XIII.
La Mettrie
13.1
Un’individualità originale
La Mettrie è uno dei più notevoli pensatori
del XVIII
secolo, e ciò va sottolineato aldilà dei
più che giustificati giudizi critici
circa le sue oscurità, le sue approssimazioni
e le sue contraddizioni. Il suo
pensiero manca di sistematicità, ma riesce
a porre in modo decisamente nuovo
una serie di problemi ontologici, antropologici,
gnoseologici ed etici che la
metafisica, quella idealistica prima e quella
cristiana poi, aveva reso
sclerotici, astratti ed ideologici, nell’arco
di oltre venti secoli. A ben
vedere, tuttavia, vi sono due La Mettrie,
quello fino al 1748, più incerto e
approssimativo, e quello successivo, più
sintetico e chiaro. Per quanto
riguarda gli aspetti ontologico-gnoseologici
del suo pensiero, egli sfrutta un
lascito filosofico che gli viene dall’atomismo
epicureo-lucreziano e dal
meccanicismo cartesiano, che coniuga con
lo iatro-meccanicismo in auge
all’epoca. La sovrapposizione tra scienza
medica e filosofia dà luogo a un pensiero
innovativo e anticonvenzionale reso con una
prosa brillante, spiritosa e
ironica, di quel carattere libertino che
aveva visto una sua felice fioritura
tra il Seicento e il Settecento in una Francia
bigotta e conservatrice.
Il Nostro è senz’alcun dubbio
un pensatore ateo, e tuttavia non va dimenticato
che siamo ancora in un’epoca
in cui la professione di ateismo può costare
assai cara e che l’ombrello degli
pseudonimi non protegge molto, dal momento
che l’Ancièn Régime possiede una
polizia piuttosto efficiente e una censura
rigidissima in fatto di religione.
Ciò spiega una certa prudenza nei primi scritti
sotto la veste di uno scetticismo
neutrale. Si legge ne L’uomo macchina:
Non perdiamoci nell’infinito: non siamo fatti
per averne la benché minima idea; ci è assolutamente
impossibile risalire
all’origine delle cose. D’altra parte, per
la nostra serenità è indifferente
che la materia sia eterna o che sia
stata creata, che ci sia un Dio o che
non ci sia. Quale follia tormentarsi tanto
per ciò che ci è impossibile
conoscere, e che non renderebbe più felici
quand’anche giungessimo a
conoscerlo. [1]
L’affermazione pone ad un tempo i limiti
conoscitivi della mente umana
insieme con il primato dell’eudemonia e del
conseguimento-mantenimento della
serenità, più o meno nei termini dell’aponia e dell’atarassia
antiche. Essa ricorda, da un punto di vista
gnoseologico, l’atteggiamento di
Protagora, ma implica anche quello di Epicuro,
che aveva reso gli dèi
irrilevanti per le cose umane sistemandoli
nella remota beatitudine degli
intramondi. E proprio in quanto allievo ideale
di Epicuro egli, per quanto
influenzato pesantemente dal meccanicismo
cartesiano, riesce ad evitare di
appiattirsi su di un facile determinismo
meccanicistico (dominante, peraltro,
altri indirizzi ateistici settecenteschi).
Riesce infatti a cogliere, sia pure
in termini dubitativi, una complessità e
una dinamica della materia che con la
sua indeterminazione mal si prestava a venire
ridotta, dogmaticamente, a una
macchina necessitata. Specialmente nel Sistema
di Epicuro, del 1749, è
dato cogliere il casualismo della parenklisis coniugato con una
concezione della dinamica della natura che
possiamo definire
pre-evoluzionistica. D’altra parte egli,
medico militare, conosceva fin troppo
bene come la sofferenza dei corpi e la loro
fine sfuggissero alle leggi di un
determinismo cieco di tipo fatalistico o
provvidenzialistico. Se i temi
principali della sua filosofia sono l’antropologico,
l’etico, l’ontologico e lo
gnoseologico, corrispondono ad essi quattro
oggetti primari d’indagine, che
sono, rispettivamente: il corpo, la felicità,
la natura e la filosofia. Un atteggiamento quindi, quello di La Mettrie
che, a nostro parere, più di ogni altro contiene
in sé gli elementi principali
dell’ateismo autentico, quantunque il suo
linguaggio non aggressivo e prudente
abbia potuto generare qualche equivoco. Il
teologo Cornelio Fabro conclude il
capitolo a lui dedicato, in Introduzione
all’ateismo moderno, col seguente giudizio:
Ciò che però conta è l’influsso
innegabile esercitato da quest’opera [L’uomo
macchina] nel corso delle idee che portarono alla
rivoluzione degli spiriti
nel mondo moderno […] La tesi-ipotesi della
materia semovente di Locke si eleva
a ditirambo dei sensi e a celebrazione del
cervello come organo proprio del
pensiero e ad apologia del piacere come scopo
supremo dell’esistenza. In questo
senso la posizione del La Mettrie può essere
considerata la prima forma
coerente e radicale dell’ateismo illuministico.
[2]
Julien Offroy de La Mettrie nasce
nel 1709 a Saint-Malo e studia filosofia
e scienze naturali nel celebre
collegio d’Harcourt prima di addottorarsi
in medicina a Reims nel 1733.
Attratto dalla iatro-meccanica si trasferisce
a Leida per seguire le lezioni di
Herman Boerhaave, uno dei maggiori e famosi
assertori di quell’indirizzo, del
quale il giovane allievo, dopo il rientro
a Saint-Malo per esercitare la
professione medica, traduce in francese numerose
opere tra il 1735 e il 1740.
Passato a Parigi è dapprima medico privato
del duca di Grammont, poi entra nel
reggimento delle guardie francesi ed è medico
di campo nel corso della guerra
di successione austriaca. Tornato a Parigi
nel ’45 stringe amicizia con
Fontenelle e Maupertuis, frequentando il
salotto della marchesa di Chatelet e
allacciando rapporti con altri intellettuali
illuministi; nello stesso anno
pubblica la Storia naturale dell’anima (più tardi Trattato dell’anima). Condannata dal Parlamento e dalla Chiesa
il
libro gli costa il posto, ma può rientrare
nei ranghi dell’esercito come medico
itinerante peregrinando in vari ospedali
militari. Scrive operette satiriche
sulla medicina e continua i suoi studi di
filosofia licenziando nel 1747 L’uomo
macchina, la sua opera più nota, che pur uscendo
anonima consente l’identificazione
dell’autore bollandolo come uomo empio ed
immorale. Braccato e prossimo
all’arresto riesce con l’aiuto di Maupertuis
a farsi accogliere in Prussia da
Federico II, il sovrano-filosofo cui egli
riserverà sempre molta gratitudine.
Nella tranquillità berlinese scrive ancora
tre opere filosofiche, l’Uomo
pianta del 1748, l’Anti-Seneca o Discorso sulla felicità. Dello
stesso anno e il Sistema di Epicuro del 1749; una Memoria sulla
dissenteria e un Trattato sull’asma appariranno nel 1750, l’anno
prima della sua morte accidentale all’età
di 42 anni.
In qualche misura La Mettrie
può definirsi anche un’esistenzialista: non
nel senso tragico di Lucrezio, ma
in uno che si connota a mezza strada tra
l’ironico e il rassegnato. Ci pare di
cogliere quest’elemento nella seguente dichiarazione
de L’uomo macchina:
Chissà, d’altra parte, se la ragione
dell’esistenza dell’uomo non si trovi nella
sua stessa esistenza? Forse egli è
stato gettato a caso su un qualsiasi punto
della superficie terrestre senza che
noi possiamo sapere né come né perché, consci
solo che deve vivere e morire
simile a quei funghi che spuntano da un giorno
all’altro o a quei fiori che
costeggiano i fossati e coprono le mura.
[3]
Alla profondità critica di questa considerazione
non si può che opporre
la teologia trionfante di ciò che in quello
stesso anno Voltaire metteva in
bocca all’angelo Jesrad, che ammonisce Zadig
a proposito del bene e del male:
«Nulla è casuale: tutto è prova, o punizione,
o ricompensa o preveggenza.» [4]
Chiudendo poi la sua lezione con l’ammonimento:
«Povero mortale, cessa dal
discutere ciò che si deve adorare.» [5]
Ma la riflessione
anti-deterministica, e quindi anti-teologica,
viene messa meglio a fuoco da La
Mettrie tre anni dopo nell’aforisma XXVII
del Sistema di Epicuro, dove
egli tematizza la cecità dei processi naturali
ed in particolare
l’indeterminazione genetica:
Avendo costruito, senza vedere, occhi che
vedono, la natura ha costruito, senza pensare,
una macchina che pensa. Quando
vediamo un po’ d’umore produrre una creatura
viva, piena di spirito e di
bellezza, capace di innalzarsi ai gradi più
sublimi dello stile, dei costumi e
del piacere, possiamo essere sorpresi che
un po’ più o un po’ meno di cervello
costituiscano il genio o l’idiozia? [6]
La filosofia di La Mettrie è
impensabile senza la sua cultura scientifica
e ne sono prova le prime opere : il
Sistema di Boerhaave sulle malattie veneree nel 1735, il Trattato
sulla vertigine del 1737, gli Aforismi sulla conoscenza e la cura delle
malattie nel 1738, il Trattato di materia medica e il Nuovo trattato sulle malattie veneree
del 1739, le Istituzioni di medicina tra il 1739 e I 1740. il Riassunto della teoria chimica della
terra del 1741, le Osservazioni di medicina pratica del 1743. Esse
non solo non rivestono importanza per la
nostra ricerca ma va anche detto che
dal punto di vista scientifico il loro perso
è abbastanza modesto. Ci
occuperemo invece nel dettaglio del pensiero
del Nostro seguendo le sue opere
filosofiche nel tempo, la già citata Storia naturale dell’anima stampata
in Olanda nel ’45, L’uomo macchina e L’uomo pianta del ‘48, L’Anti-Seneca
e Il sistema di Epicuro del 1750.
13.2
La materialità dell’anima e la macchina-uomo
Il tema della materialità dell’anima,
i cui destini si identificano con quelli
del corpo viene sviluppato in due
saggi di La Mettrie: la Storia naturale dell’anima del 1745 e L’uomo
macchina del 1748. La Storia naturale dell’anima è lavoro complesso
e persino troppo esteso per una tesi così
semplice come quella della
materialità dell’anima. Va però considerato
che le difficoltà teoriche sono
notevoli e che l’autore deve arrangiarsi
a trovare strumenti concettuali per
formulare un discorso credibile. Ne vien
fuori un coacervo sincretico di vecchi
concetti della metafisica adattati a una
tesi materialistica poco convincente e
con un obbiettivo teorico sostanzialmente
mancato. Lo stesso La Mettrie, in una
lettera alla marchesa di Chatelet, ne rilevai
limiti, dichiarando di non esser
riuscito a spiegare come la potenza motrice della materia possa
trasformarsi in atto reale se non ricorrendo a un’ipotetica forma
sostanziale attiva; sì da finire per cercare di “spiegare il
movimento con
il movimento”, in stesso in una risalita
di causa in causa tale da allontanarsi
irrimediabilmente dalla materia fino a cadere
nelle “frivolezze degli
Scolastici” e rinverdire le loro fantasmatiche
“forme sostanziali”. L’autocondanna
è severa:
In tutto questo gergo ininteleggibile non
troviamo infatti altro che una trasmissione
successiva di movimenti, una
potenza motrice, che non si trova mai nella
materia che riceve il movimento,
bensì sempre in quella che glielo trasmette
e ch’essa stessa ha a sua volta
ricevuto da un’altra: onde, risalendo alla
prima sostanza materiale che ha
messo in moto le altre, ne deriva ch’essa
ha ricevuto il proprio principio di
attività da un’altra fonte, cioè da quell’Intelligenza
suprema e universale che
si manifesta chiaramente in tutta la natura.
[7]
In altre parole, suo malgrado, il Nostro
“è tornato a Dio”. Forse non a
quello della Bibbia, ma a quello dei panteisti
o dei deisti con l’amara consapevolezza
di essere ricaduto nella metafisica per
aver voluto utilizzarne gli strumenti, pur
“rinominandoli” materialisticamente.
Farà tesoro di questa riflessione per
tentare con una nuova via, quella di partire
dal corpo per
riqualificarlo e conferirgli le proprietà
dell’anima in senso antico, cioè come
pnêuma spiritus, “soffio vitale” del corpo. Vedremo a suo
tempo se ci è
riuscito, ma soffermiamoci ora un poco su
questa Storia naturale dell’anima
di cui abbiamo già le manchevolezze teoriche
per ammissione stessa dell’autore.
Dopo averci detto che l’anima è omogenea
al corpo e che solo i sensi si offrono
come validi strumenti gnoseologici il Nostro
rileva che la materia ha “in sé”,
per un verso, la facoltà di muovere e di
sentire, e per un altro, l’estensione,
che è solo un suo attributo e non già la
sua essenza (come pensava Cartesio) [8]. In
questo modo l’ambito ontico della materia
invade quello dello spirito per mezzo
di una dilatazione della res extensa. Come si vedrà la critica a
Cartesio si attenua nelle opere successive
in una rivalutazione del
meccanicismo, ma qui un discorso anti-cartesiano
velleitario si traduce alla
fine con un non voluto ritorno all’aristotelismo.
Ne deriva la riviviscenza di
“forme sostanziali”, di vegetatività e sensibilità
dell’anima, rimettendo in
gioco tutto un armamentario metafisico del
tutto incoerente con un’ontologia
materialistica.
La Mettrie utilizza
largamente le sue conoscenze mediche (capitolo
IX) per spiegare il rapporto
anima-sensi, sul meccanismo e sulle leggi
dinamiche della sensazione,
concludendo, lockianamente, che: «Queste
impressioni dei corpi esterni sono
dunque la vera causa fisica di tutte le nostre
idee». Ma il cervello, la sede
delle idee, è troppo limitato per contenere
“tutta” l’anima, quindi essa deve
permeare tutto il corpo, e qui entra in gioco
il fisiologo per spiegare
l’”estensione dell’anima”, diffondendosi
poi sulla memoria, sull’immaginazione,
sulle passioni, sulle inclinazioni e gli
appetiti, sull’istinto, sulla
comprensione, stabilendo un rapporto diretto
tra l’animale e l’uomo [9]. Ma
vediamo, nello specifico, alcune considerazioni
importanti. La prima:
La mia anima manifesta costantemente non
già
il pensiero, che (qualsiasi cosa dicano i
cartesiani) le è accidentale, ma
attività e sensibilità. Ecco due proprietà
incontestabili, riconosciute da
tutti i filosofi che non si fanno accecare
dallo spirito sistematico, il più
pericoloso di tutti. Ora, si dice, tutte
le proprietà presuppongono un soggetto
che ne sia la base, che esista di per sé
e al quale queste proprietà
appartengono di diritto. […] Certo, non si
può ragionare meglio di così; ma
perché volete che io immagini il soggetto
di queste proprietà dotato di una
natura assolutamente distinta dal corpo,
laddove vedo chiaramente che è
l’organizzazione stessa del midollo al primo
inizio della sua origine (cioè
alla fine della corteccia) ad esercitare
liberamente, quando è sana, tutte
queste proprietà? Una vera massa di osservazioni
e di esperienze certe mi
provano ciò che sostengo, laddove chi afferma
il contrario può sciorinare molta
metafisica ma senza darci una sola idea.
[10]
Qui, dove parla il medico, è difficile smentirlo.
Ma La Mettrie rivela
i suoi dubbi nel dichiarare subito dopo:
«Ma l’anima è dunque formata da fibre
midollari? E come spiegarsi che la materia
possa sentire e pensare? Confesso
che non me lo spiego.» [11] Nel
dichiararsi consapevole dell’empietà del
sostenere che la materia possa
“pensare da se stessa” senza che Dio, puro
spirito, le abbia conferito tale
facoltà, il Nostro si chiede però implicitamente
anche perché Dio non potrebbe
essere la materia stessa dal momento che
la sua essenza è ignota, aggiungendo:
Nel cervello io non vedo che materia; nella
sua parte sensitiva non vedo, come si è provato,
che estensione. Vivo, sano,
ben organizzato, quest’organo contiene all’origine
dei nervi un principio
attivo diffuso nella sostanza midollare.
Io vedo questo principio che sente e
pensa disturbarsi, addormentarsi, spegnesi
col corpo. Che dico! L’anima è la
prima ad addormentarsi, il suo fuoco si spegne
man mano che le fibre di cui
sembra fatta si indeboliscono e cadono le
une sulle altre. Se tutto si spiega
con ciò che l’anatomia e la fisiologia mi
hanno permesso di scoprire nel
midollo, che bisogno ho di foggiare un essere
ideale? Se confondo l’anima con
organi corporei lo faccio perché tutti i
fenomeni mi spingono a farlo e perché
Dio non ha dato alla mia anima nessun’idea
di se stessa, bensì un sufficiente
discernimento e buona fede per riconoscersi
in qualsiasi specchio e per non
arrossire di esser nata nel fango. Se essa
è virtuosa e adorna di mille belle
conoscenze sarà abbastanza nobile e abbastanza
stimabile. [12]
La conoscenza scientifica,
dunque, ovvero la filosofia nei termini lamettriani,
giustifica ampiamente la
nobiltà di un’anima materiale senza bisogno
di riferirla all’azione di uno
spirito divino. Ma implicito in tale affermazione
è anche il fatto che Dio
possa essere identificato con la materia?
Se La Mettrie evita di affermarlo
chiaramente è perché la sua ostilità verso
lo Stoicismo (ma per ragioni etiche)
gli impedisce di prenderla in considerazione.
E tuttavia, in questa prima fase
della sua speculazione, così intrisa di metafisica
classica, è sicuramente
implicata questa possibilità proprio per
il fatto che il Nostro, non negando
Dio («l’essenza di questo essermi è ignota»)
ne adombra la possibile
materialità. Questa “ragionevolezza delle
ipotesi” dedotte è oppositiva
rispetto alle forme aprioristiche e dogmatiche
della metafisica, da attribuirsi
a personaggi come Leibniz e Wolf, è difesa
con la considerazione:
Bisognava proprio impiegare tanta arte ad
incastonare l’errore per poi moltiplicarlo
meglio? Si direbbe, ad ascoltare
questi ambiziosi metafisici, ch’essi abbiano
assistito alla creazione del mondo
o allo sbrogliarsi del caos. Tuttavia i loro
primi principi sono soltanto
ipotesi ardite, elaborate non tanto dl genio
quanto da una presuntuosa
immaginazione. [13]
La Mettrie rimarca che l’opera dei metafisici
non sarebbe possibile
senza quella fantasia creativa che caratterizza
le loro formulazioni; una creatività
che nasce dalla fantasia, ma che poi si nutre
della logica e della dialettica
per formularsi in un linguaggio credibile.
Ma anche il Nostro risulta in questo
primo saggio filosoficamente debole, poiché,
riduzionisticamente, si limita a sviluppare ciò che la scienza
medica rivela sul funzionamento dell’organismo
umano quale “macchina” biologica,
ma trascurando la complessità delle sue funzioni
cerebrali.. Il campo di
indagine viene perciò circoscritto dal medico-fisiologo
a ciò di cui “può
parlare”, lasciando ai fisici di occuparsi
di ontogenesi e ai moralisti di
sentimenti. La Conclusione dell’opera si sviluppa come un riassunto
delle tesi espresse e un omaggio a Lucrezio:
Senza sensi, niente idee. Meno sensi abbiamo,
meno idee abbiamo. Con poca educazione poche
idee. Senza sensazioni acquisite,
niente idee. Tali principi sono le conseguenze
necessarie di tutte le
osservazioni e le esperienze che costituiscono
la base incrollabile di
quest’opera. Dunque l’anima dipende essenzialmente
dagli organi del corpo, coi
quali essa si forma, cresce, decresce. Ergo partecipem leti quoque convenit
esse. [14]
Ne L’uomo macchina l’anima viene messa in secondo piano e il
corpo
diviene l’oggetto primario d’indagine, da
cui semmai dedurre le denotazioni di
essa come sua ospite. Quest’opera porta La
Mettrie, dopo soli tre anni dalla
pubblicazione della Storia naturale dell’anima, a licenziare una più
concreta e coerente teoria sull’uomo, facendo
apparire come il primo filosofo
ateo e materialista del XVIII secolo dopo
Meslier. In realtà il Nostro è
pensatore prudente, persino umile nel rivelare
le sue perplessità, limitandosi
ad invocare le certezze della scienza che
conosce (la medicina) a sostegno
delle sue tesi. Quest’opera principale riprende,
anche se non se ne fa cenno,
una tesi avanzata sin dal 1672 da Francis
Glisson, il quale, in De naturae
substantia energetica, aveva posto l’esistenza di una proprietà
dinamica
intrinseca alla struttura corporea che aveva
chiamato irritabilità quale causa di sentimenti ed emozioni. Ma
già nella Storia naturale dell’anima il Nostro ha rivelato chiari segni
di aver presente l’opera di Guillaume Lamy
(1644-1682), l’originale medico-filosofo
secentesco.
Lamy è un convinto assertore
dell’epicureismo di Lucrezio e del suo indeterminismo.
Posizione chiara molto
coraggiosa la sua in un’epoca dominata da
un cartesianesimo, che egli non
ignora ma volge in senso monistico-materialistico.
Il fatto interessante è
anche che Lamy sviluppa il suo pensiero in
maniera indipendente da Gassendi, dal
cui epicureismo egli si discosta nettamente.
Già nella sua prima opera, il De
principiis rerum in tre libri, del
1669, egli si rivela pensatore estroso oltre che
iatro-meccanico
convinto, nemico del finalismo metafisico
e già teorizzatore della materialità
dell’anima e dell’appartenenza dell’uomo
in tutto e per tutto al regno animale.
Nel primo libro contesta Aristotele, nel
secondo Cartesio e nel terzo espone la
propria dottrina epicureo-lucreziana «Epicuri
principia paulum emendata nova metodo stabiliuntur
». [15] Per
comprendere l’originalità del suo punto di
vista riportiamo un passo dei suoi Discours anatomiques del 1675:
L’opinione più verosimile che si possa avere
dell’anima, che è la
stessa in tutti gli animali e si diversifica
solo per le differenze degli
organi e degli umori, è quella che intendo
esporvi. È certo che c’è nel mondo
un spirito molto sottile, o una materia molto
delicata e sempre in moto, di cui
la maggior parte e, per così dire, la fonte
è nel sole, e il resto è
distribuito per tutti gli altri corpi, il
maggiore o minore quantità secondo la
loro natura e la loro consistenza. Si tratta
senza dubbio dell’anima del mondo,
che lo governa e lo vivifica, e di cui tutele
parti del mondo hanno una qualche
porzione.. [16]
Qui troviamo una novità importante, poiché
per Lamy l’anima del mondo cessa di essere
“platonicamente” spirito per farsi pura materia
e fonte indifferenziata di vita
con origine nel Sole. La sua natura è ignea
ed è la causa del moto:
È il fuoco più puro dell’universo che di
per sé non brucia ma per i
diversi movimenti che dà alle particelle
che compongono gli altri corpi brucia
e fa sentire il calore. Il fuoco visibile
contiene molte parti di questo
spirito, l’aria meno, l’acqua molto meno,
la terra pochissimo. Fra le sostanze
miste, i minerali ne hanno meno di tutti,
le piante di più e gli animali molto
di più. È quello che compone le loro anime
e che, chiuso nei loro corpi, li
rende capaci di sentire. Noi chiamiamo questa
sostanza “spiriti animali”. Non è
sufficiente che essa sia presente in una
cosa perché questa sia animata; ce ne
deve essere una certa quantità, e la cosa
dev’esser un corpo organizzato in
modo speciale. [17]
Fin qui il Nostro sviluppa la sua tesi filosofica,
ma poi per limitarne
la portata (ed evitare il rogo) piazza la
solita ”doppia verità”, aggiungendo:
Nell’uomo, oltre a quest’anima che si disintegra
al momento della morte
come quella delle bestie, la fede c’insegna
che c’è un’altra anima immateriale e immortale
che esce direttamente
dalle mani del Creatore […] Ma quest’anima
è conosciuta con certezza solo per
fede; tocca ai teologi dirci quello che noi
dobbiamo credere della sua natura. [18]
L’anima fatta di spirito va quindi “aggiunta”
per fede, lasciando ai
teologi il raccontarci che cosa sia. Ma Lamy
ci dice un’altra cosa importante,
e cioè che l’anima che vivifica il corpo
non è un’entità “unica” in senso
astratto bensì come una pluralità di “spiriti
animali” con caratteri di
specificità per ogni specie vivente. Gli
“spiriti animali” sono quindi i
concreti agenti formatori e organizzatori
dei corpi, per quanto indicati col
termine di generico di anima, precisando:
Nel corso di questa breve opera, io ho usato
indiscriminatamente i
termini “anima” e “spiriti”: ciò non deve
essere motivo di confusione, perché
essi sono la stessa cosa. Ho spesso adoperato
il termine “spiriti animali a
significare quella parte dell’anima che è
contenuta nei nervi, e la parola
“anima” a designare gli spiriti animali
contenuti nel cervello. [19]
Le tesi di Lamy hanno indubbiamente influenzato
La Mettrie, e si dà il
caso che la vicenda dello sfortunato biologo-filosofo
del De principiis
rerum, combattuto ed emarginato dalle istituzioni
scientifiche del suo
tempo, risulti non dissimile da quella del
Nostro
Ne L’uomo macchina
però La Mettrie si rifà più esplicitamente
al concetto ippocratico di enormon,
la pseudo-anima attivante il corpo e residente
nel cervello. Ma il suo fine è
anche di opporsi all’onnipotente Haller,
che egli definisce ironicamente
“grande”, in quanto famoso, che nella sua
opera De partibus corporis umani
sentientius et irritabilibus aveva ripreso Glisson, ma limitando l’effetto
dell’irritabilità ai movimenti muscolari. Essa, quindi, quale
pura
trasmettitrice di movimento e non già “causa
prima biologica”, lasciava
perfettamente intatte le credenze religiose
sulla presenza di un’anima distinta
dal corpo. Haller, che il Nostro aveva avuto
l’occasione di conoscere a Leida,
quando era ospite ed allievo di Boerhaave,
diventa qui il bersaglio della sua
ironia, intendendo rivalutare il concetto
di irritabilità che gli pareva tarpato
da Haller, ma che egli preferisce chiamare,
col nuovo termine di principio
motore. Non ci soffermeremo qui sul sarcasmo con
cui La Mettrie si rivolge
a Haller ( «duplice figlio di Apollo […]
dotto medico e poeta ancor maggiore»)
né sulle sue valutazioni di Leibniz, che
col concetto di monade (che “ha spiritualizzato la
materia anziché materializzare l’anima”),
né su Cartesio (che ha ipotizzato le
due res “come se le avesse viste”) e nemmeno su
Pluche (“un po’
fanatico”), ma passeremo direttamente alle
sue parole. Dopo i preliminari
troviamo l’assunto gnoseologico di base che
abbiamo già messo in rilevo a
proposito del Discorso preliminare, ovvero il primato della conoscenza
scientifica quale fondamento irrinunciabile
di ogni formulazione filosofica:
Soltanto l’esperienza e l’osservazione devono
dunque guidarci qui. Esse sono innumerevoli
nei fasti dei medici che sono stati
filosofi, ma non nei filosofi che non sono
stati medici. […] Solo essi [i
medici-filosofi], contemplando serenamente
la nostra anima, l’hanno mille volte
sorpresa sia nella sua miseria che nella
sua grandezza, senza disprezzarla in
uno di questi stati più di quanto non l’ammirasse
nell’altro. Ecco, ancora una
volta, i soli fisici che hanno diritto di
parlare qui. [20]
Già in questo passaggio La Mettrie mostra
di essersi completamente
liberato dei lacci concettuali ancora largamente
presenti nel Trattato
dell’anima e di essersi nettamente posto sul piano fisiologico
per fare del
corpo (che però qui egli chiama provocatoriamente
“anima”), l’oggetto
della fisiologia, il nuovo soggetto filosofico
che “include” tutte le
denotazioni che ad un fantasticato elemento
spirituale, posto dalla metafisica
e “scisso” dal corpo stesso, erano state
attribuite. Ci troviamo così di fronte
a una sorta di salto mortale senza preparazione
che capovolge i termini di una
problema che aveva afflitto per millenni
il pensiero filosofico e teologico.
Una volta messa fuori gioco la teologia,
sia essa cultuale o filosofale, solo
la scienza, e la filosofia che con essa si
identifica, ha titoli per parlare di
“ciò che è” l’uomo. Ed ecco un principio
metodologico importante, dettato dalla
prudenza e dalla correttezza cognitiva:
Ma per quanto noi abbiamo scelto le guide
migliori, troveremo ancora molte spine e
molti ostacoli lungo questo cammino.
L’uomo è una macchina così complessa che
è impossibile farsene inizialmente
un’idea chiara, e quindi definirla. Per questo
tutte le ricerche che i più
grandi filosofi hanno condotto a priori,
cioè volendosi servire in qualche modo
delle ali dello spirito, sono state vane.
È soltanto a posteriori, ossia
cercando di discernere in qualche modo l’anima
attraverso gli organi del corpo,
che potremo, non dico scoprire con evidenza
la natura stessa dell’uomo, ma
raggiungere il più alto grado di probabilità
possibile su questo argomento. [21]
Queste
considerazioni dovevano suonare tanto eversive
quanto sconvolgenti per gli
impostori della filosofia, i metafisici.
Se, infatti, l’attività del pensiero
non è più accettata come un a priori privilegiato per produrre
conoscenza, è solo l’esperienza e dai fatti
a determinarla in un a
posteriori che il pensiero è solo chiamato a ratificare.
Ci troviamo così di
fronte a una vera rivoluzione del procedere
filosofico qual’era stato fissato da
Platone e Aristotele e confermato da Cartesio,
Spinoza e Leibniz.
Il “dato” e il “fatto” diventano infatti
l’unica fonte della conoscenza e non più
il pensiero. Questo è libero di
dispiegarsi in fantasia creativa o in meccanica
logica, dove a creare una
pseudo-realtà è il linguaggio, ma la costruzione
dialettica coniugata con i
meccanismi deduttivi della logica non produce
alcuna conoscenza. Il dato/fatto
è l’unico testimone della realtà, ad essa
“legato” indissolubilmente, da essa in
un certo senso obbligato ad offrirsi come
verità oggettiva. Abbiamo qui
l’enunciazione di un nuovo modo di “fare
filosofia”, che se si confronta
l’arroganza della “sapienza” metafisica,
che sputa “verità” ad ogni passo, che
si esprime nella prosopopea dei sacerdoti
della teologia filosofale, sempre
pronti a creare concetti, categorie e sistemi
divini (e spesso autentica
divinazione stregonesca), che appare di notevole
importanza. E non si può che restare sorpresi della
modestia di questo scienziato che tre secoli
fa ci ha riofferto quella via alla
filosofia che i Milesii e gli Atomisti
ci avevano chiaramente indicano e che le
fantasie logiche di Platone e
Aristotele avevano cancellato.
L’uomo macchina riprende e nello stesso
tempo rettifica e aggiorna le affermazioni
già avanzate con la Storia
naturale dell’anima con maggior razionalità, sinteticità ed
efficacia:
Nel corso delle malattie ora l’anima si eclissa
e non dà alcun segno di
sé; ora si direbbe che è doppia, tanto il
furore la trasporta, ora
l’imbecillità si dissipa, e la convalescenza
di uno sciocco crea un uomo di
spirito. Talvolta il più bell’ingegno diventa
stupido e non si conosce più.
Addio a tutte le belle conoscenze acquistate
a così caro prezzo e con tanta
fatica! [22]
Indubbiamente il
Nostro incorre in qualche imprecisione concettuale
nel parlare di anima
corporea in riferimento a sue denotazioni
o attributi, quali la memoria, la
coscienza, l’attenzione. Ma l’importante
è la sostanza rivoluzionaria di questo
discorso filosofico che lega il pensiero
alla corporeità e alle sue precarietà.
Tutti gli assoluti risultano distrutti, la
sapienza diviene qualcosa di
relativo, di incerto; ed appare anche la
sua fugacità, le sue oscillazioni tra
ricordo e oblio, con la spada di Damocle
della malattia, del trauma, del
semplice mal di testa, che azzerano tutto.
La buona salute, non nominata ma
sottintesa, diventa qui un’ospite intollerabile
per i teologi condizionando
“blasfemamente” l’apprendimento e il mantenimento
della nozione, in ultima
analisi del sapere, connesso alla divina
facoltà del pensare. D’altra parte “Dio
è una cosa pensante” aveva sentenziato Spinoza,
ribadendo ciò che da millenni sostengono
i teologi filosofali che vedono nel pensiero
il “divino”.
È veramente il caso di dire che, pur senza
negare Dio esplicitamente, la filosofia lamettriana
silenziosamente spazza via
tutte i suoi ectoplasmi e le sue epifanie,
le sue definizioni create dalle
magie della metafisica. Ma con ciò anche
tutte le verità metafisiche in Lui e
da Lui inverate sotto le specie caleidoscopiche
dell’Essere, del Bene, del
Lógos, dell’Assoluto, dello Spirito, dell’Uno.
Dare ascolto a questo
materialismo, ancorché non privo di eccessi
riduzionistici, significa privare
il gran mercato della metafisica dei suoi
magnifici prodotti, della sua merce
più pregiata e fascinosa, acquistata con
entusiasmo, serbata con devozione e
venerazione dai suo accoliti in tutti i tempi.
La Mettrie non propone però una
filosofia soddisfacente per noi moderni,
perché è figlio dello stato delle
scienze del suo tempo. Noi uomini del XXI
secolo, con alle spalle trecento anni
di progressi nell’antropologia, nella biologia,
nella fisica, non possiamo
condividerla bensì coglierne il valore sta
di “indirizzo gnoseologico”.
Soffermiamoci ora su un dettaglio
apparentemente irrilevante, ma che allude
alle possibili interazioni tra
fisiologia e filosofia:
Se la circolazione è troppo veloce l’anima
non può dormire; se l’anima è
troppo agitata il sangue non può calmarsi,
e galoppa nelle vene con un rumore
che si può percepire: queste sono le due
cause reciproche dell’insonnia. [23]
Certo l’insonnia non
è argomento filosofico, però è “esperienza”;
Bacone e Locke più aulicamente non
erano scesi nel dettaglio banale del malessere
contingente. Ma è proprio il
potere della contingenza, dell’accidentalità,
in altre parole della realtà
effettuale antropica, che La Mettrie introduce
nel procedere filosofico. I due
grandi inglesi possono essere considerati
suoi padri spirituali, e tuttavia
essi non sono andati oltre nella ricerca
della base “profana” dell’essere,
lasciando inalterato sullo sfondo il nobile
spazio del “sacro” come origine e
causa. Essi, ai quali è doveroso aggiungere
Bayle, avevano sì varcato il fatuo
baluardo della metafisica avviandosi sulla
strada di una conoscenza autentica,
ma tenendosi sulle spalle, fardello e spauracchio
contro eccessive audacie, un
irrinunciabile Dio. La Mettrie finisce anche
per cassare le facoltà e le doti
personali (i “doni di Dio”) per sostituirli
con i “congegni della macchina”, la
loro qualità, il modo in cui sono “montati”.
Il patrimonio genetico diventa
quindi elemento dirimente della conformazione
dell’uomo e delle sue
facoltà:
Noi pensiamo ed anche siamo onesti allo stesso
modo in cui siamo allegri
o coraggiosi: tutto dipende dal modo in cui
la nostra macchina è montata. [24]
Parrebbe di trovarci
di fronte a un determinismo biologico assoluto
su base genetica, ma La Mettrie
non intende assolutizzare nulla e dopo averci
detto che la fame ci induce a
comportarsi da selvaggi, rileva:
Un certo popolo ha lo spirito tardo e ottuso;
un altro ce l’ha vivo,
leggero, penetrante. Da che cosa dipende
tutto ciò, se non in parte dalla sua
alimentazione, dal seme dei padri e dal caos
di elementi fluttuanti
nell’immensità dell’aria [il clima]? Lo spirito
possiede, inoltre, come il
corpo, le proprie malattie epidemiche e il
suo scorbuto. [25]
Troviamo qui la
palese incoerenza di un dualismo spirito/corpo
che, quand’anche solo nominale,
pone seri dubbi circa la sua conciliabilità
col materialismo radicale che La
Mettrie propone. Esso infatti, implicando
l’omogeneità di anima e corpo, rende
inopportuna di uno spirito che (a rigore
“materialistico) è solo un correlato
del corpo. C’è forse qui la strisciante resipiscenza
di un cartesianesimo
rigettato negato nel primo saggio sull’anima
ma che ora ritorna equivocamente,
o forse la consapevolezza delle necessità
di tenere distinte le esperienze
corporee da quelle mentali.
Vi è poi anche la sottolineatura di quanto
il
clima e una buona alimentazione, oltre al
fattore genetico, possano
condizionare l’efficienza del pensiero. Ma
il medico, che ha a che fare anche
coi disturbi mentali, sapendo bene come anche
la mente ha le “sue” malattie, e
come la sua salute possa venir compromessa
indipendentemente dal resto del
corpo, finisce per riproporre un dualismo
strisciante che ritroveremo nel resto
del saggio. E poco oltre:
I diversi stati dell’anima sono dunque sempre
connessi a quelli del
corpo. Ma per meglio dimostrare tutta questa
dipendenza e le sue cause,
serviamoci ora dell’anatomia comparata, apriamo
le viscere dell’uomo e degli
animali. È impossibile conoscere la natura
umana se non siamo illuminati da un
giusto parallelo fra la struttura dell’uno
e quella degli altri! [26]
Affermazione, che togliendo
di mezzo le fantasticherie metafisiche sulla
“differenza” umana riporta la
ricerca sull’homo sapiens nell’ambito zoologico. Ma siamo anche
nell’epoca in cui si comincia a definire
meglio il volume e il peso del
cervello nelle varie specie e il Nostro sa
bene che si dà:
Ovunque la stessa conformazione e la stessa
disposizione, con questa
differenza essenziale: che fra tutti gli
animali l’uomo è quello che ha più
cervello, e un cervello più ricco di circonvoluzioni
in rapporto alla massa del
corpo; poi vengono la scimmia, il castoro,
l’elefante, il cane, la volpe, il
gatto, ecc. [27]
La Mettrie sostiene che
gli animali più sono feroci e meno sono intelligenti
avendo un cervello
proporzionalmente più piccolo di quelli docili.
Geneticamente, quanto più c’è
acquisto in intelligenza tanto più si perde
in istinto. Ma si tiene anche lontano
da facili generalizzazioni:
Non crediate del resto ch’io voglia sostenere
con questo che il solo
volume del cervello basti per giudicare del
grado di docilità degli animali.
Bisogna anche che la qualità corrisponda
alla quantità, e che i solidi e i
liquidi si trovino in quel conveniente equilibrio
che costituisce la salute. [28]
Il numero delle
sinapsi in rapporto a quello dei neuroni,
ovvero la “qualità” della materia grigia,
non è ancora ovviamente alla portata dell’uomo
di scienza settecentesco, tra
l’altro ancora legato all’”equilibrio degli
umori”, e tuttavia il Nostro ha
chiaro il concetto della “non-misurabilità”
delle capacità mentali, tentazione
assai cara ai materialisti ottusi. E una
riflessione interessante:
Come una corda di violino o un tasto di clavicembalo
fremono ed emettono
dei suoni, così le corde del cervello, colpite
da raggi sonori, sono state
stimolate ad emettere o ripetere le parole
che lo colpivano. [29]
Siamo di fronte al
tentativo di spiegare l’apprendimento del
linguaggio attraverso il suono, che
dopo aver “colpito” determinate aree del
cervello si “fissa”, rendendo
possibile la ripetizione attraverso la quale
si manifesta l’avvenuto apprendimento.
Il Nostro aggiunge:
Tutto il sapere, che come un vento gonfia
il pallone del cervello dei
nostri orgogliosi pedanti, non è altro dunque
che una gran massa di parole e di
immagini, che formano in testa tutte le tracce
mediante le quali noi
distinguiamo e ci ricordiamo gli oggetti.
Tutte le nostre idee si risvegliano,
come un giardiniere che conosce che conosce
le piante si ricorda al solo
vederle di tutte le loro denominazioni. Le
parole e le immagini indicate da
esse sono talmente collegate nel cervello
che è piuttosto raro immaginarsi una
cosa senza il nome o il segno che vi è connesso.
[30]
Parole e immagini
sono pertanto “tracce” collegate nel cervello
che possono essere rinvenute e
richiamate per arrivare alla “cosa” o al
“fatto”. Ma il verbo immaginare è sinonimo
di pensare:
Mi servo sempre della parola immaginare perché credo che tutto si
immagini e che tutte le parti dell’anima
possono essere a buon diritto ridotte
alla sola immaginazione, che le costituisce
tutte, per cui il giudizio, il
ragionamento, la memoria non sono affatto
parti assolute dell’anima, ma vere e
proprie modificazioni di quella specie di
tessuto midollare [allusione
alla natura della corteccia] sul qual gli
oggetti dipinti nell’occhio sono
proiettati come in una lanterna magica. [31]
La Mettrie assume, e non solo
metaforicamente, che tutte le espressioni
dell’anima, in pratica i pensieri
nascenti, siano riducibili (almeno inizialmente)
a immagini, ovvero a impronte
che “modificano” la materia grigia. Tesi
un poco rozza anche per i suoi tempi,
ma conseguente al voler “materializzare”
il pensiero per sottrarlo ad ogni spiritualizzazione.
Non possedendo le nozioni sulle azioni elettrochimiche
dei neurotrasmettitori,
egli opera una forzatura anche poco coerente
col successivo elogio dei
sentimenti individuali che competerebbero
a queste modificazioni di materia
nervosa. Ma poco dopo si fa dell’immaginazione
non una facoltà, bensì una vera
e propria “struttura” funzionale, una sorta
di crogiolo o di fucina dove
nascono le idee:
L’immaginazione, ossia quella parte fantastica
del cervello la cui
natura ci è altrettanto sconosciuta che il
suo modo di agire è piccola o
debole? […] Purtuttavia è innegabile che
soltanto l’immaginazione appercepisce,
che solo essa si rappresenta tutti gli oggetti
con le parole e le immagini che
li caratterizzano, e che inoltre solo essa
costituisce l’anima, dal momento che
ne esercita tutte le funzioni. [32]
Essendo l’appercezione
(la percezione consapevole) implicante il
percepire il sé nel percepire
l’altro da sé, l’immaginazione assume i caratteri congiunti
de sentire
e del sentirsi in termini corporei. In maniera abbastanza
immaginifica e
(è il caso di dirlo) anche un poco caotica
il Nostro ha cominciato col
delineare l’immaginazione come una facoltà
organica, poi come un luogo
cerebrale, infine come superfunzione dell’anima
identificandola infine con
l’essenza di essa. Sul filo della materializzazione
dell’immaginazione ma anche
di una sua sublimazione funzionale il Nostro
si entusiasma aggiungendo:
È sempre essa che aggiunge alla tenerezza
di un cuore innamorato
l’attrazione della voluttà; essa la fa germinare
nello studio nello studio del
filosofo e del pedante polveroso; essa infine
forma sia gli scienziati che gli
oratori e i poeti. Stoltamente screditata
dagli uni, vanamente isolata dagli
altri (tutti l’hanno mal conosciuta), l’immaginazione
non procede solo al
seguito delle grazie e delle belle arti,
non dipinge soltanto la natura: può
anche misurarla. Essa ragiona, giudica, penetra,
approfondisce. Potrebbe forse
percepire così bene la bellezza dei quadri
che le sono presentati senza
scoprirne i rapporti? [33]
Se si tiene conto che siamo in un’epoca in
cui è piuttosto la ragione a tenere il campo,
fino a diventare tra qualche
decennio addirittura una Dea Ragione, si
coglie come il Nostro proceda per
linee assolutamente personali. In queste
coniugazioni di fisiologia e di
filosofia, con qualche tocco di poetico umanesimo,
egli rivela più di un tratto
di ingenuità. Ma è il pregio di La Mettrie;
mai pedante anche quando indulge in
qualche ripetizione, egli è un asistematico,
che a volte affastella concetti in
maniera un pò disordinata (lo si era ben
visto nel Trattato dell’anima),
ma in ciò sta la sua originalità. Segue il
filo dell’intuizione più che quello
della razionalità sistemica e ciò fa di lui
un letterato brillante oltre che
uno scienziato e un filosofo. In un ulteriore
passaggio l’immaginazione diventa
una sorta di nutrimento del corpo, un “ricostituente-rafforzante”:
Il più misero degli ingegni quanto più esercita
l’immaginazione, tanto
più acquista, per così dire, Un aspetto florido;
tanto più si sviluppa e
diventa nervoso [dai nervi saldi], robusto,
vasto, capace di pensare. Anche il
miglior organismo ha bisogno di questo esercizio.
[34]
Ritorna l’elogio del
corpo riconducendo l’acqua del discorso lamettriano
nel suo letto:
L’organismo corporeo è il primo merito dell’uomo.
[…] Infatti, da dove
ci vengono, se è lecito, l’abilità, la scienza
e la virtù se non da una
disposizione che ci mette in condizione di
diventare abili, sapienti, virtuosi?
E da dove ci viene questa disposizione se
non dalla natura? [35]
Affermazione è
importante: l’uomo è la sua “disposizione”,
cioè la struttura meccanica di cui
si compone il corpo in ogni sua parte: leve,
ingranaggi, pompe, ecc. A creare
tutto questo è la natura, ma non certo
quella di Spinoza. La natura è una sorta
di “forza” che crea il divenire del
mondo e dei suoi enti, ma non in modo meccanicamente
fisso, ripetitivo e
deterministico, bensì caotico e casuale.
La Mettrie è uno dei pochissimi
pensatori che non parla mai di “ordine” e
tanto meno di “necessità” in senso
ontologico; dopo Meslier e prima di Diderot
egli è un ateo che non è caduto
nell’ambigua coniugazione del materialismo
meccanicistico col necessitarismo determinista.
Lo si costata in queste parole:
Lo spirito, la bellezza, le ricchezze, la
nobiltà, per quanto figli del
caso, hanno tutti il loro valore, come la
destrezza, il sapere, la virtù, ecc.
Coloro che la natura ha colmato dei suoi
doni più preziosi devono compiangere
quelli cui sono stati rifiutati. [36]
La natura, dunque, e in modo casuale e indeterminato,
crea, ma non alla
maniera del Dio-Volontà che crea per capriccio
o del Dio-Necessità che crea
perché non può farne a meno o del Dio-Provvidenza
che lo fa perché è buono. La
Mettrie non è cristiano, né deista e né panteista,
ma si rifà ad Epicuro e a
Lucrezio. Non ha la razionalità del primo
né la carica poetico-esistenziale del
secondo, e tuttavia egli innova il materialismo
traendo forse da Meslier ma
sicuramente dai libertini un materiale magmatico
che assembla e struttura.
Egli passa poi a determinare
un concetto importante che porta il suo discorso
ben oltre quello di “macchina”:
quello di “organismo”. Concetto che segna
il distacco dall’astrazione del
meccanicismo, dogmatica e semplicistica,
per spostare l’attenzione sulla concretezza
di una struttura complessa
qual’è quella del corpo umano, un insieme
di tessuti, di organi, di sistemi
chimici, idraulici e pneumatici, di trasformazioni,
di trasferimenti di fluidi
ed energia, ma anche produzione di pensiero
e sentimento. Aveva affermato poco
prima: «L’organismo corporeo è il primo merito
dell’uomo», questa struttura è
il primo “merito” perché e fondamento e patrimonio
dell’essere stesso
dell’uomo. Il corpo è il frutto dell’unione
di due corpi che lo precedono
nell’esistenza, ognuno con un suo patrimonio
genetico le cui caratteristiche si
fondono in maniera casuale danno luogo alla
nuova esistenza, i cui caratteri
fisici e psichici possono assomigliare ad
entrambi i genitori, o più all’uno
che all’altro, o a nessuno dei due e magari
ad un nonno. Il risultato
dell’accoppiamento è sempre indeterminato,
ma determinante è quel risultato occasionale
e contingente per ciò che il nuovo essere
umano diverrà. Ma ciò non è “il
tutto” di esso:
Se l’organismo è un merito, anzi il primo
merito e la fonte di tutti gli altri, l’istruzione
è il secondo. Senza di essa il cervello meglio costruito lo sarebbe
in pura perdita, allo stesso modo in cui
senza l’esperienza del mondo l’uomo
più ben fatto non sarebbe altro che un rozzo
contadino. D’altra parte come
potrebbe essere il frutto della scuola migliore
senza una matrice perfettamente
aperta all’ingresso, ovvero alla concezione
delle idee? [37]
Dunque l’apprendimento, e specialmente la
qualità dell’apprendimento, che
va determinare ciò di cui un cervello è capace.
Ma la natura di questo, il
frutto dell’assemblaggio genetico, è anche
alla base dell’organo che
pensa:
Ma se il cervello è nel contempo bene
organizzato e ben istruito, allora è come
una terra feconda perfettamente
seminata, che produce il centuplo di ciò
che ha ricevuto. [38]
Il rapporto 1 a 100 potrebbe essere solo
frutto di enfasi letteraria,
ma la sproporzione va colta per non lasciarsi
sfuggire il significato
dell’affermazione. La Mettrie ritiene che
l’istruzione sia molto più decisiva
del patrimonio genetico nella determinazione
delle capacità intellettuali del
soggetto. In quest’affermazione è però implicito
anche il riconoscimento di una
relativa materializzazione del pensiero,
poiché l’informazione, di per se
stessa immateriale, “forma” la struttura
definitiva che produce pensiero. La
macchina-pensante che alla fine distingue
l’uomo, animale come gli altri, non
si caratterizza in virtù di un’anima divina
o semi-divina, ma come funzione
materiale capace di produrre l’immateriale:
il pensiero.
Ma nel momento in cui ci aspetteremmo da
un
illuminista la tematizzazione della razionalità
quale facoltà capace di
produrre quel centuplo di frutti del cervello
rispetto al terreno e al seme che
gli si è conferito, il Nostro rimette in
campo l’immaginazione:
[Essa] elevata dall’arte alla bella ed
elevata dignità di genio, coglie esattamente
tutti i rapporti tra le idee che ha
concepito, abbraccia con facilità una quantità
sorprendente di oggetti per
trarne alla fine una lunga catena di conseguenze,
che sono a loro volta nuovi
rapporti generati dal confronto tra i primi
nei quali l’anima trova una
perfetta somiglianza. Questa è secondo me
la genesi dell’intelligenza. [39]
Il passo è un poco intricato ma proviamo
a districarlo. Dunque abbiamo
una facoltà, l’immaginazione, che con adeguata
applicazione e corretto
esercizio (con l’arte) va oltre i suoi limiti
biologici e si fa genialità,
ovvero creatività. Con essa dapprima vengono
colti e sistematizzati tutti i
rapporti tra tutte le idee formulate e formulabili
su tutta la vasta gamma di
oggetti e di fatti esperiti e memorizzati
con l’esperienza. Gli oggetti
mnestici si collocano in una lunga catena
di conclusioni, che ritornano ad essi
in quanto rappresentazioni veridiche di essi
nella mente (l’anima) dell’uomo
che li ratifica e li conferma. Questa la
genesi dell’intelligere, del
comprendere la realtà del mondo che ci circonda.
Ma se, come si afferma poco
dopo: «colui che ha maggiore immaginazione
dev’essere considerato quello più
dotato di intelligenza o di genio, poiché
tutte queste parole sono sinonime» [40] ne
deriva un’ulteriore specificazione in base
alla quale l’immaginazione sarebbe anche
origine e causa dell’intelligenza (o genio)
che si dispiegherebbe come sua
estrinsecazione attraverso l’esperienza della
realtà. E si potrebbe anche
intendere una sinonimia immaginazione-intelligenza-genio
per cui essi sarebbero
frutti connessi della stessa macchina pensante,
offrendo aspetti differenti o
differentemente definibili del suo lavoro.
La capacità della
macchina-mente di “produrre” è straordinariamente
ampia e non esistono livelli
differenti o compartimentazioni dei suoi
prodotti:
La più bella, la più grande, la più forte
immaginazione è dunque quella che più si
adatta sia alle scienze che alle arti.
Non voglio pronunciarmi sul fatto se occorra
più intelligenza per eccellere
nell’arte di Aristotele o di Cartesio, ovvero
in quella di Euripide e di
Sofocle, e se alla natura sia costato di
più fare Newton o formare Corneille
(cosa di cui dubito molto). Ma è certo che
è stata la sola immaginazione
applicata in modi diversi a determinare il
loro diverso successo e la loro
gloria immortale. [41]
La genialità è una facoltà polivalente che
trova espressione nel campo
della filosofia come in quelli della scienza
o della poesia. È solo il diverso
modo d’utilizzo dell’immaginazione, impegnato
in attività differenti e in
relazione al campo di ognuna di esse che
è stimolata la facoltà a produrre. Ma
c’è di più: l’immaginazione pare qui diventata
un’“energia” naturale che fa
lavorare la stessa macchina pensante in direzioni
e modi differenziati È alla
luce di ciò che qualcuno ha avanzato l’ipotesi
di un nascosto vitalismo nella
filosofia lamettriano che ci sembra di dover
escludere, poiché qui non vi è alcuna
traccia di divinizzazione della natura come
soggetto ontico operante.
Il Nostro è uomo di scienza
che coniuga questa con un’ottima cultura
umanistica; essendo quindi sensibile
alla bellezza dei prodotti letterari ed artistici
quanto alle conquiste della
conoscenza, e che pone sullo stesso piano
assiologico la produzione di questa e
di quella. Egli concepisce un’immaginazione
che va pilotata, o almeno
contemperata, dal giudizio (quale ragione)
che qui viene messo in gioco nei
seguenti termini:
Se qualcuno passa per avere poco giudizio
e
molta immaginazione, questo vuol dire che
l’immaginazione, troppo abbandonata a
se stessa, quasi sempre occupata a contemplarsi
nello specchio delle proprie
sensazioni, non ha contratto abbastanza l’abitudine
di esaminarle con
attenzione, penetrata più profondamente dalle
loro tracce che dalla loro verità
o somiglianza. [42]
Altro passo un po’ oscuro che cerchiamo di
chiarire. L’immaginazione è
un’energia che alimenta (ma fors’anche la
stessa forza che mette in moto) il
cervello e lo rende produttivo; ma l’immaginazione
da sola, immersa nelle
sensazioni prodotte dal disordinato flusso
delle percezioni, implica, per dar
luogo a “intelligenza”, che essa abbia contratto
“l’abitudine di esaminarle con
attenzione”. L’attenzione e l’esame analitico
delle “immagini mentali” (i
prodotti delle percezioni diventate nella
memoria sensazioni) devono
intervenire a valle in modo continuo (abitudinario)
per far sì che esse, da
labili tracce, diventino “corrispondenze”
(verità e somiglianza) rispetto al
reale. Abbiamo qui una resipiscenza di La
Mettrie, che cerca di correggere
l’eccessiva enfasi con cui ha attribuito
all’immaginazione il primato mentale
di determinatrice dell’intelligenza. Questo
procedere un poco discontinuo e
asistematico è tipico del Nostro, che pare
scrivere di getto e non preoccuparsi
di troppo di incoerenze o lacune, cui pone
rimedio strada facendo affinando per
successive approssimazioni il proprio discorso.
Poco oltre abbiamo un
ulteriore ridimensionamento della funzione
immaginativa sotto il profilo
gnoseologico, ma nel contempo la sua ridefinizione
in senso dinamico in
correlazione con l’“attenzione”:
È vero che tale è la vivacità del meccanismo
dell’immaginazione, che se l’attenzione,
chiave o madre delle scienze, non se
ne occupa l’immaginazione è in grado solo
di percorrere e di sfiorare gli
oggetti. Guardate quell’uccello sull’albero:
sembra sempre sul punto di
spiccare il volo. Così è l’immaginazione.
Sempre trascinata dal turbine del
sangue e degli spiriti, un’onda segna una
traccia, subito cancellata dall’onda
seguente. L’anima le corre dietro, spesso
invano: bisogna ch’essa sia preparata
a rimpiangere ciò che non ha afferrato o
fissato abbastanza in fretta. In
questo modo l’immaginazione, vera immagine
del tempo, si distrugge e si rinnova
senza tregua. [43]
Immagine del tempo che si distrugge e si
rinnova senza tregua essa
stimola la conoscenza con lampi di percezione
e intuizione, ma subito si
auto-annulla per essere nuovamente in grado
di ricominciare il suo
straordinario lavoro percezionale-creativo.
Abbiamo quindi la tematizzazione di
tre entità o concetti: l’immaginazione, l’attenzione
e l’anima. Vediamo meglio:
l’immaginazione ha il suo fondamento nei sensi, quindi è
una funzione
non ancora di carattere intellettivo in senso
stretto, e tuttavia essa, in un
certo senso, già “elabora” l’informazione
dal mondo esterno per darne una “rappresentazione”
interna. Questa, tuttavia, se non è accompagnata
dall’intervento dell’attenzione,
che deve pilotare e definire la prensione
dell’oggetto-fatto, genera fantasmi
precari sull’onda “del turbine del sangue
e degli spiriti”; l’anima, infine,
è una sorta di memoria-intellezione che deve
“fissare” la nozione percepita.
Pur nella relativa approssimazione si coglie
qui una vera teoria funzionale
della conoscenza, ma soprattutto una “funzionalizzazione”
dell’anima che
la sottrae totalmente alla “sostanzializzazione”
tipica della metafisica,
poiché essa cessa di essere un “qualcosa”come
una parte del corpo o nel corpo, per diventare
funzione cerebrale accanto ad
altre.
Purtroppo che dopo aver
adombrato una nuova via per intendere il
processo cognitivo, La Mettrie la
lascia solo in abbozzo e passa avanti per
tematizzare meglio il concetto di giudizio:
Questo è pure il caos e la successione delle
nostre idee. Esse si inseguono come un flutto
sospinge l’altro, in modo che se
l’immaginazione non impiega per così dire
una parte dei suoi muscoli per
restare come in equilibrio sulle corde del
cervello […] mai sarà degna del bel
nome di giudizio. [44]
Ma ciò che perdiamo in termini di chiarificazione
teorica lo
recuperiamo in classificazione funzionale
e in definizione dei prodotti
intellettuali umani, poiché subito si aggiunge:
In tal caso, essa esprimerà sì vivacemente
ciò che avrà vivacemente sentito, e formerà
gli oratori, i musicisti, i
pittori, i poeti: ma mai un solo filosofo.[45]
L’immaginazione “pura” quindi è lo strumento
primario delle creazioni
della letteratura e dell’arte, potremmo dire
della “sfera del bello”, mentre
l’immaginazione corretta dall’attenzione
si fa giudizio, strumento della
filosofia (ovvero della scienza) per accedere
alla “sfera del vero”.
Se ci eravamo un poco stupiti del fatto che
un illuminista lasciasse un po’ in ombra
il concetto di ragione, insieme
col suo derivato di razionalità, saremo ora
soddisfatti da un successivo
passaggio, nel quale si tematizza e la funzione
didattico-educativa
dell’infanzia e il raggiungimento del “ragionamento”
quale trasformazione
“attenzionale-analitica” della selvaggia
e capricciosa immaginazione:
Al contrario, se fin dall’infanzia abitueremo
l’immaginazione a frenarsi da sola, a non
farsi trascinare dal proprio impeto
(che serve solo a formar dei brillanti entusiasti),
a fermarsi, a contenere le
proprie idee, a volgerle in tutti i sensi
per veder tutte le facce di un
oggetto: in tal caso l’immaginazione, pronta
a giudicare, abbraccerà col
ragionamento una grandissima quantità di
oggetti, e la sua vivacità, sempre
così di buon augurio nei bambini e richiedente
solo di esser regolata con lo
studio e l’esercizio, diventerà una chiaroveggente
penetrazione senza la quale
si fanno ben pochi progressi nelle scienze.
Questi sono i semplici fondamenti
sui quali è stato costruito l’edificio della
logica. La natura li aveva gettati
per tutti gli uomini, ma mentre gli uni ne
hanno approfittato, gli altri ne
hanno abusato. [46]
Il ragionamento, allora, è il prodotto di
una disposizione fisiologica,
l’immaginazione, modificata attraverso l’educazione,
sì da plasmarla e farne da
strumento puramente intuitivo uno strumento
“analitico”, che sa coglier “tutte
le facce”degli oggetti e una “grandissima
quantità” di essi. Il ragionamento
(la ragione) non è quindi facoltà “naturale”
dell‘uomo, ma “artificiale”, nella
misura in cui implica un processo che nelle
parole di La Mettrie parrebbe
auto-educativo, ma che in realtà (dovendo
iniziare dall’infanzia) implica
l’intervento dell’educatore. Ma se il ragionamento
so inserisce nell’”edificio
della logica” che la natura ha reso possibile,
quali sono coloro che ne hanno
approfittato e quali ne hanno abusato? La
Mettrie non ce lo spiega, ma non ci
pare difficile penetrare il suo pensiero
in base alle premesse da lui poste. Il
concetto di “abuso” implica l’uso sconsiderato
della logica, di una logica che
nei suoi eccessi meccanici e formali ha perso
i contatti con la scienza, con
l’autentica filosofia, colla realtà fisica,
facendosi così mera meta-fisica
teologica.
Dopo aver rilevato che
nell’infanzia l’uomo è meno dotato d’istinto
rispetto agli altri animali, e
quindi più esposto a rischi, La Mettrie mette
in rilievo con l’educazione il
fattore che fa dell’uomo ciò che esso dev’essere
quale animale pensante:
La natura ci aveva dunque fatti per esser
inferiori agli animali, o almeno, per fare
meglio emergere con ciò i prodigi
dell’educazione, la quale soltanto ci innalza
da quel basso livello e ci eleva
sopra di essi. [47]
Non dunque l’anima, quale entità immateriale
infusa nella materialità
del corpo, è ciò che distingue l’uomo dagli
altri animali, bensì l’educazione.
Il che è come dire: l’uomo “naturale” inizia
la sua vita con carenza d’istinto,
e quindi risulta “inferiore” agli altri
animali che ne sono dotati in maggior
misura, ma poi, mettendo a frutto l’immaginazione e correggendola con
l’educazione fin alla capacità di produrre
giudizio, si eleva al disopra
di essi. Siamo all’enunciazione di una
teoria sia zoologica che antropologica, in
quanto si definiscono le condizioni
di partenza e la processualità attraverso
la quale “l’uomo si fa uomo”. Segue
una lunga dissertazione sulle differenze
tra animali e uomini su cui non ci
soffermiamo.
Nel prosieguo dell’opera, dopo
aver posto il concetto di rimorso, il Nostro
ci dà una precisazione
interessante:
D’altro lato si prova tanto piacere a fare
del bene, a sentire, a riconoscere quel che
si riceve, e si prova tanta
contentezza a praticare la virtù, ad esser
dolci, umani, teneri, caritatevoli,
indulgenti e generosi (questa sola parola
racchiude tutte le virtù), che
ritengo abbastanza punito chiunque abbia
la disgrazia di non essere virtuoso. [48]
Non essere virtuoso è una “disgrazia” per
l’uomo: affermazione, è il
caso di dire, straordinaria, poiché conduce
ad un ribaltamento del criterio
morale della teologia. In La Mettrie l’accento
non è più posto sul fare il bene
per acquisire meriti a “ricompensa postuma”,
ma per ottenere vantaggi immediati
in termini di armonia e felicità personale.
Infatti fare il male è
intrinsecamente punitivo per chi lo fa e
correlando la generosità e la
benevolenza alla soddisfazione che se ne
prova, si sgancia il comportamento
virtuoso, tradizionalmente connesso al compiacere
Dio o all’acquisto di meriti
per l’aldilà, dalla morale tradizionale e
lo riporta sul terreno dell’etica
edonistica, qui è già tutta espressa in nuce con precisazioni del tipo:
Originariamente non siamo stati fatti per
essere dei dotti. Forse lo siamo divenuti
per una specie di abuso delle nostre
facoltà organiche; e di questo ha colpa lo
Stato, che nutre una quantità di
fannulloni decorati dalla vanità col nome
di filosofi.
L’allusione ai docenti universitari dell’epoca,
i metafisici, contrappone
loro gli autentici filosofi, gli scienziati,
a cui egli si sente di
appartenere. Avevamo già rilevato come ancora
per gran parte del Settecento le
scienze come noi le intendiamo non avessero
ancora fatto il loro ingresso nelle
aule universitarie, ma fossero opera di studiosi,
perlopiù dilettanti, del
tutto “esterni” ad esse. Studiosi che operavano
in laboratori e officine
privati, esprimendo le loro opinioni in società
e circoli culturali altrettanto
privati. D’altra parte, la “scienza ufficiale”
in Francia, all’epoca, era
ancora quella basata su Aristotele e Galeno,
non quella di Galilei e Newton né
quella di Boyle o di Leeuwenhoeck.
Appena dopo però incontriamo una
dichiarazione che può sembrare incoerente
con l’essenza di un discorso
materialistico, ma che si giustifica se si
tiene conto di quali rischi si
corresse con una pubblicazione atea o blasfema.
Si tratta di una sorta di
inciso furbesco per attenuar ciò che domina
il discorso. Si legge infatti:
Non è che io voglia mettere in dubbio
l’esistenza di un esser supremo; mi sembra
al contrario che essa abbia il
maggior grado di probabilità. Ma poiché questa
esistenza non prova la necessità
di un culto più di quella di qualsiasi altro,
essa è una verità teorica senza
nessuna possibilità di applicazione pratica;
talché dopo molte esperienze si
può dire che la religione non presuppone
un’assoluta probità, le stesse ragioni
autorizzano a pensare che l’ateismo non la
escluda. [49]
È doveroso rimarcare l’incoerenza di affermare
che Dio possa esistere ma
minimizzarne l’importanza in termini etici.
Ma il Nostro passa oltre facendo
due dichiarazioni che escludono ogni finalismo
e nel contempo ogni possibilità
da parte dell’uomo di penetrare tutti i segreti
della natura. È per questa
ragione che avevamo sottolineato l’atteggiamento
esistenzialistico che pone
l’uomo, lucrezianamente, in un cosmo privo
di senso dove il solo senso è nel
fatto di “esserci” e di realizzarsi in quanto
uomini, con le proprie facoltà e
i propri limiti, senza fare riferimento ad
alcuna entità metafisica. D’altra
parte La Mettrie, soprattutto uomo di scienza
per quanto imbevuto di cultura
filosofica e umanistica, dichiara senza esitazione:
La sola struttura di un dito, di un orecchio,
di un occhio, un’osservazione di Malpighi
prova tutto, e senza dubbio molto
meglio di Cartesio e di Malebranche; oppure
tutto il resto non prova nulla. [50]
La struttura del reale, del
fisico, che la scienza ci rivela, “prova
tutto”, nel senso che la conoscenza
del tutto parte dalla conoscenza dei singoli
fenomeni. Qualsiasi teoria
filosofica per essere credibile deve pertanto
accordarsi rigorosamente con le
conclusioni scientifiche poiché fuori della
scienza non vi è verità alcuna. La
scienza prova “tutto” coi suoi sistemi operativi
d’indagine e di verifica e
senza di essa qualsiasi dimostrazione, anche
resa con la miglior logica e la
miglior dialettica, può provare solo “il
nulla”. I sensi accolgono il conoscibile
e lo trasformano in idee, poiché esso si
riflette nel senso come in uno
specchio:
Il sole, l’aria, l’acqua, l’organizzazione
dei corpi tutto è disposto nell’occhio come
in uno specchio, il quale presenta
fedelmente all’immaginazione gli oggetti
che vi sono dipinti seguendo le leggi
richieste da questa infinita varietà di corpi
che servono alla visione. [51]
Siamo ad un sensismo radicale nel ritenere
che i sensi dicano la verità
sul mondo per il solo fatto di percepirlo
e di renderlo accessibile
all’immaginazione, che ne riprodurrebbe “fedele”
copia nel cervello. Similmente
opera l’orecchio per i suoni, e qualsiasi
sia la sua forma e le sue
caratteristiche, in funzione del genere animale
e di ambiente in cui egli vive,
struttura è definita in base al suo uso.
Inoltre:
Tutti gli orecchi sono fatti in modo così
matematico che tendono ugualmente ad un solo
e medesimo scopo, quello di udire.
[52]
La Mettrie pare qui usare l’aggettivo “matematico”
nel senso di
“perfetto”, anche a giudicare dalla
frase successiva:
Il caso, chiede il deista, sarebbe dunque
un
così grande matematico da saper variare a
suo piacimento le opere di cui è
supposto autore, senza che tanta diversità
gli possa impedire di raggiungere lo
stesso fine? [53]
Il Nostro, senza mediazione
alcuna, fa entrare qui in gioco il caso in rapporto al deismo che lo
nega in nome della necessità e della provvidenza divine. Perché? Difficile
capirne la ragione, anche perché il caso
non era stato tematizzato, ma
evidentemente egli ritiene che sia venuto
il momento di parlare del deismo
evocandolo. Il deista pensa che tutto in
natura contenga già il tutto di sé dispiegantesi
nel futuro; che il bruco è già farfalla,
lo spermatozoo già uomo, il polmone
già insito nel feto, i denti nelle loro sedi,
le ossa nei liquidi che si
induriranno a formarle. Queste “verità sono
così inconfutabili, affermano i
deisti, che persino gli atei, quando perdono
la salute (e con essa l’urgenza
delle passioni corporee) sono talvolta indotti
a ricredersi e convertirsi. Ma
tali conversioni, osserva La Mettrie, sono
sempre di breve durata «e lo spirito
riprende quasi sempre le sue vecchie opinioni»
[54]
appena il corpo ritorna in buona salute.
Ne segue una lunga digressione nella
quale il egli si sofferma sul punto di vista
di Diderot, il quale avverte che la
negazione del caso non implica necessariamente
l’esistenza di Dio, in quanto
c’è la natura, che non è né caso e né Dio,
a generare e governare gli enti del
mondo [55]. Ma nella diatriba tra cristiani, deisti
e atei La
Mettrie qui non si dichiara concludendo agnosticamente:
Questi sono i pro e i contro delle grandi
ragioni che divideranno sempre i filosofi.
Quanto a me, non prendo partito
alcuno: non nostrum inter vos tantas componere lites. [56]
Prudenza o pura furberia? Probabilmente l’uno
e l’altro. Ma poi La
Mettrie tenta un giochetto poco credibile,
mettendo in bocca a un fantomatico
amico francese («uomo di molto merito e degno
di una sorte migliore») queste
parole:
È vero, mi disse, che il pro e il contro
non
devono inquietare l’animo di un filosofo,
il quale vede che nulla è dimostrato
con tanta chiarezza da implicare necessariamente
il suo consenso e che anche le
prove offerte da una delle parti sono immediatamente
distrutte da quelle
mostrate dall’altra. Tuttavia, aggiunse,
l’universo non sarà mai felice se non
sarà ateo. Ecco quali erano le ragioni di
quest’uomo abominevole. [57]
Si noti l’ironia implicita nell’evidenziazione
corsiva dell’abominevole (ovviamente se stesso). Ma sentiamo
queste ragioni:
Se l’ateismo, diceva, fosse universalmente
diffuso, tutti i rami della religione sarebbero
subito distrutti e tagliati
dalle radici. Non ci sarebbero più guerre
teologiche, né soldati di religione –
terribili soldati! La natura, ora infetta
da un sacro veleno, riprenderebbe i
suoi diritti e la sua purezza. Sordi ad ogni
altra voce i tranquilli mortali
seguirebbero solo i consigli spontanei della
loro propria individualità, i soli
che non si possono disprezzare impunemente
e che ci possono condurre alla
felicità lungo i dolci sentieri della virtù.
[58]
Affermazioni assai pericolose quelle dell’”amico
francese” anche per
chi soltanto le riporti. Il fatto è che La
Mettrie si dimentica anche di
chiuderle e prosegue il discorso passando
a parlare “in proprio” e tradendosi
così platealmente nel proseguire: «Questa
è la legge naturale: chiunque la
osservi con rigore è un uomo onesto e merita
la fiducia di tutto il genere
umano.» [59]
Si torna poi all’argomento
“anima” per introdurre decisamente quello
dell’”uomo macchina”:
Ma poiché tutte le facoltà dell’anima
dipendono a tal punto dall’organizzazione
particolare del cervello e di tutto
il corpo che sono palesemente questa stessa
organizzazione, ecco una macchina
assai ben illuminata. […] L’organismo corporeo
basterebbe dunque a tutto? Si,
ancora una volta. […] L’anima non è dunque
altro che un termine vano, di cui
non possediamo alcuna idea e di cui un buon
intelletto deve servirsi per
nominare quella parte che pensa in noi. Posto
il minimo principio di movimento,
i corpi animati avranno tutto che occorre
loro per muoversi, sentire, pensare,
pentirsi, e insomma per comportarsi nel fisico
e nel morale che ne dipende. [60].
Discorso estremamente chiaro col quale il
“movimento” diventa una sorta
di forza vitale che fa delle parti del corpo
delle “funzioni”. Segue un elenco
di prove fisiologiche e zoologiche a sostegno
della tesi che noi oggi non
possiamo che giudicare un poco risibili,
ma che per la medicina dell’epoca
potevano essere accettabili. Il Nostro ritiene
di aver fornito «molti più fatti
di quanti ne occorrono per provare in modo
incontestabile che ogni fibrilla o
parte dei corpi organici si muove in virtù
di un principio che le è proprio» [61].
Questo “principio motore” La Mettrie lo cita
anche come una “forza” che pervade
tutti i corpi:
Se ora mi si domanda qual è la sede di questa
forza innata nei nostri corpi, rispondo che
risiede assai chiaramente in ciò
che gli antichi hanno chiamato parenchyma,
cioè nella sostanza propria delle
parti, astrazion fatta dalle vene, dalle
arterie, dai nervi, insomma
dall’organizzazione di tutto il corpo; e
che di conseguenza ogni parte contiene
in sé motori più o meno vivaci, secondo il
bisogno che tali parti ne hanno. [62]
Abbiamo quindi un principio motore, o forza,
e numerosi motori con
caratteristiche “alla bisogna”. Dopo di che
La Mettrie si dilunga poi nell’analisi
di tali motori per metterne in evidenza la
loro “automaticità” funzionale.
Sollecitazioni esogene ed endogene (l’oscurità,
la luce, l’innaturalità, la
precarietà, il dolore, la paura ecc.) mettono
in azione i motori che presiedono
alle varie parti ed organi del corpo. Ma
c’è un motore particolare, “il più
sottile e mirabile che li anima tutti”:
Esso è la fonte di tutti i nostri sentimenti,
di tutti i nostri piaceri, di tutte le nostre
passioni, di tutti i nostri
pensieri. Infatti il cervello ha i suoi muscoli
per pensare come le gambe per
camminare. Voglio parlare di quel principio
stimolante ed impetuoso che
Ippocrate chiama enormon (l’anima). Questo principio esiste, ed ha
la
propria sede nel cervello, all’origine dei
nervi, medianti i quali esercita il
proprio volere sul resto del corpo. Con esso
si spiega tutto ciò che può essere
spiegato fino alle conseguenze sorprendenti
delle malattie dell’immaginazione. [63]
Come avevamo rilevato, dopo aver troppo semplificato
La Mettrie si vede
costretto a ricomplicare la sua tesi per
migliorare uno schema troppo riduzionistico
e un po’ vacillante. Per fare ciò
rimette in gioco l’anima (che avevamo visto
essere diventata una funzione tra
funzioni), dapprima quale “motore” particolarissimo
e poi quale “principio” che
va a prendere il posto del “motore generale”
prima posto. Le cose così si
complicano, ma il Nostro insiste:
Perché la vista o la semplice idea di una
bella donna provoca in noi moti e desideri
singolari? Ciò che accade allora in
certi organi deriva forse dalla natura stessa
di questi organi? Niente affatto.
Deriva invece dal rapporto di simpatia esistente
tra questi muscoli e
l’immaginazione. [64]
Credevamo di aver capito che ogni organo
corporeo ha un suo particolare
motore interno che lo fa muovere, ed invece
qui apprendiamo che è la “simpatia”
tra il muscolo e l’immaginazione che genera
il movimento, e non la “natura” del
muscolo stesso. Infatti, è l’immagine della
bellezza ad eccitare un'altra
immagine”addormentata” che è “risvegliata”.
Constatiamo qui che il discorso si
fa interessante nel momento stesso in cui
diventa meno chiaro. La Mettrie dà
l’impressione, qui come altrove, di non dominare
le proprie intuizioni, e che
ogni volta che si spinge troppo avanti finisce
per perdersi o per ricadere in
affermazioni chiare ma non convincenti. E
si perde anche perché cerca di
sopperire mettendo in campo ulteriori concetti
che non fanno che intricare
ulteriormente le cose. Ciò avviene anche
quando afferma:
E come potrebbe avvenire ciò se non per il
disordine e il tumulto del sangue e degli
spiriti che galoppano con una
straordinaria velocità andando a gonfiare
i corpi cavi? [65]
Che cosa sono questi spiriti che galoppano
se non il riaffiorare di
vecchi concetti alchemici e magici che la
pseudo-medicina del Rinascimento
aveva evocato? Perché tirare in ballo concetti
così poco scientifici e così
poco coerenti con la medicina? Siamo di fronte
a uno dei limiti di La Mettrie,
che quando si trova nelle difficoltà non
le risolve, ma evade tirando in ballo
agenti surrettizi; in altre parole, il problema
è acuto e ben posto, la
soluzione data talvolta incoerente. Ma succede
anche che attraverso un discorso
circolare si torni a punti più saldi come
l’”unità materiale dell’uomo”, cui
segue la messa in campo del concetto di “volontà”:
È vano declamare intorno al potere della
volontà: per un ordine che dà, cento colte
essa subisce il giogo. Né c’è da
meravigliarsi che il corpo le obbedisca quando
sta bene, giacché in tale
situazione un torrente di sangue e di spiriti
ve lo obbliga e la volontà ha
allora per ministri un legione invisibile
di liquidi più vivi del lampo sempre
pronti a servirla. Ma poiché il suo potere
si esercita attraverso i nervi, è da
questi ch’essa può essere fermata. [66]
Considerazione molto confusa, giacché risulta
che gli “spiriti” sono
diventati “ministri” della volontà nel ridurre
all’obbedienza il corpo, ma i
nervi (corpo o no?) possono fermare la volontà!
Dopo un appello a una buona
dieta per mantenere il corpo sano e efficiente,
si osserva che la salute
corporea è anche foriera di uno spirito capace
di elevarsi «alla conoscenza
della verità e della virtù» [67]. Da
questo punto in poi l’autore si avvia alla
conclusione del saggio ridefinendo i
punti essenziali della sua teoria materialistica
e rintuzzando in anticipo tesi
contrarie. Vediamo alcuni dei punti ribaditi
o ridefiniti:
Quindi l’anima è solo un principio di
movimento o una parte materiale sensibile
del cervello, che senza tema di
errore si può considerare come il motore
principale di tutta la macchina. [68]
Il corpo non è che un orologio di cui il
nuovo chilo è l’orologiaio. [69]
La natura del movimento ci è altrettanto
sconosciuta che quella della materia. [70]
Tutto ciò basta per risolvere l’enigma delle
sostanze e quello dell’uomo. Si constata
che nell’universo di sostanze non ce
n’è che una e che l’uomo è la più perfetta.
[71]
Davvero non mi inganno: il corpo umani è
un
orologio, ma immenso e costruito con tanto
artificio ed abilità che se la ruota
adibita a indicare i secondi si ferma quella
dei minuti continua a girare e a
compiere il suo corso. [72]
Essere macchina, sentire, pensare, saper
distinguere il bene dal male come il blu
dal giallo, essere nati insomma con
l’intelligenza e con un sicuro istinto morale
e non esser tuttavia altro che un
animale non è dunque più contraddittorio
che essere una scimmia o un pappagallo
e sapersi dare il piacere. [73]
No, la materia non ha nulla di vile se non
per quegli occhi grossolani che la misconoscono
nella sue opere più splendide;
e la natura non è affatto un’opera limitata.
[…] La sua potenza emerge egualmente
sia nella produzione dell’insetto più vile
che in quella dell’uomo più superbo.
[74]
Vediamo ora, in fase di chiusura del saggio,
un’ulteriore riflessione
degna di interesse. Come abbiamo visto La
Mettrie può peccare in qualche caso
di confusione ed imprecisione, ma mai di
arroganza teorica, e ciò si rileva
chiaramente nella seguente dichiarazione,
intrisa di scetticismo gnoseologico
ma anche di profondo buon senso:
Evitiamo di dire che ogni macchina o ogni
animale periscono completamente o assumono
dopo la morte un’altra forma, in
quanto non ne sappiamo assolutamente nulla.
Ma affermare che una macchina
immortale è una chimera o un essere di ragione significa fare un
ragionamento altrettanto assurdo quanto lo
sarebbe quello di bruchi i quali,
vedendo le spoglie dei loro simili, deplorassero
amaramente la sorte della loro
specie che sembrerebbe loro avviata all’estinzione.
L’anima di questi insetti
(giacché ogni animale ha la sua) è troppo
limitata per comprendere le
metamorfosi della natura. Neanche il bruco
più perspicace avrebbe mai potuto
immaginare di ridiventare una farfalla. La
stessa cosa accade a noi. Che cosa
sappiamo del nostro destino pi-ù che della
nostra origine? Rassegniamoci dunque
a un’invincibile ignoranza, da cui dipende
la nostra felicità. [75]
Se nell’ignoranza è la fonte della felicità,
siamo a una netta tesi eudemonistica,
però, contemporaneamente, viene messa in
discussione parte dell’impianto
teorico che la regge. Non stupiamoci, questo
è La Mettrie, un autore che va
considerato per quanto di positivo espone
indipendentemente da lacune
rapsodiche o diffuse. Il Nostro è latore
di un pensiero assai originale per
l’epoca, ma è incapace di organizzarlo in
modo coerente; per apprezzarlo va
seguita con attenzione l’onda del suo argomentare,
i suoi avanti-indietro, le
sue fughe in avanti e i suoi ritorni. Né
sono da trascurare i residui
metafisici che egli si vede costretto ad
utilizzare per uscire da un
meccanicismo semplicistico troppo semplicistico
che le sue conoscenze
scientifiche gli mostrano insufficiente e
da cui si vuole emancipare. Ma, se come teorico La Mettrie presenta dei
limiti, come etico è assai più coerente,
forse anche perché ha alle sue spalle la
lunga tradizione epicurea a cui
appoggiarsi. Nell’Anti-Seneca, il suo scritto più compiuto e coerente,
egli
è capace di esporre il meglio del suo filosofare
in modo più organico, ma per
ora, a chiusura di questa sezione, dobbiamo
ancora accennare a L’uomo pianta,
un’opera che va in un certo senso a completare
L’uomo macchina nel correlare
l’uomo alla catena dell’essere in cui è incluso
come ultimo anello.
Nel primo capitolo l’autore
rileva che per cogliere adeguatamente l’analogia
tra il regno animale e quello vegetale bisogna considerare le
varie parti che compongono il corpo delle
piante e raffrontarle a quelle dell’uomo. Vediamo
come
espone la tesi:
Nella nostra specie, come nelle piante, vi
sono una radice principale e della radici
capillari. Il serbatoio dei lombi e
il canale toracico formano la prima radice,
le vene linfatiche le alte. Ovunque
scorgiamo gli stessi usi e le stesse funzioni.
Attraverso queste radici il
nutrimento è portato lungo tutta l’estensione
del corpo organico. [76]
Sono gli usi e le funzioni che devono guidare
la ricerca delle analogie
e non le forme. Il principio è importante:
non l’esteriorità visibile va colta
ma la struttura funzionale. Il concetto di
radice diventa quella della
canalizzazione che conduce il sangue o la
linfa ai luoghi d’irrorazione
periferici; poco oltre si aggiunge: «I polmoni
sono le nostre foglie.». Sul
filo dell’analogia il cuore che pompa il
sangue lungo le canalizzazioni trova
il suo corrispondente vegetale nel calore,
il “cuore della natura”, che «fa
anch’esso circolare i succhi nei condotti
delle piante che traspirano come
noi.» E ancora:
Se i fiori hanno le foglie o petali,
noi possiamo considerare le nostre braccia
e le nostre gambe come delle parti
analoghe. […] Possiamo considerare l’utero
vergine (o meglio non gravido), o se
si preferisce, l’ovaia, come un germe che
non è stato ancora fecondato. […] Le
piante sono maschi e femmine, e nel coito
si uniscono come fa l’uomo. [77]
Se nel primo capitolo dell’operetta La Mettrie
pone le analogie nel
secondo analizza le differenze. Ne deriva
un’asserzione filosofica tutt’altro
che trascurabile quale tematizzazione del
“bisogno”, e dei mezzi per
soddisfarlo in rapporto al livello di organizzazione,
ovvero di complessità,
dell’organismo:
Più un corpo organizzato prova di bisogni,
più la natura gli ha dato i mezzi per soddisfarli.
Questi mezzi sono i diversi
gradi di quella sagacia ch’è nota sotto il
nome di istinto negli animali e di
anima nell’uomo. Meno necessità ha un corpo
organizzato, meno è difficile da
nutrire e da alleare, e più la sua porzione
di intelligenza è modesta. Gli
esseri privi di bisogni sono altresì privi
di intelligenza: ecco l’ultima legge
che deriva dalle altre due. [78]
Il nostro intravede, ma non può cogliere,
che l’evoluzione degli esseri
viventi implica il procedere parallelo di
esigenze e complessità, e intuisce
come l’intelligenza umana e l’istinto animale
siano indispensabili a esseri che
si muovono e che non traggono le risorse
dal terreno e dall’aria, ma debbono
“andarli a cercare”. Perciò i vegetali non
patiscono «nessuna sorta di
inquietudine, nessuna preoccupazione, nessun
bisogno di agire, nessun
desiderio» che non concernano risorse in
qualche modo a portata di mano. Quindi
avere un’anima, ovvero un’intelligenza, per
le piante è inutile [79].
Nel Terzo Capitolo si
evidenzia come la natura sia, metaforicamente,
una “scala” graduata dai molti
gradini nessuno dei quali risulta saltato,
ma tutti essendo occupati da qualche
forma di vita. E in una metafora cromatica
i due estremi, il bianco e il nero,
sono rappresentati dall’uomo e dalla pianta,
mentre tutti gli altri colori
intermedi sono rappresentati dagli altri
animali [80] . Vi
è anche la vaga teorizzazione di un’evoluzione
del vivente suggerita dalla
“differenziazione” e dalla “dinamica” biologica.
La Mettrie non è un “fissista”
per il suo stesso assunto teorico e quindila
catena del vivente implica l’ipotesi
di “evoluzione”. Non colta in relazione allo
stadio degli studi dell’epoca
(Lamarck nasce nel 1744, quando La
Mettrie è prossimo alla morte) ma presente
in sottofondo in molte sue considerazioni.
13.3 La natura e
la sua dinamica
Il Sistema di Epicuro,
del 1750, è l’ultima opera filosofica di
La Mettrie (cui segue solo il Discorso
preliminare del 1751) ed è anche il lavoro nel quale
viene sviluppato meglio
l’argomento ontologico, al centro dl quale
sta il concetto di natura (ovvero di
materia). Per quanto il concetto di natura venga
dal Nostro
relativamente personalizzato (persino in
termini affettuosi) va subito notato
che egli riesce a tenersi alla larga da ogni
tentazione ilozoistica ed il suo meccanicismo
evita ogni caduta nel determinismo grazie
ad una concezione dinamica della
natura basata sulla casualità e sull’indeterminazione.
Essa è benevola madre,
ma cieca, che opera per tentativi, per riuscite
e per errori, nei termini che
saranno poi più o meno posti da Darwin. Ciò
che impedisce a La Mettrie di fare
della dinamica naturale un vero evoluzionismo
è lo strascico di un’eredità
meccanicistica di cui non riesce a liberarsi.
Iniziamo con l’aforisma IV che
recita:
Priva di conoscenze e di sensibilità, essa
[la natura] costruisce la seta come il Borghese
gentiluomo parlava in prosa,
senza saperlo: altrettanto cieca quando suscita
la vita, quanto è innocente
quando la distrugge. [81]
Dichiarazione di grande peso sul piano ontologico.
La Mettrie nega una
tradizione panteistica millenaria che aveva
divinizzato la natura e la sua
intelligenza. La natura è cieca perché “non
sa” quello che fa; opera la sua
creazione continua “a caso” e allo stesso
modo distrugge ciò che ha creato per
potere creare altro. Siamo di fronte all’espressione
più profonda dell’ateismo,
anzi, di fronte all’unica espressione di
autentico ateismo possibile, quello
che nega il determinismo. I Nostro assume
qui la funzione del ponte teorico che
lega l’ateismo antico di Leucippo e dei suoi
successori ad ogni possibile
ateismo moderno, che in sintonia con la meccanica
quantistica e la nuova
biologia delle mutazioni genetiche casuali
non può che essere rigorosamente indeterminista.
Ne l’Antiseneca ci viene
precisato che gli uomini sono come delle
“girandole” spinte dal vento della
vita [82]:
Poiché il caso ci ha gettato in essa, non
direi a danno di tanti altri impediti ogni
giorno da mille cause di uscire dal
nulla, sembra che il nostro primo e più ragionevole
obbiettivo sia quello di
vivere tranquilli, in modo comodo e sereno.
[83]
La nascita, l’uscita dal nulla, è un accadimento
casuale; un uomo c’è
rispetto a mille altri uomini “possibili”
che rimangono nel nulla. Dal momento
che ci siamo, è difficile scorgere altro
obbiettivo più importante di quello di
cercare di vivere in una serena e confortevole
tranquillità.
Torniamo al Sistema di
Epicuro con l’aforisma XIII, che ci ricorda
il lucreziano De rerum natura là dove si afferma:
Le prime generazioni debbono essere state
assai imperfette. In un caso sarà mancato
l’esofago, in un altro lo stomaco;
qui la vulva, là gli intestini ,ecc. È evidente
che i soli animali in grado di
vivere, di conservarsi e di perpetuare la
loro specie saranno stati quelli
trovatisi in possesso di tutte le parti necessarie
alla generazione, e ai quali
insomma non sia mancata nessuna parte essenziale.
Viceversa, gli animali
risultati privi di qualche pare assolutamente
necessaria saranno morti o poco
tempo dopo la loro nascita, o almeno senza
potersi riprodurre. Come per l’arte,
così anche per la natura la perfezione non
stata l’opera di un giorno. [84]
Il concetto fondamentale qui espresso è quello
di “imperfezione”, il
che implica un processo verso la perfezione
che non risponde a un progetto
divino voluto o necessitato, a un intelligent design per usare
un’espressione moderna, ma al caso, all’incertezza,
alla precarietà. Il
Dio-Volontà de Cristianesimo, il Dio-Necessità
del panteismo e il Dio-Bontà-Provvidenza
del deismo vengono espunti dall’orizzonte
ontologico e relegati nelle
anticaglie della “credenza”. Ma l’imperfezione
implica anche il processo
caotico e casuale verso la perfezione, ovvero
verso l’esistenza. Esiste infatti
ciò che può esistere, cioè adeguato, o meglio
darwinianamente “adatto” al
contesto in cui sussiste e si conserva. D’altra
parte si aggiunge al XV e al
XVI:
[…] [XV] in quei tempi remoti, quando le
generazioni erano incerte, difficili, mal
stabilite e simili più a dei
tentativi che a dei colpi da maestro. [XVI]
Attraverso quale infinità di
combinazioni è stato necessario che passasse
la materia prima di arrivare a
quell’unica combinazione dalla quale poteva
derivare un animale perfetto!
Attraverso quante altre essa è passata prima
che le generazioni siano potute
giungere al grado di perfezione che possiedono
oggi! [85]
La creazione è incerta, ma soprattutto a
carattere evolutivo. Di contro
a un fissismo ancora assai forte malgrado
certe intuizioni evoluzionistiche di
Maupertuis e di Buffon, alle quali sicuramente
il Nostro guarda con interesse,
sono le “fortunate combinazioni” (XVII) a
determinare il processo formativo
degli enti del mondo. Gli organi più
evoluti e perfezionati, come l’occhio, sono
frutti inconsapevoli e
casuali:
[XVIII] L’occhio è diventato lo specchio
degli oggetti, i quali spesso gli servono
a loro volta da specchio. In realtà
la natura non aveva pensato di formare l’occhio
per vedere più di quanto non
avesse pensato di formare l’acqua perché
servisse di specchio alla semplice
pastorella. […][XIX] Forse non è mai esistito
un pittore il quale, non
riuscendo a rappresentare come desiderava
un cavallo sbuffante, vi riuscì in
modo ammirevole e fece la più bella schiuma
gettando con dispetto il pennello
sulla tela? Il caso va spesso più in là della
prudenza. [86]
Dunque, la casualità si rivela in grado di
creare perfezione laddove
non ci riescono la prudenza, la necessità,
la volontà, l’abilità, la
progettazione. Più avanti troviamo una considerazione
che è un’implicita
risposta a tutte le forme di divinizzazione
della natura che percorrono i
millenni della cultura occidentale:
Dato l’estremo disordine in cui tutto si
trova, mi sembrerebbe persino empio non attribuire
ogni cosa alla cecità della
natura. Solo essa, infatti, può nuocere o
servire in modo innocente. [87]
La natura opera in modo innocente, cioè inconsapevole.
Se si pensa che
tutto il corredo connotativo di Dio (porti
esso il nome di Essere, Lógos,
Intelligenza, Verità, Necessità, Spirito
Assoluto o altro) ha sempre come
prerogativa fondamentale l’intelligenza e
la consapevolezza della propria opera,
quindi l’autocoscienza di sé, si comprende
come il concetto di natura posto da
La Mettrie sia quanto di più non-divino si
possa immaginare. La mancanza di
ogni “divinità” nella natura lamettriana
va ben oltre la pura enunciazione di
materialismo ed implica quella di un radicale
ateismo che espunge dal proprio
orizzonte ogni determinismo e ogni finalismo
quali surrogativi criptici della
divinità della creazione.
All’ateismo ontologico La
Mettrie associa in molti passaggi il suo
profondo scetticismo e la sua
opposizione ad ogni orgogliosa pretesa di
“sapere”. Perciò:
Come la medicina non è assai spesso che una
scienza di cure dai nomi mirabolanti, così
la filosofia non è che una scienza
di belle parole. È una bella fortuna quando
le prime guariscono e le seconde
significano qualche cosa. [88]
La pretesa e l’arroganza (spesso l’impostura!)
del pretendersi
depositari del sapere si esprime spesso nella
sua inconsistenza. Il pragmatismo
lamettriano, nemico di ogni assolutizzazione,
assolve la tronfia inconsistenza solo
se in qualche modo “funziona”: essendo almeno
il curare che guarisce o il
filosofare che “significa qualcosa”. E filosofo
colui che accetta l’ignoranza
di ciò che è aldilà del suo poter conoscere,
così:
[XLIII] Benché il filosofo ignori le cause
prime (ed egli se ne gloria) dall’angolo
della platea in cui si è nascosto,
vedendo senza esser visto e lontano dalla
folla e dal rumore egli assiste a uno
spettacolo in cui tutto lo affascina e nulla
lo sorprende, neanche il
vedervisi. [89]
Il filosofo sta lontano dalla folla e dal
rumore e assiste indisturbato
allo spettacolo del mondo, ma ride poi di
se stesso:
[XLIV] Al filosofo pare piacevole vivere,
piacevole essere lo zimbello di se stesso,
avere un ruolo così comico e
credersi un personaggio importante. [90]
E poi una considerazione scettica nel XLV:
La ragione per cui nulla stupisce un filosofo
è il fatto che la follia e la saggezza, l’istinto
e la ragione, la grandezza e
la piccolezza, la puerilità e il buon senso,
il vizio e la virtù sono nell’uomo
tanto intimamente connessi quanto l’adolescenza
e l’infanzia, quanto lo spirito
rettore e l’olio nelle piante, e infine quanto il
puro e l’impuro nei
fossili. L’uomo duro ma veritiero, il filosofo
lo paragona a una carrozza
foderata di stoffa preziosa ma mal appesa.
[91]
Il filosofo non può essere né presuntuoso,
né debole, né violento e
deve sapersi accontentare senza pretendere
troppo né da sé né dagli altri e
tenendosi lontano da ogni arrogante antropocentrismo.
Perciò [XLVI]: «Sapete
perché ho ancora qualche stima per gli uomini?
Perché li credo seriamente delle
macchine. Se non fosse così, ne conosco pochi
la cui compagnia sarebbe da
stimarsi. Il materialismo è l’antidoto della
misantropia..» [92] Ed
ancora sul filo di una meditazione libera
e quasi trasognata:
[XLVII] Per questo il filosofo opponendo
ai
propri vizi la stessa egida che all’avversità,
non appare interiormente
dilaniato dalla infelice necessità delle
proprie cattive qualità, come non
appare vanaglorioso e presuntuoso per le
buone. Se il caso ha voluto dargli
quel buon organismo che la società può e
che ogni individuo deve augurargli, il
filosofo se ne rallegrerà e sarà anzi felice,
ma senza sufficienza e senza
presunzione. Nel caso contrario, giacché
se non si è fatto da se stesso, se gli
ingranaggi della propria macchina funzionano
male, se ne dispiace e ne geme in
quanto buon cittadino: ma come filosofo non
se ne ritiene responsabile. [93]
Queste digressioni su se
stesso introducono il tema principale del
Sistema di Epicuro, la natura.
Esse ci rivelano il carattere non-sistematico
e il fondo esistenzialistico, ora
gaio ora malinconico, della riflessione del
Nostro, i cui pensieri si inseguono
liberamente senza essere costretti entro
i limiti di un percorso obbligato e
finalizzato.
14.4 Un edonismo
razionale e immoralistico
È stato da qualcuno rilevato
che l’edonismo immoralistico di La Mettrie
può essere considerato in qualche
modo un precedente di quello sadiano. La
nostra opinione è: sì e no. Sì, da un
punto di vista astrattamente teorico; no,
dal punto di vista reale. In realtà è
all’ontologia d’Holbach che Sade guarda,
e al determinismo che giustifica il
male come necessario. Non certo a quella
di La Mettrie che è indeterminista, ed
ancora meno all’erotismo, che è naturale,
gioioso e solare, quanto quello del Divino
Marchese è psicotico, allucinato e tenebroso.
E tuttavia il Nostro produce un
discorso teorico sulla felicità asserendo
che anche i malvagi, se non sono
tormentati dal rimorso, possono essere felici
nella loro abiezione. Afferma
questo perché la natura, in quanto cieca,
non può essere nemmeno ”morale”, come
idealisti panteisti e deisti pensano, ma
è neutra rispetto alla virtù e al
vizio in quanto entrambi “naturali”. È questo
il punto che effettivamente
anticipa l’apologia sadiana, ma il discorso
lamettriano non potrebbe mai
tollerare di passare per un incitazione al
male che ne stravolgerebbe il senso,
che è esclusivamente analitico e potremmo
dire “clinico”. Anticipiamo un passo conclusivo
dell’ Antiseneca, o Discorso sulla felicità, pubblicato nel 1748:
Ma (per parlare secondo lo stile di Seneca)
tu non condanni dunque i vizi e i delitti
con uno stilo di ferro? No, non sono
tenuto a compiere un’opera che non è mia.
La lascio agli autori di satire e ai
predicatori. Quanto a me, non moralizzo,
non predico, non declamo: spiego. Sono
e mi sento onorato di essere un cittadino
zelante; ma non è in tale qualità che
scrivo, bensì come filosofo. [94]
La posizione è chiara: come uomo La Mettrie
“mette in atto” la virtù,
ma come filosofo, cioè come scienziato della
natura e dell’essere, egli deve solo
“spiegare” come stanno le cose.
Per farsi un’idea compiuta di che cosa sia
l’etica eudemonistica di lamettriana prendiamo
ora l’Antiseneca
dall’inizio per comprendere bene come si
sviluppa poiché il discorso sulla
felicità. Partiamo col seguente passaggio:
Come
ci sentiamo anti-stoici! Questi filosofi
sono severi, tristi, duri; noi
saremo dolci, allegri, compiacenti. Tutti
anima, essi prescindono dal loro
corpo; tutti corpo, noi prescinderemo dalla
nostra anima. Essi si mostrano
inaccessibili al piacere e al dolore; noi
ci glorieremo di sentire l’uno e
l’altro. Tendendo con ogni sforzo al sublime,
essi si innalzano al di sopra di
tutti gli eventi, e non si credono veramente
uomini che nella misura in cui
cessano di esserlo. Noi invece non disporremo
di ciò che ci governa, né comanderemo
per nulla alle nostre sensazioni. Ammettendo
il loro potere e la nostra
schiavitù, cercheremo di rendercele gradevoli,
persuasi che in ciò sta la
felicità della vita. [95]
Fin dalle prime parole si fa strada un innegabile
senso di liberazione.
Ci si rende conto che dopo millenni di moralistica
retorica contro le passioni
e i desideri, da soffocare e vincere in nome
dei diritti della virtù, qui ne
viene capovolta la logica in nome del naturale
diritto al piacere. Nessuna
arroganza immoralistica in queste parole,
ed insieme nessuna volontà di
trasgredire; semplicemente l’umiltà di encomiare
la semplicità naturale,
l’adesione al proprio corpo, il riconoscimento
delle proprie debolezze nella
ricerca della felicità possibile. Una concezione
antropologica che emerge con
chiarezza:
Insomma, ci riterremo tanto più felici quanto
più saremo uomini, o più degni di esserlo,
e quanto più sentiremo la natura,
l’umanità e le virtù sociali. Non ammetteremo
altre virtù e altra vita che
questa. Si capisce quindi che per noi la
catena delle verità necessarie alla
felicità sarà più corta di quella di Egesia,
di Cartesio e di tanti altri
filosofi. Inoltre, per spiegare il meccanismo
della felicità consulteremo solo
la natura e la ragione. I soli astri in grado
di illuminarci e di guidarci se
apriamo bene la nostra anima ai loro raggi
in modo che essa resti assolutamente
chiusa a tutti quei miasmi avvelenati che
formano per così dire l’atmosfera del
fanatismo e del pregiudizio. [96]
La ricerca del piacere e il conseguimento
della felicità fanno
riferimento ai sensi corporei, l’anima deve
solo vigilare e tenere lontani
dalle violenze di un’irrazionalità incontrollata
e perniciosa. Dunque la
ragione, che assume come proprio referente
unico la natura, attraverso la
sensibilità dell’anima sceglie di restare
sullo sfondo e di non condizionare
troppo l’uomo, ma semmai pilotarlo verso
ciò che lo tiene lontano dalle derive
del fanatismo e della credenza cieca in ciò
che natura “non è”. La Mettrie
espone tre situazioni:
I nostri organi possono accogliere una
sensazione o modificazione che ci piace e
ci fa amare la vita. Se l’impressione
di questa sensazione è breve, è il piacere;
più lunga è la voluttà; permanente
è la felicità. Ma si tratta sempre della
stessa sensazione, che differisce solo
per la durata e la vivacità. Aggiungo questa
parola perché non c‘è alcun sommo
bene così squisito come il sommo piacere
dell’amore. [97]
Amare la vita, e sperimentare la felicità,
è provare sensazioni
piacevoli; nient’altro. Per il resto si tratta
di durata e di “vivacità” e i
piaceri più vivaci sono quelli legati alla
sessualità. Come si vede qui La
Mettrie è lontanissimo dall’etica epicurea,
che vedeva la felicità come una
condizione caratterizzata dall’assenza di
dolore, basata sull’indifferenza e sulla
calma del saggio di fronte alle esigenze
sia del proprio corpo e sia delle
contingenze esterne. È evidente come qui
il Nostro, persona colta e sensibile,
intenda essere provocatorio nella misura
in cui forza il suo eudemonismo su
livelli puramente sensistici e semmai più
vicini al cirenaismo. Ma seguiamo
ancora l’esposizione:
Più questa sensazione è durevole, deliziosa,
piacevole e non interrotta o turbata da chicchessia,
più si è felici. Più è breve e viva, più è prossima
alla natura e al piacere. Più è lunga e tranquilla,
più se ne allontana e si
avvicina alla felicità. Più l’anima è inquieta,
agitata, tormentata, più la
felicità le sfugge. [98]
Il piacere intenso e breve è quello più specifico
della natura corporea
di cui siamo depositari, ma non è felicità.
Questa, per esser tale, deve
allontanarsi dal piacere violento e quindi
dal corpo. Implicito l’elemento
intellettuale, e quindi relativamente non-naturale,
implicato nell’essere
felici. Ed esser felici è un sensazione dell’anima
e non del corpo, ma questa
più è inquieta e più la felicità le sfugge.
Quell’atarassia che Epicuro
tematizzava come elemento primario per esperire
la felicità, La Mettrie la pone
come elemento non facilmente perseguibile,
ma a cui occorre tendere perché
nella misura in cui essa manca la felicità
sfugge.
Date tali premesse si passa
ad analizzare meglio il problema e se tenta
un’eziologia, ponendo come elementi
dirimenti il patrimonio genetico che fa sì
che siamo quel che siamo e
l’educazione che ha modellato la nostra anima.
Perciò: «Le cause interne o
intrinseche, che si pensa dipendano da noi
stessi, non ne dipendono affatto.» [99] In
altre parole: non si può “voler” esser felici.
L’origine della felicità sta in
cause fuori del nostro controllo:
Esse appartengono all’organismo o
all’educazione che ha, per così dire, plasmato
la nostra anima e modificato i
nostri organi [la nostra sensibilità]. Le
altre provengono dalla voluttà, dalle
ricchezze, dalle scienze, dagli onori, dalla
reputazione, ecc. [100]
Dunque, nel conseguimento della felicità
entrano in gioco come
elementi-base il corpo e la forma mentis, frutto dell’educazione, e come
elementi associati il piacere vero e proprio
di cui i sensi sono protagonisti,
la condizione sociale che aumenta le possibilità,
la cultura che affina la
nostra sensibilità, il ruolo nel contesto
sociale. La felicità legata ai soli
sensi, come prolungamento di un piacere,
è la più facilmente conseguibile
poiché non richiede altra risorsa che la
macchina-corpo. Il suo contrario, la
sofferenza del corpo, è quasi irrimediabile
«a parte qualche palliativo molto
incerto.» [101] Ma veniamo alla felicità dell’anima:
La felicità connessa all’educazione consiste
nel seguire i sentimenti che questa ci ha
ispirato e che si cancellano assai
difficilmente. L’anima vi si lascia trascinare
con piacere; il pendio è dolce e
il cammino ben spianato; resisterle le costa
un duro sforzo. Tuttavia il suo
capolavoro consiste nel dissipare i pregiudizi
dell’infanzia e nel purificare
l’anima alla fiaccola della ragione. Questa
è la felicità riservata ai
filosofi. [102]
Quel che è chiaro è che qui, per “educazione”,
si deve intendere quella
acquisita quando l’individuo ha raggiunto
il completo uso della propria ragione
e non quella propinata nell’infanzia. La
conclusione è un po’ banale, ma
coerente con l’assunto lamettriano in base
al quale solo la filosofia apre la
strada verso la più alta felicità. E tuttavia
una certa felicità, lo abbiamo
già visto, è possibile anche per chi faccia
il male ma riesca ad evitarne il
rimorso. Posizione difficile da
sostenere, poiché i rimorsi, come ogni altro
sentimento o passione, non sono
controllabili, e chi non prova sentimenti
è un minorato: uno zotico o insensibile.
Ma il filosofo deve solo renderne ragione,
individuarne le cause, cioè: «basterà
spiegarli.» [103] Soluzione un po’
semplicistica, ma il Nostro pensa che se
ci si attiene come uniche guide alla
natura e alla ragione il sia inevitabile:
In questo sistema, fondato sulla natura e
sulla ragione, ci sarà felicità per gli ignoranti
e per i poveri, come per i
dotti e per i ricchi: ce ne sarà per tutti
i ceti e, quel che più conta (e che
farà rivoltare gli spiriti prevenuti) ce
ne sarà per i cattivi come per i
buoni. [104]
L’immoralismo di La Mettrie è qui evidente;
egli pensa che né l’ignoranza
e né il peccato impediscano di raggiungere
un qualche tipo di felicità. Ogni
uomo ha in sé la capacità di esser felice
anche solo per «cause interne», poiché vi è una sorta di
«sensibilità nuda», legata al nostro corpo,
che è di per se stessa sufficiente
anche senza alcun tipo di cultura e ragionevolezza.
Egli nota: «vedo tanti
ignoranti felici grazie alla loro stessa
ignoranza e a i loro pregiudizi.» [105] E
ancora:
Mangiano, bevono, dormono, vegetano con
piacere. Ingannati a loro vantaggio, privi
di qualsiasi paura, se vivono in
modo onesto nutrono la loro immaginazione
con idee gradevoli che li consolano
di morire. Il guadagno che viene loro promesso,
per quanto chimerico, fa sì che
la perdita della vita non abbia per loro
quasi nulla di reale. È abbastanza
bravo chi è abbastanza felice. [106]
Le persone rozze e prive di educazione possono
essere relativamente
felici nella misura in cui utilizzano più
o meno consapevolmente la loro stessa
ignoranza per non problematizzare né la vita
né la morte.
La Mettrie sa bene che la
salute è fondamentale per il raggiungimento
della felicità, ma vuole ribadire
il suo indeterminismo persino in riferimento
alla malattia, capace di
“metamorfosi” sorprendenti: «Essa cambia
l’uomo di spirito in uno sciocco che
non ne guarirà più, e innalza lo sciocco
al rango di genio immortale. Per la
natura non v’è nulla di bizzarro: bizzarri
siamo noi ad accusarla di esserlo.» [107]
In effetti ciò che egli
coglie è l’effetto reale e fattuale dell’”illusione”
sulla psiche, e quindi la
sua funzione antropica. Anche l’illusione,
come il sogno, è una forma di
sensazione, e le sensazioni finiscono per
essere la fonte di ogni nostro stato
“reale”, qualsiasi sia la loro causa e in
qualsiasi forma possano presentarsi:
Esse non possono mai ingannarci, e non sono
mai false in rapporto a noi anche in seno
alla stessa illusione, poiché
rappresentano e fanno sentire a noi stessi
quali siamo actu, cioè nel
momento stesso in cui le proviamo: tristi
o allegri, contenti o scontenti, a
seconda del modo in cui affettano tutto il
nostro essere in quanto essere
sensitivo o piuttosto a seconda del modo
in cui lo costituiscono addirittura. [108]
Abbiamo qui un’interpretazione fenomenologica
del sentire che viene
identificato col senziente in un’unità dinamica
che è, ora e qui, il tipico
modo d’essere dell’uomo stesso nel succedersi
dei suoi stati d’umore. Ed
allora:
Da tutto ciò risultano due cose: 1) Che la
vita sia un sogno o che esista qualche realtà,
ne derivano le stesse
conseguenze in rapporto alla felicità o all’infelicità.
2) Contro l’opinione di
Cartesio, una realtà sgradevole non vale
una di quelle seducenti illusioni di
cui parla Fontenelle nelle sue egloghe, illusioni
che servono a «compensare la
mancanza dei veri beni che la natura avara
non ha accordato agli uomini». Se la
natura ci inganna a nostro favore, continui
pure ad ingannarci sempre.
Serviamoci anche della ragione per ingannarci,
se questo ci può fare felici.
Chi ha trovato la felicità ha trovato tutto.
[109]
La Mettrie introduce qui un
criterio puramente utilitaristico in funzione
della felicità, sì da mettere in
mora quella stessa ragione di cui è sostenitore,
ma che, in questo caso,
concorre a determinare uno stato psichico
utile ancorché pregno di
irrazionalità.. D’altra parte, «lo spirito,
il sapere, la ragione, sono il più
delle volte inutili alla felicità», se non
nocivi, poiché la felicità è uno
stato dell’anima e l’anima può fare a meno
dei suoi accessori intellettuali. E
la saggezza si esprime precipuamente con
la tranquillità dell’anima e con
l’assenza di turbamenti di carattere culturale,
poiché la cultura non è sempre
funzionale al conseguimento della felicità.
E tuttavia occorre tener presente
che, in generale, gli uomini «sono nati cattivi;
senza l’educazione ve ne sarebbero
ben pochi di buoni; ed anche con quest’ausilio
i cattivi sono molto più
numerosi dei buoni.» [110]
Traspare qui un pessimismo non infrequente
negli illuministi, che in parte
rende ragione di quell’anelito a porvi rimedio
ben di rado univoco. La felicità
e l’infelicità sono contagiose; ed allora:
La felicità umana viene accresciuta agli
occhi delle persone ben nate dalla possibilità
di comunicarla e di farne
partecipi gli altri. L’uomo in qualche modo
si arricchisce del bene che fa,
partecipa della gioia che procura: ed è degno
dell’essere umano che sia così. [111]
Abbiamo visto uno dei
principi fondamentali dell’etica eudemonistica:
l’uomo sensibile trae spunto
dal bene di cui è partecipe per trasmetterlo
ad altri e per cercare di produrre
altro bene. Ma siccome il bene è sostanzialmente
lo stato di felicità possibile
per l’uomo, questo è il fine stesso dell’essere
uomo, testimone della sua
dignità di animale al vertice della scala
degli esseri, in quanto latore di
sensibilità e di capacità di amare e di desiderare
il bene degli altri. Ma ciò
non fa confuso con la virtù, concetto che
La Mettrie ritiene squalificato: «La
virtù è una brutta vecchia, che si ricerca
per il lustro che pende dalle sue
orecchie o per il denaro che fa guadagnare.»
[112] Il
discrimine tra la cattiveria e la bontà umana
sta soltanto nell’atteggiamento
egoistico dei primi e in quello altruistico
dei secondi:
Come si vede, tutta la differenza esistente
fra i cattivi e i buoni consiste in ciò,
che negli uni l’interesse particolare
è preferito all’interesse generale, mentre
gli altri sacrificano il loro bene a
quello di un altro amico o del pubblico.
[113]
Dal punto di vista della “filosofia della
natura” il cattivo non ha
meno possibilità del buono di conseguire
una “propria” felicità, sia pure
nell’abiezione. E ciò perché, in ogni caso,
per ogni essere umano, a qualunque
categoria sociale o morale appartengano,
è possibile una felicità puramente
fisica, esattamente come per gli animali.
E relativamente agli uomini rozzi o
comunque negativi non si può dare che risposta
affermativa alla domanda: «Non
hanno insomma la sola specie di felicità
che sia realmente alla portata dei
loro organi?» Ed allora:
Lo stesso vale per tutti i malvagi. Essi
possono essere felici, se riescono ad essere
cattivi senza rimorsi. Oso dire di
più: chi non nutre alcun rimorso perché vive
in una tale familiarità col
delitto che i vizi sono per lui come virtù,
sarà più felice di un altro che dopo una bella azione
si pentirà di averla fatta e così ne perderà
tutto il valore. [114]
Abbiamo qui uno stravolgimento dei criteri
morali convenzionali di cui
Sade avrebbe potuto fare tesoro, poiché nessun
materialista, anche il più estremo, aveva
mai posto la questione etica in
questi termini. Ma, lo ribadiamo, La Mettrie
non è per nulla un apologeta del
male, è solamente il filosofo-chirurgo che
disseziona la psiche dell’uomo e ne analizza
le funzioni indipendentemente da ogni considerazione
assiologica. Ciò che si
può dire è che egli appare sostanzialmente
indifferente, o meglio scettico,
sulla realtà di valori dei quali la natura
non reca alcuna testimonianza. Ciò non significa che per lui la morale non
abbia loro valore, ma che non glielo riconosce
in termini “naturalistici”; poiché
l’uomo, come si ricorderà, è una macchina,
ed in quanto tale la sua meccanica esige
energia per funzionare ma non valori morali.
14.5 Il problema gnoseologico
Passiamo ora al Discorso
preliminare ai suoi scritti che egli stila nel 1751
in una ristampa di
quell’anno a sua cura. Esso, come ricapitolazione
e sintesi del suo pensiero ha
come premessa::
Mi propongo di provare che la filosofia,
per
quanto contraria sia alla morale che alla
religione, non soltanto non può
distruggere questi due vincoli sociali, come
si crede comunemente, ma non può
fare altro che stringerli sempre più. [115]
Un assunto presente in vari punti della sua
opera che pone una
dicotomia tra la riflessione “privata”, la
filosofia, e il comportamento
“pubblico”, di cui i princìpi morali e religiosi
sono elementi principali. Esso
radicalizza la posizione di Epicuro, il quale
disgiungeva l’esercizio della
filosofia dalla banale quotidianità, sconsigliando
gli impegni pubblici al fine
di poterla coltivare adeguatamente. Ciò che
in Epicuro era opportunità
intellettuale, in La Mettrie diventa principio
teorico, con l’esercizio della
filosofia che si colloca nella nicchia dell’intimità,
lasciando alla superficie
del ruolo pubblico il rispetto e l’osservanza
della morale e della religione.
Il filosofo è, quindi, colui che non vuole
affatto turbare le coscienze dei
suoi simili, ma soltanto proporsi quale analista
della natura. Poco più avanti
l’autore, dopo aver notato che seppure l’uomo,
al pari degli altri animali,
vada soggetto a una sorte biologica ineluttabile,
nondimeno vuol credere
all’esistenza di un essere divino che gli
regalerebbe un’anima immortale. E
rileva:
E allora, dai fastigi di quest’immortalità
gloriosa [quella dell’anima], dall’alto di
questa bella macchina teologica,
scenderete come dall’alto della scena in
questa platea fisica. Qui,
vedendo intorno a voi solo materia eterna
e forme che si succedono e periscono
senza tregua, ammetterete confusi che una
totale distruzione attende tutti i
corpi animati. Finalmente, una volta che
la filosofia abbia completamente
sradicato il tronco costituito dal sistema
dei costumi, tutti gli sforzi
compiuti per conciliare la filosofia con
la morale e la teologia con la ragione
vi parranno frivoli e inefficaci. [116]
Dunque la filosofia è inconciliabile con
la morale e la religione e
tutti gli sforzi di una millenaria tradizione
culturale che persegue la
conciliazione sono inutili e oziosi. E poi
la precisazione di che cosa sia la
filosofia quale ancilla naturae:
La filosofia, alle cui ricerche
tutto è sottomesso, è sottomessa dal canto
suo alla natura come una figlia lo è
a sua madre. […] Tutto ciò che non è attinto
dal seno stesso della natura,
tutto ciò che non è fenomeno, causa, effetto,
in una parola scienza delle cose,
non riguarda per nulla la filosofia, e proviene
da una fonte che le è estranea.
[117]
La filosofia è “figlia” della natura, cioè
della realtà, e tutto ciò
che non attinge ad essa non è tale provenendo
da fonti “estranee” come la
politica e la morale: «Poiché la morale trae
la sua origine dalla politica, come le leggi
e i carnefici, ne segue che essa
non è per nulla opera della natura, né quindi
della filosofia o della ragione,
che sono tutti sinonimi.» [118] Natura,
filosofia e ragione come sinonimi sottesi
alla comune categoria ontologica della
realtà “attiva”. La prima: «materia eterna
e forme che si succedono e periscono
senza tregua»; la seconda: attività cogitativa
e cognitiva sulla prima, la
terza, facoltà-guida per la formulazione
della seconda. Più avanti l’alternativa
natura/fonte estranea viene posta in termini ancor più radicalmente
oppositivi: «Diametralmente opposte fin al
punto di voltarsi le spalle, bisogna
concludere che la filosofia è assolutamente
inconciliabile con la morale, la
religione e la politica, sue trionfanti rivali
in seno alla società, mentre
sono vergognosamente umiliate nella solitudine
dello studio e dinanzi alla
fiaccola della ragione.» [119]
“Trionfanti” nella società, nell’esteriorità
della vita pubblica, la morale, la
religione e la politica, strettamente interconnesse
per La Mettrie, vengono
espunte dalla razionalità meditativa dello
studio, dove opera in solitudine il
filosofo, lontano dai clamori e dalle cogenze
sociali in cui si immergono le
moltitudini.
Si ha qui l’impressione di
trovarci di fronte ad un concetto troppo
elitario di filosofia, ma più avanti
La Mettrie si preoccuperà di attenuarlo.
E tuttavia è indubitabile che questa
“separazione” del filosofare dalla dinamica
sociale ha probabilmente impedito
al Nostro di indagare perché gli uomini siano
spinto nelle mistificatrici braccia
della religione, limitandosi così a stigmatizzare
l’impostura senza cercarne le
vere cause psichiche. Egli intravede però
chiaramente come in realtà gli uomini
“desiderino” essere ingannati, poiché trovano
nella menzogna teologica ciò che
“serve loro” per sentirsi gratificati e lusingati.
È affascinate pensarci figli
privilegiati di un Dio che ci ha infuso un’anima
immortale: «Si fa facilmente
credere agli uomini ciò che essi desiderano;
li si persuade senza fatica di ciò
che lusinga il loro amor proprio. Essi inoltre
erano tanto più facili da
sedurre, in quanto la loro superiorità sugli
altri animali li aveva messi nella
condizione di farsi ingannare.» [120]
Dunque il senso del divino e
la credenza in esso è un’esigenza psichica
primaria, che illude, che lusinga,
che fa “sentir bene”. Ma l’uomo, una volta
appagato sul piano metafisico, diventa
disponibile a farsi asservire dalla politica;
lo scopo di questa, “usare” dei
sudditi, è automaticamente conseguito generando
quell’omologazione,
quell’omogeneità sociale e quelle convenzioni
accettate e condivise che formano
le comunità governate dalla religione in
funzione politica e viceversa. Ma che
rapporto vi è tra una società determinata
dalla politica e una natura che si
offre esclusivamente alla meditazione filosofica
? Nessuno. Da ciò la
presunzione di una pericolosità sociale della
filosofia: «Ma se la filosofia è
contraria alle convenzioni sociali, ai principali
dogmi della religione, agli
stessi costumi, allora essa rompe i legami
che uniscono gli uomini fra loro!
Essa scalza l’edificio della politica dalle
sue fondamenta!» [121]
Conclusione che contraddice platealmente
l’assunto iniziale (ma è solo una
provocazione). La Mettrie aggiunge divertito
relativamente ai moralisti-devoti
spaventati: «Spiriti senza profondità e senza
acume, quale terrore panico vi
sgomenta! […] No, è indubbiamente un errore;
no; la filosofia non rompe, né può
rompere le catene della società.» [122]
La filosofia non può nuocere
alla società, che è pilotata dalla politica,
perché appartiene ad un ambito
totalmente estraneo: «La ragione per cui
due cose in apparenza così contrarie
non si nuocciono tuttavia in alcun modo è
dunque che i loro oggetti non hanno
nulla in comune fra loro, essendo i loro
scopi tanto lontani ed opposti l’un
l’alto quanto l’oriente e l’occidente.» [123] Ma
nello stesso tempo la filosofia non può entrare
in collisione con la politica,
poiché essa non ne ha mai “usurpato i diritti”.
Infatti:
La politica, circondata da tutti i suoi
ministri, va gridando nelle piazze pubbliche,
dai pulpiti, e fin quasi sui
tetti: il corpo è nulla, l’anima è tutto: salvatevi,
mortali, costi quel che
costi. I filosofi sorridono e scrivono pacatamente.
Per apostoli e ministri
hanno solo un piccolo numero di seguaci dolci
e sereni come loro, i quali
possono certo rallegrarsi di aumentare il
loro gregge e di arricchire il loro
campo grazie alla felice acquisizione di
qualche ingegno brillante, ma che, ben
lungi dal volere (come si pensa di solito)
rovesciare tutto, sarebbero
disperati se avessero arrestato anche un
solo momento il gran corso delle cose
civili. [124]
L’asserzione non è convincente e probabilmente
La Mettrie ne è
consapevole. Non può farci credere che la
filosofia non danneggi l’assetto di
una società coesa e pilotata dalla politica
e infarcita di religiosità
opponendosi, anche se solo “teoreticamente”,
ad esse! Ne segue un’altra per
nulla rassicurante per i benpensanti dell’Ancien Régime:
I preti declamano, riscaldano gli spiriti
con
promesse magnifiche, ben degne di gonfiare
un sermone eloquente. Essi provano
tutto ciò che dicono senza darsi la pena
di ragionare; vogliono in ultima
analisi che ci si riferisca a Dio: i loro
fulmini sono sempre pronti a
schiacciare e a ridurre in polvere chiunque
è abbastanza ragionevole da non
voler credere ciecamente a tutto ciò che
rivolta la ragione. Con quanta maggior
saggezza si comportano i filosofi! Il fatto
che non promettono nulla non
implica certo che se la cavino a buon mercato.
Essi pagano in cose sensate e in
solidi ragionamenti ciò che agli altri costa
solo un po’ di polmoni e
un’eloquenza altrettanto vuota e vana quanto
le loro promesse. Ora potrebbe mai
essere pericoloso il ragionamento, esso che
non ha mai creato un entusiasta, né
una setta, e neppure un teologo? [125]
Il Nostro prosegue sul filo di una falsa
ingenuità domandando ancora:
Infine quale funesto dono sarebbe la verità
se non fosse sempre buona da dire? Quale
superflua prerogativa sarebbe la
ragione se fosse fatta per essere subordinata
e messa in cattività? Sostenere
questo sistema significa voler strisciare
per terra e degradare la specie
umana. Credere nell’esistenza di verità che
conviene lasciar eternamente
sepolte in seno alla natura invece che tirarle
fuori alla luce del giorno
significa favorire la superstizione e la
barbarie. [126]
Il “tirar fuori” dal “seno della natura”
le verità che essa racchiude,
cioè la sua realtà, in contrapposizione all’invenzione
di una sovra-realtà
metafisica, fabbricata con chiacchiere basate
su bizantinismi logico-dialettici,
ci pare una buona definizione di che cosa
debba essere la filosofia. E il
Nostro continua a muoversi sul filo della
provocazione affermando: «Io penso
che una società di atei filosofi si manterrebbe
assai bene … » [127],
aggiungendo ironicamente: «Non voglio certo,
dio non voglia, favorire
l’ateismo» passando a teorizzare un comportamento
dicotomico poco credibile:
Quali che siano le mie speculazioni nella
pace del mio studio, il mio comportamento
nel mondo non rassomiglia per nulla
ad esse; a voce non tratto di morale nello
stesso modo in cui ne tratto per
iscritto. A casa mia scrivo ciò che mi sembra
vero; agli altri dico ciò che mi
sembra buono, salutare, utile, vantaggioso.
A casa, in quanto filosofo,
preferisco la verità a tutto; fuori, come
cittadino, preferisco l’errore. Esso
è infatti maggiormente alla portata di tutti;
è il nutrimento generale della
gente, in tutti i tempi e in tutti i luoghi;
che cosa vi è di più degno che
illuminare e guidare questo vile gregge di
imbecilli mortali? [128]
Dopo una frecciata a Cartesio e un’altra,
più violenta, contro Leibniz
e Wolff, si passa ad un’improbabile esortazione
ad utilizzare la filosofia per
il bene pubblico. Dopo di che La Mettrie
chiude il Discorso preliminare con
un lungo elogio al suo benefattore di cui
diamo un assaggio:
Il mio naufragio e tutte le disgrazie che
lo
hanno seguito sono del resto facilmente dimenticabili
in un porto tanto
glorioso quanto degno per un filosofo: vi
bevo a grandi sorsate l’oblio di
tutti i pericoli che ho corso. Impossibile
pentirsi di una colpa così felice
come la mia! [129]
Per un nemico del rimorso, il ricordo di
una colpa filosofica senza
rimorso; anzi felice.
[1] J.O.de La Mettrie, L’uomo macchina, in Opere filosofiche, a cura di S.Moravia, Roma-Bari, Laterza 1992, p.209.
[2] C.Fabro, cit., p.414.
[3] La Mettrie, L’uomo macchina, cit, p.209.
[4] N.Hampson, cit., p.96.
[5] Ibidem.
[6] La Mettrie, cit., p.269.
[7] Ivi, nota 20, p.XVIII.
[8] Ivi, pp.51-57.
[9] Ivi, pp.88-111.
[10] Ivi, pp.88-89.
[11] Ivi, p.89.
[12] Ibidem.
[13] Ivi, pp.123-124.
[14] Ivi, p.162.
[15] J.S.Spink, Il libero pensiero in Francia, Firenze, Vallecchi 1974, p.153.
[16] Ivi pp.134-135.
[17] Ivi, p.135.
[18] Ibidem.
[19] A.Vartanian, Diderot e Descartes, Milano, Feltrinelli 1956, p..201..
[20] La Mettrie, cit., p.178.
[21] Ivi, pp.178-179.
[22] Ivi, pp.179-180.
[23] Ivi, p.181.
[24] Ivi, p.183
[25] Ivi, pp.185-186.
[26] Ivi, p.186.
[27] Ivi, p.187.
[28] Ivi, p.187.
[29] Ivi, pp.193-194.
[30] Ivi, p.195.
[31] Ibidem.
[32] Ivi, p.196
[33] Ibidem.
[34] Ivi, p.197.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem.
[37] Ivi, p.198.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem.
[40] Ivi, p.199.
[41] Ibidem.
[42] Ibidem.
[43] Ivi, p.200.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem.
[46] Ivi, pp.200-201.
[47] Ivi, p.202.
[48] Ivi, p.208.
[49] Ivi, p.209.
[50] Ivi, p.210.
[51] Ibidem.
[52] Ibidem.
[53] Ibidem.
[54] Ivi, p.211.
[55] Ivi, pp.212-213.
[56] Ivi, p.213.
[57] Ibidem.
[58] Ivi, pp.213-214.
[59] Ivi, p.214.
[60] Ivi, pp.214-215
[61] Ivi, pp.216-217.
[62] Ivi, p.217
[63] Ivi, pp.218-219.
[64] Ivi, p.119.
[65] Ibidem.
[66] Ivi, pp.220-221.
[67] Ivi, p.221.
[68] Ivi, p.222.
[69] Ibidem.
[70] Ivi, p.226.
[71] Ivi, pp.226-227.
[72] Ivi, p.227.
[73] Ivi, p.229.
[74] Ivi, p.233.
[75] Ivi, pp.234-235.
[76] J.O.de La Mettrie, L’uomo pianta, in Opere filosofiche, a cura di S.Moravia, Roma-Bari, Laterza 1992, p.240.
[77] Ivi, p.241.
[78] Ivi, p.247.
[79] Ivi, pp.248-249.
[80] Ivi, p.252.
[81] J.O.de La Mettrie, Sistema di Epicuro, in Opere filosofiche, cit, p.260.
[82] J.O.de La Mettrie, Antiseneca, in Opere filosofiche, cit., p.332.
[83] Ivi, p.340.
[84] La Mettrie, Sistema di Epicuro, cit., pp.263-264.
[85] Ivi, p.265.
[86] Ivi, p.266.
[87] Ivi, p.270.
[88] Ivi, p.277.
[89] Ivi, p.277.
[90] Ivi, pp.277-278
[91] Ivi, p.278.
[92] Ibidem.
[93] Ivi, p.279.
[94] J.O.de La Mettrie, Antiseneca, in Opere filosofiche, a cura di S.Moravia, Roma-Bari, Laterza 1992, pp.358-359.
[95] Ivi, p.302.
[96] ivi, pp.302-303.
[97] Ivi, p.303.
[98] Ibidem.
[99] Ivi, p.304.
[100] Ibidem.
[101]
Ibidem.
[102]
Ibidem.
[103]
Ivi, p.305.
[104]
Ibidem.
[105]
Ibidem.
[106]
Ivi, p.306.
[107] Ivi, p.307.
[108] Ivi, p.311.
[109] Ivi, pp.311-312.
[110] Ivi, p.317.
[111] Ivi, p.319.
[112] Ivi, p.320.
[113] Ivi, pp.332-333.
[114] Ivi, p.355.
[115] La Mettrie, Discorso preliminare, in Opere filosofiche, a cura di S.Moravia, Bari-Roma, Laterza 1992, p.3.
[116] Ivi, p.4.
[117] Ivi, pp.4-5
[118] Ivi, p.6.
[119] Ivi, p.7.
[120] Ivi, p.8.
[121] Ivi, p.9.
[122] Ibidem.
[123] Ivi, pp.10-11.
[124] Ivi, pp.11-12.
[125]
Ibidem.
[126]
Ivi, p.13.
[127] Ivi, p.25.
[128] Ivi, p.29.
[129] Ivi, p.46