoluta (l’onniscienza)
al pari della forza assoluta (l’onnipotenza)
sono tanto i correlati del
Dio-Volontà quanto quelli del Dio-Necessità
(o in qualsiasi altro modo lo si
voglia chiamare). Ma se come ontologo d’Holbach
è inconsistente come
antropologo-psicologo ha buone intuizioni:
L’uomo si fa sempre il
centro dell’universo; è a se stesso che riferisce
tutto ciò che vede; […] È
così che l’uomo, non vedendo fuori della
sua specie che esseri agenti
differentemente da lui, e credendo tuttavia
di notare nella natura un ordine
analogo alle proprie idee, vedute conformi
alle sue, immagina che questa natura
sia governata da una causa intelligente alla
sua maniera,cui attribuisce
l’ordine che credette di vedere e le vedute
che lui stesso aveva. [51]
Siamo d’accordo, ma emerge una considerazione:
l’uomo che vede “ordine” è colui che ritiene
il mondo perfetto nella necessità immutabile
del suo essere, non certamente il cristiano,
che lo pensa come il luogo della
“caduta”. Per esso il mondo è pervaso dalle
opere di Satana e dal peccato, sporcato
quindi da una realtà negativa (e quindi disordinata)
dalla quale egli si può
sottrarre solo con la Grazia prima e poi
con una santa morte accedendo alla Gloria
di Dio. È invece proprio il determinista,
che non potendo vedere disordine in
“ciò che è cosi non potendo essere altrimenti”
non può, coerentemente, che
concepirlo come ordinato e perfetto. Il fatto
è che d’Holbach non si preoccupa
di connettere il discorso antropologico (e
specificamente anti-cristiano) a
quello ontologico: un po’ li mescola e un
po’ li tratta in modo astrattamente
separato e inconseguente. Ma veniamo al punto
in cui si può cogliere
un’anticipazione del pensiero di Feuerbach
nell’affermazione:
È vero che l’uomo,
sentendosi incapace di produrre gli effetti
vasti e molteplici che vedeva
operarsi nell’universo, fu indotto a stabilire
una differenza tra lui e questa
causa invisibile che produceva così grandi
effetti; credette di eliminare la
difficoltà esagerando in essa tutte le facoltà
che lui possedeva. [52]
D’Holbach ci dice infatti che quel super-uomo
che è Dio è stato creato dalla fantasia come
proiezione antropica ideale nella
trascendenza. Inoltre:
È così che, a poco a
poco, giunse a formarsi un’idea della causa
intelligente che collocò al di
sopra della natura, per farla presiedere
a tutti i suoi movimenti di cui la
credette di per se stessa incapace: si ostinò
sempre a considerare la natura
come un ammasso informe di materie morte
ed inerti, che non poteva produrre
nessuno dei grandi effetti, dei fenomeni
regolari da cui risulta quello che
egli chiama l’ordine dell’universo. [53]
I
“grandi effetti” (catastrofi, diluvi, uragani,
fulmini, siccità, ecc.) verranno
riferiti a Dio come punizioni dei peccati
dell’uomo. Perciò il Dio unico è
sempre uranico; stando in cielo è da lì che
può vedere gli uomini sulla terra
per giudicarli e mandare in terra le sue
punizioni o le sue benedizioni. La
religione monoteista nasce pertanto dalla
paura del disordine (la distruzione
dei raccolti e la morte delle greggi) e mai
dalla considerazione dell’ordine. È
la paura che crea il monoteismo e non la
contemplazione dell’ordine, che è
semmai tipica del panteista determinista.
Aggiunge poco oltre il nostro:
[…] ed invero vediamo
disordini in questo mondo, l’ordine bello
del quale obbliga, si dice, a
riconoscere l’opera di un’intelligenza sovrana;
tuttavia, questi disordini
smentiscono e il piano e il potere e la saggezza
e la bontà che si suppone in
essa e l’ordine meraviglioso che le si attribuisce.
[54]
Ma allora: il disordine, la cui constatazione
dovrebbe indurre l’uomo a negare Dio, è reale
o no? D’Holbach ci aveva detto
che « Non
vi è affatto disordine in un tutto per conservare
il quale il disordine è
necessario », come dire che il cosmo, in
quanto necessitato “ad esser quel che
è”, né possiede ordine né patisce disordine.
E tuttavia, in quanto eterno, è in
un “suo” ordine, senza il quale “non sarebbe”,
e non si vede proprio perché un
ordine necessario (ontico) dovrebbe essere
irriducibile a un ordine umano
(antropico), dal momento che l’uomo riesce
a concepire sia l’uno che l’altro.
Sia il credente e sia l’ateo holbachiano
vedono chiaramente l’esistenza del
disordine, ma lo negano
ontologicamente: il primo perché lo considera
un prevalere di Satana che turba
in maniera inessenziale l’ordine di Dio,
il secondo perché lo considera un passaggio
che turba solo apparentemente l’ordine della
Necessità.
Dove
starebbe la differenza sotto il profilo ontologico?
È esclusivamente sotto il
profilo etico che vi è differenza; poiché
il cristiano, che si ritiene dotato
di libero arbitrio, può operare per Satana
(turbando l’ordine) o per Dio
(ripristinandolo), mentre l’holbachiano,
che lo nega, può solo operare secondo la
Necessità ed entro il suo ordine. Ma il Nostro
ci ripete:
Da tutto ciò che si è
detto bisogna concludere che l’ordine è sempre il concatenamento
uniforme e necessario delle cause e degli
effetti o la successione delle azioni
che derivano dalle proprietà degli esseri,
finché restano in un determinato
stato; che il disordine è il mutamento di questo stato; che tutto
è necessariamente in ordine nell’universo,
in
cui tutto agisce e si muove secondo le proprietà
degli esseri; che non può
esserci né disordine né male reale in una
natura in cui tutto segue le leggi
della propria esistenza; che non c’è né
caso né alcunché di fortuito in questa natura,
in cui non c’è effetto senza
causa ed in cui tutte le cause agiscono secondo
leggi fisse, certe, dipendenti
dalle loro proprietà essenziali come dalle
combinazioni e dalle modificazioni
che ne costituiscono lo stato permanente
o passeggero; che l’intelligenza è un
modo di essere o di agire proprio di taluni esseri
particolari e che, se volessimo attribuirla
alla natura, non sarebbe in essa
che la facoltà di conservarsi con mezzi necessari
nella sua esistenza agente. [55]
Ed infatti l’intelligenza serve proprio a
«
conservarsi con mezzi necessari nella sua
esistenza agente ». La differenza tra
l’intelligenza degli altri animali e quella
dell’homo sapiens sta
unicamente nel fatto che la prima è « facoltà
di conservarsi » e basta, mentre
la seconda è “facoltà di conservarsi con
consapevolezza”. La consapevolezza di un’
«esistenza agente», ovvero operante
all’interno di un progetto di vita, è solo
dell’uomo, mentre pare che ogni
altro animale (il dubitativo è d’obbligo)
tenda unicamente a un’ «esistenza
pura». Immaginare un cosmo necessario “ma
inconsapevole di sé” rafforza anziché
indebolire la religione, poiché se esso è
inconsapevole di sé mentre l’uomo lo
è di lui, ciò significa alludere alla consapevolezza
di un “Chi” lo ha
determinato nel suo essere che non è l’uomo.
Solamente
se si ammette il caso come produttore del “nuovo”, di ciò che
non c’e
ancora, e si attribuisce alla necessità
la conservazione del “vecchio”, di quel che
già c’è, si tolgono di mezzo le teologie, poiché solo
se
un “accadimento” si dà senza che nessuna
forza-intelligenza lo determini ad
essere esso “diventa” senza “venir fatto”.
Ma proprio riprendendo d’Holbach che
ci dice che il tutto «non può avere scopo»,
noi osserviamo che esso è cieco come
è cieco il caso che gli ha dato inizio. Solo
una causa cieca come il caso
può produrre qualcosa di cieco che poi trova,
a posteriori e “per poter sussistere”,
delle leggi che conferiscono un ordine strutturale
“per necessità”. È
l’”esistere” che genera “ordine necessario”
ai fini della sua conservazione e
sostenere che è questo a generare quello,
ovvero che è la necessità a generare
l’esistenza, è discorso teologico. In realtà
le differenti teologie pongono poi
soltanto il banale problema nominalistico
di come chiamare la “causa”
dell’essere, che per il teologia cristiana
è il personale Dio-Volontà, mentre
per la teologia filosofale (la metafisica)
è l’ impersonale Dio-Necessità. La parola
Dio significa in definitiva e da sempre “ciò
che fa e ordina il mondo” a tutte
le latitudini e a tutte le longitudini di
questo pianeta. Ma d’Holbach vuole ancora
convincerci:
Rifiutando alla natura
l’intelligenza di cui godiamo noi stessi,
rigettando la causa intelligente che
si suppone il suo motore o il principio dell’ordine
che vi troviamo, non diamo
niente al caso né a una forza cieca, ma
attribuiamo tutto ciò che vediamo a cause
reali e note, o facili a conoscersi. [56]
Ci asteniamo da ogni ulteriore commento per
aggiungere che se ci siamo soffermati così
a lungo sull’ontologia holbachiana è
perché solo alla luce di essa si può comprendere
il pensiero del Nostro in
altri campi come l’etica, dove il Nostro
offre contributi importanti.
15.3 Un’antropologia monistica
Per introdurre il tema dell’uomo “secondo
d’Holbach” è utile anticipare una definizione
che troviamo nella prefazione
della Morale universale, del
1776, dove si afferma:
L’uomo è dappertutto un essere sensibile,
cioè
suscettibile di amare il piacere e di temere
il dolore: in ogni società è
circondato da esseri sensibili che, come
lui, cercano il piacere e temono il
dolore; questi contribuiscono al benessere
dei loro simili solo quando li si
determina a ciò col piacere che si procura
loro, si rifiutano di contribuirvi
non appena si fa loro del male. [57]
L’enunciazione è
chiara e tipica di ogni etica sociale eudemonistica. Abbiamo già visto nel
paragrafo precedente come l’analisi che d’Holbach
conduce sull’uomo costituisca
l’aspetto più importante del suo pensiero,
dove lo si vede come il portatore di
un’identità tra la fisicità animale e il
fine morale che si estrinseca nella
virtuosa comunione coi suoi simili nel più
ampio concetto di “umanità”. L’uomo
è considerato dal Nostro non tanto nella
sua individualità, anzi negativa per
il suo potenziale confliggere con la socialità,
ma come elemento-base di
questa. In ciò egli affianca Rousseau (che
però lo odiava come ateo), il più
convinto assertore della socialità (per quanto
non poi tanto socievole), sia
nel porre i principi per il superamento del
dispotismo e sia nell’enunciare i
principi su cui fondare un nuovo tipo di
società, dove è il popolo ad esser
sovrano del suo destino, sia pure attraverso
i propri rappresentanti. Tuttavia
l’ateo francese vede nella monarchia costituzionale
il modello di riferimento,
mentre il deista svizzero lo vede nella repubblica.
È ancora il Sistema
della natura dove è delineata
un’antropologia teorica, ma gli affiancheremo altri scritti nei quali il
nostro filosofo chiarisce ed approfondisce
l’aspetto sociologico e morale del
suo pensiero.
Abbiamo titolato questo paragrafo Antropologia monistica, poiché
è proprio la visione di un’unità umana fisico-morale
a costituire l’elemento
caratteristico dell’antropologia holbachiana.
È pur vero che anche La Mettrie
ne L’uomo macchina aveva teorizzato l’unità dell’uomo, e tuttavia
il
filosofo di Saint Malô non lo poneva in una
prospettiva universalistica e
morale, ma lo lasciava essere nella sua singolarità
individualistico-egoistica
e quasi anarchica. Il Nostro invece, oltre
ad avere un senso morale molto forte
è vittima di quest’idea della “totalità”
che è del tutto assente in La Mettrie.
Partiamo da quanto scritto nel I Capitolo
del Sistema, poi ripreso
ampiamente ai capitoli dal VI al XVIII. Viene qui avanzata la
tesi in base alla quale la moralità è riducibile
alla fisicità, rilevando:
Si è visibilmente abusato della distinzione
che
si è fatta così spesso dell’uomo fisico e dell’uomo morale.
L’uomo è un essere puramente fisico; l’uomo
morale non è che un essere fisico
considerato sotto un certo punto di vista,
cioè relativamente ad alcuni dei
suoi modi di agire, dovuti alla sua organizzazione
particolare. [58]
Il senso morale
nell’uomo è una “particolarità” organizzativa
che lo distingue dal resto del
Tutto, ma tale particolarità, malgrado le
apparenze, rimane del tutto fisica e parte
della generale materialità. Quegli «alcuni
modi del suo agire» vengono così
chiariti:
Le sue azioni visibili, allo stesso modo
che i
movimenti invisibili suscitati nella sua
interiorità, che vengono dalla sua volontà
e dal suo pensiero, sono ugualmente effetti
naturali, conseguenze necessarie
del suo meccanismo particolare e degli impulsi
che riceve dagli esseri da cui è
circondato. [59]
Una definizione esplicativa di che cosa sia
la volontà ci viene da un’opera pubblicata
(1790), gli Elementi di morale
universale o Catechismo della natura, in cui, attraverso un sistema di
domande/risposte, d’Holbach riformula le
sue posizioni. A proposito della
volontà si legge:
La volontà è una tendenza o disposizione
ad agire
in un modo o in un altro, prodotta da un
moto di amore o di odio che
l’impressione gradevole o sgradevole, fatta
da un oggetto sui nostri sensi,
suscita in noi, impressione che diventa allora
un motivo. [60]
L’unità
tra il fisico e il morale viene ribadita
anche nel pressoché contemporaneo Saggio
sui pregiudizi, dov’è scritto:
Tutto
è connesso nel mondo morale come nel mondo
fisico. Le volontà degli uomini sono
soggette alle stesse leggi di tutti i corpi
della natura, spinte provenienti da
lati differenti fanno loro descrivere delle
risultanti mediane o imprimono loro
un cambiamento di direzione. [61]
Dunque,
i meccanismi di un cosmo fisico-morale fanno
descrivere traiettorie e mutamenti
di direzione secondo leggi necessarie e inderogabili.
Se si fosse potuto
pensare che d’Holbach avesse inteso superare
il meccanicismo metafisico di
Cartesio ci si deve disilludere. Per quanto
egli sia rigorosamente monista,
mentre Cartesio è un ambiguo pseudo-dualista
(si ricordi che è Dio ad aver creato
la res extensa e che in qualsiasi momento la può annullare),
è il
«meccanismo particolare» dell’uomo che genera
quel «certo punto di vista» che
fa supporre l’esistenza di un innato senso
morale nell’uomo. Ma siccome il
Tutto, in ogni sua minima parte, è comunque
determinato, anche tale punto di
vista umano non è che una delle conseguenze
della Necessità in una sua parte.
Il Tutto è quindi meccanicistico nella misura
in cui il suo essere (come primo
effetto della Necessità) diventa a sua volta
causa di una catena di effetti-cause
necessitati e susseguentisi come una catena,
sino ad interessare un essere
particolare, l’uomo, che “di necessità” ha
quel “certo punto di vista”
inevitabile.
Abbiamo insistito, in maniera forse un poco
pedantesca, sulla necessità e sui suoi derivati
al fine di evidenziare come col
determinismo ci si trovi sempre legati ad
una successione infinità di effetti
che diventano cause le quali creano una “catena
dell’essere” dove ogni ente
particolare è “già sempre dato”, al punto
che ogni evasione dai rigori del
determinismo, ovvero ogni sua possibile attenuazione,
è impossibile. E ciò non
solo perché in ogni causa è già compreso
il suo effetto, ma perché ogni altra
causa/effetto, essendo il Tutto l’insieme
inclusivo delle parti in quanto
globalità deterministica, è connessa/correlata
ad ogni altra parte in senso
olistico. Ne deriva che ogni uomo o donna
è parte “necessitata” a nascere, a
vivere e a morire come effetto della causalità
del Tutto; ma questo Tutto è
“quel che è” solo in virtù dell’essersi differenziato
in parti, che a loro volta
lo determinano.
Ma proseguiamo la nostra analisi, là dove
si dice:
Le sue [dell’uomo]
azioni visibili, allo stesso modo che i movimenti
invisibili suscitati nella
sua interiorità, che vengono dalla sua volontà
o dal suo pensiero, sono
ugualmente effetti naturali, conseguenze
necessarie del suo meccanismo
peculiare e degli impulsi che riceve dagli
esseri da cui è circondato. [62]
In
un’esposizione di carattere generale sarebbe
difficile comprendere il perché di
questa distinzione tra “movimenti invisibili”
suscitati dalla volontà ed altri
suscitati dal pensiero; in realtà, qui, la
distinzione è puramente descrittiva,
poiché, sia il volere e sia il pensare sono
per d’Holbach null’altro che
conseguenze contingenti di una “reazione
automatica”, ovvero «del meccanismo
peculiare e degli impulsi che riceve dagli
esseri da cui è circondato». Il
rapporto tra il pensare e il volere, ed il
fatto che un “voluto” diventi un
“pensato” e un pensato possa diventare un
voluto, perde infatti ogni
significato in quella circolarità dell’”essere-uno-tutto”
per cui ogni parte si
annulla nel Tutto (anzi, “è già” necessariamente
nel Tutto dall’eternità).
Poco dopo il Nostro pone il concetto di
felicità («Tutte le nostre intuizioni, le
nostre riflessioni, le nostre
conoscenze non hanno altro obiettivo che
di procurarci una felicità verso la
quale la nostra natura ci spinge a tendere
senza sosta.») [63].
Esso poteva parere in parte negato là dove
si era letto «subisca [l’uomo] senza
lamentarsi gli arresti di una forza universale
che non può ritornare sui suoi
passi ». In effetti il fatto che la necessità
neghi all’uomo ogni libertà di
determinarsi (in quanto “già determinato”
da essa) non priverebbe affatto l’uomo di una felicità “naturale”,
una felicità verso la quale è sospinto senza
sosta. Per d’Holbach non hanno
nessun senso affermazioni del tipo «ognuno
ha la propria idea di felicità a cui
aspirare»; per lui la felicità è una sola,
quella naturale, pre-definita,
già-pronta da cogliere, della quale si tratta
solo di appropriarsi pensando ed
agendo in maniera adeguata. Infatti:
Tutte le nostre idee, le nostre volontà,
le
nostre azioni sono effetti necessari dell’essenza
e delle qualità che questa
natura ha messo in noi, e delle circostanze
attraverso le quali siamo obbligati
a passare e ad essere modificati. In una
parola, l’arte non è altro che la
natura che agisce con l’aiuto degli strumenti
che ha fatto. [64]
L’arte,
cioè la capacità dell’uomo di determinare
se stesso, di modificare cose e
situazioni esterne, di produrre oggetti e
congegni non esistenti in natura (ma
da essa previsti) non sono altro che
opera della natura stessa che si serve degli
uomini (in quanto “strumenti”) per
meglio e più compiutamente realizzarsi.
La sfera morale non è altro che la fisicità
particolare, ma sempre necessitata, dell’homo sapiens che si manifesta
nella sua specificità:
L’uomo fisico è l’uomo che agisce per l’impulso
delle cause che i nostri sensi ci fanno conoscere;
l’uomo morale è l’uomo che
agisce per cause fisiche che i nostri pregiudizi
ci impediscono di conoscere. [65]
I
pregiudizi umani (anch’essi necessitati)
impediscono di scorgere la fisicità
della moralità e ciò obbliga a pensare che
questa, in quanto fisicità di tipo
ignoto, sia a sua volta determinata. Sorge
però una domanda: «determinata,
nello specifico, da che cosa, attraverso
che cosa e verso che cosa?» La
risposta più ovvia pare essere: «la felicità»,
ma rimane dubbio il fatto che la
moralità operi per la felicità e questa per
quella come “modo d’essere” univoco
di ogni uomo. Se però si considerano le opere
della maturità, d’Holbach pare
smentire questo principio intendendo conciliare
la “sua” morale, quella
ateistico-materialistica, con quella cristiana,
là dove ne l’Étocrazia [66], del 1776, imputa
ai ministri del culto di aver «misconosciuto
le massime sociali del
cristianesimo» [67], riconoscendo quindi alla
religione cristiana “in sé” principi morali
corrispondenti a quelli atei.
Opinione curiosamente confermata ne La Morale universelle, dove
addirittura d’Holbach invita i preti «non
già ad abbandonare soltanto il
fanatismo e lo spirito persecutorio» ma «
addirittura a farsi predicatori di
una morale “sociale” meramente laica» e «conforme
alla natura » sì da essere
«gradita all’essere che si venera come suo
autore.» L’invito, in realtà (ma in forma provocatoria),
era già presente anche nel Buon senso [68], a
testimonianza dell’intento di tentare di
convincere persino i suoi avversari
della validità dei suoi principi morali “naturali”.
Emerge allora un problema non da poco,
viste le premesse poste nelle prime opere
del Nostro, poiché come potrebbe mai
la morale cristiana, anti-atea e anti-materialistica,
confluire in una morale atea
“secondo natura”? Come si fa a stabilire
quale debba essere una “morale
naturale” se il concetto di natura si presta
a tante interpretazioni non
necessariamente atee? Sembra tuttavia che
per d’Holbach la natura autentica non
si offra ad interpretazioni differenti dalla
propria, salvo poi alludere a una
progressione perfezionistica abbastanza estranea
all’ateismo. Infatti subito
dopo aggiunge:
L’uomo selvaggio è un fanciullo privo di
esperienza, incapace di lavorare per la sua
felicità. L’uomo civile è colui che
l’esperienza e la vita sociale mettono in
condizione di trar profitto dalla
natura per la propria felicità. L’uomo dabbene
illuminato è l’uomo nella sua
maturità o nella sua perfezione. L’uomo felice
è colui che sa godere dei
benefici della natura; l’uomo infelice è
colui che si trova nell’incapacità di
trar profitto dai suoi benefici. [69]
Siamo
convinti che Rousseau sbagliasse nel ritenere
l’uomo primitivo saggio e felice,
ma restiamo anche perplessi non solo all’idea
che dei benefici che la natura
offre siano più consapevoli i civilizzati
dei primitivi, ma anche che questi,
in generale, siano più infelici di quelli.
Ciò anche perché nel Settecento
molti esploratori ed etnologi avevano già
descritto i selvaggi come individui
se non proprio felici almeno sereni nella
loro ingenuità, e sicuramente assai
meno problematici e tormentati dei civilizzati.
Ma si rimane anche perplessi
dinanzi a concetti di “maturità” e di “perfezione”
umane che riposano su un
ottimismo metafisico e antropico che è anch’esso
il frutto di un’illusione.
Vi è sicuramente ingenuità là dove poco
dopo si aggiunge: «La natura agisce con leggi
semplici, uniformi, invariabili,
che l’esperienza ci mette in condizione di
conoscere;». Pensare che la natura
abbia “leggi semplici” e mostrare totale
fiducia nel conoscerle era principio
dubbio anche per un uomo della fine del XVIII
secolo. E ciò non solo perché era
già stata scoperta la “matematicità” del
mondo fisico, ma anche perché (e lo
stesso d’Holbach, da conoscitore della chimica,
doveva essermene consapevole)
cominciavano a rivelarsi nelle reazioni chimiche
rapporti stechiometrici calcolabili
che sfuggivano del tutto ai sensi e che erano
conoscibili soltanto attraverso
l’esercizio della ragione. Persino il pensare
che l’uomo sia infelice perché si
è inventato gli dèi (compiendo un “errore”)
nasconde un’incoerenza, poiché, se
tutto è necessitato, perché mai gli uomini
avrebbero dovuto sbagliare? È certo che d’Holbach intenda
liberare l’uomo dall’illusione del Dio-Volontà
della Bibbia e del Vangelo, ma poi
lo butta nell’abbraccio di un Dio-Necessità
altrettanto inventato. Non basta:
negando all’uomo ogni libertà di vivere e
di pensare secondo volizioni
autonome, che possano prescindere dai condizionamenti
e dalle costrizioni
fisiche che lo dirigerebbero, egli diventa
un burattino in balia di un destino
pre-disegnato e totalmente etero-diretto.
Ma siccome un “disegno”
implicitamente presuppone anche un “fine”,
ci troviamo sì di fronte a un
determinismo che si sovrappone al finalismo
teologico.
La radicalizzazione del determinismo nel
“primo” d’Holbach (sino al 1772) implica
che tutto ciò che passa per la mente
dell’uomo sia nella weltanschauung necessitaristica “pre-costituito” e
“pre-ordinato”, sicché ogni suo desiderio,
ogni sua decisione, atteggiamento o
comportamento, sono “già” codificati e fissati
anteriormente al suo stesso
esistere. Ciò significa che quel tal uomo
o quella tal donna in quel tal posto
e in quel tal giorno “devono” nascere, diventare
così e non altrimenti fino al
loro ritorno alla materia. Si comprende bene
come ciò che “è gia” non possa
essere nient’altro che il teologico “tutto”
causa sui; onnipotente,
onnisciente ed eterno, ma siccome l’uomo
causa sui non è un Dio diventa ineludibile.
Ciò, nella storia della teologia filosofale,
ha preso variabilmente i nomi di: Essere,
Intelligenza, Necessità, Logos, Uno, Assoluto,
ecc., ma si tratta sempre del
Dio-Necessità che costituisce l’altro polo
teologico che insieme al Dio-Volontà
dei monoteismi completa lo scenario metafisico
globale. In fondo è
esattamente ciò che teorizzavano già i teologi
stoici Zenone di Cizio e
Crisippo di Soli, irriducibili sostenitori
del provvidenzialismo finalistico,
ma non meno di quanto lo saranno Spinoza
e più tardi Hegel. Né ci si deve far
ingannare dalla supposta differenziazione
ontologica tra la materia e lo
spirito, poiché nel concetto di “unità-totalità”
sono già contenuti entrambi
come espressioni essenziali dell’essere globale in cui si esaurisce ogni
differenziazione possibile reale, possibile
o immaginabile. Nell’Uno-Tutto
risulta sussunta e annullata ogni differenza
tra il “reale” e l’“apparente”, e
all’uomo, piccola “parte” del Tutto, rimane
solo l’ozioso contendere
intellettualistico tra il supporre reale
la materia e apparente lo spirito,
come nel materialismo, o viceversa, come
nello spiritualismo.
È interessante leggere come d’Holbach
inserisca l’uomo nel discorso circa l’ordine
e il disordine, al capitolo quinto
del Sistema, nei termini seguenti:
L’uomo, costituito o modificato in maniera
da
costituire quello che chiamiamo un uomo virtuoso, agisce necessariamente
in una maniera da cui risulta il benessere
dei suoi associati; quello che
chiamiamo cattivo, agisce necessariamente in una maniera da
cui risulta
la loro disgrazia. Poiché le loro nature
e le loro modificazioni sono
differenti, devono agire differentemente:
il sistema delle loro azioni o il
loro ordine relativo è, di conseguenza, necessariamente diverso.
[70]
Questa
“relatività” dell’ordine (si ricordi che
per d’Holbach « l’ordine non è
che la necessità») non può che lasciare perplessi,
poiché è difficile capire
che cosa si possa intendere con necessità
“relativa” dal momento che essa è,
per definizione, “assoluta”, ed egli stesso
l’intende sempre in tal senso. Ma
questo è lo scotto che egli paga con la sua
approssimazione teorica, volendo
mescolare considerazioni di puro realismo
fisico e sensistico con concetti
metafisici che sono con esso incoerenti.
Filosofare oppure filosofalizzare
(metafisicizzare), cioè il formulare filosoficità
o invece filosofalità, non
solo sono attività umane incompatibili, ma
negantesi reciprocamente, poiché la
filosofia è profana mentre la metafisica
è sempre sacra. Questo livello di
riflessione però è estraneo al Settecento
e quindi a d’Holbach, il quale peraltro
è soprattutto un pensatore etico, dove gli
uomini, la loro condizione e lo
stare insieme sono alla base delle sue preoccupazioni.
Nell’intento di
emancipare l’uomo in generale, ma specialmente
il meno fortunato, nella Morale
Universale (1776) il Nostro
pone se un criterio di giustizia e di equità,
sostenendo che la classe
dominante aristocratico-religiosa ha talmente
occupato, materialmente e
intellettualmente, ogni spazio umano che
è il “possesso” a qualificare l’uomo
in un mondo amorale dominato dai pregiudizi
religiosi, sociologici e politici.
L’accusa è severa:
Ma, in quasi tutti i paesi, i ricchi e i
grandi
hanno invaso tutto, si sono impadroniti della
terra per coltivarla solo
superficialmente o niente affatto: parchi
smisurati, giardini sconfinati,
foreste immense, occupano terreni che basterebbero
per impiegare tutte le
braccia dei disoccupati […] [71]
Per
i nullatenenti il concetto di “patria” è
reso estraneo e incomprensibile «a
coloro che non posseggono nulla» l’unico
modo di togliere gli indigenti dalla loro
condizione e di dar loro dignità
sarebbe l’assegnazione ad essi delle terre
incolte [72]. Il
presupposto è la sostanziale uguaglianza
di tutti gli uomini di fronte alla
natura e alla vita, e di converso l’infamia
da parte del potere costituito di
lasciare gran parte del genere umano a languire
nella miseria e nell’ignoranza.
E poi un ammonimento quasi profetico e un
invito ai potenti di stare attenti a
non esasperare i poveri, poiché la loro frustrazione
potrebbe trasformarsi in furore e questo diventare fatale per la
società tutta [73]. D’altra parte nell’Etocrazia si legge: «l’enorme sproporzione che
le ricchezze mettono tra gli uomini è la
fonte dei più grandi mali della
società.» [74]
15.4 La verità,
l’ignoranza e il pregiudizio
La volontà di produrre un “sistema”, con
la definizione di essenze e
concetti ai fini di una teoria sull’uomo
che lo riscatti da millenni di incomprensione
della natura, ha il suo punto topico nella
tematizzazione della “verità”,
oggetto principale del Saggio sui pregiudizi, apparso nel 1770, quindi
nello stesso anno del Sistema, ma assai diverso sia nel tono e sia nella
concisione dello stile [75]. L’opera, come tutte le precedenti, è
pubblicata sotto pseudonimo, in questo caso
a nome Du Marsais. Il tema della
verità, che riguarda i prima quattro capitoli
del libro, viene posto in
apertura con una citazione di Hobbes, uno
dei più importanti punti di riferimento
del Nostro:
Se
la natura dell’uomo lo obbliga, in ogni istante
della sua vita, a tendere verso
la felicità o a cercare di rendere la sua
esistenza piacevole, gli sarà
vantaggioso reperire i mezzi più idonei per
questo scopo e mettere da parte gli
ostacoli che si oppongono alla sua tendenza
naturale. Ciò posto, la verità è
necessaria all’uomo e l’errore non può che
essergli sempre pericoloso. «La
verità», dice Hobbes, «interessa agli uomini
solo perché è loro utile e
necessaria: le conoscenze umane, per essere
utili, devono essere evidenti e
vere: non vi è alcuna evidenza senza la testimonianza
dei nostri sensi: ogni
conoscenza che non sia evidente, non è che
un’opinione.» [76]
La
condivisione del punto di vista di Hobbes
pone immediatamente la contrapposizione
tra la verità e l’opinione, canonica già
in Platone ma qui vista in senso
opposto. Il materialismo, capovolgendo il
senso platonico dei termini che
considerava la speculazione metafisica produttrice
di verità e l’esperienza di mera
opinione, enuncia che solo questa reca verità,
mentre l’astrazione può produrre
soltanto opinione. Posizione sicuramente
corretta, ma non possiamo fare a meno
di rilevare che se la verità «è necessaria all’uomo» e l’uomo è
deterministicamente necessitato nelle sue
scelte, è difficile comprendere
perché non dovrebbe sempre scegliere essa
“per cogenza deterministica”. Sin dall’inizio
dell’opera d’Holbach riprende il concetto
di “esperienza” come fonte primaria
della conoscenza per avanzare una domanda
fondamentale e dare la risposta:
Così,
solo con l’aiuto dell’esperienza possiamo
scoprire la verità. Ma che cos’è la
verità? È la conoscenza dei rapporti che
sussistono fra gli esseri che
interagiscono o, se si vuole, è la conformità
che si trova fra i giudizi che
noi diamo degli esseri e le qualità che questi
esseri racchiudono realmente. [77]
Verità
come corrispondenza alla realtà è sicuramente
la definizione più corretta che
di essa si possa dare fuori dei meccanismi
della matematica e della logica, e
tuttavia qualche dubbio sulla nostra possibilità
di definire con chiarezza ed
esaustione i due concetti permane. Non per
d’Holbach, che sotto questo punto di vista mostra un
ottimismo disarmante offrendo tre esempi
di verità: il primo è che «il fanatismo è un male», il secondo che «il dispotismo è un abuso funesto e
distruttore», il terzo che «la virtù è necessaria
agli uomini». Nulla da
obbiettare sui primi due, quantunque un cattolico
integralista e un re
autocrate potrebbero avere qualcosa da ridire,
ma il terzo richiede un
chiarimento che d’Holbach ci dà nei seguenti
termini:
Socrate
diceva che la virtù e la verità sono la stessa cosa. Avrebbe però più
esattamente dovuto dire che la virtù è una
conseguenza della verità; questa,
rivelandoci i nostri rapporti o i legami
che ci uniscono con gli esseri della
nostra specie e lo scopo che ci proponiamo
in ogni istante, ci fa conoscere la
necessità di comportarsi nella maniera più
idonea a meritare l’affetto, la
stima e i soccorsi degli esseri di cui abbiamo
un bisogno continuo, e di
astenerci ugualmente da ciò che potrebbe
dispiacere loro o ritorcersi contro
noi stessi. [78]
La
verità dunque “rivela” e la sua rivelazione
evidenzia “rapporti” reali e quindi
veri, generando insieme “di necessità” la
virtù alla quale attenersi nei nostri
comportamenti. Tale virtù non fa riferimento
a valori trascendenti masi
dispiega nell’immanenza, è null’altro che
la “convenienza” di comportamenti
atti a meritarci benevolenza e amicizia da
parte dei nostri simili «di cui
abbiamo un bisogno continuo». L’estrema
concretezza dell’asserto rende giustizia
al vero significato del termine virtù
posto da d’Holbach, rendendo insussistenti
quelle critiche alla morale
holbachiana che la vedono tangente a quella
cristiana e ad essa sovrapponibile.
In effetti la virtù in d’Holbach è un frutto
della razionalità, poiché: «Ciò
che noi chiamiamo ragione non è che la verità
scoperta dall’esperienza,
meditata dalla riflessione applicata alla
condotta della vita.» [79]
Un circuito virtuoso lega così l’esperienza
alla condotta di vita attraverso la
riflessione e il ragionamento. Ma nella storia
umana le cose non sono andate
così, poiché «L’intero genere umano è, di
razza in razza, martire e vittima dei
suoi pregiudizi di ogni genere.» [80]
e tra questi i più perniciosi sono stati
quelli religiosi, determinati dallo
sfruttamento dell’ignoranza da parte di uomini
«che si sono attribuiti il
potere di regolare il destino degli altri»
e che «calunniano la natura e la
ragione; le fanno passare per guide infedeli».
Essi inculcando la credenza in
misteri e oscurità di ogni genere hanno finito
per terrorizzare l’umanità e
«soffocare nell’uomo lo stesso desiderio
di cercare la verità, schiacciare la
natura sotto il peso del alloro autorità,
a sottomettere la ragione al giogo
della fantasia.», per cui «È così che i ministri
della religione, divenuti in
ogni paese i primi precettori dei popoli,
hanno giurato un odio immortale alla
ragione, alla scienza, alla verità.» [81]
Le conseguenze di tale attività
mistificatoria sono devastanti, poiché l’asse
tra il potere politico e il
potere religioso (come già aveva ben visto
Meslier) fa sì che due poteri
abusivi si legittimo reciprocamente a spese
del popolo. Mentre per natura e
ragione dovrebbero essere gli uomini a scegliersi
il capo, poiché «L’autorità
sovrana è fondata sulla volontà dei popoli»
d’Holbach sottolinea e ammonisce:
«date ad essa per base l’autorità divina
e presto i sovrani ne abuseranno per
rendere i loro sudditi infelici e immergersi
nel crimine.» [82]
Ma il crimine è anche costituito dall’istituzionalizzazione
della violenza:
questa si basa sulle armi e i guerrieri sono
i prosecutori di quella barbarie
che ha prevalso sulla cultura, coltivando
la menzogna e l’impostura ed
alleandosi ai loro creatori, altrettanto
istituzionalizzati:
I
pregiudizi che, nelle nazioni moderne, diventate
però più civilizzate,
attribuiscono ancora così grandi vantaggi
alla professione delle armi, sono
prove della loro venerazione irrazionale
per l’antichità e resti di un’antica
barbarie che faceva considerare la violenza,
la rapina, l’omicidio come azioni
lodevoli e quelli che li esercitavano come
personaggi distinti. [83]
E
se si vuole trovare la fonte dell’oppressione
e della violenza «saremo
costretti a risalire a ciò che si praticava
presso gli Sciti, i Celti, i Galli,
i Germani, i Sarmati, i Vandali, i Goti,
ecc.» in breve, presso i selvaggi, di
cui i principi e i grandi hanno accuratamente
conservato le follie. Follie
basate su dei simboli terribili e rozzi come
gli stemmi, rispondenti a
quell’arte puerile « conosciuta sotto il
nome di Araldica, che servì da
base alla scienza non meno futile delle genealogie.» [84]
Per un nobile, sia pure d’acquisto, la posizione
è molto coraggiosa;
soprattutto perché appare concettualmente
devastante per una struttura sociale,
quella del Settecento, che ha visto l’Illuminismo
ma anche l’apice
dell’arroganza di un’aristocrazia che vede
incrinata la propria supremazia
economica e politica da parte di una borghesia
alla quale si devono tarpare subito
le ali con leggi adeguate per bloccarne l’ascesa.
D’Holbach colpisce anche duramente il
militaresco “senso dell’onore”: «Ancora a
questi briganti feroci e ombrosi gli
europei moderni sono debitori delle loro
idee così crudeli e false sul punto
d’onore, e di quei combattimenti singoli o duelli
[…] » e che «si mostrano
armati di una spada che annuncia che essi
sono sempre pronti a distruggere il
loro simile e vendicarsi da sé.». Un’apologia
della mitezza e un pacifismo di
fondo che di cui d’Holbach si fa portatore,
ma allo scopo anche di
sottolineare, per contrasto, che «Alla barbarie
altèra della nobiltà celtica la
nobiltà moderna deve ancora il disprezzo
che mostra per le scienze e per le
arti.». [85] In altre parole, l’idealizzazione delle
cosiddette “virtù” guerriere ha portato a
caricarle di prestigio sì da
renderle, paradossalmente, portatrici di
“nobiltà”, mentre in realtà si tratta
soltanto di “vizi” fondati sulla barbarie.
La conseguenza più grave è che la vera
nobiltà, acquisibile attraverso un’arte e
una scienza basate sulla mitezza,
fanno sì che queste attività umane non solo
vengano messe in ombra, ma talvolta
rese persino oggetto di disprezzo in quanto
attività ritenute plebee. Si
comprende bene come considerazioni di questo
tipo dovessero piacere poco a un
sovrano pur illuminato come Federico II di
Prussia, che sulla nobiltà guerriera
aveva fondato il proprio stato pur mostrando
nei confronti dell’arte e della
scienza grande considerazione [86].
D’altra parte, secondo d’Holbach «Un
governo militare sarà sempre feroce, violento,
turbolento: non si potranno fare
intendere leggi, i costumi saranno necessariamente
corrotti, la giusti[87]zia
sarà proscritta e i popoli non arriveranno
civilizzarsi perfettamente.» [88]
Si comprende bene come questa posizione
holbachiana pecchi di ingenuità politica,
ma enunci un profondo senso etico
molto avanzato, tipico del mondo contemporaneo,
che vede un modo corretto di
applicare la legge senza il ricorso alla
violenza fisica se non nella misura
dello stretto necessario. Ma nel Settecento
il ricorso alla dissuasione della
sovversione e del crimine attraverso la violenza
è ancora sistematico, e da ciò
la presa di posizione del Nostro. Una violenza
di tipo oppressivo che è un’arma
fondamentale del potere e che gli fa ribadire:
«I sovrani esercitano un potere
arbitrario » e «I Franchi, i Goti, i Visigoti
regnano ancora su di noi » .
15.5 Il senso della filosofia
Con una prima domanda nel Capitolo VII del
Saggio sui pregiudizi: «A che serve la saggezza se essa non rende
felici?», e con altre due: «In breve, come
amare la saggezza, se non si
conoscono i suoi vantaggi o se non si avvertono
i mali che produce la follia?
Come procurarsi questa saggezza senza cercare
la verità?» [89]
d’Holbach pone il problema di che cosa debba
essere la filosofia. Segue una
prima definizione: «Il filosofo è dunque
un uomo che, conoscendo il prezzo
della saggezza e i pericoli della follia,
per la felicità propria e per quella
degli altri, lavora a cercare la verità.»
Abbiamo qui chiaramente enunciato il
senso di un filosofare che deve anche tendere
alla realizzazione di una
possibile felicità del genere umano. Una
filosofia eudemonistica, quindi, che
riprende la tradizione epicurea che già La
Mettrie aveva chiaramente enunciato,
però in una chiave amoralistica e individualistica
che d’Holbach non può condividere.
Egli pare piuttosto riprendere premesse sociologiche
enunciate da Helvétius, di
cui il Nostro riprende parecchi temi insieme
a quello dell’interesse
come movente etico primario. Ma la strada
verso la saggezza e la felicità è
impedita dalla presenza di innumerevoli ostacoli
di carattere pregiudiziale che
come una fitta nebbia impediscono di scorgere
la verità. La filosofia ha quindi
il compito di far dileguare questa nebbia
e di rendere visibile l’orizzonte
della verità, che è anche quello della realtà,
quello della saggezza e quello
della felicità. Ricordiamo, a proposito di
“filosofi-guida” e di “guardiani
della verità”, il progetto totalitario di
Platone nel Leggi, del tutto convinto
che i filosofi debbano decidere il destino
dell’umanità. Il riferimento però
non tragga in inganno: in realtà Platone
perseguiva proprio l’obbiettivo
opposto rispetto a d’Holbach, ovvero l’accantonamento
della realtà della natura
per fondare una filosofia unicamente sull’idealità
del divino, e quindi del
“pregiudizio” trascendentalista. D’altra
parte la posizione di d’Holbach è
chiara, la filosofia è liberazione non già
come in Platone dai lacci
dell’immanenza, ma, al contrario, dai lacci
della trascendenza. Una liberazione
che è obbiettivo e compito della filosofia,
poiché:
L’uomo
più libero è colui che ha il minor numero
possibile di pregiudizi; l’uomo più
felice è colui che ha il minor numero possibile
di bisogni, di passioni, di
desideri o che è più capace di soddisfarli;
l’uomo più soddisfatto è colui il
cui spirito è più piacevolmente impegnato
e la cui anima gode perlopiù del
grado di attività di cui è suscettibile;
l’uomo più contento di se stesso è
colui che ha diritto di amarsi e stimarsi,
che rientra con piacere nella
propria interiorità e che ha la coscienza
di meritare da parte degli altri i
sentimenti che ha per sé. Così il filosofo
è libero[90]
Definizione
chiara e pragmatica di come si esprima la
libertà dal pregiudizio, realizzata
nel filosofare e della quale il filosofo
ne è esempio e modello intellettuale.
Il filosofo, dunque, come il saggio che coniuga
la propria interiorità con
l’immanenza dell’essere in cui è incluso,
e dove “l’altro” è lo specchio in cui
cogliersi e relazionarsi nel comune tendere
verso la felicità e la liberazione
dall’ignoranza. Ma il saggio è anche “medico”
dell’umanità (si ricordi il quadrifarmaco
di Epicuro) e come tale dev’essere comprensivo
e tollerante col paziente quanto
spietato con la malattia:
Il
vero saggio, se vuole meritare la fiducia
dei suoi simili, se aspira alla
gloria di esser il medico del genere umano,
deve mostrargli l’interesse più
genuino; deve compatirlo, consolarlo, fortificarlo,
guarirlo; deve entrare
nelle sue pene, tollerare le sue deviazioni,
considerare i suoi dispiaceri e le
sue passioni come effetti necessari
della sua malattia e non scoraggiarsi per
la sua ingratitudine per i suoi
deliri; il momento della riconoscenza sarà
quello della guarigione. Che dico?
Il saggio deve la sua tenerezza e la sua
pietà al vizioso, allo stesso
criminale, deve compatirli per i legami vergognosi
che li avvincono al male,
per le infelici abitudini che rendono il
vizio necessario al loro benessere,
[…] [91]
C’è
francamente da rimanere un po’ sconcertati
di fronte a un programma
“terapeutico” che eccheggia abbastanza da
vicino quello dei “pastori di anime”
della più vieta religiosità. Eppure non ci
sentiamo di biasimare d’Holbach per
questo “programma di redenzione” che può
suonare un po’ strano per il
materialista, ma è che dettato da un’eticità
e da una sincerità profonde ed
autentiche, quantunque piuttosto ingenue.
Egli fa della filosofia una missione,
e se la realizzazione dei suoi fini deve
portarlo a compromessi col “suo” Diavolo,
ovvero con la religione, sarà disposto persino
a rinunciare a propalare il
proprio ateismo. Infatti, dal 1772 in poi,
non ne farà più parola, esprimendosi
soltanto più in nome di una “morale della
natura” che può accettare di
innestarsi persino sulla morale religiosa
per mondarla dei suoi difetti.
Al Nostro interessa tuttavia dimostrare,
senza ribadire esplicitamene l’ateismo espresso
nel Sistema, che esso,
contrariamente al pensare comune, non è affatto
portatore di immoralità. Al
contrario, è il vero interpretare di una
sana“morale della natura” alternativa
a quella spesso perversa della religione.
Sulla base di un programma etico così
definito d’Holbach non può esimersi dal distinguere,
più o meno come farà anche
il teologo Kant, tra un filosofare teorico
e uno pratico, anche per porre in
modo chiaro l’importanza dell’educazione
ai fini del superamento del
pregiudizio. Così ci precisa:
Distinguiamo,
dunque, due specie di filosofia: l’una speculativa e l’altra pratica.
L’una e l’altra possono ancora suddividersi
in due branche, quella naturale,
che si occupa del temperamento, e quella
acquisita. Comunque sia, guardiamoci
dal considerare come amici della saggezza,
come benefattori dl genere umano
quegli imprudenti pensatori che, talvolta,
hanno inventato sofismi ingegnosi
per discolpare il crimine, legittimare il
disordine e proiettare il dubbio
sulle regole immutabili dei buoni costumi.
Per esser un filosofo, non basta
attaccare i pregiudizi ricevuti, occorre
sostituirli con verità utili; è poca
cosa combattere i deliri della superstizione
se non la si rimpiazza con la sana
ragione. Invano il filosofo ha annientato
le chimere, i dogmi, le virtù false e
frenetiche che la religione riverisce, se
dall’altro lato permette ai mortali
di seguire le loro inclinazioni sregolate
e abbandonarsi senza vergogna alle
loro cieche passioni. [92]
Il
linguaggio è un poco “pretesco”, ma si spiega
con quel voler “rimpiazzare” la
superstizione con la ragionevolezza. In quanto
a quegli «imprudenti pensatori»
che assolvono il crimine e legittimano il
disordine non si può pensare a Sade,
che comincia a pubblicare solo dal 1782 in
poi, ma alla letteratura libertina
più spregiudicata, che d’Holbach doveva sicuramente
conoscere e assai poco
condividere.
Contrariamente alla morale religiosa,
propensa a condannare tutte le passioni,
quella naturale fa una distinzione tra
le deplorevoli e le lodevoli. L’uomo non
agisce mai senza motivo e le
motivazioni nascono dalle passioni; così,
persino quelle negative possono
diventare generatrici di bene a partire dal
male. Infatti:
Dobbiamo
i nostri lumi alle nostre passioni; l’amore
della gloria, il desiderio di
distinguersi, l’onore connesso alla scoperta
delle grandi verità, la stima che
s’attirano prima o poi quelli che diffondono
lumi sono passioni utili e
legittime, senza le quali l’uomo di talento
non sarebbe mai tentato di uscire
dalla sua inerzia. Che dico? Le passioni
più moleste sono talvolta servite a
illuminare gli uomini e la natura ad estrarre
il bene dal seno stesso del male.
[93]
La
motivazione non è altro che l’”interesse”
a vedere riconosciuti i propri sforzi
a favore dell’umanità e la passione si giustifica
in quanto mezzo che spinge
l’uomo ad adoprarsi per un fine positivo.
Ma come si correlano le passioni alla
filosofia? Anche il filosofo agisce in base
a delle motivazioni passionali e «ne
ha senza dubbio per elevarsi contro gli errori
che fanno l’infelicità del
genere umano e applicarsi alla ricerca delle
verità utili.» [94] Il filosofo è
dunque un “cacciatore” di verità utili al
genere umano e non “investito” di
verità come sono i teologi, ma per agire
in tal senso deve sentirsi motivato
anche da giusta ambizione. Perciò:
Imputare
al filosofo di volersi distinguere, di aspirare
alla stima degli altri, di
compiacersi dei suoi lavori, di attendere
dai suoi concittadini la riconoscenza
che ne è salario legittimo, è rimproverargli
di esser uomo; è pretendere che
agisca senza motivi; è voler che la filosofia
lo snaturi. [95]
Di
fronte a un concetto metafisico della filosofia,
che vede talvolta nel
pensatore un super-uomo che si eleva a disopra
dell’uomo “normale” è qui
ribadita la normalità di chi si prodiga per
la verità. La filosofia e la
superstizione sono inconciliabili, perciò
la saggezza non deve pretendere
riconoscenza per il fatto stesso che la superstizione,
condivisa dai molti,
genera onori e devozione. Quindi: «Il saggio
non deve affatto deprimersi per
l’ingratitudine dei suoi concittadini; egli
è l’uomo di tutti i tempi e di
tutti i paesi.» [96]
Peraltro:
La
verità, come il sole, è fatta per illuminare
il globo intero, non invecchia
mai; non conosce i limiti che
convenzioni passeggere hanno messo alle società
politiche; la sua luce è
destinata a tutti gli abitanti della terra;
la sua fiaccola, spesso velata da
nubi o temporaneamente eclissata agli occhi
di un popolo, serve tuttavia a
guidarne un altro. [97]
Un
gran bell’elogio della verità, ma l’assolutezza
della verità non è forse il
fondamento di tutte le teologie? Il sospetto
è d’obbligo: eppure non faremo
eccessivo carico a d’Holbach di essere, anche
in questo caso, piuttosto
dogmatico; in fondo, tutti i grandi moralisti
sono stati tali e il Nostro ha
sicuramente il piglio del moralista. Ma il
suo è un moralismo che guarda
lontano e non cerca consensi immediati (il
fatto stesso dell’anonimato lo
testimonia), ed è per questo che il filosofo
deve saper patire l’insignificanza
sociale e la misconoscenza:
L’uomo
che pensa si consoli, dunque, se le sue riflessioni
e i suoi lavori sono spesso
inutili al suo secolo e mal ricompensati
dai suoi contemporanei. L’amico della
verità deve portare le sue vedute al di là
dei limiti della sua vita; i suoi
occhi penetranti guardino i secoli futuri
[…] [98]
Egli
scrive queste parole prima del 1770, e in
quel momento (ha appena pubblicato il
Sistema sotto lo pseudonimo di Mirabaud) pare essere
vittima della
delusione circa il suo messaggio, consapevole
di una certa irricevibilità di
esso. In realtà qui egli cerca di consolare
se stesso in quanto filosofo poco
considerato, ed anche per il fatto che lo
stesso concetto di filosofia è stato
da sempre oggetto di mistificazione:
Infatti,
da molti secoli, quale indegno abuso non
si è fatto dell’arte di pensare e di
ragionare? La filosofia fu invasa da
preti; corrotta da essi, prestò soccorsi
agli apostoli dell’irrazionalità;
asservita alle loro vedute […] Così sfigurata,
la filosofia divenne
irriconoscibile agli occhi di quelli che
vollero sinceramente occuparsi della
ricerca del vero e dell’utilità del genere
umano: nelle sue ipotesi assurde,
nella sua cattiva fede, nelle sue sterili
sottigliezze, nei suoi effetti spesso
funesti alle nazioni, essi non riconobbero
una scienza che giudicarono dover
esser la pietra di paragone della menzogna
e nemica di tutto ciò che può
nuocere al benessere degli uomini. [99]
Difficile
depurare la filosofia dopo tanta continuità
nella mistificazione di essa e
quindi “contro l’uomo”. D’altra parte, se
il fine dell’uomo è la felicità, la
filosofia deve essere “utile” al suo conseguimento,
ma siccome ciò presuppone
la conoscenza della verità e questa la libertà
dal pregiudizio nasce la
seguente correlazione: «Libertà, verità, utilità, ecco i
tratti distintivi dello spirito filosofico,
ecco l‘uniforme del filosofo.» [100] Solo in un lontano passato alcuni filosofi
sono riusciti nell’intento: «È così che Democrito,
Epicuro, Lucrezio suo
discepolo, e tanti altri hanno osato affrancarsi
dai ceppi della superstizione
e della menzogna per innalzarsi alla scienza
attraverso vie nuove. […] Il loro
esempio fu seguito da moderni, che osarono,
come loro, uscire dai sentieri
battuti e tentarono di mettere l’uomo sulla
strada della felicità.» [101]
Per aver un’idea di quali siano i referenti
del Nostro troviamo nel Buon
senso (1772) un’utile citazione dei moderni con
quella degli antichi nei
termini seguenti:
Alcuni
filosofi antichi e moderni hanno avuto il
coraggio di prendere come guida la
ragione e l’esperienza e di liberarsi
dalle catene della superstizione. Leucippo,
Democrito, Epicuro, Stratone e
alcuni altri greci hanno osato squarciare
lo spesso velo del pregiudizio e
liberare la filosofia dai ceppi teologici.
Ma i loro sistemi troppo semplici,
troppo aderenti alla realtà sensibile, troppo
privi di elementi fantastici per
allettare immaginazioni amanti delle chimere,
dovettero cedere il passo ai
Platoni, ai Socrati, agli Zenoni. Tra i moderni,
Hobbes, Spinoza, Bayle, ecc.
hanno seguito le orme di Epicuro, ma le loro
dottrine non trovarono che pochi
seguaci, in un mondo ancora toppo inebriato
da favole per essere in grado di
ascoltare la ragione. [102]
Ma
della filosofia occorre dare più puntuali
definizioni e d’Holbach ce le offre
al capitolo XII del Saggio, dove troviamo la distinzione tra speculativa
e pratica. Una sintetica definizione ci dà la prima
come «conoscenza
della verità o di ciò che può veramente e
solidamente contribuire alla felicità dell’uomo» e la seconda come «conoscenza applicata alla condotta della
vita». [103]
Segue la precisazione: «La filosofia speculativa
dipende dalla giustezza delle
nostre idee, dei nostri giudizi, delle nostre
esperienze.» e «La filosofia
pratica dipende dalla nostra organizzazione
particolare, dal nostro
temperamento, delle circostanze in cui ci
troviamo, dalle passioni più o meno
forti che abbiamo ricevuto dalla natura e
dagli ostacoli più o meno potenti che
incontriamo per soddisfarle.» Una prima
difficoltà nasce dal concetto di “giustezza”,
e ciò soprattutto in relazione al
determinismo holbachiano, poiché se la necessità
domina il cosmo, e quindi tutto
ciò che esso include, compreso l’uomo, è
pilotato dalla necessità, risulta
difficile capire come il concetto possa prescindere
da quello di “scelta”.
Vediamo come è definito lo scegliere nel
Catechismo della natura:
[Scegliere]
È essere determinati dalla passione più forte;
essa allora trascinala nostra
volontà, e agiamo per ottenere l’oggetto
che amiamo più di quanto non lo
temiamo, o per evitare quello che odiamo
più di quanto lo amiamo. [104]
Definizione
piuttosto riduttiva, poiché non spiega la
ragione per cui una decisione possa
essere presa “contro” il desiderio, per esempio
per ragioni ideologiche o
morali. La negazione della libertà di scelta
cozza contro l’evidenza dei fatti
reali, e conduce, per un verso, in un labirinto
di contraddizioni, per un
altro, in un vicolo cieco senza uscita. Ma
poco oltre è d’Holbach stesso a
smentirsi, nei termini in cui affronta il
tema della felicità e risponde alla
domanda «Che cosa consegue dall’essere felici?»,
alla quale risponde:
Ne
consegue che l’uomo, per rendersi felice,
deve compiere una scelta fra i
piaceri, gestirli con saggezza, resistere
alle passioni troppo forti ed evitare
tutto ciò che può disturbare l’ordine nella
sua macchina sia immediatamente sia
per le sue conseguenze lontane. [105]
La
successione precettistica è un’evidente negazione
del presunto automatismo
deterministico del desiderio e della dialettica
odio/amore.
In realtà, affinché il concetto di “scelta”
abbia un senso e si legittimi, occorre che
l’uomo possegga la libertà di
scegliere, cioè il libero arbitrio, e non
è chiaro come questo possa trovare
posto in un sistema deterministico. Ma anche
per quella “pratica” le cose non
sono chiare, poiché, deterministicamente,
sia «la nostra organizzazione
particolare», sia il «nostro temperamento»,
sia «le circostanze», sia «le passioni
più o meno forti che abbiamo ricevuto dalla
natura» e sia «gli ostacoli» sono
determinati dalla necessità. Come conciliare
ciò con la variabilità casuale del
nostro patrimonio genetico e quello delle
circostanze, in cui il frutto di esso
deve competere per l’esistenza? La
riflessione holbachiana risulta incoerente
ogni qual volta si correlano
ontologia ed etica, mentre questa, considerata
separatamente, ha la sua coerenza
interna tra i due poli concettuali di “natura”
e di “felicità”, dove la
naturalità include la felicità alla luce
della ragione. Leggiamo ancora:
La
filosofia speculativa, non essendo che la
ricerca della verità, insegna a
fissare un giusto prezzo alle cose, in base
alla utilità reale che ne può
derivare; offre dunque necessariamente dei
vantaggi a coloro che se ne
occupano; se non distrugge i vizi del temperamento,
serve perlomeno a
correggerli, se non rimedia all’ardore delle
passioni, fornisce perlomeno
motivi per reprimerle. [106]
Sorge
una domanda: come può il temperamento produrre
vizi se è frutto genetico,
quindi “fisico”, e quindi “natura”? D’Holbach
ci risponde con un’altra
definizione:
Quanto
alla filosofia pratica, essa può esser fondata
solo sul temperamento. Passioni
moderate, desideri limitati, un animo tranquillo
sono disposizioni necessarie
per giudicare sanamente delle cose e regolare
la propria condotta: un animo
impetuoso è soggetto a smarrirsi. Le nostre
passioni sono più efficacemente
represse solo quando a reprimerle è la natura;
i nostri bisogni sono più facili
da soddisfare solo quando sono da essa limitati.
[107]
Ma
come può la natura “reprimere” le passioni,
quando è essa stessa generarle in
base al corpo e alla mente di cui ci ha dotati?
E se un animo impetuoso «è
soggetto a smarrirsi» come sarà mai possibile
limitarlo per mezzo di una natura
necessitata se il soggetto non decide e quindi
“sceglie” di rinnegare la
propria natura con la propria volontà? La
repressione del proprio temperamento
per «regolare la propria condotta» non assume
un carattere costrittivo e violento
contrari al raggiungimento della felicità?
Se si apre un conflitto tra la
repressione di passioni e desideri smodati
con il temperamento che li supporta
come è possibile raggiungere «un animo tranquillo?»
Possono parere domande
severe, ma ci vediamo costretti a farle non
tanto per evidenziare le
contraddizioni holbachiane, quanto per mettere
in evidenza un afflato morale
che esorbita i limiti di una filosofia che
si pretenderebbe “utilitaria” e a
soli fini eudemonistici. In realtà quella
holbachiana è una morale severa, che
punta al conseguimento della virtù assai
più della felicità, poiché implica, in
qualche maniera, la “repressione” delle pulsioni
negative per il conseguimento
di una felicità che “deve” coincidere con
la virtù.
Non basta. Parrebbe logico attendersi che
d’Holbach faccia attingere la corretta filosofia
solo dalla ragione. Non è
così:
Il
vero filosofo attinge la filosofia nel proprio
cuore; vi trova le sue passioni
nell’ordine; i desideri che vi si formano
sono onesti e facili da appagare,
quelli che sarebbero disonesti o difficili
da soddisfare sono subito repressi
dai motivi destinati a contenerli. [108]
Dunque
il vero filosofo per un verso “reprime” i
desideri «disonesti e difficili», ma
attinge le motivazioni del proprio filosofare
nel proprio cuore, che è la sede
dei sentimenti. Il presupposto è che i sentimenti
del filosofo siano “già”
stati corretti e modellati. Non della natura,
che è solo responsabile della
nostra struttura mentale, ma dalla volontà
di correggerli e dalla libertà di
poter metter in atto tale scelta di vita.
Il filosofo deve allora già aver
operato una modificazione di sé attraverso
la filosofia. Ma se la filosofia è
un mezzo di emancipazione mentale, ed è difficile
pensare che la natura ce ne
faccia dono (come e quando?) se ne deve dedurre,
ancora una volta, che il
nostro libero arbitrio ce la faccia scegliere
come guida del nostro essere
uomini tra altri uomini, dotati, esattamente
come noi, della possibilità di
“scegliere” che cosa essere e come vivere.
Per questo motivo essere filosofi è
difficile (o anche innaturale?) e tuttavia
le avversità che egli incontra sono
«necessarie». Di fronte alle difficoltà:
Egli
si avvolge allora nel mantello della filosofia, che non è altra cosa
dall’appagamento di sé, dalla calma interiore,
dal ripiegamento piacevole su se
stesso, che possono esser solo il patrimonio
della saggezza pratica. [109]
Un’evocazione
dell’etica epicurea, tendente all’aponìa e all’atarassia, cioè al
vero «appagamento di sé». Ma il filosofo
epicureo è “libero” e sa di dovere
fare i conti con una natura che può operare
in modo “casuale” (come frutto
della parenklisis), mentre il filosofo holbachiano non solo
è
rigorosamente determinista (e il determinismo
esclude categoricamente sia la
libertà che il caso), ma deve anche reprimere
le pulsioni negative creando una
tensione tra l’essere e il dover-essere assai
poco favorevoli all’aponìa
e all’atarassia. Abbiamo l’impressione che il mantello della
filosofia sia una sovrastruttura consolatoria che
deve compensare le
difficoltà esistenziali e le frustrazioni
del pensatore di fronte a quell’inevitabile
isolamento sociale che l’eudemonista Epicuro
consigliava. La differenza sta nel
fatto che Epicuro pensava al destino dei
“pochi” che avrebbero abbracciato la
sua filosofia, mentre d’Holbach pensa all’umanità
intera. Da ciò la
frustrazione per l’incomprensione e l’emarginazione
ma anche la consapevolezza che:
La
filosofia non può senza dubbio cambiare il
temperamento né rendere l’uomo
impassibile, ma perlomeno gli fornisce consolazioni
sconosciute a quelli che
non hanno riflettuto affatto. [110]
Ma,
aggiungiamo noi, quelli che « non hanno riflettuto
affatto », gli animi
semplici (talvolta anche un po’ zotici!),
quelli che si accontentano di “vivere
senza pensare”, non saranno poi gli unici
uomini veramente felici?
15.6 L’inesistenza di Dio
D’Holbach è il pensatore del Settecento che
più di ogni altro ha analizzato il concetto
di Dio nelle sue più note
espressioni per confutarle e dimostrarne
l’inconsistenza. Abbiamo già rilevato
come il concetto di Dio per d’Holbach sia
perlopiù quello convenzionale e
tradizionale del monoteismo, ma si dà conto
anche del deismo, dal quale in
gioventù era stato attratto. Sullo sfondo
di questo, per quanto non
esplicitamente tematizzato, sta ovviamente
lo spinozismo, sul quale durante
tutto il XVIII secolo pesa ancora l’accusa
di ateismo. Spinozismo che ha una
forte presenza nell’ontologia holbachiana,
essendo fondata sullo stesso
concetto di necessità per quanto nel Nostro venga spogliato di
ogni
elemento spiritualistico. Difficile dire
quanto vi possa essere della teologia
stoica, quella sì materialistica, in d’Holbach,
poiché degli stoici greci non
vi sono cenni significativi; mentre ci sono
del romano Seneca, uno stoico sui
generis imbevuto di neopitagorismo e platonismo.
In ogni caso è sicuramente
Hobbes il pensatore precedente più presente
a d’Holbach, richiamato numerose
volte e in varie opere.
Il concetto di Dio è oggetto privilegiato
d’analisi già nel Sistema della natura, e ad esso sono dedicati gli
ultimi due capitoli del I Tomo e tutto il
II Tomo, ma è ne Il buon senso,
del 1772 ( una sintesi delle pagine dedicate
alla religione nel Sistema)
che il Nostro offre anche un affinamento
delle sue tesi, dove si tiene conto
delle osservazioni critiche corse nei due
anni che separano i due lavori. Anche
questo secondo conta sull’anonimato, e stranamente,
a partire dal 1791, l’opera
è attribuita a Meslier per ritornare soltanto
nell’Ottocento al suo autore. Il
buon senso, oltre che più efficace sintesi dei temi
del Sistema, è
anche opera letterariamente più concisa e
stilisticamente più corretta, esente
dalle pesantezze e prolissità tipiche del
Sistema. Cominciamo col cogliere da subito il senso
del titolo all’inizio della Prefazione:
Se
si vogliono esaminare spassionatamente le
credenze degli uomini si rimane molto
meravigliati nel constatare che, anche riguardo
ai problemi che essi
considerano come i più essenziali, niente
capita più di rado che vederli far
uso del buon senso, cioè di quella parte
della capacità di giudizio che è
sufficiente per conoscere le verità più semplici,
per rifiutare le assurdità
più manifeste, per rimanere colpiti da contraddizioni
evidenti. Di ciò abbiamo
un esempio nella teologia […] codesti principi
non sono che ipotesi azzardate,
immaginate dall’ignoranza, diffuse dallo
stato d’animo esaltato o dalla
malafede, adottate dalla pavida credulità,
conservate nell’abitudine che non
ragiona mai, riverite soltanto perché incomprensibili.
[111]
Non
si può dire che il Nostro manchi qui di chiarezza
e di buon senso nel
significato cartesiano dell’espressione [112].
E a proposito di Dio:
La
nozione di quest’essere inconcepibile, o
piuttosto il nome con cui lo si
designa, sarebbe una cosa priva di ogni interesse
se non causasse innumerevoli
disastri nel nostro mondo. [113]
Il
fenomeno religioso potrebbe essere tollerabile
se non fosse per i disastri che
produce sia sul singolo individuo e sia alla
società nel suo insieme. Vedremo
nel paragrafo seguente come il concetto di
amoralità religiosa sia ritenuta causa
primaria della depravazione del genere umano
e come soltanto la sua cassazione
possa indurlo ad avviarsi su un percorso
virtuoso di vera moralità. Oltre
all’elemento della perniciosità morale d’Holbach
passa a considerare un secondo
elemento ancor più negativo della religione:
la ferocia. La religione è latrice
di ferocia dogmatica e intollerante perché
è nata in tempi e contesti feroci:
In
origine, i popoli selvaggi, feroci, perpetuamente
in guerra tra loro, hanno
adorato, sotto nomi diversi, qualche Dio
conforme alle loro idee, cioè crudele,
carnivoro, egoista, avido di sangue. In tutte
le religioni della terra troviamo
un “Dio degli eserciti”, un “Dio geloso”,
un “Dio vendicativo”, un “Dio
sterminatore”, un Dio che si rallegra delle
carneficine e che i suoi adoratori
si sono fatti un dovere di servire secondo
i suoi gusti. [114]
Il
termine “carnivoro” viene spiegato subito
dopo coi sacrifici di animali e
nemici, ma le varie e pesanti definizioni
negative di Dio fanno evidentemente
riferimento ai passi più cruenti della Bibbia.
Un terzo elemento negativo è
costituito dal fatto che il concetto di Dio
è tipico di una condizione
“infantile” dell’uomo che non riesce sbarazzarsi
di un’eredità perversa:
Così
l’uomo fu e rimase sempre un fanciullo privo
di esperienza, un pavido schiavo,
uno stupido che temeva di ragionare e che
non sapeva uscire dal labirinto entro
il quale lo avevano lasciato i suoi antenati.
Si credette obbligato a gemere
sotto il giogo dei suoi dèi, che egli conosceva
solamente attraverso i racconti
immaginari dei loro ministri. [115]
Se
un rimprovero si deve muovere a d’Holbach
è quello di cedere a una veemenza moralistica
che gli impedisce di tener conto delle “ragioni
dell’altro”, di colui che pensa
ed agisce non secondo la ragione ma secondo
la fede. Ricordiamo Pascal,
certamente uno degli uomini più acuti e razionali
del suo tempo, che aveva
affermato nel Libro III dei suoi pensieri:
«[142] La fede è un dono di Dio. Non
crediate che diciamo che è un dono del ragionamento.»
[116]
Come è noto la fede per Pascal è scelta e
scommessa “contro” la ragione e nello
stesso tempo “secondo” calcolo razionale.
Non stiamo dalla parte di Pascal ma
da quella di d’Holbach, e tuttavia non possiamo
esimerci dal notare che il suo
filosofare finisce per diventare spesso una
sorta di monologo troppo autoreferenziale,
e quindi poco utile ai fini euristici.
Il concetto di mistificazione sistematica
della verità da parte della religione attraverso
la trasmissione e
l’imposizioni di miti e la loro passiva accettazione
sulla base del “principio
di autorità” è uno dei punti su cui d’Holbach
insiste. Tale accettazione si
costituisce nell’uomo come “malattia religiosa”,
profondamente endemica e
pervasiva in quanto “malattia” dell’uomo
inoculata dai teologi, ai filosofi
compete il compito di estirparne le cause
ed operare per la guarigione da essa
attraverso la messa in luce della verità.
E quindi:
Mostrar
loro la verità è l’unico mezzo perché essi
possano conoscere i loro più
schietti interessi e i motivi reali che devono
portarli al bene. Troppo a lungo
i maestri dei popoli hanno fissato gli occhi
al cielo: li rivolgano una buona
volta alla terra. Stanco di una teologia
incomprensibile, di favole ridicole,
di misteri impenetrabili, di cerimonie puerili,
l’intelletto umano si occupi di
cose naturali, di oggetti intelligibili,
di verità accessibili ai sensi, di
conoscenze utili. Si facciano scomparire
le vane chimere che tengono
imprigionati i popoli, e ben presto idee
conformi a ragione verranno da sé a
collocarsi in cervelli che si credeva fossero
destinati per sempre all’errore. [117]
Il
Nostro insiste sull’incomprensibilità della
teologia, ignorando o dimenticando
che nessun credente chiede ad essa comprensibilità,
bensì solo giustificazione
del proprio “essere”, consolazione del proprio
“esistere” e speranza in un
certo “diventare” dopo la morte. Tutto qui!
Ciò che manca al Nostro, che pure
ha ottime intuizioni, è la consapevolezza
antropologica del fenomeno religioso,
la comprensione “come” in genere l’uomo si
rapporti al mondo e “quali” siano le
sue pulsioni e le sue speranze. Egli ritiene
ingenuamente che gli uomini abbiano
tenuti gli occhi chiusi per millenni in attesa
di chi “apra loro gli occhi”
sulla realtà, mentre l’aderire a una fede
è proprio il “voler” tener gli occhi
chiusi per conseguire e mantenere l’omeostasi psichica.
Veniamo alle ragioni per cui si deve
concludere sull’inesistenza di Dio a cominciare
dall’assenza di ogni
dimostrabilità di esso se non a forza di
«fantasticherie e cavilli» [118] e in secondo luogo perché parlare di “spirito”
è come parlare del nulla [119];
in terzo luogo perché tutto ciò che esiste
è materia e al di fuori di essa non
può esserci nulla. Sia il monoteista che
il deista ritengono che l’uomo sia
soggetto privilegiato di una creazione da
parte di uno spirito che gli ha
conferito intelligenza e lo ha eletto a suo
interprete consapevole; d’Holbach
nota che questa presunzione sarebbe simile
a quella delle formiche del parco di
Versailles se pensassero che questo sia stato
costruito per loro [120]. Il concetto di peccato è strumentale
all’istituzione della paura del giudizio
divino e dell’idea di redenzione a
esso, ma d’Holbach salta di piè pari questo
fatto e muove un’obbiezione che
finisce per esser diretta solo al deismo
e alla sua inconsistente teodicea,
osservando:
[54]
La logica del buon senso c’insegna che una
causa può e deve essere giudicata
soltanto in base ai suoi effetti. Una causa
può esser reputata costantemente
buona quando produce costantemente effetti
buoni, utili, piacevoli. Una causa
che produce ora del bene, ora del male, è
una causa talvolta buona, talvolta
cattiva. Ma la logica della teologia viene
a distruggere tutte queste
deduzioni. […] Sebbene questo mondo sia pieno
di mali, sebbene il disordine vi
regni spessissimo, sebbene gli uomini gemano
continuamente per la mala sorte
che li opprime, noi dobbiamo essere convinti
che questi effetti sono dovuti ad
una causa benefica e immutabile. [121]
Il
discorso fila ed è coerente, ma suggerisce
una domanda: se il disordine e la
sofferenza sono reali perché se a produrle
il Dio-Volontà si tratta di un male
“in sé” e se invece li produce la Materia-Necessità
sono “per” un bene
ulteriore? In questo dedurre un poco dogmatico
ed esente da sfumature si
estrinseca quella che è stata stigmatizzata
da alcuni come “rozzezza; eppure
d’Holbach non è un pensatore rozzo. La sua
debolezza sta nel fatto che, senza
accorgersene, parlando come un ideologo dell’ateismo,
cioè in maniera
aprioristica e acritica, commette errori
simili a quelli che imputa agli
ideologi della religione.
Il Nostro per diversi aspetti è pensatore
acuto,
che ha intravisto prima di Feuerbach il carattere
proiettivo dell’idea di Dio:
è infatti l’uomo che “crea” Dio per infinitizzare
ed eternizzare se stesso ed
acquisire “in Lui” quell’onnipotenza e quell’onniscienza
che è consapevole
essergli precluse. Ma vediamo come egli mette
in chiaro le contraddizioni
teologiche:
[67]
Sostenere che Dio può offendersi per le azioni
degli uomini, significa
distruggere tutte le idee che, d’altro canto,
ci si sforza di inculcarci
riguardo a questo essere. Dire che
l’uomo può turbare l’ordine dell’universo,
accendere il fulmine nella
mano del proprio Dio, sviarne i
progetti, significa dire che l’uomo è più
forte del proprio Dio, che è
l’arbitro della sua volontà, che dipende
da lui alterare la sua bontà e
trasformarla in crudeltà. […] Dio ha creato
gli uomini allo scopo di avere nei
suoi Stati dei sudditi che gli rendessero
omaggio: e noi vediamo gli uomini
ribellarglisi di continuo! [122]
In
effetti un Dio che oltre che buono fosse
anche saggio ed onniveggente (ma si
ricordi che nella Genesi [6, 5-7] Dio si pente di aver creato l’uomo)
avrebbe potuto essere un po’ più avveduto
e “fare” le cose in maniera
differente, cioè con la stessa virtù e saggezza
che ha posto nella nostra mente
e nella nostra anima. Ma, lo si sa bene,
è tutta colpa del Diavolo, il Principe
del Male che peraltro lo ha creato Dio stesso;
un Dio, si direbbe, o un po’
distratto o un pò masochista! Ma anche per
il deismo le cose non vanno meglio:
se Dio è il “tutto-bontà” di Rousseau o il
“tutto-ordine” di Voltaire, perché
mai produrre un universo simile? Ma il Nostro
ha perlopiù in mente il
Cristianesimo, e nota:
Se
gli uomini smettessero di esser tentati e
di peccare, il ministero dei preti
diverrebbe per essi inutile. Il manicheismo
è evidentemente il sostegno di
tutte le religioni; ma, per disgrazia, il
Diavolo, inventato per stornare dalla
Divinità il sospetto di cattiveria, ci mostra
ogni momento l’impotenza o
l’incapacità del suo avversario celeste.
[123]
Lasciati
il tema della teodicea e quello della saggezza
divina d’Holbach fa una
considerazione non peregrina, più o meno
i questi termini: se tutti gli uomini
sono uguali davanti a Dio, perché, per essere
meglio creduto e compreso, non si
è rivelato uniformemente nelle varie culture?
Le conseguenze per aver fatto
l’esatto contrario sono disastrose, e soprattutto,
con ogni evidenza, “a fin di
male”. Un Dio “universale” perché mai avrebbe
dovuto rivelarsi localmente e
come “particolare” in un certo contesto etnico
e non in tutti? Infatti:
[114]
La divinità si è rivelata in un modo così
poco uniforme nelle diverse regioni
del nostro globo, che in fatto di religione
gli uomini si guardano a vicenda
con odio o con disprezzo. […] Un Dio universale
avrebbe dovuto rivelare una
religione universale. Per quale fatalità,
dunque, si trovano sulla terra tante
religioni diverse? [124]
Ovvia
la risposta: nessuna fatalità può esistere
perché «non si muove foglia che Dio
non voglia». Eppure, anche qui, spunta un’altra
domanda per lo stesso
d’Holbach: «e perché mai una Natura-Materia-Necessità
dovrebbe mai, “per
fatalità”, produrre disordine mentale anziché
l’ordine che la fonda e la
qualifica come tale?» Ma qui
egli non risparmia strali al deismo chiama
qui “teismo” con evidente
riferimento a Voltaire ma non meno a Rousseau
e al suo Dio-Bontà:
Il
teista ci dice a gran voce: «Guardatevi dall’adorare
il Dio feroce e bizzarro
della teologia; il mio Dio è un esser infinitamente
saggio e buono; è il padre
degli uomini; è il più dolce dei re; è lui
che colma l’universo dei suoi
benefizi.». Ma, gli risponderò, non vedete
che in questo mondo tutto smentisce
le belle qualità che attribuite al vostro
Dio? Nella numerosa progenie di un
padre così amorevole io non vedo che infelici.
Sotto il regno di questo sovrano
così giusto, non vedo che il delitto trionfante
e la virtù oppressa. [125]
Considerazione
corretta alla quale vien aggiunta un’eziologia
stroriografica che vede la
perversione umana dipendente dal fatto che
tutte le religioni sono nate in
epoche in cui la maggior parte degli uomini
versava in una condizione
“selvaggia”, dominata dall’ingenuità e dalla
rozzezza e dove pochi uomini più
astuti avevano modo di sfruttare la loro
superiorità per asservire gli altri.
In tale contesto fu possibile far radicare
come “rivelazione” un’impostura, e questa,
riconfermata attraverso la trasmissione generazionale,
l’ha resa “originaria”, “radice”
culturale e “sapienza” esente da ogni possibile
dubbio. Nell’essere assunta ed
accettata in maniera acritica e passiva,
basata sull’impostura di una supposta
rivelazione in “quel tempo”, la fede, da
assunzione selvaggia, è diventata, col
tempo, irrinunciabile “dono” di divinità
benevole. Infatti:
Tutti
gli dèi adorati dagli uomini hanno un’origine
selvaggia; sono stati
evidentemente immaginati da popolazioni stupide,
o furono dati a credere da
legislatori ambiziosi e astuti a genti ingenue
e rozze, che non avevano né la
capacità né il coraggio di riflettere sensatamente
sugli esseri che, a forza di
terrore, venivano spinti ad adorare. [126]
Una
religione nata nella ferocia non può che
ridiventare feroce quando la sua
affermazione lo richieda. Perciò, nel ricordare
Pascal [127]
d’Holbach aggiunge al § 158:
Dice
Pascal: «Non si fa mai il male così pienamente
e allegramente come quando lo si
fa per un falso principio di coscienza.»
Nulla di più pericoloso di una
religione che scatena la ferocia del popolo
e giustifica ai suoi occhi i più
neri delitti: il popolo non mette più limiti
alla sua cattiveria, una volta che
la crede autorizzata da Dio, il cui interesse,
gli dicono, può rendere
legittime tutte le azioni. [128]
Si
tratta del classico principio secondo il
quale “il fine giustifica i mezzi”,
che tutte le fedi adottano invariabilmente.
Ma vediamo quali sono le obbiezioni
alla Rivelazione:
[124]
In tutti i luoghi della terra ci assicurano
che un Dio si è rivelato. […] egli
ci insegna soltanto che «è colui che è»
(Esodo, 3, 14), che è un «Dio ascoso» (Isaia, 45, 15), che le sue
vie sono ineffabili, […] Ogni volta che si
mostra, questa sua condotta denota
un essere ingiusto, capriccioso, buono tutt’al
più verso un popolo che egli
predilige, nemico verso tutti gli altri.
[…] Esaminando le volontà divine, in
ogni paese, io non li trovo che comandi arbitrari,
precetti ridicoli […] Trovo
inoltre, che codeste leggi raggiungono spessissimo
lo scopo di rendere gli
uomini asociali, iracondi, intolleranti,
litigiosi, ingiusti e disumani verso
tutti coloro che non hanno ricevuto dal cielo
né le loro stesse rivelazioni, né
gli stessi comandamenti, né gli stessi favori.
[129]
Si
noterà come, anche qui, il Nostro affondi
il proprio ferro nelle viscere
testuali del vecchio Testamento, soprattutto
del Pentateuco e dei Libri
dei Re, luoghi dove il Dio giudaico–cristiano si
mostra nelle sue peggiori
connotazioni. Atteggiamento non scorretto,
ma certamente molto di parte e in
funzione di conclusioni che risultano sempre
un poco forzate.
In quanto ai miracoli (§ 126): essi non sono
credibili e per di più assurdi (§ 129). Relativamente
all’opinione di Pascal su
di essi in rapporto alla dottrina cristiana
il Nostro sostiene, e non a torto,
che quanto asserito (Brunschwig 803) è un
mero circolo vizioso:
Pascal
ci dice in tutta serietà che «bisogna giudicare
la dottrina in base ai miracoli
e i miracoli in base alla dottrina; la dottrina
convalida i miracoli, i
miracoli convalidano la dottrina». Se esiste
un circolo vizioso ridicolo, è
certamente quello contenuto in questo bel
ragionamento di uno dei più grandi
difensori della religione cristiana. [130]
Quantunque
i termini dell’asserzione pascaliana siano
leggermente differenti [131],
riguardando la verità o la falsità dei miracoli,
resta il fatto che il ragionamento è effettivamente
capzioso, come peraltro spesso accade in
Pascal che usa sempre la sua raffinata
ragione a fini apologetici talvolta sfacciati.
Vediamo ora dove d’Holbach pone
la fede e la ragione a confronto per sostenere
l’unica legittimità di questa a
produrre sapere:
[136]
Mi ripetete senza posa che «le verità della
religione sono al di sopra della
ragione.» Ma, se è così, non ammettete che
tali verità non sono fatte per
esseri ragionanti? Pretendere che la ragione
ci possa ingannare è come dirci
che la verità può essere falsa, che l’utile
può essere dannoso. Che cos’altro è
la ragione se non la conoscenza dell’utile
e del vero? D’altronde, poiché non abbiamo, per regolarci
in questa vita, nient’altro che la nostra
ragione più o meno esercitata – la
ragione quale essa è e i nostri sensi quali
essi sono - , dire che la ragione è
una guida infedele e i nostri sensi sono
ingannevoli è come dire che i nostri
errori sono inevitabili, che la nostra ignoranza
è invincibile e che Dio non
può, senza commettere un’estrema ingiustizia,
punirci per aver seguito le sole
guide che ha voluto darci. [132]
Il
punto debole del discorso sta nel rivolgersi
ai credenti. La religione,
infatti, non sostiene affatto che la ragione
sia la guida dell’uomo, essendolo la
fede. Si sostiene anzi, implicitamente, che
Dio ci ha dato la ragione soltanto
per mettere alla prova la nostra umiltà di
fronte al Creatore a scapito della
nostra superbia, e che, quindi, soltanto
rinunciando alla ragione quale fonte della
superbia si aprono le Porte del Cielo.
Ciò che preme a d’Holbach è anche la messa
in evidenza del fatto che, grazie all’ipostasi
di Dio, si è potuto legittimare l’arbitrio dei sovrani
quale “diritto divino” [133],
le conseguenze sono che:
[145]
Non avendo meditato né conosciuto i veri
princìpi dell’amministrazione, lo
scopo e i diritti della vita sociale, gli
interessi reali degli uomini e i doveri che li vincolano,
i
principi sono, in quasi tutti i paesi, diventati
licenziosi, tirannici e
perversi, e i loro sudditi vili, infelici
e cattivi. […] Il modo ingiusto e crudele
con cui tanti popoli sono governati
in questo mondo non fornisce con tutta evidenza
una delle prove più forti, non
solo dello scarso effetto prodotto dal timore
dell’aldilà, ma anche
dell’inesistenza di una Provvidenza che si
interessi alle sorti della razza
umana? [134]
Difficile
non convenirne. I paragrafi successivi (146-153)
del Buon senso
sviluppano ulteriormente il concetto e dal
§ 154 la scure holbachiana cala
implacabile sui ministri della religione
(masnada di guaritori ciarlatani! [135])
sino a concludere che : «qualsiasi morale
è perfettamente incompatibile con le
credenze religiose» [136].
15.7 La morale contro la religione
A conclusione della nostra analisi ci
occupiamo ora dell’aspetto più interessante
della meditazione holbachiana:
quello della morale in rapporto alla felicità
e alla religione. I primi due
concetti, la morale e la felicità, di rado
nella storia del pensiero erano
stati correlati in maniera così stretta,
con l’eccezione ben nota dell’epicureismo.
In d’Holbach i riferimenti ad Epicuro sono
rari, anche perché l’ontologia
indeterministica del greco è inconciliabile
col determinismo, ma la
correlazione morale-felicita del pensiero
holbachiano è molto originale e merita
un attento esame. La religione non potrebbe
contrapporsi più nettamente alla
morale e alla felicità no quanto non si dia
del Nostro, per il quale la
religione è una vera malattia della psiche
umana, che conduce all’ignoranza,
alla depravazione e all’infelicità. Questa
convinzione risulta già chiaramente
espressa nelle Lettre à Eugenie, che sono del 1768, dove la giovane
aristocratica risulta «inquieta e tormentata»
proprio per i «funesti effetti
dei pregiudizi religiosi». La tematica era
già stata sviluppata ampiamente da
Lucrezio, il grande poeta epigono di Epicuro,
che nel contempo aveva anche
evidenziato quel richiamo alla natura, come
origine e fine, cui d’Holbach darà
la sua interpretazione necessitaristica,
anche in questo caso inconciliabile
con concetto di clinamen come fattore di indeterminismo
dell’essere.
I concetti di morale e di felicità
percorrono quasi ubiquitariamente gli scritti
holbachiani in differenti
modulazioni e nel Saggio sui pregiudizi, al capitolo XII, ne viene
offerta la definizione più semplice: «La
felicità non è che l’accordo che si
raggiunge fra i nostri desideri e i nostri
bisogni e il potere di soddisfarli.»
[137]
D’Holbach non fornisce una spiegazione chiara
del concetto di desiderio, ma la
possiamo dedurre da quella di bisogno, espressa
nel passo seguente:
Ma
noi abbiamo due specie di bisogni: gli uni
sono bisogni fisici, inerenti
alla nostra natura, sono pressappoco gli
stessi in tutti gli esseri della
nostra specie. Gli altri sono bisogni immaginari; sono fondati sulle
nostre opinioni vere o false, su realtà o
su chimere, sull’esperienza o
sull’autorità, sulla verità o sui nostri
pregiudizi. [138]
La
spiegazione non è molto soddisfacente. Com’è
possibile distinguere fisicità e
immaginazione quando questa, sia nella sua
forza che nelle sue direzioni, è
strettamente dipendente dalla nostra struttura
mentale (forse che questa non
sarebbe fisica?) E di converso, i
bisogni che si presentano come fisici, non sono forse il più delle volte
solo il frutto di false convinzioni sul nostro
corpo? Sul nostro stato di
salute? Sulle idee che ci facciamo della
situazione, dell’ambiente, del clima,
ecc.? D’Holbach però non pare aver dubbi:
questi secondi sono reali e naturali,
i primi, invece, «dipendono dall’immaginazione
diversamente modificata
dall’educazione, dall’abitudine, dall’esempio,
ecc.» [139].
Ci troviamo di fronte a un’evidente semplificazione,
eppure d’Holbach rimane
fermo sulla sua posizione e ci fornisce l’esempio
del danaro come oggetto di
desiderio non naturale, indotto dalla civiltà,
quindi un bisogno fittizio. Come
bisogni fittizi sono l’ambizione, il desiderio
del potere, dell’onore, della
distinzione, da parte di uomini smodati;
mentre «altri più moderati lavorano
per procurarsi l’appagamento interiore, che
può esser solo il frutto della virtù.»
[140] Ed inoltre, il filosofo «che pone la sua felicità nel meditare, trova
in ogni momento il mezzo per godere» [141]
Già, ma la meditazione può esser proposta
a tutti gli esseri umani come
l’esercizio che porta alla felicità? E se
il filosofo «Nella solitudine si
nutre delle provviste che l’universo, il
genere umano e la società gli
forniscono incessantemente» potrà consigliare
ai suoi simili la solitudine per
raggiungere la felicità? Ciò tanto più in
considerazione del fatto che la
morale holbachiana, il cui correlato è proprio
la felicità, si presenta come
eminentemente “sociale” e “universale”, essendo il suo oggetto di riferimento l’umanità
nella sua indifferenziata interezza e non
nell’intimità di chi medita e filosofa? Se «il suo spirito si serve di se stesso
come
pascolo » [142] e
lo spirito del filosofo è il frutto di una
“specificità” fondata sulla
riflessione interiore, come sarà possibile
“dare spirito” al superficiale, dal
momento che la superficialità è un “frutto
di natura”, ovvero della necessità, ed è difficilmente modificabile sia
attraverso l’inculcamento di un’istruzione
e sia con qualunque altro “artificio
innaturale”?
La filosofia holbachiana è una filosofia
sociale, a beneficio di tutti, e l’educazione
alla ragione e alla sensibilità
non può che essere che il frutto di un’educazione
pubblica, da parte di uno
stato virtuoso (promotore della felicità
dei cittadini) che a ciò deve
provvedere. M, come conciliare la meditazione
interiore (e solitaria) con la
sede pubblica? Se non vi è “confronto”, com’è
possibile far emergere la verità?
E tuttavia d’Holbach aggiunge ancora: «L’abitudine
a conversare con sé tende
sempre a rendere l’uomo migliore. Si accetta
di scendere nel fondo del proprio
cuore solo quando si è soddisfatti dell’ordine
che vi si trova. I mortali, per
la maggior parte sono continuamente occupati
a schivare se stessi ». D’accordo,
ma come si instaura l’”ordine” nel proprio cuore se “i mortali” in genere
sfuggono al ripiegamento interiore? Se coloro
che non riflettono sono la
maggior parte, la normalità “naturale” sta
nei pochi che meditano o nei molti
che non meditano? E chi non medita sarà forse
un depravato? Parrebbe quasi di
sì, a dedurre dalla seguente affermazione:
Bisogna,
dunque, cercare rimedi alla depravazione
umana più reali ed efficaci di quelli
che finora non hanno fatto che aumentarla.
È necessario sostituire opinioni
false con opinioni più vere. I pregiudizi
stabiliti appaiono così vantaggiosi
alla maggior parte degli uomini solo perché
favoriscono la loro ignoranza, la
loro pigrizia naturale e li dispensano dal
cercare e dal mettere in gioco
impulsi più reali che porterebbero alla virtù.
[143]
Siamo
arrivati a un punto chiave del discorso holbachiano,
dove emerge il più
profondo senso moralistico che lo anima,
ma nello stesso tempo si avvia
un’operazione eziologica radicale, che ribalta
completamente i criteri morali
implicati nella weltanschauung cristiana, che vede la terra come il
luogo transitorio in cui l’anima umana si
guadagna l’eterna beatitudine o
l’eterna dannazione, a seconda se crede o
no alla parola di Dio, ovvero ai
testi sacri e alla dottrina della Chiesa.
Ma sono proprio le credenze e i dogmi
della religione che d’Holbach bolla come
“pregiudizi” patologici per l’anima
umana, da ciò la conclusione che la fede
e la dottrina cristiana sono forieri
di depravazione. Per abbracciare la verità,
conseguire la virtù, porre una
morale corretta e realizzare la felicità,
la religione cristiana, instauratrice
dei peggiori pregiudizi umani, va espunta
in blocco. Abbiamo qui (siamo prima
del 1770) un atteggiamento decisamente anti-cristiano
che durerà ancora per
poco tempo. Come abbiamo già rilevato negli
scritti posteriori al 1772
d’Holbach attenuerà sempre più il suo spirito
destruens per assumere un
atteggiamento più conciliatorio dove appare
in filigrana la possibilità di un
compromesso construens se con la religione stessa almeno con i
suoi
ministri più avveduti, volenterosi di abbracciare
la verità e di operare per il
bene del genere umano. Ma qui d’Holbach è
ancora all’attacco della religione
come nemica della filosofia:
Malgrado
queste incongruenze, vediamo la superstizione
così spesso omicida, onorata,
ricompensata e la filosofia proscritta e
calunniata; i suoi discepoli sono
considerati come sediziosi, pubbliche pestilenze,
frenetici che progettano di
annientare ogni virtù, di allentare le briglie
delle passioni, di turbare la
pace delle nazioni e di falciare i fondamenti
dell’autorità. [144]
D’Holbach
fa qui un elenco sommario ed esemplificativo
delle accuse mosse dalla religione
all’ateismo. Si ricorderà che sia pure in
termini meno decidi anche La Mettrie
aveva posto considerazioni analoghe, rivendicando
all’irreligiosità fondamenti
etici non inferiori a quelli della religiosità.
Il Nostro prosegue puntualizzando
ancora meglio la sua difesa della filosofia
atea:
Così si chiamano distruttori della virtù
quelli
che intendono sostituirla a quelle virtù
inutili e insensate che la religione
preferisce all’umanità, all’indulgenza, alla
grandezza d’animo, all’attività!
Si accusano di corrompere i costumi uomini
che non conoscono altra religione
che la morale! Sono trattati da sovversivi,
da tranquilli speculatori uomini
che gemono per gli sconvolgimenti, per i
disordini e le rovine che zelanti
turbolenti provocano per tutti i paesi!
Gli
atei diventano qui i martiri di una perversa
ideologia religiosa, che tenta di
farli passare per il contrario di ciò che
realmente sono (sottintendendo il
fatto che “riesce” a farlo estremamente bene!)
Da qui il “manifesto” antireligioso di un
d’Holbach, che, lo ricordiamo,
parla sotto le false spoglie del grammatico
Du Marsais, nella tomba dal 1756,
quattordici anni prima della comparsa del
Saggio, e quindi
non-perseguibile! D’altra parte la
conclusione è lapidaria: «Niente di più evidente e di meglio provato
dell’incompatibilità della morale con i principi
religiosi e politici degli
uomini.» Conclusione assai pessimistica nella
sua generalità, insieme a un
giudizio storico che parrebbe qui inappellabile
relativamente alla capacità degli
uomini di scorgere l’abisso in cui sono caduti.
E tuttavia dal capitolo XIV del
Saggio il tono muta. Le prime parole sono infatti
le seguenti «Riformare
il genere umano e disingannarlo dai suoi
pregiudizi è sempre apparsa un’impresa
vana quanto insensata.» [145],
ma non per ciò impossibile. Ed ecco farsi
strada un certo ottimismo:
Noi
non dobbiamo avere della nostra specie idee
così sfavorevoli. Se l’uomo è
nell’errore, è perché tutte le circostanze
cospirano a ingannarlo; se predilige
la menzogna, è perché la scambia per verità;
se è ostinatamente attaccato ai
suoi pregiudizi, è perché li crede necessari
alla sua tranquillità, al suo
benessere in questo mondo e nell’altro. [146]
Già,
le circostanze! Ma come può una realtà necessitata
produrre circostanze “sfavorevoli”?
E sfavorevoli a che cosa? Alla virtù, sembra
la risposta naturale! Ma se la
necessità non può agire che per ciò che è
“morale” (che per l’assioma
holbachiano è come dire per il “fisico”)
che cos’è che trama contro il
morale-fisico se non il caso? Ma siccome
per il determinista d’Holbach il caso
non esiste, bisogna ricercare la causa nascosta
di quelle “circostanze”, e
questa causa, da tutto ciò che precede non
possiamo che identificarla con la
religione. Ma, se è così, la religione, opposta
alla
“natura-realtà-virtù-fisica-morale” assume
uno status ontologico
inaspettato. Dunque la religione, per il
genere umano, è una “causa” reale, che
lo distoglie dalla verità.
Ma d’Holbach ha fede nella capacità della
natura di porre nei tempi lunghi rimedio
alla depravazione umana; da ciò la
domanda retorica:
La
natura sempre in azione non può dunque, nelle
sue combinazioni eterne, far
nascere circostanze idonee a disingannare
gli uomini, almeno per un certo
tempo, dalle loro follie? La necessità non
può dirigere avvenimenti che li
costringano a rinunciare alle loro stravaganze?
Si ostinerà sempre a
incatenarli nelle tenebre dell’opinione?
[147]
Domanda
assai interessante da parte di un determinista!
Il nostro Paul, evidentemente,
non se ne rende conto, ma sta “dubitando
“ della necessità, ma non sapremo mai
se e in quale misura abbiano potuto affacciarglisi
dei dubbi. Quel che è certo
è che le domande proseguono su questo tono
per un’altra mezza pagina, al
termine della quale ci si aspetta una risposta.
Ebbene, non arriva nessuna
risposta! A conclusione troviamo invece un
auspicio, una speranza:
Se
non è permesso credere che la ragione possa
un giorno illuminare l’intera razza
umana, perché non ci potremmo illudere di
vederla almeno regnare su una parte della
terra? […] Osiamo dunque prevedere questi
felici istanti nell’avvenire; il
nostro cuore si rallegri di presentire che
un popolo possa, perlomeno a
intervalli favorevoli, essere governato dalla
ragione. [148]
Si
presti attenzione ai termini: “credere”,
“illudersi” “osare”. Non sono termini
conseguenti per un determinista razionalista,
il quale a più riprese ha inteso
smascherare, stigmatizzare e combattere le
credenze, le chimere e le false
libertà. L’incoerenza è patente. Ma proprio
per questo ci fa capire il distacco
tra il d’Holbach teorico della necessità
e il d’Holbach moralista che “spera”
in un ravvedimento degli uomini dai loro
errori e in un futuro felice
dell’umanità. Errori che, con tutta evidenza,
prevedono quel libero arbitrio
che il determinista, in quanto tale, deve
negare. Ma forse è solo un momento di
defaillance ideologica (ma anche di consapevolezza riflessiva)
da cui il
Nostro si riprende presto, scrivendo:
La
necessità riconduce prima o poi gli uomini
alla verità: voler lottare contro di
essa è lottare contro la natura universale,
che costringe l’uomo a tendere alla
felicità in ogni istante della sua vita.
[149]
Dunque
l’uomo è “costretto” a tendere alla felicità,
ma soltanto come “orizzonte di
speranza” o come “fede” nella natura universale
che si pensa debba tendere al
“bene”. Su quale base, su quale principio,
sua quale evidenza? Vedremo che
Sade, che ha letto d’Holbach e lo tiene costantemente
presente, arriverà a
conclusioni opposte!
[1] P.-H. Th. D’Holbach, Sistema della natura, Torino, UTET 1978, p.87.
[2] La priorità dell’esperienza viene ribadita anche nel seguente passaggio del Saggio sui pregiudizi (incipit del capitolo XI): «L’esperienza, non lo si dirà mai abbastanza, è la sola guida che il filosofo possa seguire con sicurezza […] ».
[3] Ivi, p.88.
[4] Ivi, p.94.
[5] Ivi, p.96.
[6] Il principio dell’impetus è posto nel XIV secolo in funzione antiaristotelica da Francesco delle Marca intorno al 1320, come “forza” univoca che spinge il proiettile nella sua corsa nell’aria e non, come pensava Aristotele, dalle particelle d’aria che l’un l’altra trasmettono il moto. Giovanni Buridano più tardi teorizza l’impetus come un’energia che in quantità proporzionale alla massa e alla velocità del corpo ne determina il moto, diminuendo se questo è verso l’alto e diminuendo verso il basso. Il concetto è ripreso da Hobbes a metà nel ‘600 in De corpore (15, 2) che lo ribattezza conatus.
[7] Il concetto di conatus inizia a circolare nelle teorie ilozoistiche del ‘500 come traduzione del concetto greco di ormé, già presente in Aristotele come “impulso interno” a persistere nel suo stato di ogni ente materiale, ma distinto da orexis quale “appetito” di ogni esser vivente alla sua conservazione. Il concetto è ripreso dagli Stoici e generalizzato come “istinto di conservazione” riguardante ogni ente di un cosmo unitario nelle sue apparenti diversità, regolato e ordinato dalla Provvidenza (o Necessità). Hobbes lo fisserà come la grandezza fisica infinitesima che determina il moto. Spinoza ne farà uno dei capisaldi della sua ontologia, in senso meccanicistico, ritornando però anche alla distinzione aristotelica tra ormé-conatus, come “stato dell’ente materiale”, distinto dall’orexis-appetitus concernente l’essere vivente (Etica, III, Proposizioni 7 e 9). Il termine ricorre anche in Leibniz.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p.47.
[11] Ivi, pp.97-98.
[12] Ivi, p.98.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p.99.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, pp.99-100.
[17] Ivi, pp.100-101.
[18] Ivi, p.102.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, pp.103-104.
[21] Ivi, p.105.
[22] Ibidem.
[23] Ibidem.
[24] Ividem.
[25] Ivi, p.108.
[26] Ivi, p.109
[27] Ibidem.
[28] Ivi, p.110.
[29] Ivi, p.111.
[30] Ivi, p.111-112.
[31] Ivi, p.113.
[32] Ivi, p.114.
[33] Ivi, pp.114-115.
[34] Ivi, pp116-117..
[35] Ivi, p.118.
[36] Ivi, p.119.
[37] Ivi, pp.125-126.
[38] Ivi, p.127.
[39] Questo il giudizio liquidatorio di Hegel: «Il Système de la Nature si troverà presto noioso. Esso infatti si dilunga in rappresentazioni generali spesso ripetute: non è un libro francese, gli manca la vivacità ed è scritto in forma sciatta.» (G.W.F.Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, vol.3, II, Firenze, La Nuova Italia 1981, p.252.
[40] Ivi, p.131.
[41] Ivi, p.132.
[42] Ibidem.
[43] Ibidem.
[44] Ivi, p.134.
[45] Ibidem.
[46] Ibidem.
[47] Ivi, pp.135-136.
[48] Ivi, p.138.
[49] Ibidem.
[50] Ivi, pp.138-139.
[51] Ivi, p.139.
[52] Ibidem.
[53] Ivi, pp.139-140.
[54] Ivi, p.140.
[55] Ivi, p.141.
[56] Ivi, pp.141-142.
[57] D’Holbach, La morale universelle ou les Devoirs de l’Homme fondés sur sa Nature, citato nell’Introduzione a Elementi di morale universale o Catechismo della natura, a cura V.Barba, Roma-Bari, Laterza 1993, p.XLVI.
[58] Ivi, p.88.
[59] Ibidem.
[60] P.Th. D’Holbach, Elementi di morale universale o Catechismo della natura, a cura V.Barba, Rom-Bari, Laterza 1993, p.6.
[61] P.H.T. d’Holbach, Saggio sui pregiudizi, a cura di D. di Iasio, Milano, Guerini e Associati, 1998, p.179.
[62] Ibidem.
[63] Ibidem.
[64] Ibidem.
[65] Ivi, p.90.
[66] Il titolo completo originario è: Éthocratie,
ou le Gouvernement fondé sur la Morale.
[67] P.H.T. d’Holbach, Etocrazia o il governo fondato sulla morale, Lecce, Micella 1980, p.113 (cit. in P.Th. d’Holbach, Elementi di morale universale o catechismo della natura, Bari-Roma, Laterza 1993, Introduzione di V.Barba, p.XIX).
[68] P.Th. d’Holbach, Il buon senso, a cura di S.Timpanaro, Milano, Garzanti 1985, p.189.
[69] P.-H. Th. D’Holbach, Sistema della natura, Torino, UTET 1978, p. 90.
[70] Ivi, p.137.
[71] D’Holbach, La morale Universelle, vol.II,
Paris 1820, Masson et fils, pp.187-188.
[72] Ibidem.
[73] Ivi, p.187
[74] Citato nella Postfazione di D. di Iasio al Saggio sui pregiudizi, cit.p.235.
[75] Lo stile di d’Holbach, un poco contorto e soprattutto ridondante fino alla pedanteria, venne criticato specialmente da Voltaire, ma anche Diderot è assai critico, confidando nella lettera ad un amico di aver egli stesso messo mano a testi di d’Holbach per purgarli da forme poco eleganti, ripetizioni ed eccessi verbali.
[76] P.H.T. d’Holbach, Saggio sui pregiudizi, o l’influenza delle opinioni sui costumi e sulla felicità degli uomini, a cura di D. di Iasio, Milano, Guerini e Associati, 1998, p.19.
[77] Ibidem.
[78] Ivi, p.20.
[79] Ivi, p.21.
[80] Ibidem.
[81] Ivi, p.22.
[82] Ivi, p.38.
[83] Ivi, p.68.
[84] Ibidem.
[85] Ivi, p.69.
[86] Il
re di Prussia, peraltro, non
condivideva neppure il fatto che, in generale,
l’uomo sia fatto per la verità,
sostenendo (proprio in risposta al Saggio) che: «I pregiudizi sono la
ragione del popolo», che è ignorante non
avendo tempo «né di pensare né di
riflettere.» (Examen de l’Essay sur les préjuges, in Oeuvres Philosophiques,
Fayard 1985, vol.V).
[87] Ivi, p.72.
[88] Ivi, p.71.
[89] Ivi, p.90.
[90] Ivi, p.91.
[91] Ivi, p.96.
[92] Ivi, p.107.
[93] Ivi, p.115.
[94] Ivi, p.116.
[95] Ivi, p.119.
[96] Ivi, p.128
[97] Ibidem.
[98] Ivi, pp.129-130.
[99] Ivi, p.132.
[100] Ivi, p.134.
[101] Ivi, p.145.
[102] D’Holbach, Il buon senso, cit., pp.204-205.
[103] D’Holbach, Il saggio sui pregiudizi, cit., p.155.
[104] P.Th. D’Holbach, Elementi di morale universale o Catechismo della natura, a cura V.Barba, Rom-Bari, Laterza 1993, p.8.
[105] Ivi, p.11.
[106] Ivi, p.156-157
[107] Ivi, p.157.
[108]
Ibidem.
[109]
Ibidem.
[110]
Ivi, p.158.
[111] P.Th. D’Holbach, Il buon senso, a cura S.Timpnanaro, Milano, Garzanti 1985, p.3.
[112] Si ricorda che l’espressione b.s. era già stata usata da Cartesio in apertura del Discorso sul metodo: «La facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, la quale propriamente è ciò che si chiama buon senso o ragione, è per natura uguale in tutti gli uomini.»
[113] D’Holbach, cit., p.4.
[114] Ivi, p.5.
[115] Ivi, p.6.
[116] B.Pascal, Pensieri, Torino, Einaudi 1962, p.61.
[117] D’Holbach, cit., p.7.
[118] Ivi, p.20.
[119] Ibidem.
[120] Ivi, p.39.
[121] Ivi, p.43.
[122] Ivi, p.56.
[123] Ivi, p.61.
[124] Ivi, pp.103-104.
[125] Ivi, p.107.
[126] Ivi, p.109
[127] La citazione non è rigorosamente esatta, poiché aggiunge un aggettivo (“falso”) che manca nell’originale, dove viene sentenziato: «Mai non si fa il male così pienamente e allegramente come quando lo si fa per coscienza.» (Pascal, Pensieri, cit., 908 (Brunschwig 895), p.431
[128] Ivi, p.152.
[129] Ivi, pp.115-116.
[130] Ivi, p.121.
[131] Si veda: B.Pascal, cit., 811, p. 386.
[132] Ivi, p.128.
[133] Ivi, pp.136-137.
[134] Ivi, p.139.
[135] Ivi, pp.148-153.
[136] Ivi, p.154.
[137] P.H.T. d’Holbach, Saggio sui pregiudizi, a cura di D.di Iasio, Milano, Guerini e Associati, 1998, p.155.
[138] Ivi, pp.155-156.
[139] Ivi, p.156.
[140]
Ibidem..
[141]
Ivi, p.158.
[142] Ivi, p.159.
[143] Ivi, p.161-162.
[144] Ivi, p.163.
[145] Ivi, p.190.
[146] Ivi, p.190.
[147] Ibidem..
[148] Ivi, p.191.
[149] Ivi, p.202.