XIV. Helvétius
14.1 Il filantropo ottimista
L’opinione di Cassirer su
Helvétius è molto chiara:
Il tentativo intrapreso dal Condillac di
dimostrare come ogni realtà psichica sia
una trasformazione, una semplice
metamorfosi della sensazione, è poi ripreso
e continuato dall’Helvétius
nell’opera De l’esprit. L’efficacia che quest’opera debole e poco
originale esercitò sulla letteratura filosofica
del secolo XVIII si spiega col
fatto che quell’epoca vi trovò chiaramente
precisato, seppure anche esagerato
come una parodia, un tratto fondamentale
del suo pensiero. In
quell’esagerazione si manifesta chiaramente
il limite metodico e il pericolo di
questo modo di pensare. Essa consiste nel
livellamento cui va incontro la
coscienza quando si nega la sua ricchezza
di vita e la si considera soltanto
come una maschera, un travestimento. [1]
Che il De l’esprit non sia opera filosofica di elevato livello
non è difficile ammetterlo, ma il neo-kantiano-idealista
Cassirer è troppo
lontano dal suo spirito per non essere ingeneroso
e dobbiamo quindi prescindere
dal suo giudizio. In realtà il De l’esprit, quale libro “pubblico” a
carattere intrinsecamente blasfemo e critico
verso il potere ha un impatto non
da poco sulla cultura dell’epoca. Né l’opera
poteva passare inosservata se anche
Malesherbes accenna alla reazione negativa
del re. E tuttavia leggendo il libro
si fa fatica a comprendere lo scandalo se
non lo si rapporta al fatto che
Helvétius è un uomo “del sistema”, e che
egli lo critica dal suo interno (e sputando
nel piatto in cui mangia!). Una sentenza
del consiglio reale dell’agosto 1759
revoca il permesso di stampa del libro e
malgrado un’umiliata ritrattazione
dell’autore la mannaia della una censura
definitiva cade sul libro, che già
aveva registrato la condanna arcivescovile
nei termini seguenti:
Noi condanniamo il suddetto libro in quanto
contiene una dottrina abominevole, atta a
rovesciare la legge naturale e
distruggere i fondamenti della religione
cristiana […] [2]
Le copie esistenti del libro devono essere
bruciate; sentenza che è
eseguita quattro giorni dopo l’emanazione
del decreto [3].
Claude-Adrien Helvétius nasce
nel 1715, è figlio di un medico di Luigi
XV e appartiene a una classe
privilegiata, per quanto non nobile. Frequenta
i migliori collegi e ha modo di
farsi un’ottima cultura, fino a che, nel
1738, ed a soli ventitre anni (grazie
all’influenza a corte del padre e l’appoggio
della regina), ottiene la lucrosa
carica di appaltatore generale del regno.
Carica che gli porterà in pochi anni
una cospicua rendita, buona parte della quale
devolverà a favore della cultura,
per iniziative filantropiche di vario genere,
per aiutare giovani di talento,
ma indigenti e impossibilitati ad accedere
allo studio. Spirito
anticonvenzionale e liberale il giovane Claude-Adrien
legge Locke e altri pensatori
d’avanguardia, convinto di poter conciliare
le istanze illuministiche di
giustizia, equità e libertà, con una certa
capacità del regime di mutare
struttura e forme, accogliere tali istanze
e tradurle in pratica politica. Si
sbaglia di grosso, e dopo 12 anni da rentier regio si vede costretto,
nel 1751, a una sorta di esilio dalla capitale
nella quale è nato e cresciuto e
dove ha conosciuto la sua fortuna finanziaria.
Si ritira così in una sua
proprietà a coltivare studi filosofici e
rapporti amichevoli con le menti più
aperte e illuminate dell’epoca, quali sono
Montesquieu, Buffon, Voltaire,
Mably, Morelly, il vecchio Fontenelle e il
quasi coetaneo Condillac. Nel decidere
di dedicarsi interamente alla filosofia,
dopo avere già pagato un caro prezzo,
abbraccia una carriera abbastanza rischiosa
per l’epoca se si ha l’intenzione
di operare fuori dai canali sicuri della
teologia filosofale.
È lecito domandarsi che cosa
induca un personaggio pubblico, noto e stimato,
ciambellano della regina in
virtù di un matrimonio con una dama di corte,
con un vantaggiosissimo incarico
pubblico di appaltatore regio, a giocarsi
una posizione e una carriera per
perseguire delle idee rivoluzionarie e voler
scrivere un libro che rompe e
sconvolge la morale corrente. Che senso ha
per un personaggio del régime,
ricco, fortunato, influente, perdere tutto
per autolimitarsi in una sorta di
esilio intellettuale e poi rischiare il carcere
per far conoscere le sue idee
innovative? La generosità certo, il senso
civico, ma anche l’ottimismo e la
convinzione che lo stato e la società francese
si possano “trasformare”, ma
senza stravolgerle, in un nuovo orizzonte
laicista dove diventi possibile dire
tutta la verità sull’essenza dell’uomo. Ovviamente
una propria verità,
discutibile quanto si vuole, ma che matura
alla luce del razionalismo di Locke
e del sensismo di Condillac, e che è latrice
di un anticlericalismo evidente ma
di un ateismo più sottinteso che espresso.
Per Helvétius la verità sull’uomo può
essere raggiunta solo per mezzo della ragione,
ma in chiave riduzionista; questo
è il suo limite. E ciò sia perché l’assunto
pecca di eccessivo ottimismo e sia
perché l’eccessiva semplificazione e schematizzazione
dei problemi non porta a
risultati utili e gnoseologicamente convincenti.
Egli è collaboratore dell’Enciclopedia
ed estensore di alcune sue voci, ma anche
colui che involontariamente mette in
crisi il prosieguo dell’opera (della quale
era uscito il primo tomo nel 1751).
Una crisi pesante, che fa seguito alla condanna
del suo De l’esprit nel
1758, la quale, fornendo pretesti ai teologi
che ne sono oppositori e ne chiedono
la soppressione, si riflette negativamente
sull’uscita dei successivi volumi
dell’enciclopedia che Diderot e D’Alembert
sperano di portare in porto.
Il pensiero di Helvétius è
espresso in due opere principali, la prima,
De l’esprit, che vede la
luce nel 1758, e la seconda De l’homme, che uscirà postuma nel 1772 ed è
quella in cui più esplicitamente viene posta
una concezione del mondo ateistica.
Ma già nella prima vi sono tutti i presupposti
di un ateismo integrale, per
quanto mitigato da affermazioni prudenti
quanto insufficienti ad evitarne la
condanna. Per comprendere la ragione del
titolo Dello spirito e che cosa
lo “spirito” sia per il Nostro occorre cogliere
la distinzione che viene fatta
tra esso e l’”anima”. Il Nostro riprende
il concetto di anima tipico del mondo
antico, come “soffio vitale” che dà esistenza
al corpo e alimenta l’anima;
quindi come principio di vita, di sensibilità
e di facoltà intellettuali. Lo
spirito è invece per Helvétius una facoltà
secondaria, espressa nel pensiero,
che si forma e si migliora passo passo, con
la crescita e l’educazione
dell’uomo, estrinsecandosi come quella capacità
razionale di analizzare e
confrontare i fatti e gli enti del mondo.
Ne deriva che lo spirito per il
Nostro l’analista e il giudice della realtà
globale, fondato sulla sensibilità
fisica, fecondato dall’esperienza dei sensi,
dalla riflessione razionale e
specialmente dall’educazione.
L’accento che il Nostro pone
sul fattore pedagogico-educativo e la possibilità
di plasmare l’uomo a fini
virtuosi è il movente attorno al quale è
strutturato il suo determinismo
antropologico, mentre sono lasciati del tutto
in ombra gli aspetti cosmologici
e la relazione tra l’uomo e il mondo. In
altre parole, Helvétius intende dirci come
funziona l’uomo tra gli uomini, e per nulla
come si ponga nei rapporti col cosmo.
L’orizzonte filosofico si esaurisce così
tutto all’interno della società umana,
per cui la sua teorizzazione parte da vaghi
presupposti filosofici e finisce
per prodursi esclusivamente in una proposta
etico-sociologica.
De
l’esprit è opera complessa e densa, che si estrinseca
sostanzialmente in
un’indagine intorno al pensiero e ai comportamenti
umani in rapporto alla
società, considerata l’unico referente positivo
a cui si deve guardare, ponendo
del tutto in secondo piano le esigenze dell’individualità
partendo dal principi
oche nel bene comune sta anche quello del
singolo. Essa consta di una
prefazione e di quattro Discorsi, che recano i seguenti titoli: I. Dello
spirito in se stesso, II. Dello spirito in rapporto alla società,
III. Se lo spirito deve esser considerato un dono
della natura o un effetto
dell’educazione, IV. Sui differenti nomi dati allo spirito. I Discorsi
sono articolati in numerosi capitoli di lunghezza
assai differente in relazione
alle esigenze esplicative dei singoli argomenti.
Ci soffermeremo soprattutto
sul primo discorso, poiché è quello in cui vengono poste le
premesse
teoriche del pensiero helvétiusiano, mentre
degli altri daremo delle sintesi
più o meno ampie, in relazione all’importanza
che il testo assume nei confronti
del tema dell’ateismo.
14.2
Lo
“spirito” come sostanza e funzione della
mente
Helvétius apre la sua indagine ponendosi
il problema di ridefinire il significato
della parola “spirito” in funzione del suo
intento principale: definire come
opera la mente per farne produttrice di pubbliche
virtù. Ascoltiamo le sue
parole:
Si discute ogni giorno su quello che va chiamato spirito: ognuno dice la sua, nessuno abbina le stesse idee a questa parola, e tutti parlano senza capirsi. Per poter dare un’idea giusta e precisa della parola spirito e delle diverse accezioni in cui è presa, bisogna innanzitutto esaminare lo spirito in se stesso. Si considera lo spirito o come l’effetto della facoltà di pensare (e lo spirito, in tal senso, non è altro che il raggruppamento dei pensieri dell’uomo), o come la facoltà stessa di pensare. [4]
Ci troviamo di fronte a una definizione che
può sembrare un poco ambigua, ma bisogna
comprendere che per Helvétius il
problema principale è quello di far sì che
lo spirito abbia una struttura passive
per risultare “plasmabile” e nel contempo
attiva per operare come “agente
virtuoso” per il bene pubblico. Se avevamo
visto in La Mettrie venir privilegiata
la componente individuale sulla scia del
pensiero epicureo e lucreziano,
abbiamo in Helvétius un indirizzo etico opposto,
in cui l’individuo è preso in
considerazione soltanto parte del “tutto”,
e dov’è questo l’oggetto principale di
riferimento e a favore del quale deve operare
la filosofia. Si prosegue con la
definizione dell’origine dello spirito nei
seguenti termini:
Per capire ciò che è lo spirito, preso in quest’ultimo significato, occorre conoscere quali sono le cause produttrici delle nostre idee. Abbiamo in noi due facoltà, o, se oso dire, due potenze passive, la cui esistenza è generalmente e distintamente riconosciuta. Una è la facoltà di ricevere le diverse impressioni che fanno su di noi gli oggetti esterni: è chiamata sensibilità fisica. L’altra è la facoltà di conservare l’impressione che questi oggetti hanno fatto su di noi: è chiamata memoria, e la memoria non è altro che una sensazione continuata ma indebolita. [5]
Abbiamo qui una chiara eco del pensiero di
Locke (Saggio sull’intelligenza umana, Libro II, Capp.I-XV), ma è andata
perduta la complessità dell’indagine lockiana.
La definizione è in effetti un
poco grossolana, soprattutto per il fatto
che non si fa il minimo accenno a una
funzione “riflessiva”, che è il correlato
fondamentale e indispensabile di ogni
conoscenza. Ma Helvétius pare porsi il compito
di semplificare al massimo
l’oggetto mente, e ciò perché gli preme di
evidenziare e teorizzare che lo
spirito debba porsi come una funzione plastica,
in cui vi è poco di ereditario
e molto di acquisito; da ciò la sua “plasmabilità”
attraverso l’educazione. Ma
per produrre virtù e civiltà lo spirito deve
prima ricevere il suo nutrimento
“in un certo modo”, e la capacità di agire
sullo spirito per trasformarlo in un
agente etico, previamente “formato” e “pilotato”
in base a chiari e definiti
principi, sì pone nell’orizzonte utopico
e ottimistico di una società rinnovata, che
può essere “costruita” e che dovrà
essere giusta, armonica e solidale. È il
caso di osservare che se da parte di Meslier
si auspica una società comunista, ma con
certi margini di creatività, in Helvétius la visione è vagamente liberale
ma con forti elementi di “dirigismo”, poiché
si pensa di poter pilotare
l’evoluzione della società attraverso l’educazione
di una massa di individui
implicitamente uguali mentalmente e con sensibilità
identica.
Per
Helvétius la sensibilità fisica riceve impressioni direttamente
provenienti dal mondo e la memoria le riceve e le fissa in una forma
indelebile, sì che esse possono essere richiamate
a volontà al pensiero e
connesse nelle sue elaborazioni, per tradursi
infine, a posteriori, in
comportamenti ed azioni. Il punto importante
a cui giunge il Nostro è però che questo
spirito, così determinato, non va molto oltre
lo stato animale, come si dà nei primitivi,
che «non hanno nemmeno duecento idee» e
il cui linguaggio è ridotto « cinque o sei
suoni o gridi». La naturalità dell’apprendimento,
quindi, è del tutto insufficiente per produrre
civiltà, e affinché questo fine
sia raggiunto è necessaria l’educazione,
ovvero il modellamento dello spirito
secondo criteri etici che nella misura in
cui la civiltà li produce, essi, di
ritorno, producono a loro volta civiltà.
A parte l’indubbio errore (ma
perdonabile n un uomo del Settecento) di
ritenere che un primitivo abbia meno
idee e meno parole di un civilizzato, ci
tocca rilevare che considerare la
memoria una «sensazione indebolita» permette
al Nostro di rendere coerente il
suo discorso, ma trascura il fatto che la
memoria non è una facoltà semplice e
quasi meccanica come egli pensa, costituita
dalle sensazioni prodotte da
“fatti” e “cose”, bensì da “connessioni”
che sono già delle elaborazioni “a
monte” delle sensazioni ricevute dal mondo
esterno, col quale il rapporto,
nella nostra mente, è del tutto indiretto.
Occorre notare inoltre che abbiamo qui una
visione molto ingenua della
realtà umana, ed è proprio essa a generare
quell’ottimismo antropotropo che
Helvétius profonde e propone. Da ciò la sua
convinzione che la sensibilità e la
memoria, senza una certa «organizzazione
esterna», sarebbero facoltà «sterili»:
Da cui concludo che, senza una certa organizzazione esterna, la sensibilità e la memoria sarebbero in noi soltanto facoltà sterili. Adesso bisogna esaminare se, con l’ausilio di quest’organizzazione, le due citate facoltà hanno realmente prodotto i nostri pensieri. [6]
Questa “organizzazione esterna” allo spirito
è l’agente formatore che ne determina le
qualità, sicché lo spirito finisce per
essere in balia di agenti esterni, preconfezionati
e pilotati, che “da fuori”
lo conformano; e dal di fuori, nell’assoluta
passività di esso, possono
renderlo rozzo o raffinato, perverso o virtuoso,
nella misura in cui sono i
grado di metterci dentro rozzezza o raffinatezza,
perversità o virtù. Abbiamo
qui la totale cassazione di tutto ciò che
si intende con la parola
“interiorità”, e ciò indipendentemente dal
fatto che essa si collochi
all’interno di un orizzonte spiritualistico
oppure materialistico. La mente,
cioè lo spirito, è diventata una pura macchina
passiva, i cui pezzi e il cui
funzionamento diventano esclusivamente il
frutto di un’“organizzazione” operata
dall’esterno. L’educazione, quindi, appare
come il vero soggetto attivo, mentre
lo spirito-mente finisce per qualificarsi
come mero soggetto passivo.
La
questione dirimente è che Helvétius sembra
anche non vedere grandi differenze
strutturali tra il cervello degli altri animali
e quello dell’uomo, ritenendo
semmai che questo sia soltanto più “plastico”
e “addestrabile” di quello,
sfuggendogli totalmente l’elemento biologico
che fa sì che in partenza il
cervello dell’homo sapiens non sia strutturalmente uguale a quello
degli
altri animali. Il Nostro, eludendo totalmente
un’analisi bio-zoologica, si
preoccupa di precisare un principio gnoseologico
ambiguo, affermando che non è
sua intenzione entrare nel merito del fatto
che le facoltà mentali di cui parla
debbano essere viste come “materiali” o,
all’opposto, come “spirituali” Egli sottolinea, «Quello
che ho da dire sullo spirito concorda perfettamente
tanto con l’una quanto con
l’altra ipotesi.» [7]. Nessun intento
gnoseologico né teoretico, quindi, ma esclusivamente
pragmatico, quello di
porre lo spirito come “mezzo” o “agente”
di civilizzazione.
In definitiva, tutto si riduce a sensazione
e
sensibilità, e la memoria stessa si costituisce
come una forma secondaria di
sensazione. Da cui:
Vengo al mio oggetto e
dico che la sensibilità fisica e la memoria,
o, per parlare più correttamente,
la sensibilità da sola produce le nostre
idee. In effetti, la memoria non può
essere altro che uno degli organi della sensibilità
fisica: il principio che in
noi sente, deve necessariamente essere il
principio che ricorda, poiché
ricordarsi, come dimostrerò tra poco, non
è in realtà altro che sentire. [8]
Contraddicendo in parte l’affermazione precedente
(l’indifferenza tra
un’interpretazione materialistica o spiritualistica
dello spirito) Helvétius
qui sottolinea chiaramente la dimensione
“fisica” della sensibilità, del
sentire, e quindi delle facoltà mentali che
ne sono forma interiore. Ne deriva
un orizzonte rigorosamente materialistico
nel quale si collocano sia le sensazioni
ricevute e sia una produzione delle idee
abbastanza omologata e stereotipa:
Quando, per effetto
delle mie idee o per la vibrazione che taluni
suoni causano nell’organo del mio
orecchio, riporto alla mente l’immagine d’una
quercia, allora i miei organi
interni debbono necessariamente trovarsi
all’incirca nella stessa situazione in
cui erano in vista di quella quercia. Questo
fatto deve, pertanto, produrre
incontestabilmente una sensazione: è quindi
evidente che ricordare è sentire.
Posto questo principio, dico ancora che è
nella nostra capacità appercettiva
delle rassomiglianze o differenze, delle
corrispondenze o discordanze che hanno
fra loro gli oggetti diversi, che consiste
ogni operazione dello spirito.
Pertanto questa capacità non è che la sensibilità
fisica stessa: tutto si
riduce dunque al sentire. Per assicurarci
di questa verità, prendiamo in
considerazione la natura. Questa ci presenta
oggetti che hanno rapporto con noi
e rapporti fra loro. La conoscenza di questi
rapporti forma quello che
chiamiamo spirito: esso è più o meno grande,
secondo che le nostre conoscenze
in questo campo sono più o meno vaste. Lo
spirito umano s’innalza fino alla
conoscenza dei rapporti, ma sono limiti che
non valica mai. [9]
Dunque, non
tanto le cose in quanto tali, ma i rapporti
tra esse e noi, costituiscono il
materiale delle idee e lo spirito è l’insieme
di esse in quanto rapporti. Ma il
concetto di rapporto rinvia anche a quello
di proporzione in senso matematico,
ed appare indubitabile che il modello gnoseologico
helvétiusiano sia esso
stesso matematico. E ciò forse spiega anche
perché il Nostro parli qui di
“verità”, usando un tono che è dei matematici,
dei logici e dei metafisici
piuttosto che dei filosofi. Mai Locke, cui
sicuramente il Nostro fa
riferimento, avrebbe “bloccato” l’orizzonte
gnoseologico con questo tono di
assolutezza, ben consapevole della relatività
dell’indagine filosofica.
Helvétius, in effetti, fatte salve le sue
ottime intenzioni etiche, può essere
considerato il primo dei materialisti “dogmatici”;
egli dà infatti l’avvio ad
un materialismo un pò rozzo e semplificatorio,
ma che proprio per questo non si
fa alcun scrupolo di parlare in nome di una
nuova verità in sostituzione di
quella vecchia.
Ci sono nel Nostro, duole doverlo rilevare,
i prodromi ideologici che preludono a quel
chiaro intento dogmatico che
caratterizzerà il peggiore ateismo posteriore,
quello imposto, “di stato”, che
adotterà tutto sommato lo stesso orizzonte
politico-sociologico totalizzante e
collettivistico di Helvétius. Il quale, non
soltanto mette in ombra
quell’interiorità umana che può essere sospettabile
di celare connotazioni religiose
o spiritualistiche, ma esclude anche ogni
possibile individualità reale atea,
vedendo l’insieme dei singoli individui soltanto
come una “collettività”
perlopiù passiva da gestire da parte di un
potere “virtuoso”. Egli è quindi il
primo teorizzatore dello “stato etico”, che
ha il diritto utilizza il
linguaggio nella sua naturalità e forme del
linguaggio artificiale organizzate ad
hoc per catechizzare e plasmare secondo i suoi
principi il suddito. Ma
verdiaamo come il Nostro vede la nascita
del linguaggio:
Cosicché tutte le
parole che compongono le diverse lingue e
che possiamo considerare come la
collezione dei segni di tutti i pensieri
dell’uomo, ci ricordano o immagini,
tali le parole, quercia, oceano, sole, o
designano idee, cioè i diversi rapporti
che gli oggetti hanno tra loro, e che sono
o semplici, come le parole,
grandezza, piccolezza, o composte, come vizio,
virtù. Esse esprimono infine o i
rapporti diversi che gli oggetti hanno con
noi, vale a dire la nostra azione su
di loro, come nelle parole, rompo, scavo,
sollevo, o la loro impressione su di
noi, come in, ferisco, abbaglio, spavento.
Se qui sopra ho
delimitato il significato della parola idea
che è presa in accezioni molto
diverse, dato che si esprime alla stessa
maniera l’idea di un albero e l’idea
di virtù, è che il significato
indeterminato di questa espressione può talvolta
far cadere negli errori
cagionati sempre dall’abuso delle parole.
La conclusione di quello che ho appena
detto, è che, se tutte le parole delle diverse
lingue non designano mai altro
che oggetti o i rapporti di questi oggetti
con noi e tra loro, lo spirito di
conseguenza consiste nel paragonare sia le
nostre sensazioni sia le nostre
idee, vale a dire, a cogliere le rassomiglianze
e le differenze, le
corrispondenze e le discordanze che hanno
tra loro. [10]
Ora, siccome la
valutazione non è altro che l’appercezione
stessa, o almeno l’enunciato di
questa appercezione, ne consegue che tutte
le operazioni dello spirito si
riducono a valutare. Posta la questione entro
questi limiti, esaminerò adesso se
valutare non sia sentire. Quando valuto la
grandezza o il colore degli oggetti
che mi sono presentati, è evidente che la
valutazione sulle differenti
impressioni che gli oggetti hanno fatto sui
miei sensi non è altro che una
sensazione. Posso altresì dire: valuto o
sento che, di due oggetti, uno che
chiamo testa, fa su di me un’impressione
differente da quello che chiamo piede,
e che il colore che chiamo rosso agisce sui
miei occhi in maniera differente da
quella che chiamo giallo. Da cui concludo
che in questo caso valutare non è mai
altro che sentire.
Abbiamo qui per un
verso l’enunciazione di un modello gnoseologico
che nominalmente parrebbe
puramente logico-matematico, ma che tuttavia,
nello stesso tempo, nega se
stesso proprio in nome del fondamento che
lo delinea, che non è per nulla
quello “astratto” della matematica, ma quello
“concreto” della sensazione
fisica. Tale sensismo radicale può lasciare perplessi, ma gli
va riconosciuta
l’estrema chiarezza della sua definizione,
molto lontana dall’ambiguità intrisa
di spiritualismo che caratterizzava il modello
di Condillac. Ma Helvétius va
molto oltre l’enunciazione generica ed entra
nel dettaglio con alcuni esempi
per ribadire che «la valutazione non è altro
che una sensazione» [11].
E quale corollario si pone la definizione
del “metodo operativo” che il Nostro
definisce «il mezzo di cui noi disponiamo
per pervenire allo scopo che ci
proponiamo.» [12] il
quale, anch’esso, si determina come conseguenza
di una sensazione.
Ne consegue però una tesi molto
interessante, poiché viene posto il problema
dell’opzione sui metodi intellettivi
più utili da adottare in termini non già
filosofici ma puramente psicologici,
anticipando di un secolo e mezzo la tesi
psicanalitica “economicistica” di
Freud. Per il Nostro è infatti il
“risparmio” di energia che induce all’adozione
di un metodo piuttosto che di un
altro nel perseguire un fine, anche se è
evidente che egli qui si rifà
puntualmente alla tesi di Condillac, secondo
il quale sono il piacere e il
dolore a dirigere e ordinare utilitaristicamente
i nostri pensieri. È quindi la
sensazione di fatica che ci porta a scartare
un certo metodo operativo, come è quella
di minor sforzo che ce lo fa scegliere. Quest’assunto
ha per Helvétius validità
universale e riguarda quindi anche l’apprendimento,
che pone nei seguenti
termini:
Supponiamo che un uomo
abbia lo scopo di memorizzare oggetti o idee,
e che per caso il tutto sia
collocato in maniera tale che il richiamo
alla mente di un fatto o di un’idea
gli abbia rievocato il ricordo di un'infinità
d’altri fatti o d’altre idee, e
che abbia così impresso più facilmente e
più profondamente oggetti nella
memoria. Allora, giudicare che quest’ordine
è il migliore e dargli il nome di
metodo, è dire che si è fatto meno sforzo
d’attenzione, che si è provata una
sensazione meno faticosa, studiando in quest’ordine
che non in un altro. Ora,
riportare alla mente una sensazione faticosa,
è sentire: è dunque evidente che,
in questo caso, giudicare è sentire. Supponiamo
ancora che, per verificare la
veridicità di certe proposizioni di geometria
e per farle più facilmente capire
ai propri discepoli, un geometra abbia deciso
di far loro considerare le linee
indipendentemente dalla larghezza e dallo
spessore: allora, giudicare che
questo mezzo o questo metodo d’astrazione
è il più idoneo a facilitare negli
alunni la comprensione di talune proposizioni
geometriche, equivale a dire che
essi fanno meno sforzo d’attenzione, e che
provano una sensazione meno
faticosa, servendosi di questo metodo che
non d’un altro. Supponiamo, come
ultimo esempio, che con un esame disgiunto
di ciascuna delle verità che
racchiude una proposizione complicata, si
sia più facilmente raggiunto la
cognizione di questa proposizione: valutare
allora che il mezzo o il metodo
d’analisi è il migliore, è dire ugualmente
che si fanno meno sforzi
d’attenzione, e che di conseguenza si è provata
una sensazione meno faticosa,
quando si è considerato singolarmente ciascuna
delle verità racchiuse nella
proposizione complicata, che non quando si
è voluto afferrarle tutte
contemporaneamente. [13]
Emerge qui un
altro elemento estremamente importante: quello
del “giudizio”. Se si pensa al
dibattito che si è sviluppato sin dall’antichità
attorno a questo concetto, la
riduzione a “sensazione” che ne fa Helvétius
non può che risultare
sorprendente. La dialettica delle idee e
dei concetti che ha caratterizzato per
secoli il sottofondo su cui è stato costruito
il concetto viene qui espunto
d’un sol colpo. Il giudizio, forma più generale
della “scelta di un metodo”, è
anch’esso frutto della sensazione:
Da quello che ho detto
risulta, che i giudizi portati sui mezzi
o i metodi che il caso ci presenta per
arrivare ad un certo scopo non sono altro
che delle sensazioni, e che,
nell’uomo, tutto si riduce a sentire. Ma,
si dirà, come mai fino ad oggi si è
supposto in noi una facoltà di giudicare
distinta dalla facoltà di sentire?
Questa supposizione, risponderò, è dovuta
solo all’impossibilità in cui si è
creduto finora di spiegare in altra maniera
taluni errori dello
spirito. [14]
Il Nostro è
perfettamente al corrente della problematicità
storica del termine, ma la
espunge sin dall’inizio, attribuendola all’incapacità
di comprendere ciò che a
lui risulta estremamente chiaro. E gli sbagli
sono attributi all’oziosa ricerca
intorno a un problema mal posto, sì da non
aver saputo comprendere
correttamente «taluni errori dello spirito».
Egli conclude il capitolo con la
seguente affermazione:
Per superare la
difficoltà, nei capitoli seguenti, mostrerò
che i nostri falsi giudizi ed i
nostri errori si riconducono a due cause
che suppongono in noi soltanto la
facoltà di sentire, e che sarebbe, di conseguenza,
inutile e anche assurdo
ammettere in noi una facoltà di giudizio
che non spiegherebbe niente che non si
possa spiegare senza. Entro dunque in argomento
e dico che non c’è falso
giudizio che non sia effetto delle nostre
passioni o della nostra ignoranza. [15]
Il
riduzionismo helvétiusiano ha operato un’ulteriore
semplificazione causale, ma
se si pensasse che passioni ed ignoranza
vengano poste sullo stesso piano viene
sciolto ogni dubbio, come si vedrà soprattutto
nel III Discorso
(Capitoli V-IX); infatti le passioni sono
sì causa di molti errori ma sono
anche la causa più generale di ogni nostra
attività positiva. Esse ci inducono
spesso in errore perché non ci permettono
di cogliere i termini di un problema
da ogni lato, finendo per indirizzare la
nostra attenzione su un solo lato di
un oggetto problematico e facendoci perdere
di vista tutti gli altri. Helvétius
cita come esemplari due passioni, l’orgoglio
e la paura, che quando si
impossessano di noi operano un parziale accecamento
della facoltà di giudizio
inducendoci all’errore. In altre parole,
la passione annulla la capacità della
sensazione di indirizzarci al retto giudizio
e alla retta azione,
interponendosi tra la valutazione e la scelta
operativa con una grave
limitazione del giudizio nella sua ampiezza
e profondità. Ma le passioni hanno
anche un’altra conseguenza negativa, quella
di indirizzarci a cogliere di una
situazione o di un fatto ciò che inconsapevolmente
desideriamo ci sia: da ciò
si genera il fenomeno dell’”illusione”. Ne
segue la ovvia conclusione che: «
L’illusione è un effetto necessario delle
passioni, la cui forza si misura
quasi sempre con il grado di offuscamento
nel quale ci sprofondano.» [16]
Fin
qui, tuttavia, l’attribuzione alle passioni
dell’offuscamento mentale è
perfettamente sulla linea di tutta la teologia
filosofale tradizionale, a
cominciare da Platone, per proseguire con
Aristotele, con gli Stoici su su fino a Leibniz. Acuti moralisti
anticonvenzionali del Seicento, come La Rochefoucauld,
Mandeville e La Bruyère,
già si erano già occupati del problema, ed
anche Luc Clapiers de Vauvenargue
(1715-1747), un coetaneo di Helvétius, che
aveva dato delle passioni un
interpretazione positiva ed eroica in opposizione
al pessimismo di
Rochefoucauld. Ma è a Condillac che Helvétius
sembra guardare maggiormente, con
la sua definizione di impulso totalizzante
verso il perseguimento di un unico
obbiettivo esclusivo. Il Nostro però, com’è
sua abitudine, semplifica molto
l’oggetto dell’indagine e su questo importante
tema, che percorre molti luoghi
della sua riflessione, offre qui un’anticipazione
lapidaria:
Per il resto, queste stesse passioni, che devono essere viste come il germe di un’infinità d’errori, sono anche la fonte dei nostri lumi. Se ci perdono, soltanto esse ci danno la forza di camminare, esse soltanto possono strapparci all’inerzia ed alla pigrizia sempre pronta a ghermire le virtù della nostra anima. [17].
L’argomento dell’ignoranza (per Helvétius
la causa principale dei nostri errori) pone
poi all’attenzione un concetto
dibattuto, quello di “lusso”, di cui si ricorderà
già si era occupato
ampiamente Mandeville, dando un giudizio
sostanzialmente positivo sui suoi
effetti sociali. Il Nostro ne parla qui,
trattando del “giudizio”, per
raggiungere contemporaneamente due scopi:
quello esplicito di analizzare i due
vista opposti, e quello, implicito, di introdurre
e far accettare il suo. La
questione metodologico-gnoseologica si interseca
così con quella
etico-pragmatica, e si conclude la trattazione
teoria per introdurre la ben più
vasta parte etica di De l’esprit.
Il non prendere partito sulla questione,
esponendo le tesi sia degli
estimatori del lusso sia quello dei suoi
detrattori, è quasi solo un espediente
retorico che fa da prodromo al programma
etico-sociologico helvétiusiano
sviluppato nel resto del libro. D’altra parte,
è sufficientemente significativo
il fatto che le tesi dei favorevoli al lusso
siano liquidate in una pagina e
quelle dei detrattori esposte in dieci. In
realtà, il Nostro assume un
atteggiamento opposto a quello di Mandeville,
vedendo nel lusso un creatore di disuguaglianza
sociale nello stesso tempo incapace di dar
felicità vera a chi se lo può
permettere. Ma soprattutto esso indebolisce
la forza della nazione e allontana dall’austerità
e dall’amore per la patria, l’unità-totalità
di popolo di cui ogni cittadino
dev’essere fautore:
E’ dunque evidente
che, quando il lusso ha raggiunto un certo
stadio, è impossibile restaurare una
qualsivoglia uguaglianza tra la fortuna dei
cittadini. Allora i ricchi e le
ricchezze vanno nelle capitali, dove sono
attirati dai piaceri e dalle arti del
lusso, mentre la campagna resta incolta e
povera: sette o otto milioni d’uomini
languiscono nella miseria, mentre cinque
o seimila vivono nell’opulenza che li
rende odiosi, senza renderli più felici.
[18]
Dunque
il cedimento al lusso produce soltanto danni
sociali e nessun vantaggio reale ai
suoi fruitori. Il Nostro si avvicinandosi
qui ad un principio che già
Machiavelli aveva tenacemente sostenuto,
cioè che l’abitudine al lusso porta
mollezza di costumi quanto debolezza morale
e fisica. Ed è da ciò che per una
nazione nasce il conseguente grave rischio
di perdere la libertà, poiché vi
sarà sempre qualche popolo austero, forte
e temprato al sacrificio, il quale,
prima o poi, l’asservirà. Helvétius sviluppa
la stessa tesi osservando
preliminarmente:
Orbene, appena la
penuria di soldi si fa sentire in uno stato
abituato al lusso, la nazione cade
nel disprezzo. Per sottrarvisi, occorrerebbe
avvicinarsi ad una vita semplice,
ma costumi e leggi vi si oppongono. Cosicché
il periodo del più gran lusso
d’una nazione è comunemente l’epoca più vicina
alla sua caduta ed alla sua
depressione. [19]
E pare proprio
una parafrasi della tesi moralistico-eroico-patriottica
tesi del Machiavelli (ma
non meno di Rousseau) la seguente conclusione:
Per plasmare corpi
robusti, occorre un cibo semplice, ma sano
ed abbondante, un esercizio che
senza essere eccessivo sia forte, una grande
abitudine a sopportare le
intemperie delle stagioni: abitudine che
acquisiscono i contadini, che, per
questa ragione sono infinitamente più adatti
a sostenere le fatiche della guerra
dei proprietari manifatturieri, la maggior
parte dei quali è abituata ad una
vita sedentaria. E’ altresì presso le nazioni
povere che si formano le armate
infaticabili che cambiano i destini degli
imperi. Quali difese potrebbe opporre
a queste nazioni un paese dedito al lusso
e alle mollezze? Non può incutere
timore né per numero, né per forza degli
abitanti. L’attaccamento alla patria, si
dirà, può supplire al numero ed alla
forza dei cittadini. Ma chi potrebbe far
nascere in questi paesi il sano amore
della patria? La classe dei contadini, che
compone da sola i due terzi di ogni
nazione, è lì sventurata, quello degli artigiani
non vi possiede nulla.
Trapiantato dal proprio villaggio in una
manifattura o bottega, e da questa
bottega ad un’altra, l’artigiano si è familiarizzato
con l’idea dello
spostamento, non può contrarre attaccamento
per nessun luogo. Garantito quasi
dappertutto della sussistenza, deve essere
visto non come cittadino di un
paese, ma come abitante del mondo. Un simile
popolo non può dunque distinguersi
a lungo per coraggio, perché, in un popolo,
il coraggio è normalmente, o
l’effetto della forza corporea, della fiducia
cieca nelle proprie forze che
cela agli uomini la metà del pericolo al
quale si espongono, o l’effetto di un
amore violento per la patria che gli fa disdegnare
i pericoli. Ebbene, il lusso
prosciuga, alla lunga, le due sorgenti di
coraggio. Forse la cupidigia ne
aprirebbe una terza, se vivessimo ancora
nei secoli barbari in cui si riduceva
il popolo in schiavitù, e si abbandonavano
le città al saccheggio. Il soldato
non essendo più adesso mosso da questo motivo,
può esserlo solo da quello che
si chiama onore. Orbene, il desiderio dell’onore
si raffredda in un popolo,
quando l’amore per le ricchezze vi si accende.
[20]
Roma e Cartagine hanno
voluto entrambe arricchirsi, ma hanno intrapreso
percorsi diversi per arrivare
allo scopo. Mentre voi incoraggiavate l’industriosità
dei vostri concittadini,
che creavate manifatture, che coprivate il
mare con i vostri vascelli, che
andavate a scoprire posti inabitati, e che
attiravate da voi tutto l’oro di
Spagna e d’Africa, noi, più prudenti, tempravamo
i nostri soldati alle fatiche
della guerra, n’esaltavamo il coraggio, sapevamo
che l’industrioso non lavorava
che per l’intrepido. Il tempo di godere è
arrivato: rendeteci i beni che siete
incapaci di difendere”. Se i romani non hanno
utilizzato questo linguaggio, la
loro condotta prova almeno ch’erano affetti
dai sentimenti che questo discorso
presuppone. Come la povertà di Roma non avrebbe
comandato alla ricchezza di
Cartagine, e conservato, a riguardo, il vantaggio
che quasi tutte le nazioni
povere hanno avuto sulle nazioni opulente?
[21]
14.3 La causalità etica dell’interesse
Quello
dell’interesse è tema centrale del pensiero helvétiusiano
e si pone in
termini molto chiari connettendosi strettamente
a quello della probità, intesa
come espressione di rettitudine e generosità
comportamentali a favore della
comunità (al Capitolo XIII: «virtù messa
in pratica»). Esso è anche il
“motore” dell’etica del Nostro, raccordandosi
al tema “psichico-economicistico”
del risparmio dello sforzo e dell’utilità
dei metodi operativi già delineati
nel I discorso. Il
punto di partenza è ancora l’esprit (traducibile qui con “ingegno”) visto
in relazione alla socialità:
L’esprit non è che un insieme, più o meno
consistente, non soltanto di idee nuove ma
per di più interessanti per il
pubblico, e che è meno al numero e all’acume,
che non alla scelta opportunistica
delle nostre idee, che si è legata la reputazione
di genio. […] L’interesse
presiede ad ogni nostro giudizio. […] Ciascun
individuo valuta le cose e le
persone dall’impressione gradevole o sgradevole
che ne riceve: il pubblico non
è che l’insieme degli individui, non può
quindi mai prendere altro che la
propria utilità come regola dei propri giudizi.
[22]
È quindi interessante ciò che si accorda con
le nostre idee, le nostre aspettative, che
ci dà soddisfazione o vero piacere. Il
tal senso l’interesse diventa il movente-base dei nostri giudizi,
delle
nostre accettazioni e dei nostri rifiuti.
Il termine utilità usato qui
da Helvétius potrebbe essere corredato dell’aggettivo
“psichica”, in quanto
psicogeni sono il piacere o il dispiacere
che inducono alla formulazione di un
giudizio positivo o negativo circa un qualcosa
che in generale può assumere i
caratteri del valore o del disvalore. Ne
deriva l’assoluta relatività del
giudizio individuale e l’ambito discrezionale
e soggettivo nel qual esso si
colloca. Ma anche l’interesse sovra-individuale,
comunitario, ha tali caratteri
di relatività, poiché:
In ogni tempo e in ogni luogo, tanto nel
campo
morale che in quello intellettuale, è l’interesse
personale che determina il
giudizio dei privati ed è l’interesse generale
che genera quello delle nazioni.
Ne deriva che sia da parte del pubblico come
da parte del privato sono l’amore
o la riconoscenza a determinare la lode,
l’odio o la vendetta il disprezzo. [23]
Il giudizio di probità non ha quindi mai nulla
di oggettivo ma dipende esclusivamente dall’interesse
a che si ripeta un
comportamento utile o comunque favorevole.
Helvétius, sia nel senso di
ripetitività nei comportamenti dell’agente
sia nella continuità
vantaggio-piacere nel soggetto paziente-giudicante,
chiama ciò abitudine
alle «azioni utili», dove l’utilità non è
tanto materiale quanto eminentemente
intellettuale, anche se quella può indurre
questa: «È quindi all’abitudine
delle azioni che gli sono utili che un individuo
dà il nome di probità.» [24]
Un
diretto correlato ci induce (Capitolo 4)
a cercare od auspicare nel giudizio
degli altri ciò che è in sintonia col nostri
modi di vedere e di pensare.
Helvétius coglie la causa di ciò nella vanità
e nella pigrizia:
Ora, se tutti gli uomini sono avidi di stima,
ognuno
di loro ricava dall’esperienza che le proprie
idee appariranno agli altri tanto
più apprezzabili o disprezzabili quanto più
saranno conformi o contrarie alle
opinioni di questi. Ne consegue che nessuno,
mosso dalla propria vanità, può
astenersi dall’apprezzare negli altri una
corrispondenza d’idee che gliene
assicura la stima e di odiarne l’opposizione,
sicura garanzia del loro odio o
almeno del loro disprezzo. [25]
Vediamo che con la sua analisi il Nostro
non fa
che colpire l’ipocrisia, mettendo a nudo
i meccanismi che determinano valori e
disvalori. Ma ciò facendo va ad intaccare
profondamente una morale cristiana
che si ritiene unica detentrice del “metro”
dei valori, ritenendoli assolutizzabili
attraverso e grazie alla “verità” divina
che rivela, impone e gestisce. L’interrelazione
tra la vanità di venire apprezzati o stimati
dagli altri e la pigrizia di non
contraddirli per evitare una reattività negativa
si evidenzia come acquiescenza
utilitaristica. Ma la pigrizia opera anche
in altro modo, e così: «La maggior
parte degli uomini, schiava della pigrizia
concepisce solo idee analoghe alle
proprie, che ha stima sincera solo per questo
genere d’idee, e, da qui, l’alta
opinione che ciascuno è, per così dire, costretto
ad avere di se stesso.» [26]
Nel
Capitolo XXIV (Sui mezzi atti a perfezionare la morale) la funzione
dell’interesse trova un ben peggiore
antagonista nell’ignoranza:
Chiunque consideri nella storia lo spettacolo
delle miserie pubbliche, s’accorge subito
che è stata l’ignoranza, ancor più
barbara dell’interesse [privato], a riversare
il maggior numero di calamità
sulla terra. Colpiti da questa verità, si
è sempre tentati di esclamare: Felice
la nazione in cui i cittadini non si permettono
che colpe d’interesse! Quanto
l’ignoranza le rende più numerose![27] Quanto sangue ha fatto versare
sugli altari! .
La religione è qui chiaramente vista come
una delle
maggiori cause di ignoranza ed i risultati
disastrosi della morale religiosa ha
fatto scorgere al legislatore la necessità
di fondare sulla base dell’interesse
personale « i principi della probità». Aggiunge
Helvétius: «Su quale altro
fondamento li si potrebbe sostenere? Forse
su falsi princìpi religiosi, che pur
in quanto tali potrebbero risultare utili
agli uomini?» E poi un riconoscimento
alla religione “vera”, santa e fautrice di
gioia interiore in anticipazione
della beatitudine celeste, per osservare
subito dopo che i suoi princìpi: «non
potrebbero risultare utili che per i cristiani,
pochi e sparsi nel mondo,
mentre il filosofo deve sempre riferirsi
all’umanità intera.» [28] La conclusione
è che maggior parte delle religioni ha basi
troppo assurde per risultare utili
alla virtù, e che allora solo le leggi possono
formulare principi di valore
universale tenendo conto dell’irrefrenabile
tendenza dell’uomo a ricercare il
proprio interesse:
Solo attraverso buone leggi, dunque, si può
formare un’umanità virtuosa. La funzione
legislativa consiste deve quindi far leva
sull’amor proprio per indurre gli uomini
ad esercitare la giustizia gli uni con
gli altri. Ma per fare ciò il legislatore
deve conoscere il cuore degli uomini e
sapere che essi non sono di natura né buoni
né cattivi umano, ma diventano
l’una e l’altra cosa in funzione degli interessi
che li legano o li dividono. [29]
Se il bene e il male diventano concetti astratti
e la morale religiosa non ha legittimità
a fissare regole etiche a livello
comunitario, la religione, coi suoi precetti
morali, è messa fuori gioco ai
fini del conseguimento delle virtù sociali.
14.4 Il primato del “sociale” e la virtù
Il tema del presente paragrafo lo abbiamo
già visto emergere più volte nel corso della
nostra trattazione, per cui non è
il caso di insistere ulteriormente nello
spiegare la ragione per cui la
socialità sia per Helvétius il faro che illumina
il suo pensiero. Ne vedremo
però qui alcuni corollari per rimarcarne
l’importanza. Montesquieu era convinto
che: «Ciascuno persegue il bene comune convinto
di seguire il proprio vantaggio
personale.» [30]
ed anche Mandeville era di questo parere.
Helvétius che indubbiamente conosce
l’uno e l’altro, la pensa diversamente in
omaggio alla moralità del bene
comune. Solo la sfera del pubblico e solo
ciò che concerne la collettività hanno
primato etico, e l’unico criterio in base
al quale giudicare il comportamento
virtuoso è l’utilità sociale. All’inizio
del Capitolo 6 del Discorso II è decisamente affermato: «Un uomo è giusto quando tutte
le
sue azioni tendono al bene pubblico.» Aggiunge
poco dopo: «In fatto di probità
è solamente l’interesse pubblico che bisogna
consultare e credere, e non gli
uomini che ci circondano. L’interesse personale
li inganna troppo spesso.» [31]
E ancora:
Bisogna dunque onestamente aggiungere
alla nobiltà dell’anima le capacità illuminanti
dell’intelletto e colui che mette
insieme tali differenti doni di natura agisce
sempre seguendo la bussola della
pubblica utilità. Essa è il principio di
ogni umana virtù e fondamento di ogni
legislazione. Quindi deve ispirare il legislatore,
spingere i popoli a
sottomettersi alle sue leggi e al principio
che occorre sacrificare i sentimenti
individuali per guardare al sentimento dell’umanità
stessa. Un’umanità della
comunità che può esser talvolta impietosa
verso i singoli individui. [32]
Abbiamo qui modo di cogliere
per un verso l’ingenuità del Nostro nel ritenere
che nobiltà d’animo e
intelligenza inducano a seguire il principio
morale dell’utilità pubblica, e
per un altro l’estrema pericolosità dell’asserzione
finale. Anche perché, sia
con le esperienze della “totalità” dell’Ancièn Régime, a cui Helvétius
pensava, e sia alla luce di quella dei totalitarismi
del XX secolo, per i quali
solo l’utilità pubblica sarà un valore, è
difficile credere incondizionatamente
nel “pubblico”. Ciò almeno nel modo piuttosto
aprioristico e acritico qui posto
dal Nostro, e smentito peraltro dalla storia
in ogni tempo e in ogni luogo.
Ma torniamo ora al concetto di probità
come caratteristica dell’uomo virtuoso e
vediamo più da vicino il suo
significato quale emerge nel Capitolo XIII
di De l’esprit, dove si
afferma: «In ogni tempo e in ogni paese la
probità è l’abitudine a compiere
azioni che sono utili alla propria patria.»
[33]
Ma se ciò deve valere come principio generale
quale sono i confini della
generalità? Si rileva che i moralisti si
dividono su due linee interpretative:
una prima che ritiene la virtù enunciabile
come valore assoluto dell’umanità,
una seconda che la considera relativa ai
differenti contesti statuali e sociali.
I primi hanno quindi una concezione “assoluta-ideale”
della virtù (rifacendosi
a Platone), gli altri “relativa-realistica”.
Tra questi, a cui dissocia il
Nostro, Montaigne: «che non con i ragionamenti
ma con i fatti» [34],
e quindi storicizzando e contestualizzando
il concetto e le sue connotazioni ha
dato indicazioni più utili sul suo conseguimento.
Va però notato che per quanto
Helvétius non si collochi tra i platonici,
in realtà, egli si avvicina loro nel
concepire insieme al conseguimento della
virtù anche quello della felicità, che
si realizza se il soggetto è virtuoso in
sé e soprattutto se si colloca all’interno
di una comunità virtuosa. Fatto salvo che
occorre distinguere in una comunità tra
le virtù vere e quelle false («di pregiudizio)
[35],
in sintesi, si può definire l’una in relazione
all’altra nei termini seguenti:
A conclusione generale di
quanto affermato ritengo che la virtù si
esprima come il desiderio del
conseguimento della felicità per tutti gli
uomini. La probità va considerata
dunque [come tensione a produrre virtù e
felicità per gli altri] la vera virtù realizzata
praticamente, e ciò vale per tutte le popolazioni
e per tutti i tipi di stato in
quanto volontà di essere utili con le
proprie azioni al paese di appartenenza.
[36]
14.5
Il determinismo formativo-educazionale
Helvétius
è un convinto determinista e pensa che la
necessità governi l’universo e
il mondo degli uomini, al punto da tirare
addirittura in ballo Dio (Discorso
III, Capitolo 9 Sull’origine delle passioni) per affermare:
Dal momento che la natura ci dà, dalla nascita,
prevalentemente delle necessità, è alla luce
di queste e dei primi desideri che
esse inducono, che occorre cercare l’origine
delle passioni che crescono e che si
accompagnano agli sviluppi delle capacità
di percepire e sentire. Sembra che Dio
abbia posto sia nell’universo fisico che
in quello morale un solo principio
eterno: che ciò che avviene e ciò che avverrà
non sono altro che sviluppi
necessari di ciò che è già stato. [37]
In tale orizzonte deterministico il Nostro
vede
nella forza cosmica e nella sensibilità umana i motori della
necessità. Come l’universo si fa sulla base
delle “leggi del movimento”, così il
mondo degli uomini evolve attraverso la loro
sensibilità ai “bisogni” che via
via si impongono. Il passaggio dalla condizione
di cacciatori a quella di
allevatori e agricoltori significa anche
il passaggio dai beni comuni presenti sul
territorio alla proprietà privata, ed è questa
la causa primaria della
diseguaglianza sociale [38].
Inaspettatamente il rentier monarchico pare riconoscersi nelle tesi
di
Rousseau; ma non è proprio così, poiché egli
spiega che la proprietà privata e
la diseguaglianza sociale sono “determinate”
dall’evoluzione della civiltà
verso sempre più alti gradi di organizzazione.
Ciò che noi chiamiamo bene
o male non sono che opinioni o “sensazioni” su
una realtà di cui comprendiamo
l’intrinseca necessità, e quindi: «Di là nasceranno, secondo le
diverse
forme di governo, passioni colpevole o virtuose
» [39]
È da
tali premesse che Helvétius nel Discorso
IV passa ad occupasi dell’educazione,
esponendo una teoria che in qualche modo
è stata fatta propria da molti regimi
totalitari e dirigisti, sia di destra che
di sinistra, sulla base della
convinzione che l’uomo sia plasmabile in
maniera deterministica con adeguati
mezzi pedagogici ed educativi, capaci di
“fabbricare il cittadino” nel modo
“giusto”. Nondimeno va precisato che Helvétius
non è affatto il tipo del
prevaricatore e né fautore della prevaricazione,
semplicemente egli sviluppa con
coerenza due principi-base del suo pensiero:
quello per cui l’individuo deve essere
al servizio e in funzione dello stato, e
quello per cui gli effetti sono sempre
“risultanti necessarie” di cause date. Sulla
base di questo principio cause
educative ad hoc possono creare individui virtuosi in funzione
del bene
comune. Anche se non esplicitamente detto,
va rilevato che in fondo Helvétius
fa propria la tesi di Hobbes a sostegno dello
stato globalistico e totalitario
in cui l’individualità è annullata ed i cittadini
diventano puri numeri. Così
apre il Capitolo XVII, quello conclusivo:
L’arte di formare gli uomini è in ogni paese
così strettamente legata alla forma del governo,
che è forse impossibile fare alcun
cambiamento considerevole nell’educazione
pubblica senza farne nella costituzione
stessa degli stati. L’arte dell’educazione
non è che la conoscenza dei mezzi
adatti a formare corpi più robusti e più
forti, spiriti più illuminati e animi
più virtuosi. [40]
Mens sana in corpore sano, dunque, come fine
primario di uno stato virtuoso che deve fondarsi
su cittadini virtuosi. Ma esso
deve “sapere” come operare ed anche “volere”
il conseguimento di un bene
generale che deve riverberarsi sui molti
che lo costituiscono come soggetti
perlopiù passivi. Il Nostro, che tanta importanza
attribuisce all’istruzione
per il conseguimento della virtù, ribadisce
qui anche alcuni indicazioni di
carattere organizzativo e strutturale che
implicano l’abbandono, o la
limitazione, dello studio del latino. Egli
ritiene che il rapporto tra i costi
(di tempo) e i benefici( di cultura) siano
del tutto sproporzionati, e che il
giovane sia portato a spendere troppe energie
intellettuali che potrebbe meglio
utilizzare. Ma, preoccupato di essere troppo
schematico, aggiunge: «Non che io
faccia mie le massime troppo rigide di chi
ritiene che un giovane debba
limitarsi unicamente agli studi convenienti
al suo stato. L’educazione di un
giovane deve prestarsi alle diverse vie che
egli può intraprendere: il genio
vuole essere libero.» [41] Il
giovane cittadino di genio o di talento è
una grande risorsa per lo stato
indipendentemente dalla classe sociale a
cui appartiene, e dunque lo stato deve
creare le condizioni di sostegno affinché
ogni individuo dotato trovi le
strutture formative per giungere al meglio
delle sue possibilità, poiché è nel
suo futuro di operatore a favore dello stato
che la comunità troverà il proprio
vantaggio.
Da
questo momento in poi Helvétius sviluppa
un discorso contro tutti dispotismi, incapaci
di pensare all’educazione dei cittadini per
ottusità ed egoismo, dove proprio
l’insistenza nel riferire il dispotismo ai
monarchi “orientali” allude a chi in
quel modo tende a comportarsi (il re di Francia).
Vegliare sull’educazione
pubblica è l’obbiettivo primario di ogni
buon monarca:
È possibile senza dubbio fare degli uomini
istruiti. Nulla impedisce di approfittare
dell’età giovanile per riempire la
memoria dei giovani delle idee e dei dati
relativi ai posti che possono occupare;
ma non si formeranno mai degli uomini di
genio, perché quelle idee e quegli oggetti
sono sterili se non sono fecondati dall’amore
della gloria. [42]
Una formazione di qualità, programmata e
organizzata in funzione delle esigenze dello
stato, ma anche basata sul merito.
E il compenso al merito va espresso col riconoscimento
morale, cioè con la
gloria. Non ci si stupisca di tale asserzione,
poiché non si troverà nessun
uomo del Settecento che parlerà apertamente
di “soldi”, almeno nel mondo
cattolico. Parlare di soldi è roba da plebei
anche perché è sottinteso che la
gloria, in qualche modo, comporti vantaggi
anche pecuniari che la seguono. Ciò
che è importante è che il sovrano si renda
disponibile personalmente a
dispensare premi a chi li merita, si da instillare
nei suoi sudditi l’«amore
per la gloria» e quindi: «Perché quest’amore
si accenda in noi è necessario che la gloria
costituisca, al pari del denaro,
l’equivalente di un’infinità di piaceri,
e che gli onori siano il premio del
merito.» [43]
Ma i
potenti sono lontani da tale principio: «Essi
non vogliono abituare il
cittadino a considerare i favori di un debito
che essi assolvono nei confronti
del talento.» mentre l’uomo capace rende
un servigio che andrebbe sempre
premiato; questo premio è un “debito” del
potere che non può essere eluso. Ma
l’Ancièn Régime è un carrozzone sgangherato che più che
premiare il
merito gratifica l’intrigo interessato: «È
così che spesso l’ingiustizia
presiede alla distribuzione dei favori, e
l’amore della gloria si estingue in
tutti i cuori.» [44] E tuttavia non si deve
cedere al pessimismo, «questi ostacoli non
sono insormontabili », ma occorre
aver e chiari gli obbiettivi da perseguire
e agire di conseguenza. Helvétius si occupa di riscossione delle
imposte e sa che la Francia è in bancarotta,
e tuttavia pensa che essa si possa
salvare cambiando rotta e correggendo i mali
morali che l’affliggono, partendo
dall’educazione dei cittadini si da costituire
le basi per un paese “diverso”. Ma
il suo monito resterà disatteso; anzi, quel
paese incapace di correggersi lo
costringerà all’esilio civile, per aver detto
qualche verità indigesta al potere.
Morirà molto prima di vedere un “nuovo” che
forse non lo avrebbe affatto
convinto, per quanto la Rivoluzione, nei
suo momenti migliori, tenterà di metter
in atto progetti che in qualche modo possono
esser considerato abbastanza
coerenti con le istanze poste da Helvétius.
[1] E.Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, Firenze, La Nuova Italia 1974, pp.47-48.
[2] Mandement de Mgr. L’Archevêque de Paris, portant condamnation d’un livre qui a pour titre «De l’esprit» (cit. in C.-A. Helvétius, Dello spirito, a cura di A.Postigliola, Roma, Editori Riuniti 1994, p.IX).
[3] R.Chartier, Le origini culturali della Rivoluzione francese, Roma-Bari, Laterza 1991, p.41.
[4] C.-A.Helvetius, De l’esprit, Paris, Fayard
1988 (trad.F.Virzo), p.15.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p.17.
[7] Ivi, p.18.
[8] Ivi, pp.19-20.
[9] Ivi, pp.20-21.
[10] Ivi, pp.21-22.
[11] Ivi, p.23.
[12] Ibidem.
[13] Ivi, pp.23-24.
[14] Ivi, p.24.
[15] Ivi, pp.24-25.
[16] Ivi, p.27.
[17] Ivi, p.28.
[18] Ivi, p.33.
[19] Ivi, pp.35-36.
[20] Ivi, pp.38-39
[21] Ivi, p.40.
[22] Ivi, pp.52-53.
[23] Ivi,p.55.
[24] Ivi,p.57.
[25] Ivi,p.68.
[26] Ivi,p.72
[27] Ivi, p.209.
[28] Ivi, p.212.
[29] Ivi, p.216.
[30] N.Hampson, cit., pp.104-105.
[31] C.-A.Helvetius, De l’esprit, cit., p.81
[32] Ivi, p.83-84.
[33] Ivi, p.127.
[34] Ibidem.
[35] Ivi, pp.135-146.
[36] Ivi, pp.133-134.
[37] Ivi, pp.289-290..
[38] Ivi, pp.291-292.
[39] Ivi, p.292
[40] C.-A. Helvétius, Dello
spirito, a cura di A.Postigliola, Roma, Editori
Riuniti, p.171.
[41] Ivi, p.173.
[42] Ivi, p.175.
[43] Ibidem.
[44] Ibidem.