XI. Verso la rinascita del pensiero ateo

 

 
1.1 Il concetto di “ateismo” nel Settecento

 

    Per comprendere l’articolarsi della dialettica tra i vari tipi di illuminismo prodromico all’ateismo è indispensabile cogliere il significato della parola “ateismo” e dei suoi derivati nell’epoca che stiamo considerando. Va ricordato che sin dal XV secolo le autorità ecclesiastiche cominciano ad utilizzare massivamente lo strumento della scomunica. Esso, istituito dal concilio di Nicea nel 325 ed affinato in quello di Calcedonia del 451, ha il doppio scopo di escludere il peccatore da ogni rapporto con la comunità cristiana e quello di additarlo al pubblico ludibrio. Ma la scomunica, caratterizzata dall’accusa di empietà, può tradursi facilmente nella percezione pubblica come un’accusa di ateismo, per quanto, è il caso di ricordarlo, i due termini non sono corrispondenti. Empietà deriva dal latino im-pietas e sta ad indicare il comportamento incompatibile con la pietas (la devozione), che si può manifestare in vari modi, dal sacrilegio, alla bestemmia, alla profanazione, ma che non corrisponde in ogni caso alla professione di ateismo. Tuttavia è facile comprendere come, per estensione, il concetto di empietà possa diventare criminalità e da questo ateismo in una concezione popolare di irreligiosità generica. Si comprende così, per un verso, l’improprietà di molte accuse di ateismo, e nello stesso tempo l’opportunità strumentale di sanzionare una qualsiasi attività scorretta o sconveniente nei confronti dell’idea di Dio con “ateismo”.

    È grave che molti esegeti dell’ateismo ancor oggi come allora non riescano a porre adeguate distinzioni e cogliere differenze, perpetuando così equivoci forse tollerabili relativamente all’ateismo pratico (comportamentale), ma non all’ateismo teorico (filosofico) pena la sua totale incomprensione e mistificazione.  L’esecrazione di un pensiero anticristiano, ma raramente ateo, mette in moto sin dal secolo precedente una vasta gamma di pubblicistica che coniuga l’apologia della religione con la diffamazione dell’ateismo. Gli atei, per la semplice ragione di negare Dio, vengono accusati di ogni sorta di comportamenti esecrabili e di crimini abominevoli. L’abate Augustin Barruel, gesuita e legittimista fanatico, membro della Società de Jésus e dal 1787 redattore del Journal ecclesiastique, è un grande protagonista di queste campagne. che nel 1798 dava alle stampe les Memoires pour servir a l’histoire du jacobinisme, nel quale, accorpando nel termine di giacobinismo tutte le aberrazioni di fine secolo, tuona contro «i nuovi Vandali» rivoluzionari tra i quali pone Voltaire, Diderot e d’Alembert, «sofisti dell’empietà», complottanti  «contro il Dio del Vangelo»[1]. E lo strenuo difensore del trono e dell’altare precisava anche: «Il velo dell’empietà doveva essere abbastanza trasparente per renderla piccante e abbastanza oscuro per procurare delle scuse e delle scappatoie. Quest’arte era soprattutto propria del volpone sofista d’Alembert. Diderot, più ardito, doveva talora essere abbandonato a tutta la follia della sua empietà.» [2]

 

 

      

 

 

                                                                                        
11.2 Prodromi e moventi dell’ateismo filosofico

 

    Se ci eravamo particolarmente dilungati al capitolo XI nel dar conto degli sviluppi della scienza e specialmente della tecnologia nel Settecento è perché è nei nuovi servizi, nei nuovi congegni e nei nuovi manufatti che la ricerca di base e quella applicata, insieme con i nuovi metodi di costruzione e applicazione di apparecchi e macchine, che muta profondamente la prospettiva antropologica e (ci corre l’obbligo di precisarlo) non sempre in meglio. Intendiamo dire che la tecnologia rende molto più confortevole l’esistenza della maggior parte degli uomini, riducendone la fatica fisica, largamente ridotta grazie all’energia termica e alla trasmissione meccanica del moto, ma pone anche l’umanità sulla strada del “macchinismo”. Una condizione, quella dell’uomo moderno, che vede eccessi i quali, proprio sotto il profilo antropico, producono anche effetti negativi sul corpo e sulla psiche di talune categorie di lavoratori di basso livello sottoposte a ritmi di lavoro disumani con salari infimi. Una situazione che oltre a provocare preoccupazioni e indignazione sfocerà nella riprovazione di molti e in teorie sociologiche e politiche per porvi rimedio. Va però anche aggiunto che il Settecento vede l’invenzione di altri tipi di macchine, estremamente semplici e non nate per “produrre”, come il pallone aerostatico. Quando la mole leggera della macchina volante dei Mongolfier si libra nel cielo di Parigi, il 5 giugno del 1783, non è per chiudere l’uomo tra le quattro mura di un opificio in un lavoro stressante, ma per liberarne la fantasia verso spazi dove ciò che era sino a ieri impossibile si apre al possibile.

    Lasciando agli esperti le analisi antropologiche ci limiteremo qui a dire che il superamento dei limiti del corpo umano e in genere del corpo animale come forza motrice attraverso le leve degli arti muta in qualche modo il rapporto tra l’uomo e il mondo. Ma sono specialmente le macchine mobili che mutano il rapporto dell’uomo con la terra, col mare e con l’aria che hanno un peso rilevante e fanno capire che l’uomo è in grado di superare i limiti del suo corpo attraverso le sue creazioni meccaniche. Da ciò la speranza in un possibile nuovo modo di esistere e di esperire la vita, il suo allontanarsi da schemi di esistenza che prima di ciò che abbiamo chiamato macchinismo erano rimasti immutati nei millenni. Ma anche nuove inquietudini e paure per una perdita della dimensione umana e di valori ritenuti irrinunciabili che riposavano in una tradizione religiosa profondamente radicata nella cultura e nelle singole coscienze, convinta che le cose eccezionali fossero possibili esclusivamente o a Dio stesso o ai santi suoi “delegati”. È probabile che tutto ciò, in qualche misura, contribuisca all’allontanamento di una parte (sia pur modesta) di un’umanità “tecnologizzata” dall’orizzonte teologico in direzione agnostica o persino ateistica. Infatti non solo le nuove scoperte scientifiche aprono il ventaglio delle conoscenze, ma anche alludono ad un superameno di limiti umani ritenuti “fissi” dalla Creazione che mette in mora certe rigidezze della fede al ritmo veloce delle nuove macchine.

    Per sgombrare da subito il campo da numerosi e vischiosi equivoci bisogna comprendere da subito che cos’è l’ateismo e che cos’è l’anti-Cristianesimo. Quando Bayle afferma che «L’ateismo non conduce necessariamente alla corruzione dei costumi » non può pensare a La Mettrie, a Helvétius o a d’Holbach, che alla sua epoca non erano ancora nati, bensì a Spinoza e alla sua teologia panenteistica. Un a teologia definita impropriamente come un “ateismo” dai teologi ebraici e cristiani che vedevano nella sua esegesi della Bibbia e nel suo razionalismo panenteista una troppo pericolosa religione alternativa, soprattutto presso le classi colte. Come riteniamo di aver sufficientemente chiarito a suo tempo [3] Spinoza non è né antiebraico (l’ebraismo è la sua fede di partenza) e né anticristiano, semplicemente egli intende riformare un’interpretazione rozza delle Sacre Scritture che confonde il fine didattico con quello teologico. Questo stato di cose ci fa capire come Mersenne potesse ritenere, nel 1635, che a Parigi ci fossero 50.000 atei, stima che sarebbe certamente eccessiva anche pensando ad un puro ateismo “pratico” [4], ma come all’opposto un feroce anti-ateo come il padre Garasse si preoccupasse di minimizzarne la presenza a non più di cinque, tre dei quali italiani. [5]

    Cassirer, dopo aver rilevato giustamente che il concetto di razionalismo nel materialismo illuministico taglia i ponti col razionalismo metafisico secentesco di Cartesio, di Malebranche e di Spinoza, osserva:

 

Il periodo dell’Illuminismo non trae l’ideale di questo pensiero dalle dottrine filosofiche del passato; ma esso ideale gli si viene formando sul modello e sull’esempio che riscontra nella scienza naturale di quel tempo. Si cerca di risolvere il problema centrale riguardante il metodo della filosofia, anziché mediante il Discours de la Méthode di Cartesio, risalendo alle Regulae philosophandi del Newton e questa risoluzione imprime tosto agli studi una direzione del tutto diversa. Il Newton, infatti, non procede per deduzione, ma per analisi. Egli non comincia dal porre determinati principi, determinati concetti universali, onde procedere di qui, a mano a mano, mediante sillogismi astratti, verso la conoscenza del particolare, dell’”effettivo”; ma il suo pensiero si muove in senso opposto [6]  

                                   

A tale considerazione sul metodo newtoniano, Cassirer ne fa seguire una seconda che lo spiega anche meglio:

 

Un punto di partenza realmente univoco non ce lo può dare l’astrazione o la “definizione” fisica, ma soltanto l’esperienza e l’osservazione. […] Quel che si cerca infatti e che si presuppone come esistenza inviolabile è l’ordine e la perfetta normalità di ciò che è effettivo; […] Non si passa quindi dai concetti e dai principi ai fenomeni, ma viceversa. L’osservazione è il datum; il principio e la norma il quaesitum. Questo nuovo ordine di precedenza metodico ha impresso il suo suggello a tutto il pensiero del secolo XVIII. [7]

 

Per quanto riguarda il nuovo senso illuministico del termine “ragione” Cassirer asserisce:

 

Qui si manifesta ancora una volta un notevole cambiamento di significato subito del concetto ragione rispetto alla concezione del secolo XVII. Per i grandi sistemi metafisici del secolo XVII, per il Descartes e il Malebranche, per lo Spinoza e il Leibniz la ragione è il territorio delle “verità eterne”, di quelle verità che sono comuni allo spirito umano e a quello divino. Ciò che conosciamo e intuiamo in grazia della ragione, lo intuiamo direttamente ”in Dio”: ogni atto della ragione ci conferma la partecipazione all’essenza divina, ci schiude il regno dell’intelligibile, del soprasensibile. Il secolo XVIII dà alla ragione un altro significato, più modesto. Essa non è più un complesso “di idee innate” date prima di ogni esperienza, nelle quali ci si manifesta l’essenza assoluta delle cose. La ragione non è tanto un siffatto possesso quanto piuttosto una data forma di acquisto. Non è l’erario né il tesoro dello spirito, nel quale sia ben custodita la verità, come una moneta coniata; è invece la forza originaria dello spirito, la quale conduce alla scoperta della verità e alla sua determinazione. Quest’atto determinante è il germe e l’indispensabile premessa di ogni vera sicurezza. Tutto il secolo XVIII intende la ragione in questo significato. Esso non la considera un fisso contenuto di cognizioni, di principi, di verità, ma piuttosto come una facoltà, come una forza che si può comprendere pienamente soltanto nel suo esercizio e nella sua esplicazione. Che cosa sia e che cosa possa, non si potrà mai giudicare dai suoi risultati, ma soltanto dalla sua funzione. E la sua funzione più importante sta nella sua capacità di legare e di sciogliere. [8] 

  

Sciogliere e legare i componenti delle credenze attraverso la loro previa scomposizione per poter procedere a una nuova costruzione concettuale: questa la tesi del Cassirer nel definire i criteri metodologici del pensiero illuministico e, aggiungiamo noi, post-metafisico. Su queste basi euristiche la “libido sciendi” che la teologia dogmatica aveva condannato diventa il fondamento del conoscere e del filosofare illuministico.

 

    È interessante rilevare come siano viste da uno storico cattolico come Chaunu le posizioni di Voltaire, di Helvétius e di d’Holbach, che avrebbero considerato Meslier un eroe e un precursore dell’anti-Cristianesimo. Egli vede nel rifiuto della fede in Cristo nient’altro che un’operazione “sostitutiva”, scrivendo: «Il rifiuto della Rivelazione particolare appartiene alla sfera della nuova fede. La violenza dell’attacco alla religione, nella prima metà del XVIII secolo, ha un carattere religioso: poiché le nuove idee si inseriscono nelle strutture mentali ereditate dal cristianesimo mediante un processo di sostituzione.» [9] Nulla da eccepire relativamente a Voltaire, che è tanto anti-ateo quanto fedele di una religione, quella deista, che è a tutti gli effetti sostitutiva del Cristianesimo in quanto sua modificazione in senso razionalistico e panteistico. Per quanto riguarda i due materialisti, invece, la nostra idea è che più che di una sostituzione si tratti di un trasferimento dei principi ontologici dalla religione (teologia cultuale) a una metafisica (teologia filosofale) dove la Necessità impersonale prende il posto della Volontà del Dio personale della Bibbia. Ora, non rilevare le differenze filosofiche tra il deista e i materialisti, accorpandoli, ci pare il segno della superficialità con la quale storici ricchi di prestigio quanto carenti nell’analisi filosofica possano abbandonarsi ad affermazioni sommarie e acritiche il cui solo scopo apre esser quello di confondere le idee in un campo che di confusione soffre troppo e da sempre.

    Ci si può domandare come sia stato possibile (all’infuori di ogni giudizio su di essi) che alcuni uomini del XVIII secolo abbiano potuto avanzare l’ipotesi della non-esistenza di Dio. La domanda non è peregrina, perché è veramente difficile comprendere come in un contesto non diremo uniformemente cristianizzato, il che tutto sommato è irrilevante, ma impregnato di Dio, sia stato possibile da parte di qualcuno negarne l’esistenza. Dalla culla alla tomba l’uomo europeo dal IV secolo in poi ha ricevuto un ferreo imprinting teistico (nella fattispecie cristiano) ed un sistematico lavaggio del cervello da ogni “sporcizia” di incredulità. Helvétius, convinto che sia l’educazione a determinare il modo do pensare, sostiene che «L’arte di formare gli uomini è in tutti i paesi legata così strettamente alla forma di governo, che forse non è possibile cambiare in modo considerevole l’educazione pubblica senza considerare la costituzione stessa degli stati.» Probabilmente la sua tesi è vera solo a metà, ma saranno comunque veramente pochi quelli disposti a seguirlo nel perorare una riforma di sistemi educativi in Francia. E tuttavia, nel ritenere l’educazione elemento fondamentale ai fini della formazione di un individuo in una certa direzione, va sottolineato che proprio lui, che aveva studiato dai Gesuiti, ne appariva come la smentita vivente.

    I Gesuiti hanno dominato l’educazione in Europa e in alcune aree dell’America sino a una data precisa, il 1759, attraverso un sistema di collegi diffuso e capillare, dove l’alta qualità dell’insegnamento era sicura garanzia di ottima formazione culturale. Da tale data in poi e sino allo scioglimento dell’ordine da parte di Clemente XIV, nel 1773, è una catena di passi politici dei loro nemici per determinare la loro espunzione. Tutta politica la loro caduta, iniziata con l’iniziativa del primo ministro portoghese Pombal di espellerli dai territori del regno perché diventati troppo potenti in Paraguay, dove hanno instaurato un sotto-stato teocratico da essi controllato e sottratto all’autorità regia. Per ragioni diverse seguiranno tale strada la Francia nel 1764 (pretesto la bancarotta della loro compagnia commerciale in Martinica), la Spagna, il Regno di Napoli e il Ducato di Parma. La caduta del sistema scolastico gesuita è un evento estremamente importante e pesante, che colpisce gli assetti educativi della maggior parte dell’Europa, ed impone la loro sostituzione nel sistema didattico. Se ne avvantaggiano non impossibili scuole laiche (l’insegnamento laico è possibile solo “in privato”) ma altri ordini religiosi dediti all’insegnamento (come gli Oratoriali). Va precisato però che in generale l’espulsione dei Gesuiti pone seri problemi di riaggiustamento non tanto dei criteri didattici, ma specialmente delle reti e delle strutture educative in moltissime aree e territori prima coperti dall’insegnamento impartito nelle scuole gesuitiche.

    Per delineare da subito l’ambito teorico nel quale si dispiega l’ateismo illuministico converrà cercare di individuare ed enucleare alcuni concetti-guida di carattere gnoseologico e ontologico che sono: A. il meccanicismo; B. il sensismo; C. il determinismo. A questi se ne aggiungono altri di carattere etico tra i quali sicuramente troviamo quello umanistico-solidaristico, quello messianico-rivoluzionario (solo in parte legato al primo) e quello utilitaristico-realistico. A quest’ultimo filone appartiene sicuramente il medico e pensatore inglese (ma di origine francese) Bernard de Mandeville, laureato in medicina a Leida nel 1691 e passato poi in Inghilterra. Mandeville (che però non è ateo ma semmai deista)  pone in maniera dicotomica due modelli sociali alternativi: la piccola società rurale e la grande società metropolitana; la prima, armonica virtuosa e stabile, la seconda, caotica, dispersiva, dispendiosa e dinamica. L’errore che egli imputa a pensatori moralisti ed “armonicisti” come Shaftesbury, memore della lezione spregiudicata di Hobbes,  è di non aver compreso l’inconciliabilità dei due modelli e di teorizzare una società morale ed armonica che è inconciliabile col progresso economico. L’opera nella quale Mandeville espone le sue tesi, pubblicata nel 1714, porta il titolo di La favola delle api, con un lungo sottotitolo: ovvero, vizi privati, pubblici benefici, con saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società. In effetti è proprio la favola-apologo sull’alveare ad introdurre la sua riflessione, che enuncia una metafora della società umana nel suo consistere, strutturarsi, mutare e decidere il proprio destino sulla base dei comportamenti collettivi.

    Per rendere in sintesi il contenuto della favola vera e propria (che precede la parte saggistica), in versi (circa 350) e il cui titolo specifico è L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti, diremo che ci viene presentato un vasto alveare-stato di api che vivono in agi e lussi superflui; potente, rispettato e culla della scienza e dell’industria, è regolato da leggi costituzionali. I versi, suddivisi per sezioni argomentali contrassegnate da lettere, sono ripresi e commentati nel successivo Ricerca sull’origine della virtù morale, dove si spiegano i singoli passaggi bisognosi di esplicazione.  Il benessere generale e il progresso dell’alveare sono il frutto di tanti piccoli abusi e trucchi “individuali” per emergere ed arricchirsi, per quanto lo stato sia fiorente. Rileva il Nostro: «Ogni parte era piena di vizio, ma il tutto era un paradiso.» e «anche il peggiore dell’intera moltitudine faceva qualcosa per il bene comune.» al punto che nell’insieme «come l’armonia nella musica, faceva accordare nel complesso le dissonanze» [10]

    Ma il moralismo, sempre in agguato, indifferente al fatto che il lusso dia lavoro ai poveri, che la vanità aiuti la produzione industriale e che la volubilità renda fiorente il commercio, fa sì che ognuno si lagni dei vizi degli altri (senza curarsi dei propri). Il re, Giove, stufo delle lamentele decide allora di porvi fine ed agisce di conseguenza, sicché la situazione muta e «l’onestà riempie tutti i loro cuori» [11]: le api sono diventate virtuose.  Il provocatorio discorso di Mandeville si articola in modo ingegnoso, ma ciò che colpisce è l’anticonvenzionalità, come nel passaggio in cui la virtù della donna onesta diventa alimentatrice della prostituzione: «Chi potrebbe immaginare che le donne virtuose, senza saperlo, promuovano e avvantaggino prostitute? Oppure (ciò che sembra un paradosso ancora più grande) che l’incontinenza aiuti a difendere la castità?» Infatti il giovane eccitato alla vista delle donne cercherà di soddisfare i propri impulsi con qualcuna di esse, ma se queste sono tutte oneste «rigide e inaccessibili» si vedrà costretto, fatalmente, a rivolgersi ad altre «più compiacenti» [12].  Mandeville esemplifica un genere di moralismo che assume diverse connotazioni nel Settecento e che troveremo anche in Diderot, sia pure in termini non assertivi ma problematici.

    In filosofia il ritorno dell’atomismo coincide con i nuovi orizzonti della scienza. Il successo della nuova ricerca scientifica basata sull’osservazione e sulla sperimentazione, accompagnato dal parziale accantonamento della disastrosa metafisica di Cartesio apre la via ad un ritorno dell’ontologia pluralistica (sia pure “conciliata” col Cristianesimo ad opera di Gassendi), all’ammissione dell’esistenza del vuoto, e ad una migliore elaborazione del concetto di moto. In tal senso il cristianissimo Newton contribuisce in maniera determinante a demetafisicizzare la scienza e a renderla relativamente impermeabile alla religione.  E tuttavia, ancora per buona parte del XVIII secolo il cartesianesimo continua ad imperversare in Francia e a frenare gli sviluppi di una gnoseologia corretta e non inquinata dalla metafisica. Rileva Herbert Butterfield:

 

Generalmente in Inghilterra si sosteneva Newton, mentre i Francesi tendevano a rimanere attaccati a Cartesio: ne derivò una controversia che continuò per buona parte del diciottesimo secolo. Sia Cartesio che Newton furono geometri di prim’ordine; ma la vittoria finale di Newton ha per noi un particolare significato in quanto rivendica il valore dell’alleanza della geometria con il metodo sperimentale contro l’elaborato sistema deduttivo di Cartesio. I puri e relativamente vuoti cieli newtoniani, alla fine, ebbero la meglio sull’universo cartesiano zeppo di materia e agitato da vortici, della cui esistenza le osservazioni scientifiche non avevano fornito alcuna prova. [13]

 

Robert Lenoble evidenzia la contrapposizione tra l’ottimismo e il pessimismo nei pensatori del Seicento che influenzano quelli del Settecento, parlando di “conflitto affettivo” tra differenze puramente metafisiche. La contrapposizione tra i metafisici ritarderà l’avvento degli sperimentatori, quelli che più tardi metteranno in atto le idee rivoluzionarie di Bacone in merito all’indispensabilità della sperimentazione per qualsiasi progresso della conoscenza , dando così un’accelerazione nuova alla vera scienza. Egli rileva:

 

Un volta di più queste differenze metafisiche celano un conflitto affettivo. Cartesio, come Pascal, resta nell’ambito della tradizione platonica: il mondo per l’uomo è un’occasione di pensare, esso non costituisce il reale, il reale lo si ritroverà nel pensiero puro o mediante esso. Per Hobbes, che attribuisce pieno valore al «fenomeno», la mente viene assorbita dalla conoscenza delle cose  materiali le quali in tal modo divengono, si può dire, l’unica realtà. Non c’è più posto per il pensiero puro: «La scienza è in funzione della potenza. Ogni speculazione è stata intrapresa in vista d’una qualche azione od opera da realizzare» [De corpore, I, 6]. A questo punto, quella che basta al nostro intento è un tipo di causalità consistente nel mettere in rapporto due fenomeni, anche se eterogenei, basta che si condizionino e che ponendo l’uno producano l’altro. Un nesso di tal genere Cartesio lo dichiarava inintelligibile: non arrivò a capire come l’immagine retinica possa produrre «idea». Di qui, una volta convinto che tutto deve spiegarsi con una causa che sia anche una ragione, il ricorso a Dio. Questo medesimo nesso costituirà per Hobbes il modello stesso della intelligibilità: l’immagine retinica è seguitata dall’ «idea»; ; è così per che è così. La «causa sconosciuta» per Cartesio è Dio, il quale accorda pensiero ed estensione mediante una ragione; per Hobbes questo medesimo accordo viene considerato come un fatto. Indubbiamente in questa controversia dell’«è così perché Dio l’ha voluto» e dell’«è così perché è così», si riassume sostanzialmente tutto il dibattito tra spiritualismo e materialismo.   La risposta è il risultato d’una riflessione sul pensiero e quindi della metafisica. La scienza positiva, ormai limitata al fenomeno, rifiuterà sempre più di prendere posizione. [14]

 

La scienza positiva, la scienza autentica, comincerà soltanto nel Settecento a darsi delle regole non-metafisiche ed a procedere correttamente al fine di determinare il «funziona così perché non può funzionare altrimenti» in condizioni date come quelle dell’universo esistente, qui ed ora. E ciò perché solo questo “così” è costante, ripetibile, confermabile ed esprimibile matematicamente e discorsivamente.  Il resto è sempre e solo teologia più o meno camuffata.      

 

 

 

 

 

11.3 Pensiero libertino e “ateismo pratico”

 

                                            

    Per entrare in argomento sentiamo che cosa pensa del pensiero libertino un esperto come Sergio Bertelli, il quale afferma:

 

Seguire la storia del movimento libertino è seguire lo scorrere di un fiume carsico che, sgorgando in superficie nell’età di Pomponio Leto, di Pomponazzi, di Machiavelli, si inabissa nelle profondità della terra al tempo della Riforma, del Concilio di Trento, delle guerre di religione, per riemergere alla luce del sole con Spinoza e Bayle, disperdendo poi le sue acque nel grande fiume dell’Illuminismo. [15]  

 

Molto bella e calzante la metafora del fiume sotterraneo. In quanto a Spinoza, lo abbiamo visto in La filosofia e la teologia filosofale, si tratta di un grande riformatore “sistemico” della religione ebraico-cristiana. Bayle è un acuto critico non già della religione bensì del comportamento religioso tradizionale, che è “da  depurare” e non da riformare, ma insieme egli sottopone ad analisi e critica vari modelli eterodossi e nello specifico di quello spinoziano. Va quindi tenuto presente che in entrambi i casi si tratta di pensatori che operano in senso construens, mentre molta parte della letteratura libertina vuol essere destruens, e per fare questo attinge ai due grandi citati come ad altri in modo sempre molto strumentale. Sia Spinoza e sia Bayle offrono peraltro ottima “materia prima” utile ai libertini, i quali, operano perlopiù in clandestinità per salvare la pelle, avendo però “da nascosti” anche la possibilità di dire qualunque cosa e di lanciare qualunque ingiuria. Ma a prevalere è tuttavia l’ispirazione deista, sì che non si è lontani dal vero nel ritenere che quasi tutta la letteratura clandestina del ‘600 e ‘700 muova una critica alla  religione cristiana in nome di quella ragione (e contro la rivelazione) che il deismo britannico aveva assunto a criterio teologico anti-tradizionale.   

    Il pensiero libertino nasce nel500, copre tutto il ‘600 e rifluisce nel ‘700 perdendosi in molti rivoli non tutti irreligiosi; ma il termine “libertinismo” (che fa spesso il paio con quello del tutto improprio di “epicureo”) indica spesso ciò che si può definire “ateismo pratico”. Vale a dire quell’atteggiamento comportamentale che, senza attenersi ad alcun fondamento teorico ateo, dichiara acriticamente che Dio non esiste o pensa ed agisce come se non esistesse. Un’ottima sintesi sul tema dell’ateismo pratico ce la offre Georges Minois, nelle prime quattro parti del suo ottimo Storia dell’ateismo. Il saggio, pubblicato nel 1988, grazie ad una copiosa ricerca documentale, ne delinea un ampio e approfondito scenario, per quanto limitato quasi alla sola Francia, che è però il paese dove il fenomeno culturale del libertinismo ha assunto aspetti più rilevanti. Uno scenario che trova il proprio fondamento nell’atteggiamento dell’“incredulità”, che possiede una propria fenomenologia evolutiva sfociante in due posizioni distinte: l’ateismo pratico, appunto, e quello teorico, ovvero filosofico. Come si sarà compreso il nostro lavoro concerne questo e non quello, per cui il lavoro di Minois, al quale rinviamo, è a nostro avviso (col solo limite geografico accennato) il miglior testo oggi disponibile sulla storia dell’incredulità e sulla dialettica intellettuale ed esistenziale tra l’ateismo teorico e quello pratico. Minois, anzi, fonda la propria ricerca su una sua originale teoria in base alla quale l’incredulità si sarebbe divaricata storicamente in “razionale” ed “irrazionale”, e, filtrata dalla “coscienza mitica”, sfociata in sette “atteggiamenti” (Ateismo pratico, Esoterismo e occultismo, Sette eterodosse e critiche, Grandi religioni ortodosse e dogmatiche, Deismo, Panteismo, Ateismo teorico). In questo schema i due ateismi costituiscono posizioni disgiunte dalle differenti interazioni con gli altri cinque atteggiamenti, tutti caratterizzati dal differente rapporto razionalità/irrazionalità. A seconda del rapporto tra i due si determina, quindi, non tanto la religiosità o l’irreligiosità, quanto la razionalità o l’irrazionalità [16].  Ne consegue uno schema interpretativo dove l’ateismo pratico si pone come atteggiamento fondamentalmente irrazionale e quello teorico, invece, razionale, ma Minois ci precisa che ognuna delle posizioni delineate non sono “impermeabili”, poiché:

 

Nelle mentalità come nell’esperienza dell’uomo i confini tra atteggiamenti diversi sono sempre sottili. Tra l’ateismo teorico puro e il puro panteismo, ad esempio, esistono molte possibilità di fusione e di conciliazione, molte zone ambigue e di collegamento. E, analogamente, dov’è situato precisamente il discrimine tra ateismo pratico ed esoterismo, tra deismo e panteismo? [17]

 

Siamo del tutto d’accordo sul fatto che tra il deismo e il panteismo il confine sia indefinito, ma per nulla sull’accostamento tra ateismo pratico ed esoterismo ed ancora meno sulla «possibilità di fusione»  tra l’ateismo teorico e il panteismo che sono oppositivi e che è gravissimo errore filosofico l’accostarli.

    L’ateismo pratico è “comportamentale” e quello teorico-filosofico “intellettuale”, ed essi sono contigui per quanto molto differenti; ma nessun rapporto esiste tra essi e la religiosità, di cui esoterismo e panteismo sono espressioni diverse ma anche connesse. È semmai l’atteggiamento antireligioso che distingue il pratico dal teorico, poiché il primo è spesso più intollerante nei confronti del religione, e quindi più irrazionale se è anche emotivo ed aggressivo. Il nostro dissenso con  Minois è motivato anche da evidenze storiche inconfutabili, poiché, per limitarci ai casi considerati nel Capitolo VII, è chiaro che sia Voltaire e sia Rousseau, che sono deisti-teisti con forti elementi panteistici, si caratterizzano per il loro determinato e persino violento anti-ateismo che va di pari passo (specialmente nel primo) con l’anti-clericalismo. La nostra impressione è che Minois resti intrappolato nella rete dell’apologetica cristiana e specialmente cattolica, che da sempre considera strumentalmente atei i panteisti, rimanendo così lontano da una lettura storica corretta. In realtà ai due poli della religiosità (e a pari titolo) si collocano il Dio-Volontà monoteista e il Dio-Necessità panteista, né, da un punto di vista filosofico; la teologia panteista è necessariamente anti-monoteista. E ciò è ancora testimoniato dall’evidenza storiografica relativamente a Spinoza, il principe dei panteisti, che teorizza il Dio-Necessità come reinterpretazione del Dio-Volontà e per nulla come sua negazione. [18].   

    Vediamo ora la ragione dell’accostamento da noi fatto tra libertinismo e ateismo pratico. Tra i due avremmo potuto collocare il “comportamento libertino” come ponte. Questo, infatti, ha un rapporto possibile col primo se vi fa riferimento, mentre ha sempre un rapporto diretto col secondo, a cui si sovrappone o col quale si identifica. In francese il termine libertinage è distinto dal generico libertinisme, e tuttavia a questo è più vicina l’espressione libertinage érudit, mentre quella di libertinage des moeurs è tradotto in italiano con l’unica parola libertinaggio, che indica perlopiù i senso spregiativo sregolatezza di costumi od eccesso di libertà sessuale. Si occupa del libertinage sessuale Olivier Blanc nel saggio Parigi libertina al tempo di Luigi XVI, affermando nella Conclusione:

 

Possiamo affermare che, passata l’ondata rigoristica inaugurata, a partire da Versailles, dal regno di Luigi XVI,  i costumi dei parigini continuarono ad evolversi verso la tolleranza e la permissività fino al 1792. Lo spirito del tempo è libertino […] Nel decennio che vide apparire Le relazioni pericolose [di Choderlos de Laclos ]  si parlava schiettamente delle cose d’amore, [19]   

 

    Sia l’ateismo pratico, sia il comportamento libertino (ed ancor più il libertinaggio) non implicano la negazione di Dio, e ciò perché l’esistenza o la non-esistenza di Dio non sono poste né problematizzate. Spesso vi è invece l’enunciazione (più o meno esplicitata) della non-esistenza come assunzione aprioristica, “in base alla quale” viene attuato un certo comportamento. Questo, può estrinsecarsi in un pensare e in un agire “come se” Dio non esistesse, senza che venga affrontato filosoficamente il problema per giungere a una soluzione circa l’ “è” o il “non-è”. L’ateismo pratico, quindi, per un verso si identifica con l’atteggiamento agnostico, e per una altro è ”scelta” o “scommessa” specularmene opposta a quella di Pascal, che scommetteva sull’esistenza di Dio ammettendo di non poterla dimostrare. Ma relativamente ai clamorosi equivoci in cui può cadere un sedicente ateo, citeremo una nostra significativa esperienza di qualche anno fa, allorché facemmo timidamente notare ad un nostro ottuso interlocutore che nel suo modo di pensare non c’era assolutamente nulla di ateo. La risposta stizzita fu:  «Come non sono ateo! Io odio i preti e per di più bestemmio dalla mattina alla sera!».

    Lasciamo ora l’ateismo pratico per entrare nel merito del pensiero libertino, che come abbiamo già rilevato nasce nel Rinascimento. Lo faremo utilizzando ancora come traccia il libro di Minois, a cui assoceremo più avanti altri testi tra i quali il saggio Theophrastus redivivus, Erudizione e ateismo nel Seicento di Tullio Gregory, pubblicato nel 1979. Gregory ha ben visto che il pensiero libertino è eminentemente il frutto erudito di una rilettura della storia della religione cristiana posta in relazione al paganesimo, il che ha come correlato e fondamento indispensabile la “riscoperta dell’antico”. Si tratta di un fenomeno culturale che comincia già nel Tardo Medioevo, ma che ha il suo climax in epoca rinascimentale, perché si cominciano a riscoprire i testi classici greci in lingua originale e li si ritraduce fedelmente. Se si pensa che dal IV secolo gli unici testi pagani non deliberatamente distrutti per blasfemìa erano segretamente custoditi nelle biblioteche monastiche ed a unica disposizione dei monaci per riletture strumentali a fini apologetici, si comprende l’enorme importanza dell’andata in circolazione di tali testi. Per quanto soltanto in pochi casi essi andassero ad alimentare una cultura clandestina anti-cristiana, col passare del tempo (e soprattutto con l’avvento della stampa), divengono di maggior dominio pubblico ed oggetti di nuova ermeneutica. Sono queste reinterpretazioni “laiche” dei classici, specialmente di Epicuro e di Lucrezio, coniugate con le opere di moralisti del passato più recente come Montaigne e Charron, a fornire gli elementi teorici e critici di una letteratura clandestina confluente il larga parte nel pensiero libertino.

    Il termine “libertino”fa la sua comparsa nel Quattrocento, riferito all’empio che si ritiene “libero” dai vincoli della fede; ma è Calvino, che scrivendo nel 1545 il battagliero Contre la secte phantastique et furieuse del libertins qui se nommes spirituels [20], lo fa entrare nel linguaggio corrente, sicché Geoffroy Vallée, mandato al rogo nel 1574 a Parigi, è già considerato un “libertino” a pieno titolo. Ma il riformatore ginevrino ha anche constatato che molto spesso i libertini si rifanno ad Epicuro, ed allora l’epicureismo diventa per lui la vera “peste” dell’intelletto umano, così come nell’ammissione del caso si perpetua il più grave insulto alla Provvidenza. Quali “libertini” (in realtà solo degli increduli) sono poi bollati in Francia Pierre Viret nel 1565, un certo Nancel nel 1583 e Franςois de La Noue nel 1587. L’interessante è che Viret si dichiara anti-ateista e anti-deista, scrivendo nella sua Instruction chréstienne del 1563 che l’ateismo e il deismo sono «due flagelli» dell’epoca [21]. Ma accade anche che i libertini stessi, considerando l’acquiescenza fideistica ortodossa come una debolezza, in virtù della loro scelta di svincolarsi da essa incominciano a ridefinirsi “spiriti forti”. Tale definizione coincide con l’inizio di un’apologetica libertina che avrà fortuna specialmente nel XVIII secolo, tendente a vedere negli esprits forts un’aristocrazia del libero pensare. Nel 1629 l’abate Charles Cotin afferma che tale auto-definizione  trova la propria ragione nel fatto che essi «dichiarano di credere solo a quanto possono vedere e toccare» [22]  Materialisti allora, nonché sensisti ed empiristi, sì che già nel terzo quarto del XVI secolo i libertini, considerati ora potenziali atei, stanno diventando un problema sociale e religioso. Essi vanno presi sul serio e affrontati con decisione. Parte così una feroce “caccia all’ateo”.          

    Poggio Bracciolini (1380-1459) era stato uno dei pensatori a porsi contro il cristianesimo ortodosso, al punto da fargli attribuire persino la stesura della proto-versione del De tribus impostoribus. Nel XV secolo un’Italia già in pieno Rinascimento è percorsa da fermenti culturali giudicati blasfemi, sì da farla ritenere oltr’Alpe piena di covi di neo-paganesimo e di empietà. Gabriel Naudé nota tra l scandalizzato e il compiaciuto: «L’Italia è piena di libertini e di atei, di gente che non crede più a nulla. Il numero di chi non crede più nell’immortalità dell’anima è quasi infinito.» [23] Giudizio sicuramente esagerato; ma nell’anno della morte di Bracciolini un certo Giovino di Solcia è condannato perché colpevole di aver sostenuto che: «Mosè, Cristo e Maometto avevano governato il mondo a loro capriccio.» [24]  Pomponazzi nel Tractatus de immortalitate animae denuncia l’impossibilità razionale di dimostrare l’immortalità dell’anima e ciò in difesa dell’autenticità di un pensiero aristotelico che sarebbe già stato tradito da San Tommaso d’Aquino. Sempre di Pomponazzi escono postume due opere importanti, il De naturalium effectuum admirandorum causis seu de incantationibus nel 1556 e il De fato, de libero arbitrio et de praedestinatione nel 1567, nelle quali viene messo in discussione il concetto di libero arbitrio, ritenuto incompatibile con quello di Provvidenza.  In tale situazione pericolosa nel 1557 la Santa Sede si vede costretta a istituire l’”indice” dei libri proibiti, facendo obbligo tassativo di consegna all’autorità di ogni libro empio in circolazione o giacente nei magazzini di librai e tipografi per la sua pronta distruzione. Il comando è raccolto, e persino nella laica Repubblica di Venezia vi si ottempera subito con la confisca e la distruzione tra il 1562 e il 1569 di 1150 libri, a cui seguono processi a 28 librai non ottemperanti [25].

    Alla poliziesca ”caccia all’ateo” si associa una fiorente apologetica cristiana. Nel 1582 Philippe Duplessis-Mornay aveva pubblicato un libro che già dal titolo, Athéomachie [26], rivela il suo intento; in realtà egli confonde l’ateismo con deismo panteismo e libertinismo, cosa frequente all’epoca. L’anno prima, con il De la verité de la religione chrestienne contre les athées, épicuriens, païens, juifs, mahumedistes et autres infidèles Duplessis-Mornay aveva già impostato la sua azione, ma facendo distinzioni che l’anno dopo ne l’Athéomachie ritiene superflue sotto l’impellenza del pericolo [27].  Nel 1593 appare il libro di Pierre Charron (1541-1603) Les Trois Verité, che è contro gli atei e i deisti, ma dove si riconosce che per essere veri atei ci vuole una certa forza d’animo. Nel successivo De la Sagesse egli afferma che la natura è maestra di onestà e di saggezza, concludendo: «Chi agisce secondo essa, agisce veramente secondo Dio.» [28] Opinione bastante per far passare Charron per un filo-libertino in una situazione confusa che aveva già accomunato nell’ambiguità e nel sospetto altri noti personaggi come Rabelais, Cardano, Dolet e Serveto; gli ultimi due poi finiti sul rogo. Étienne Dolet, un agnostico, a Parigi nel 1546 per aver dubitato dell’immortalità dell’anima, e Miguel Serveto, l’ingenuo teologo riformatore, a Ginevra nel 1553, per le sue aperture panteiste. Ma è verso la metà del500 che cominciano a fare la loro comparsa vere e proprie opere anti-cristiane come il Cymbalum mundi ed il De tribus impostoribus, che esamineremo più avanti. I Gesuiti sono ovviamente in prima linea nella caccia all’ateo, ma non meno nell’esaltazione della fede attraverso una serie copiosa di pubblicazioni distribuite sistematicamente attraverso i numerosi canali d’informazione di cui sono detentori.

    Il pericolo non si ferma e Jean Bodin (1530-1603), dopo aver scritto la Démonomanie des sorciers in cui sostiene che il Diavolo impone alla sua vittima «di rinunciare a Dio, alla sua fede e alla sua religione» [29], rivolge la sua attenzione ai libertini nella République: una «esecrabile setta di ateisti […] dal che consegue un’infinità di omicidi, di parricidi e di venefici.» [30] E tuttavia, col più tardo Colloquium heptaplomeres, composto intorno al 1590, egli scrive un’opera interlocutoria che i libertini stessi apprezzano. In essa sette sapienti, tra i quali un deista e un agnostico, discutono liberamente di Gesù Cristo e di altre verità di fede come la Resurrezione, la Trinità e lo Spirito Santo. Ma l’ondata empia incombe e Mersenne nel 1623 ne è ossessionato, sognando, come abbiamo già visto, i cinquantamila atei di Parigi. Cotin nota nel 1629: «Non si parla ormai d’altro che di questi libertini.» [31] percependone la psicosi montante. Un certo Monsignor Grillet, rileva inorridito:

 

A sangue freddo, con intenzione e per volontà deliberata di apparire, senz’altro scopo, nemici di Dio e di ogni religione, si dichiarano pubblicamente empi e perversi, e si gloriano del fatto che si creda che Nostro Signore Gesù Cristo sia per loro oggetto di odio,di scherno e di disprezzo. [32]  

 

Evidente atteggiamento psicotico. Ma se si pensa che Grillet fa riferimento alla corte e all’alta società, è possibile che in quel mondo un certo “ateismo pratico” e molto libertinage conti qualche adepto e che sul piano teorico vi siano tendenziali panteisti o deisti. Nel 1630 il padre francescano Jean Boucher afferma: 

 

Non vi capiterà di vedere al giorno d’oggi un solo uomo raffinato che non vi travolga ogni volta di “Perché?”. Perché Dio ha imposto leggi al mondo? Perché la lussuria è proibita? Perché Dio si è incarnato? […] Ecco gli spiriti colti del nostro tempo, i quali pretendono che Dio dia loro conto dei propri atti. Questi libertini epicurei sono ormai sulle soglie dell’ateismo. [33]   

 

Porsi e porre domande sulla fede è per ciò stesso essere « sulle soglie dell’ateismo », ma il libertinismo pare essere fenomeno d’élite e proprio per questo particolarmente preoccupante. Un certo Derodon tenta una classificazione degli empi in: atei “raffinati” (i ragionatori), atei “dissoluti” (i lussuriosi) e atei “ignoranti” (i bestemmiatori). Il gesuita Caussin vede gli “empi dichiarati”, i “neutrali irresoluti” e i “crapuloni”. Charron invece li considera sotto il profilo motivazionale: vi è il presuntuoso, lo sfiduciato, il determinista, il dissoluto [34]   

    Tutta quest’attenzione al libertinismo non sta a significare che il fenomeno sia rilevante dal punto di vista quantitativo, ma che il “significato” del suo esistere è grave per la fede. Un’ordinanza del 1636 prescrive maggior repressione; tra il 1600 e il 1650 nella sola Parigi vengono messe a morte per empietà almeno 40 persone. Gli scritti contro questo supposto ateismo montante si moltiplicano e quando nel 1624 appare il libello libertino Antibigot ou les Quatrains du déiste immediatamente Mersenne si mette all’opera e scrive il monumentale Impieté des deistes, athées et libertins du temps nel quale riformula anche le prove dell’esistenza di Dio. Appare però significativo o che il maggior oggetto di condanna non sia un fantasticato ateismo (che in realtà non esiste) bensì la “reale” teologia di Bruno, della quale viene contestato il monismo spiritualista e il concetto di Dio-Infinità-Immanenza come inducenti all’ateismo. È il gesuita Franςois Garasse il grande esecratore dei libertini, che nel 1623 licenzia una corposa opera di mille pagine contro di essi, La Doctrine curieuse des beaux esprits de ce temps, proprio nei giorni in cui è condannato al rogo il poeta Théophile de Viau, accusato di essere l’autore di un irridente Parnasse satyrique. Garasse spiega la ragione del suo impegno contro i libertini: «Dovendo constatare che taluni ateisti, con il pretesto di un’apparente raffinata cultura combattono la religione come scherani o luogotenenti di Satana, non ho potuto fare a meno di schierarmi.». Ma poi dichiara di essere in realtà “contro tutti i non-cattolici”: «Con la parola libertino io non intendo riferirmi né agli ugonotti, né agli atei, né agli eretici, né tantomeno ai politiques, ma ad un insieme di tutte queste tendenze.» [35]

    Secondo Garasse i libertini sono una «maledetta confraternita delle bottiglie » dediti alla crapula ad ogni vizio,  «apprendisti atei» e derisori del sacro:

 

Io chiamo empi e ateisti quanti sono dotati della malvagità più spiccata; quelli che hanno l’impudenza di pronunciare terribili bestemmie contro Dio […] quelli che fanno di Parigi una nuova Gomorra, quelli che danno alle stampe il Parnasse satyrique; quelli che traggono tale sciagurato vantaggio dal proprio modo snaturato di vivere, che non oserebbero rifiutare neppure una piccola parte, per paura di svelare i propri vizi e far arrossire addirittura la bianchezza della carta. [36]

 

Secondo il Nostro vi sono vari gradi di empietà, ammettendo anche che i libertini non sono tutti atei, e tuttavia schiavi di presunzione e vizio:

 

[…] ma specificamente contro i libertini, tanto perché essi compongono la grande setta di quelli che chiamo pretesi sapienti, quanto perché, non essendo ancora del tutto atei, potrebbe esservi qualche speranza di convertirli, scopo che ho imposto alla mia coscienza con sforzo, ma mi sarà grato se potrò giovare loro. [37]

 

Il padre gesuita tenta anche di definire in otto punti il pensiero libertino: 1. La presunzione di essere i soli sapienti; 2. Riconoscere Dio solo per opportunità sociale; 3. Credere che la religione sia un imbroglio per la plebe; 4. Il mondo è governato dal Caso; 5. La Bibbia è un bel libro, ma non si può costringere a crederlo in ogni sua parte; 6. L’unica divinità è la Natura; 7. Ammesso Dio, non significa che esistano anche angeli e demoni; 8. Per vivere felici non si debbono avere scrupoli; però si deve fingere per non scandalizzare gli animi semplici [38]. Ne emerge un quadro di sostanziale ambiguità dell’atteggiano libertino e che contraddice altre affermazioni del nostro sì che ne vien fuori che i libertini sono o panteisti oppure deisti, poiché affermano:

 

Dio è la natura, essi dicono, e la natura è Dio […] Questo Dio naturale o questa natura divinizzata ama tutto l’universo, secondo quanto è detto anche nella Genesi […] Questa natura, nostra guida benigna, ci ha concepiti nient’altro che per farci godere dei suoi tesori e dei frutti della sua bontà. [39]   

 

Nulla di ateo, quindi, in tale posizione, ma Garasse è anche convinto che il naturalismo costituisca la strada maestra all’ateismo. Egli, da buon gesuita, è infatti contro la scienza, e siccome nel Seicento incomincia a nascere un genuino interesse per lo studio della natura, esso, in quanto “scienza” e non “teologia”,  è estremamente pericoloso per la fede. Pare dunque che il pio padre accomuni due sue esecrazioni: quella per il libertinismo vizioso e quella per il naturalismo scientifico.

    Data un’esemplificazione delle posizioni anti-libertine occupiamoci ora di ciò che passa per pensiero libertino. Partiamo da Franςois de La Mothe Le Vayer (1588-1672), un giurista che si è dedicato a studi pedagogici, politici e morali, la cui posizione è quella di uno scetticismo integrale di tipo pirroniano. Relativamente alla religione egli afferma:

 

Tutto ciò che apprendiamo degli dèi e delle religioni non è altro che quanto gli uomini più sagaci hanno concepito di più ragionevole nei loro discorsi in relazione alla vita morale, economica e civile, col fine di spiegare i fenomeni dei costumi, delle azioni e dei pensieri dei poveri mortali, per dar loro alcune regole di vita per quanto possibile esenti da una completa assurdità. [40] 

 

Basta evitare « una completa assurdità » e la credenza viene accettata, condivisa, riconosciuta, e, soprattutto, funziona bene. Un’interpretazione politica, quindi, della nascita delle religioni (posizione che vedremo essere il nocciolo del Theophrastus redivivus) e perciò anche come opportunistico e furbesco instrumentum regni. E poi una nota  significativa:

 

Gli atei eludono nondimeno tutti questi argomenti [teologici] di cui sostengono nessuno sia probante cosa per loro semplicissima alla luce delle regole di una logica rigorosa, sicché, riflettendo in piena libertà su tale tema, ritengono che le meraviglie della natura, le eclissi degli astri, i sommovimenti della terra, lo scoppio e i fulmini, e altri simili fenomeni, abbiano introdotto nel nostro animo l’originaria sensazione dell’esistenza della divinità. [41] 

 

È anche la tesi di Vico (che però la riferisce solo al paganesimo) ed è alla base dell’analisi dell’etno-antropologo Raffaele Pettazzoni, che nelle temibili “punizioni” meteoriche vede la nascita della credenza nel celeste Essere Supremo [42].  La Mothe Le Vayer è uomo colto, è interessato al naturalismo e conosce la storia della filosofia, ma soprattutto è uno spirito libero e indipendente che pensa con la sua testa. Contro la persuasione che Dio abbia fatto il mondo per l’uomo, obietta: «come forse i gatti sono persuasi che Dio ha creato i topi per ingrassarli.» [43] Alla domanda che cosa ne pensi del pensiero di Aristotele risponde sicuro: «Perché rinunciare al nostro franco arbitrio e assoggettarsi alla tirannia di chicchessia?» [44] In questa breve risposta sta il meglio del “libero pensare” in risposta alle cogenze delle tradizionali auctoritates e dei tirannici dogmi della metafisica. Gli fa eco Gabriel Naudé (1600-1653), il quale ritiene che la cultura debba nascere dalla riflessione individuale, per cui l’uomo colto deve fare in modo da « trarre profitto da tutto ciò che vuole » [45] senza far riferimento a nessuno, e in tale spirito di libertà interpretativa tenta di delineare una biblioteca ideale per gli uomini del suo tempo che intendono pensare liberi da ogni pregiudizio. Ma è ancora La Mothe a porsi il problema dell’immortalità dell’anima, e qui le auctoritates cristiane contano, per quanto il Nostro, riconoscendo che essa “va creduta per fede” rileva in riferimento all’autorità di San Paolo: «Ecco i precetti apostolici, i quali ci fanno vedere che la nostra Religione non è fondata su sillogismi né su principi filosofici; e dobbiamo sottolineare con buone ragioni che il Regno dei Cieli è promesso ai poveri di spirito.» [46] Atto di fede o asserzione carica di sottintesi? In un dialogo nel De la Divinité La Mothe mette in bocca ad Oronte:

 

Poiché se è vero che non vi è nulla di certo e che tutte le scienze sono vane e chimeriche, ne conseguirà che la nostra Santa Teologia, che è la scienza delle cose divine, sarà fantastica e illusoria come le altre; un’empietà da cui vi ritengo così lontano che sono certo che voi possiate evitare ogni dubbio. [47]

 

Ma il suo interlocutore Orasius, poco convinto che la teologia sia una scienza, ribatte:

 

I più santi dottori convengono in questo, che essa non è una vera scienza, poiché richiederebbe principi chiari ed evidenti, per noi comprensibili, mentre essa assume quasi tutte le scienze dei misteri della nostra fede, che è un vero dono di Dio, e che sorpassa completamente la portata dello spirito umano […] nella nostra teologia noi consentiamo a tali princìpi divini per il solo comando della nostra volontà, che si rende obbediente a Dio, a cose che ne vede e né comprende in ciò consistendo il merito della fede cristiana. [48]   

 

Quasi apologetico il trono, ma, ancora una volta, col sottinteso che la fede cieca rende merito ma mortifica la conoscenza. In ogni caso, prosegue Orasius: «è meglio essere superstizioso piuttosto che empio o ateo. », per quanto: « Bacone dica che l’ateismo lasci all’uomo l’uso dei sensi, la filosofia, la pietà naturale, le leggi, la reputazione e tutto ciò che è di guida alla virtù; mentre la superstizione distrugge tutto e si erige a tirannia assoluta » [49] Un colpo al cerchio e uno alla botte; un dire e non dire  per “far intendere a chi vuole intendere”.  È questo l’unico modo possibile a metà del Seicento di tentare una  forma pubblica di libero pensiero; il di più è possibile solo nell’anonimato e nella clandestinità.

    Savinien Cyrano di Bergerac (1619-1655) è noto per essere il focoso innamorato dal naso enorme immortalato da Edmond Rostand; in realtà fu un letterato tanto fecondo quanto disordinato che nella sua breve vita, ma specialmente coi suoi iscritti, dà però modo di essere visto come un libertino. I suoi lavori sono numerosi e in qualche caso di buon livello e La morte d’Agrippine è una tragedia che va in scena nel 1654 dove si allude a dèi creati dalla fantasia dell’uomo, lasciando probabilmente intendere, per estensione, che sia sempre l’umano a creare il divino. Si ascoltino due versi incriminati: «Questi dèi che l’uomo ha fatto / e che non hanno fatto per nulla l’uomo.» [50] Era ateo? Probabilmente solo agnostico, il limite massimo dell’irreligiosità dell’epoca. John Stevenson Spink, che ne ha studiata a fondo l’opera si limita a dire: «Non c’è traccia di sentimenti religiosi nella sua opera; non sostituisce al cristianesimo la religione della natura » [51]. Quel che pare certo è che Cyrano non crede nell’immortalità dell’anima, facendo dire a un personaggio de La morte di Agrippina:

 

Poiché si è vivi finché si esiste, e si è morti quando non si è più niente, perché sciupare miseramente il lume avuto in sorte, che non si può rimpiangere, quando si sia perduto? Potrò essere infelice quando non sarò più? Un’ora appena dopo la morte, l’anima nostra dissolta sarà quel che era un’ora prima di vivere. [52] 

 

Cyrano pare qui un propugnatore di quel carpe diem che anche i libertini posteriori faranno proprio e che sarà alla base di molto libertinage del XVIII secolo, poiché l’essenza del libertinaggio sta proprio nel cogliere ogni occasione di piacere che la vita possa offrire. Un principio esistenziale attribuito erroneamente attribuito a Epicuro (essendo semmai tipico dei Cirenaici) e acuito dagli stessi libertini che si dichiarano epicurei, avvalorando ulteriormente la leggenda di un epicureismo godereccio .

    È in ogni caso la fisica cosmologica atomistica, e non tale edonismo epicureistico, a presentarsi come l’imputato principale dell’irreligiosità e della miscredenza, sicché l’ordine dei Gesuiti la condanna duramente e ripetutamente (nel 1641, nel 1643 e nel 1649). Ma un grande nemico dell’atomismo è anche Ralph Cudworth (1617-1688), un teologo di ispirazione platonica di Cambridge, che della lotta al materialismo fa la sua guerra personale. Egli scrive un The True Intellectual System of the Universe col fine precipuo di combattere sì l’atomismo ma di lasciare la porta aperta a un auto-divenire della natura attraverso la “plasticità” che il Creatore le ha lasciato, una tesi che porta dritto al vitalismo e che sarà seguita da Nehemia Grew (Cosmologia sacra, 1701)  e da numerosi altri. Cudworth pone in 14 punti i possibili argomenti ateistici e li demolisce con cura. L’atomismo epicureo è quindi il fantasma anti-provvidenzialistico che inquieta i teologi di ogni indirizzo, e l’indeterminismo cosmico di cui è teorizzatore al momento fa assai più paura del determinismo democriteo, al quale famosi atei del XVIII secolo. Ma all’origine del libertinismo stanno comunque Epicuro e Lucrezio, le cui opere possono ora diffondesi col sempre minor costo della carta da stampa. Secondo il già citato Spink il fatto che la maggior parte dei Libertini assuma l’atomismo epicureo come filosofia di riferimento dipende dal fatto che la visione pluralistica ed indeterministica di esso offriva maggiori spunti allo spirito libertario e antiautoritario, prestandosi quindi meglio ad una concezione ugualitaria, plurale e più libera da pregiudizi. Ma va anche notato che l’etica edonistica epicurea si accorda col diffuso desiderio di “vivere meglio” in ogni senso, compreso quello di migliorare la propria situazione economica per accedere a quelle opportunità e a quei conforts che nuova tecnologia e le nuove manifatture incominciano ad offrire a prezzi accessibili. Importante rilevare (con Carlo Borghero) che l’epicureismo non mette solo in discussione la morale cristiana, ma «aveva fornito i materiali per la costruzione di una morale colta, capace di sostituire i dettami faticosi della rigida morale eroica di derivazione stoica con un più tranquillo godimento della vita.» [53] 

    Nel 1646 il poeta Jean-François Sarasin (1615-1654), un seguace di Gassendi che si firmava Saint-Evremond, aveva scritto nel suo Discours de morale sur Épicure che Epicuro era stato: «Un filosofo assai saggio, il quale, secondo i tempi e le occasioni, prediligeva la voluttà in riposo o quella in movimento.» [54] Un’interpretazione errata dell’epicureismo, che associa il piacere “statico” epicureo (come aponìa e atarassia) con quello “dinamico” dei Cirenaici, propugnatori di una tendenziale “ricerca del piacere[55]. Interpretazione non nuova ma derivante dalla “leggenda” della peccaminosità epicurea messa in circolazione dai Padri della Chiesa nei primi secoli del Cristianesimo, che rimarrà viva nel Settecento e oltre. Essa,peraltro faceva comodo sia agli estimatori di Epicuro e sia i suoi detrattori: ai primi giustificando quella ricerca del piacere in ogni direzione e l’“ateismo pratico” che ad essa si conforma, ai secondi perché permette la stigmatizzazione della loro viziosità. In realtà Sarasin non è propugnatore di un edonismo spinto e incondizionato, ma piuttosto di una conciliazione tra la ragionevole ricerca del piacere in funzione della socialità e della prodigalità a spese e danno degli avari, quale risarcimento collettivo per la loro abiezione anti-sociale ed egoistica.

    Se la letteratura clandestina ha in Epicuro uno dei suoi referenti ve ne sono anche numerosi altri e lo vedremo esaminandone qualche opera più da vicino. Essa è infatti vasta e polimorfa né tutta libertina in senso stretto; quasi mai atea. Alcuni studiosi hanno esperito una ricerca difficile e faticosa e tra questi vogliamo citare Gianluca Mori, che in un sito web universitario ha messo a disposizione sin dal 1998 oltre venti di tali testi [56]. Le opere clandestine, per quanto spesso definite “atee” dai teologi, lo ribadiamo, non lo sono quasi e nella Francia del XVIII secolo prevale invece un ricco filone di letteratura clandestina ispirata al deismo britannico e allo spinozismo. Un gruppo di nobili intellettuali come Charles de Saint-Evremond (1614-1703), Henry de Boulanvillliers (1658-1697), Jean-Baptiste d’Argens (1704-1771) e i fratelli Levesque (Jean-Louis de Pully e Jean de Burigny), anche perché protetti dalla loro condizione di aristocratici, riescono a dar luogo, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, ad una corrente letteraria che costituirà una delle basi importanti per gli sviluppi dell’anticristianesimo.

    Ci soffermeremo ora sulle due opere libertine più note e citate: il Theophrastus redivivus, libro ponderoso in latino, e un piccolo libro in francese perlopiù noto come Traité des trois Imposteurs, ma che si presenta in più versioni e con altri titoli. Il Theophrastus redivivus è probabilmente il più famoso testo della letteratura libertina, risalente al 1659, anche in virtù della sua notevole mole (l’edizione critica a cura di Guido Canziani e Gianni Paganini conta circa mille pagine di testo). L’opera è presente in alcune copie manoscritte, la più nota e utilizzata delle quali è quella scoperta dallo Spink nella Bibliotèque Nationale di Parigini nel 1937 (fonds latin 9324) Si tratta in realtà di una sorta di Pozzo di San Patrizio abbastanza composito da cui hanno pescato nel Settecento molti anticlericali e molti sedicenti atei che hanno fatti propri i suoi equivoci contenuti. Esso mette insieme citazioni dei più noti pensatori antichi insieme con alcuni cinquecenteschi (Machiavelli, Pomponazzi, Campanella, Cardano, Bodin e Vanini) per costruire un’opera che ne strumentalizza il pensiero in maniera arbitraria con fini smaccatamente strumentali. Un lavoro sincretico che assembla posizioni e affermazioni differenti e le incanala a sostegno di sei tesi principali che trovano sviluppo nei sei trattati più un proemio che formano l’opera. Il primo (Qui est de diis) tratta del concetto della divinità contestandone la spiritualità, il secondo (Qui est de mundo) afferma che il cosmo non ha potuto essere creato essendo eterno, il terzo (Qui est de religione) vede la religione come una creazione politica a fini di potere, il quarto (Qui est de anima et de inferis) nega l’immortalità dell’anima e l’esistenza dell’Inferno, il quinto (Qui est de contemnenda morte) indica come restare indifferenti di fronte alla morte, il sesto (Qui est de vita secundum naturam) espone la prospettiva naturalistica in cui si colloca l’autore.

    L’Anonimo del Theophrastus è persona molto colta che mette in campo tutte le sue conoscenze sul pensiero antico e recente manipolandone i contenuti a seconda di ciò che intende sostenere. La tesi di fondo di tutta l’opera è comunque che lo spirito non esiste e che tutto è materia in termini desunti probabilmente da Hobbes. Ma fin dal primo trattato sorgono seri dubbi sulla consistenza di tale posizione materialistica. Anche una studiosa seria come Hélene Ostrowiecki [57] nel suo Le jeu de l’athéisme dans le Theophrastus redivivus la nega, dimostrando con un’analisi della struttura dialogica dell’opera che l’autore utilizza gli argomenti di un pensiero cristiano rivoltato ma attraverso modi di pensare che restano tipici della teologia cristiana. Afferma tra l’altro la Ostrowiecki: «[Il Theophrastus] mette in scena l’ateismo contro la religione ufficiale, ma un ateismo troppo dipendente dal pensiero che  rinnega per essere preso sul serio » [58], e ancora: «A modo proprio, insomma, il Theophrastus testimonia al contempo l’impossibilità di crede in Dio e di non credervi, nell’intento di rappresentare la miseria della condizione umana.» [59]  Si tratta quindi di null’altro che un ennesimo tentativo di “rifondare” una religione ritenuta insoddisfacente e da riformare in senso naturalistico e panteistico. La Ostrowiecki afferma l’opera pare essere, appunto: « un tentativo di rifondazione del credo religioso, rifondazione che richiederebbe come premessa il bando il bando delle credenze esistenti.» [60]

    Fatte queste prime considerazioni passiamo all’analisi che ne fa Tullio Gregory nel suo Theophrastus redivivus. Erudizione e ateismo del Seicento, che segue passo passo i sei trattati nel loro sviluppo concettuale. Sin dall’inizio viene posta l’opposizione tra ciò che è religione e ciò che sarebbe filosofia, ma l’autore non ha idee e conoscenze approssimative ed assume in maniera aprioristica che filosofi antichi come Platone e Aristotele simulassero la religiosità sotto l’incredulità. Ma egli va oltre supponendo che quelli che qualifica come “filosofi”, per il fatto stesso di essere tali, in quanto pensanti secondo “ragione” e non secondo “credenza”, siano tout court tutti materialisti e atei. La “ragione naturale” che egli evoca, « che dice sempre il vero», dipende dai sensi e dall’esperienza diretta del mondo [61] ed in tale anche Platone, come principe dei sapientes, viene fatto diventare un pensatore ateo e materialista il cui scopo primario sarebbe stato di «non provocare l’ira del popolo e dei governanti » memore  del funesto destino toccato al suo maestro “ateo” (sic!) Socrate [62]. Da che cosa l’Anonimo trae tale conclusione? Semplicemente dall’accusa di Meleto che «proverebbe» l’ateismo di Socrate. Si comprende bene come con tali premesse il Nostro prosegua sulla sua strada ad libitum dimostrando, a suo modo, l’ateismo di chiunque sia non-cristiano o critico del Cristianesimo. La stessa ”miticità” del discorso platonico avrebbe avuto il solo scopo di dissimulare il suo vero pensiero, un’idea che egli riprende dal Pomponazzi. Ma mentre questi  riferisce la sua tesi “forma” del discorso platonico, l’Anonimo del Theophrastus ne fa una questione di contenuto.

    Questo modo di procedere scopertamente aprioristico e acritico rende l’attacco alla religione cristiana assai maldestro, al punto che il Cristianesimo ne trae vantaggio anziché danno,anche perché all’anonimo preme solo dimostrare che il potere religioso è frutto primario di quello politico, una tesi antropologicamente inconsistente. È la prassi politica che secondo lui “crea” la religione come istrumentum regni al fine di soggiogare le menti degli ignoranti e controllarne la volontà. In tale prospettiva del “tutto è politica” vengono tirate in ballo le opinioni utili, da Montaigne a Machiavelli, ed anche Platone avrebbe confezionato i suoi dialoghi per pilotare l’opinione pubblica in una certa direzione. Ne deriva la tesi di una sostanziale “duplicità” [63] di tutti i pensatori che egli assume a”padri nobili” e che cita a piene mani in maniera molto libera. Anche la legge e la morale, derivazioni dirette o correlati della religione, diventano mere costruzioni artificiali imposte o indotte a scopo di controllo e dominio del suddito [64]. Ne consegue che il “filosofo”, a qualsiasi epoca appartenga, è sempre uno che ha dei «pensieri segreti » che bisogna intuire; in effetti ciò che l’Anonimo fa è manipolare o stravolgere i contenuti dei testi originali in contenuti “utili” in funzione della sua tesi raccogliendo elementi testuali spesso incoerenti ed assemblandoli strumentalmente per giungere a interpretazioni arbitrarie.

    La più volte ribadita opposizione di credere e di intelligere che percorre l’opera è viziata dall’opposizione strumentale di fede e ragione quali atteggiamenti inconciliabili. Errore interpretativo capitale di tutti gli pseudo-ateismi velleitari, basati su una lettura superficiale e strumentale che tende a creare una dicotomia inesistente. La fede e la ragione (intesa come logica deduttiva) possono benissimo coniugarsi, così come un ateismo puramente emotivo o ideologico può coniugarsi con l’irrazionalità. Nei confronti della Lettera ad Erodoto di Epicuro egli la interpreta in maniera opposta a quanto fa Gassendi (che ne opera una “teologizzazione”) ma non coglie né il senso ontologico né quello etico dell’atomismo epicureo, utilizzandolo solo a conferma della tesi circa la possibilità dell’ateismo ovunque ci sia materialismo. Il Nostro ritiene anchei che esistano popoli “naturalmente” atei (una vecchia leggenda dell’anti-religione) e che l’idea di Dio non solo è fuori della realtà, ma determina un figmentum (un’immagine creata ad arte) che assume i connotati di una realtà misteriosa e inconoscibile fabbricata da chi vuole dominare per ingannare gli ingenui e asservirli ai propri voleri [65].  Malgrado la discreta raffinatezza del procedere ragionatorio, basato su buoni strumenti dialettici, ciò che emerge sono perlopiù tesi un rozze, ma non mancano sprazzi interessanti. Tra questi, a latere del vedere la nascita delle religioni nel culto degli astri, l’aver colto acutamente che sono i fatti meteorici, quali premi o punizioni divini, a far collocare la divinità nel cielo, in quanto dal cielo dipende la ricchezza o la povertà di uomini dediti all’agricoltura e alla pastorizia [66].  Secondo  l‘Anonimo è quindi la paura il solo movente della religione, ed è proprio di questa paura che hanno approfittato i politici in tutte le culture per inventare esistenze divine, istituire dottrine e alimentare fedi.

    Gli dèi istituiti dalle religioni sono quindi “figli delle leggi” create sin dalle origine a fini di dominio, sfruttando la paura degli uomini di perdere i frutti del loro lavoro o di vederli invece aumentare con la benevolenza divina [67]. I legislatori sono pertanto i veri creatori delle fedi, che una volta istituite e inculcate nelle coscienze assumono il carattere di un consuetudo che si fissa [68]. In altre parole, l’abitudine a credere finisce per rendere reale e concreto ciò che si crede, e questa è sicuramente un’altra grande intuizione del nostro, che si fa qui acuto indagatore della psiche umana. Il magma di superstizioni e miti, una volta creduti, si prestano poi a perfezionamenti sino a poter assumere persino raffinati concetti filosofici a loro sostegno. Ci vuole pertanto una rilettura della storia, nella consapevolezza dello sfruttamento delle fragilità della psiche umana, per poter realizzare una correzione di rotta  nell’organizzazione sociale [69]. Il fatto che una credenza diffusa e quasi unanime determini una largo consensus gentium non significa nulla poiché, sostiene il Nostro, vi sono sempre stati dei non-credenti che facendo buon uso della propria ragione sono riusciti a sottrarsi alle catene di esso [70]. Tesi del tutto condivisibile, ma non il corollario secondo cui tutti i “filosofi” apparterrebbero alla categoria dei non-credenti.

    Il Nostro intende negare la Provvidenza come agente esterno ordinatore, poiché l’ordine la natura ce l’ha “di suo” da sempre e quindi senza bisogno che glielo si conferisca [71]. Siamo qui ad un panteismo materialistico che per un verso è vicino allo stoicismo, ma per un altro se ne allontana cassando la Provvidenza. La ratio della mente umana opera nella ratio cosmica generale e questa è fonte di una scientia del reale che come cognitio certa et evidens nega alla radice ogni sedicente scientia de diis. Una posizione che parrebbe epicurea, ma senza che la fisica di Epicuro venga tematizzata nel suo sostanziale indeterminismo [72]. Nel Tractatus secundum, che ha per tema il cosmo, ci troviamo infatti di fronte ad una ripresa della cosmologia del Timeo platonico in opposizione alla Genesi biblica (invece spesso conciliate dagli apologeti platonici del primo Cristianesimo) poiché «Moses igitur deliravisse dicetur» [73] e il suo delirio profetico si oppone alla ragione platonica. L’Anonimo passa poi ad una puntuale critica dell’antropocentrismo mosaico, generatore delle tre grandi religioni monoteiste, per confutarlo e contestare il «preteso primato dell’uomo sul creato». Si tratta  sicuramente di una delle posizioni più condivisibili assunte dal Nostro nei confronti di quell’antropocentrismo che pervade tutta la cultura occidentale (e non solo religiosa). C’è poi la tematizzazione dei limiti umani come diversi ma non inferiori a quelli degli altri animali [74], con un’allusione a ciò che il Teofrasto “segreto” di un testo perduto avrebbe potuto sostenere; lui, il più grande naturalista del mondo antico.

    Per l’autore del Theophrastus l’unica tesi cosmologica razionale deve basarsi sull’eternità del mondo, sull’esistenza della sola materia come costituente e sulla negazione di qualsiasi esistenza di tipo spirituale o immateriale [75]. Un correlato importante è che, come parafrasa Gregory: «non è la religione che trae origine dall’esistenza degli dei ma, al contrario, gli dei traggono origine dalla religione, cioè da quel complesso di credenze e di atti cultuali attraverso i quali si è venuta costituendo la credenza negli dei »  [76] La religione è quindi una realtà umana legata alla storia e trova in essa le ragioni del suo esistere e del suo connotarsi in artes e leges del potere elaborate dai legislatores sacerdotali  [77]. La costituzione della casta sacerdotale è il momento della saldatura dei poteri in quel blocco politico-teocratico tipico degli stati cristiani, dove il re viene “consacrato” dal clero. La fenomenologia religiosa ha origini politiche “attive” e risvolti psichici “passivi” sostanzialmente simili in tutte le parti del pianeta e in tutti i tempi, sicché solo la cassazione della credenza nei miracoli e nelle profezie quali elementi extra-naturali può costituire il punto di partenza per una visione del mondo naturalistica e materialistica. Solo su tale base si può eliminare la credenza nel miracoli e in qualunque altro presunto prodigio contro-natura, poiché vi è una sufficientia [78] della spiegazione naturalistica che è propria di tutto ciò che concerne un corretto sapere filosofico a-teologico.

    Un correlato del superamento della cieca credenza è il riconoscimento della libertà di coscienza, e quindi del “libero pensiero”, a cui si connette il principio della tolleranza e il riconoscimento di legittimità civile per ogni opinione religiosa differente o non-religiosa [79] Su questa base la religione può diventare un vero strumento di promozione civile e non di dominio sociale, in quanto conformata su esigenze educative di convivenza civile [80] . Emerge qui ancora l’adesione a tesi di quei moralisti (Montaigne, Machiavelli, Charron, ecc.) che riconoscono l’utilità di una religione purgata dall’intolleranza, sì da funzionare (com’era nel mondo romano) da “collante civile” della comunità. Quindi, il Nostro, che rivela qui come altrove un atteggiamento agnostico piuttosto che ateo,  non intende affatto eliminare la religione ma “piegarla” alle esigenze del convivere umano facendone un’ ”opportunità” sociale. Atteggiamento tipicamente aristocratico di chi pensa che il volgo “abbia bisogno della religione” e che quindi bisogna lasciargliela, ma nel contempo che essa debba diventare ancilla della razionalità e del buon uso della sua influenza sulla psiche degli umili. Una religione ad uso del vulgus e gestita dai sapientes che sappia stare “al suo posto” e non pretenda di ergersi a potere  [81].

    L’ipotesi di una «repubblica di atei» è respinta decisamene dal Nostro, poiché «ogni organizzazione politica ha come suo fondamento una mitologia religiosa » [82]. Siccome gli homines sapientes sono pochi e gli homines vulgares una moltitudine tale situazione è «caratteristica essenziale ed ineliminabile » dell’aggregazione sociale stessa [83]. Si vede bene l’abisso concettuale che separa, come vedremo, un vero ateo come Jean Meslier dall’Anonimo del Theophrastus redivivus, il quale non auspica una rivoluzione sociale, ma semplicemente la ”messa in riga” della religione. E ciò secondo un tipico conservatorismo aristocratico anti-teologico che mal tollera il “potere-sulle-anime” solo quando pretende di diventare anche “potere-sui-corpi”. Solo una recta ratio che non si lasci condizionare da alcuna concessione all’instinctus ha diritto di condurre gli uomini e rendere possibile il conseguimento della felicità [84]. Fine irraggiungibile se prevale lo sconvolgimento dell’« ordine naturale » con la pretesa di instaurare l’«ordine divino » [85] Siamo al punto cruciale di tutta l’argomentazione dell’autore del Theophrastus e nel contempo alla tangenza col panteismo, poiché di questo vengono assunti l’eternità del cosmo, la sua identificazione con la ratio e il suo ordo-necessitas.

    Passiamo ora ad occuparci del Traité des Trois Imposteurs del 1706. Dell’opera vi sono numerose versioni: una nota anche come De Tribus Impostoribus (del 1709) che si vorrebbe riedizione di opera molto più antica [86] e che è nota in una prima versione francese sotto il titolo di L’Esprit de Spinosa del 1712 e in una seconda col titolo di Traité des trois Imposteurs risalente al 1716 [87]. Un cosiddetto “trattato bis” porta il titolo di Le Traités des Trois Imposteurs, un “trattato terLa vie & l’Esprit de M.B. de Spinosa (manoscritto del 1716, a stampa nel 1719), ed un quarto Le Fameux Livres des trois Imposteurs apparso nello stesso anno. Come si vede è nel 1716 che “esplode” l’interesse per “i tre impostori”, che sono Mosè, Gesù Cristo e Maometto. Esclusa una supposta proto-stesura medievale dell’opera, essa avrebbe il prototipo in un sconosciuto secentesco trattato in latino andato perduto. Una recente scrupolosa analisi storica è stata fatta da Franςoise Charles-Dubert in un saggio dal titolo Les Traités des Trois Imposteurs, dove vengono ripercorse le sue complicate e alterne vicende. Del Trattato dei tre impostori, come titolo dominante, la Charles-Dubert fornisce una compiuta tabulazione, dove vengono evidenziate consonanze e dissonanze tra le varie versioni e tra le diverse comparse o edizioni [88]. Quale in generale il contenuto dell’opera pur nella complessità delle varianti?  Ecco i temi principali: Dio, la ragione, la religione, l’anima e il Demonio.

    Seguiremo la buona traduzione italiana del Traités des Trois Imposteurs del 1716, offertaci sul web da: http://www.alateus.it. Il Capitolo Primo è introdotto dalla seguente considerazione: «Non bisogna quindi stupirsi se il mondo è pieno di opinioni vane e ridicole; e non c’è nulla di meglio, per sostenerle, che l’ignoranza.» Questa, dunque, la causa delle credenze religiose in Dio, nell’Anima e negli Spiriti. Anche qui, come avevamo visto nel Theophrastus, è l’”abitudine” alla fede che la rafforza e la rende solida, ed «È troppo importante, per questi impostori, che il popolo resti ignorante » e si è così costretti «a dissimulare la verità o a sacrificare se stessi alla rabbia dei falsi sapienti e delle anime basse ed interessate». Anime basse che sono evidentemente i preti, i quali perpetuano l’impostura dei fondatori delle religioni. L’anonimo autore introduce poi il concetto di «buon senso», che ritroveremo più volte nell’opera quale antidoto razionalistico all’impostura, e non è improbabile che d’Holbach vi abbia fatto riferimento nel suo famoso saggio Il buon senso di cui tratteremo al Capitolo XVI. Relativamente alle profezie, il Nostro rileva che il sognare è cosa naturale, fisiologica, e che pertanto è «sfacciato» sostenere che Dio possa parlare all’uomo per mezzo di esso, poiché significa approfittare di una credulità ottusa.

    Chi, come Gesù Cristo, ha approfittato della credulità degli ingenui «non riuscì a sfuggire a giusto castigo che meritava », L’impostura, la malafede, diventano per l’autore del Traités des Trois Imposteurs una colpa gravissima e degna della condanna capitale. Gesù, contrariamente a Mosè e Maometto, è incorso nella giusta pena perché «non aveva un’armata al seguito», mentre gli altri due grandi impostori l’hanno fatta franca perché erano anche condottieri di eserciti. Il Secondo Capitolo ha per argomento «Le ragioni che hanno indotto gli uomini ad immaginarsi un Essere invisibile che si chiama comunemente Dio». Vediamone per esteso il § 1:

 

Quelli che non conoscono i princìpi della fisica hanno una paura naturale che deriva loro dall’inquietudine e dal dubbio di chi sono, se esiste un Essere o una forza che ha il potere di danneggiarli o di favorirli. Da ciò la tendenza che essi hanno a pensare a delle cause invisibili, che non sono che fantasmi della loro immaginazione e che essi invocano nei periodi avversi e lodano nei periodi di prosperità.

 

Ci troviamo di fronte al consueto riferimento alla paura come movente primo dell’ipostasi del divino nei monoteismi. È in base ad essa che si passa ad immaginare l’ira o la benevolenza di un entità trascendente “non-visibile”, sicché la punizione o la benevolenza di essa diventano reali nella misura in cui nella vita il negativo e il positivo accadono realmente e si avvicendano. Ed allora quali fantasmi dell’immaginazione:

 

Essi, alla fine, diventano degli Dei, e questa paura chimerica delle potenze invisibili è la fonte delle religioni che ciascuno definisce a suo modo. Coloro a cui importava che il popolo fosse represso e controllato con simili fantasticherie, hanno coltivato questo seme religioso, ne hanno fatto una legge e infine hanno costretto il popolo, con il terrore del futuro ad obbedire ciecamente.

 

A prima vista pare di trovarci di fronte alla stessa posizione espressa nel Theophrastus, in realtà vi è una differenze importante sotto il profilo antropologico. Là la religione è vista come inventata a priori dai legislatores quale instrumentum regni, instillando poi la paura nel credente. Qui è l’uomo che constata la propria fragilità, e avendo paura per la propria vita e per i propri beni immagina quel qualcuno e finisce per crederci. È solo a questo punto, e quindi a posteriori, che i politici utilizzano “opportunisticamente” la credenza a loro vantaggio.

    Ed è proprio dall’aver creato con la fantasia un Invisibile che si arrabbia o è contento di noi, che premia e punisce come fanno i sovrani, che nasce l’idea che tale Invisibile sia “simile a noi”:

 

§ 2. Avendo quindi scoperto la matrice degli dei, gli uomini hanno creduto che fossero simili a loro e che facessero, come gli stessi uomini, qualsiasi cosa per conseguire determinati scopi. Così essi credono, unanimemente, che Dio non abbia fatto nulla che non fosse per l’uomo e, reciprocamente, che l’uomo è fatto solo per Dio.

 

Considerazione non banale, poiché se l’uomo è fatto sì da Dio ma anche «per Dio», ciò significa che in qualche modo “Dio ha bisogno dell’uomo” e tra l’uomo reale e il Dio immaginario si crea un legame indissolubile. Questo “assume” realtà in base alla realtà di quello e l’uomo, che è reale ma non può vivere senza immaginare Dio, rende questo reale a se stesso nella misura in cui gli “diventa” necessario. La mente dell’uomo che ha fantasticato l’esistenza di Dio ne fa un tutt’uno con la propria esistenza non riuscendo più a farne a meno.

    L’antropomorfizzazione della divinità ha anche un’altra diretta conseguenza per gli uomini, quella di considerarsi creature privilegiate, ed allora: «essi hanno concluso che tutto ciò che esiste in natura è stato fatto per loro e quindi ne possono godere e disporre ». L’arroganza umana sull’ambiente e sugli altri esseri viventi ha quest’origine teologica che radicalizza la “disponibilità” del mondo a lasciarsi usare dall’uomo senza limiti. Egli ha il solo dovere di ubbidire alla legge di Dio, ma non di rispettare “altro” non citato espressamente dalla Sua legge: da ciò la convinzione che l’unico essere vivente la cui vita sia “sacra” è l’homo sapiens. Ma siccome l’uomo vive per dei fini anche Dio opera con dei fini essi caratterizzano la credenza nel divino, mentre la natura “è” e “ci fa’essere” senza fine alcuno. Così l’Anonimo del Traité pone la natura come l’entità reale di riferimento da contrapporre all’entità fantasticata di Dio: « Non c’è bisogno di lunghi discorsi per dimostrare che la natura non si propone alcun fine e che tutte le cause finali non sono che invenzioni umane ». Nota il Nostro che se una pietra si stacca da un edificio a causa del vento e ammazza una persona i credenti si affanneranno a domandarsi perché l’uomo sia passato di lì a quell’ora e che cosa può aver fatto per ricevere la pietra in testa: «Essi vi porranno così un’infinità di domande bizzarre per risalire, di causa in causa, a farvi ammettere che solo la volontà di Dio, che è i rifugio degli ignoranti, è la causa prima della caduta di quella pietra.»

    L’anonimo autore del Traités des Trois Imposteurs, che al § 6 pareva tendere all’indeterminismo si ravvede presto al § IX sentenziando: «Per tappare la bocca a quelli che chiedono perché Dio non abbia creato tutti gli uomini buoni e felici è sufficiente dire che tutto è, necessariamente, ciò che è, in quanto nella natura non c’è niente di imperfetto, perché tutto deriva dalla necessarietà delle cose stesse.» Uno spinozista dunque? Sì, ma….:

 

§ 10. Se si domanda che cos’è Dio, io rispondo che questa parola ci rappresenta l’Essere Universale dal quale, per parlare come San Paolo, noi riceviamo la vita, il moto e l’essere. Questa definizione non ha nulla che sia indegno di Dio, perché se tutto è in Dio, tutto proviene necessariamente dalla sua essenza e bisogna, assolutamente, che egli sia della stessa natura di ciò che contiene, poiché è incomprensibile che degli esseri totalmente materiali siano mantenuti e contenuti in un essere che materiale non è. 

 

Perfettamente spinozista nel « tutto è in Dio » ma non nella concezione degli uomini come esseri «totalmente materiali », il che farebbe di nuovo pensare alla teologia stoica. Ma il Nostro sa anche  bene che cosa pensasse il “cristiano materialista” Tertulliano: «uno degli uomini più saggi che i cristiani abbiano avuto, ha dichiarato, contro Apelle, che ciò che non è corpo non è nulla, e, contro Praxeas, che ogni sostanza è corpo.» Ma decisamente deista è quest’altra affermazione del § XI: «Gli ebrei e i cristiani amano di più consultare questo testo indecifrabile [la Bibbia] piuttosto che ascoltare la legge naturale che Dio, vale a dire la Natura (in quanto essa è il principio di tutte le cose) ha scritto nel cuore degli uomini.» Espressione, quella dello « scritto nel cuore degli uomini », tipicamente cristiana, sì da far pensar a un cristiano che scrive contro il Cristianesimo per superarlo in senso panteistico.

    Nel Capitolo III l’attenzione si rivolge ai ministri della religione, dei quali si dice al § 5: «Gli onori e i grandi redditi che sono stati attribuiti al sacerdozio, o ai ministri degli dei, hanno lusingato  l’ambizione e l’avarizia di questi uomini astuti che hanno saputo approfittare della stupidità delle loro genti ». E veniamo ora agli “impostori” con alcuni cenni sintetici. Di Mosè (§ 10): «Per quanto furbo, avrebbe avuto qualche difficoltà a farsi obbedire, se non avesse avuto la forza. La furberia senza le armi difficilmente riesce ». E ancora: «È stato con precauzioni di tal genere [di accortezza politica], e minacciando sempre della collera divina i suoi critici, che egli regnò come un despota assoluto.» In quanto a Gesù (dal §12 al 21) il Nostro analizza più punti dei Vangeli rilevando le sottigliezze delle sue risposte e l’abilità argomentale, aggiungendo: «Gesù Cristo, più abile dei profeti mosaici, per screditare in anticipo quelli che si sarebbero levati contro di lui, predisse che un tale profeta [l’Anticristo] sarebbe stato un grande nemico di Dio, il favorito dei demoni, la somma di tutti i vizi e la desolazione del mondo.» Ciò che sorprende è che al § 17 il Nostro afferma che alcuni luoghi della Bibbia sono rielaborazioni di miti della Grecia classica e al § 18 che Gesù avrebbe tratto da Platone «le più belle massime». In quanto a Maometto (§ 22 e 23) se ne mettono in rilievo l’ignoranza e l’indecisione, ma nel contempo la fortuna. Nel Capitolo V è affrontato il tema dell’anima e qui l’Anonimo conclude con evidente riferimento alla Disquisitio metaphysica di Gassendi: «Quando [Cartesio] ci dice che l’anima è una sostanza che pensa, non ci dice nulla di nuovo. Ognuno ne conviene, ma la difficoltà sta nel determinare che cosa sia questa sostanza che pensa, e ciò egli non fa più degli altri.»

    Intorno al 1710 nasce un’altra opera clandestina voluminosa, nota con due titoli: uno più raro (Difficoltà sulla religione, proposte al padre Malebranche) e uno più frequente: Il militare filosofo. È con questo titolo che una versione molto rimaneggiata vede la luce nel 1768 a cura di Jaques-André Naigeon (1738-1810) [89]. In esso viene posto un netto discrimine tra la religione “naturale” e quelle “fittizie”, identificate con le cosiddette “rivelate”. Le prime tre parti dell’opera sono dedicate ad un esame critico del contenuto di queste, mentre l’ultima espone una teologia alternativa basata “sui lumi” e di indirizzo deistico. Atteggiamento simile è quello contenuto ne Il cielo aperto a tutti gli uomini (attribuito al canonico Pierre Cùppé), che sviluppa un’apologia della tolleranza religiosa insieme a una critica alla dottrina giansenista della Grazia. In esso Gesù Cristo viene rappresentato come un simbolico Nuovo Adamo allusivo di una rigenerazione morale del genere umano. Prima del 1730 Jean Levesque de Burigny aveva elaborato un Esame critico degli apologeti della religione cristiana, ricco di citazioni testuali e riferimenti dottrinali, ponendo seriamente in dubbio l’attendibilità delle sacre Scritture e delle loro interpretazioni. Un modello letterario che sarà seguito da una serie di saggi con titoli del tipo: Esame della religione, Analisi del Cristianesimo, Esame critico del Nuovo Testamento, Dubbi sulla fede [90], che saranno per decenni un’intollerabile spina nel fianco dei teologi cristiani. 

    Un ultimo cenno lo riserviamo all’Examen de la religion, un testo di ispirazione deista che appare una prima volta intorno al 1745 e una seconda nel 1761. Vediamone qualche passo: «Le prove della religione debbono essere chiare, dato che possediamo una ragione la quale, derivando da Dio non può essere cattiva.» [91]  Si tratta di un’affermazione di puro buon senso, e che tuttavia i difensori della rivelazione hanno sempre respinto, in nome di una fede che pretende la credenza e non la comprensione. L’anonimo precisa: 

 

Noi disponiamo soltanto di due vie per conoscere la volontà divina: la ragione e la rivelazione. Ma perché mai la ragione è presente più o meno in tutti gli uomini, mentre ve ne sono tanti che ignorano la rivelazione, e così pochi che ne siano stati testimoni? Ciò avviene perché effettivamente c’è una ragione, mentre non c’è mai stata una  rivelazione. [92]

 

Affermazione che equivale ad una pesante accusa di impostura e di falso sulla base di un ragionamento logico indefettibile nei seguenti passaggi: 1. Dio ci ha dato la ragione; 2. ce l’ha data per usarla; 3. ogni uomo usa la ragione; 4. solo qualcuno crede nella rivelazione; 5. essa, in quanto non-universale, e contraria alla ragione, è falsa. Una religione “vera” non può appoggiarsi sul falso e le religioni monoteiste che si basano sulla Bibbia lo fanno, poiché: «Le cose sciocche e ridicole di cui è piena la Scrittura mostrano chiaramente che essa è opera degli uomini.» [93] Aggiunge il Nostro almeno due elementi dirimenti per un concetto post-cristiano di Dio:

 

1°. Dio è infinitamente al disopra dell’immaginazione degli uomini, i quali sono sue creature. È quindi assurdo affermare che Dio ricompensa gli uomini in cielo per far risplendere la propria bontà e che li punisce nell’inferno per far risplendere la propria giustizia […]

2°. È questo essere supremo e infinito che chiamiamo Dio. Egli ci ha dato come guida la ragione, che si ritrova in tutti gli uomini; finché la seguiremo senza prevenzione, non potremo mai sbagliare. La provvidenza divina non può aver agito in altra maniera […] [94]

 

 

 

 11.4 Il materialismo teologico di John Toland

 

    Toland è sicuramente uno dei più interessanti pensatori dell’inizio del XVIII secolo e la sua originalità consiste nell’aver operato una personalissima sintesi di elementi della filosofia antica,  delle metafisiche del ‘600, del razionalismo lockiano e delle tendenze vitalistiche contemporanee. Il lui ritroviamo il panta rei di Eraclito, i semi di Anassagora e il logos di Zenone di Cizio relativamente all’antichità; la pseudo-fisica del cosmo pieno di Cartesio, la necessità e l’uno-tutto di Spinoza, la gnoseologia di Locke e il metodo critico di Bayle, il vitalismo di scienziati come William Coward (un allievo di Francis Glisson [95]) e Nicholas Hartsoeker (noto preformistaanimalculista[96]).  In ogni caso, ciò che emerge chiaramente, e nel momento in cui il newtonismo si va affermando, è la sua negazione dell’esistenza del vuoto ed insieme della teoria atomica. Su questa via egli elabora una sorta di cartesianesimo riformato e radicalizzato dove Dio (la res cogitans “suprema”), rimane come agente “esterno” all’universo”, ma la res cogitans “umana” viene riassorbita nella totalità “dinamica ed autocreativa” della materia. Se la teologia cartesiana aveva dualizzato l’essere in pensiero movente-attivo ed estensione ferma-inerte, per Toland questa diventaautomovente” (quindi “in evoluzione“ rispetto alla Creazione).

    John Toland nasce nell’Irlanda del Nord nel 1670 in una famiglia modesta, studia a Redcastel ed è probabilmente qui che il suo vero nome di battesimo (il gaelico Sean Owen) viene anglicizzato. Già a sedici anni abbandona il cattolicesimo per il protestantesimo e nel 1688 all’università di Glasgow si mette in vista per la sua vis anti-papista. Passato a Edimburgo si laurea Magister Artium nel 1690. Acquista fama di libero pensatore e insieme a scritti minori prepara il Christianity not mysterious che ha  due edizioni nel solo 1996, una prima anonima e una seconda a suo nome suscitando reazioni furibonde e la condanna. Lasciata l’Irlanda inizia a difendersi con An Apology for Mr. Toland e poi con A defense of Mr. Toland, ma nel contempo confermando il suo ruolo di spregiudicato e ribelle freethinker anti-sistema. Legandosi al partito Whig in opposizione a quello Tory assume sempre più rilevanti atteggiamenti politici e pubblica il giornale Anglia libera in  favore della successione dei protestanti Hannover al trono d’Inghilterra. In veste di politico attivo entra in contatto con la corte di Berlino dove incontra la benevolenza di Sofia Carlotta di Prussia (la Serena  dedicataria delle Lettere). Nel 1698 acquista ad un’asta i Dialoghi Italiani di Giordano Bruno; ne rimane profondamente colpito e incomincia pensare a una propria teologia panteista. Le Lettere a Serena vedono la luce nel 1704 e il suo atteggiamento antinewtoniano (specialmente nella V) determina la replica filo-newtoniana di Samuel Clarke. Con il Socinianism truly Stated, pubblicato nel 1705, egli conia l’aggettivo “panteista” per definire il proprio atteggiamento teologico. Nel biennio 1708-1709 compie viaggi a Vienna e a Praga, in Germania e Olanda. Qui, ad Amsterdam, scopre quel Vangelo di Barnaba che gli ispira la composizione del corposo Nazarenus. Quest’opera è pubblicata nel 1718 e due anni dopo appaiono il Tetradymus e il Pantheisticon, l’opera più notevole della maturità. Abbandonato da amici e protettori e ridotto in miseria dal fallimento della Compagnia dei Mari del Sud, in cui Toland aveva investito i suoi risparmi, muore a Londra nel marzo 1722.  

    Partendo dalla gnoseologia di Locke e dal suo adombrato “socinianesimoToland lo porta alle estreme conseguenze anti-trinitarie, sì che il vescovo di Worcester, Stillingfleet (Vindication of the Trinity, 1696), potrà colpire Locke attraverso Toland, associandoli come miscredenti e deisti. L’estremismo del Nostro, la sua mancanza di tatto e la sua vis polemica lo pongono presto nella posizione difficile di indesiderato-emarginato, e dopo la condanna del Christianity not mysterious     Molyneux scrive a Locke l’11 settembre 1697: 

 

T [oland] è stato infine cacciato dal nostro regno; il povero gentiluomo, con la sua condotta imprudente, ha sollevato un’indignazione così universale, che era persino pericoloso per chiunque esser stato visto in conversazione con lui. Sicché tutti coloro che hanno tatto e reputazione hanno rifiutato di vederlo, fino al punto che, mancandogli il pranzo (mi è stato detto) nessuno voleva ammetterlo alla propria tavola. Il poco danaro che aveva portato con sé in questo paese era terminato […] e infine, a conclusione delle sue avversità, il parlamento ha colpito il suo libro, condannandolo al rogo per mano del boia, e ordinando che l’autore sia preso in custodia dal bargello e processato dal tribunale. Dopo di che è fuggito da questo regno, e nessuno sa dove si sia diretto. [97]    

 

La testimonianza di Molyneux evidenzia la posizione di vagabondo in cui il Nostro viene a trovarsi sin dalle prime battute della sua carriera intellettuale e la sua assimilazione alla deietta categoria dei pericolosi freethinkers. In realtà Toland, così com’era stato Spinoza, è soltanto un teologo che intende riformare la fede in senso razionalistico, spogliandola di ogni elemento di superstizione.  

    Toland approda a Berlino e incontra Leibniz nell’ottobre del 1701, lasciandogli la negativa impressione di un uomo poco accorto, troppo libero nel linguaggio, troppo grossolano e ingenuo nel suo comportamento  a corte. Scrive a Burnet il 27 febbraio 1702: «Egli ha molto spirito, né manca di erudizione, ma i suoi sentimenti vanno troppo lontano […] Si ha l’impressione che sia stato inviato qui da qualcuno interessato a capire come si governa qui. Non so se farà una relazione pubblica del suo viaggio, come ha detto di voler fare, ma dovrà farlo con molta circospezione […] Molte persone hanno invitato l’Elettrice a guardarsi dal signor Toland […].» [98] Forse tra le «molte persone » vi era lo stesso Leibniz che trovava disdicevole l’interesse e la confidenza che la principessa accordava al malaccorto straniero. I due uomini hanno comunque l’occasione di confrontarsi epistolarmente su questioni gnoseologiche ed ontologiche, con un Leibniz che manifesta il suo dissenso e obbietta a Toland: «Le leggi della forza dipendono da certe ragioni meravigliose della metafisica o dalle nozioni intelligibili, senza che le possano spiegare le sole ragioni materiali o quelle della matematica, o quelle appartenenti alla giurisdizione dell’immaginazione.» [99] Questi ribatte: «È grazie al corpo e alle cose corporee che l’anima è ciò che è, che pensa ciò che pensa e che fa ciò che fa.» [100] Due posizioni inconciliabili, almeno su questo punto, che faranno scrivere a Leibniz con una certa sufficienza: «Gli dissi, tra l’altro, che vi sono altre nozioni del moto, ma lui evitò rientrare nel discorso, evidentemente perché non è sufficientemente al corrente di tali dottrine. […] Ciò mi fa pensare che quasi si disinteressi della verità e che voglia soltanto distinguersi alla ricerca della novità e della singolarità.» [101] Una conclusione malevola che spiega l’interruzione del rapporto.

    Inquadrato il personaggio vediamo qualcosa dell’opera con cui hanno inizio i suoi guai e la sua avventura intellettuale: Il Cristianesimo senza misteri. Già alla sua prima apparizione il contenuto del libro appare inaccettabile e nel 1796 l’opera è condannata dal Grand Jury del Middlesex come blasfema. L’anno dopo una commissione della Chiesa Anglicana Irlandese manda il libro al rogo e decreta per l’autore il processo per eresia. Allora Toland lascia precipitosamente l’Irlanda senza un soldo (non ci metterà più piede) e si rifugia a Londra, dove però le autorità ecclesiastiche lo attendono al varco e solo grazie a contrasti tra le due Houses of Convocation riesce ad evitare condanne. In una situazione finanziaria disastrosa egli riesce intanto a portare a termine La vita di Milton e ad acquisire notorietà come vittima dell’intolleranza religiosa e rappresentante del libero pensiero. Veniamo al testo, dove nella Prefazione si afferma polemicamente:

 

E tale è la deplorevole la condizione della nostra epoca, che un uomo non osa esprimere in modo esplicito e diretto il suo pensiero sulle cose divine, per quanto vero e utile possa essere, se è appena differente da quanto accettato da un partito, o stabilito dalla legge; ma è costretto o a mantenere un perpetuo silenzio, o a proporre le sue opinioni al mondo in forma di paradossi, sotto un nome falso o inventato. [102]

 

Ed è in nome della razionalità che Toland propone la sua visione della fede: « Spero di mostrare che l’uso della ragione in campo religioso non è così pericoloso come viene di solito rappresentato» [103], poiché  «Essendo infatti stato educato fin dalla culla nella più grossolana superstizione e idolatria, Dio si è compiaciuto di fare della mia ragione, e di coloro che facevano uso della propria, i felici strumenti della mia conversione.» [104]

    Fin da queste prime frasi si coglie l’intento del riformatore di dar battaglia contro il convenzionalismo e la tradizione dottrinaria in nome della libertà di pensiero e dell’uso della ragione, ma poco più avanti l’attacco contro la didattica religiosa si fa diretto, poiché i «falsi e inadeguati» principi che dominano il campo religioso «non hanno alcun significato o sono stati inventati da talune persone autorevoli per rendere oscure le cose semplici, e non di rado per coprire la propria ignoranza.» [105] È difficile immaginare che alcuni tronfi prelati della curia irlandese potessero rimanere attaccati alla loro sedia senza un sobbalzo di indignazione. Inoltre, il Nostro, per quanto uomo colto, è convinto che l’intellettualismo sia nocivo per una corretta interpretazione degli scritti sacri, aggiungendo poco dopo: «Nessuno può dedurre da questo compito del clero che il popolo debba accettare implicitamente le sue decisioni arbitrarie, non più di quanto io debba rinunciare alla mia ragione […] E perché il volgo non dovrebbe allo stesso modo essere giudice del vero significato delle cose, sebbene non comprenda nessuna delle lingue dalle quali sono tradotte per il suo uso? […] I poveri, che non sono considerati capaci di comprendere i sistemi filosofici, capirono presto la differenza fra gli insegnamenti semplici e convincenti di Cristo e le declamazioni complicate e inefficaci degli Scribi.» [106]

    Toland vuole delineare un quadro gnoseologico di riferimento (e tributario di Locke) che riforma i concetto di ragione, divenuto equivoco e ambiguo per la sua identificazione con l’anima in generale. Essa è una facoltà “attiva” dell’anima che si identifica col buonsenso e non va confusa con una funzione “passiva” dell’anima stessa consistente nel collezionare sensazioni e tradurle in idee semplici [107]. In un chiaro richiamo a Locke (Saggio sull’intelligenza, II, cap.I, 1-8) , è il “confronto” tra tali idee, l’accordo o il disaccordo, ovvero il lavorìo successivo della mente che riflette, a produrre esiti razionali, ed allora:

 

Questo metodo di conoscenza è chiamato propriamente ragione o dimostrazione, e può essere definito la facoltà dell’anima che scopre la certezza di qualsiasi punto dubbio o oscuro, paragonandolo con qualcosa che sia conosciuto con evidenza. [108]

 

La ragione non è sempre necessaria per avere evidenze, ma solo l’accordo con essa le conferma: «Così, sebbene l’evidenza immediata escluda la ragione, tuttavia ogni dimostrazione diventa alla fine immediatamente evidente.» [109] L’anima passiva è quella che immagazzina informazioni e i mezzi d’informazione sono  «i modi in cui qualsiasi cosa giunge semplicemente alla nostra conoscenza, senza necessariamente imporre il nostro assenso.» Essi si costituiscono o come esperienza o come autorità. Questa può essere umana o divina, nel primo caso si manifesta come certezza morale, nel secondo come manifestazione della verità da parte della verità stessa. Gli strumenti della conoscenza sono pertanto quattro: l’esperienza dei sensi, l’esperienza mentale, la rivelazione umana e quella divina. [110]

    Non seguiremo nel dettaglio Toland nelle ulteriori precisazioni circa la persuasione e l’evidenza (Capitolo IV) per arrivare alla Sezione II dell’opera, che già nel titolo Le dottrine del Vangelo non sono contrarie alla ragione ci introduce al tema principale. Fin dalle prime battute si manifesta il Toland anti-papista e anti-trinitario, in merito alle «favole ridicole della Chiesa di Roma», con un  richiamo alle posizioni ariane e sociniane [111]. Un analisi “riformata” di alcuni brani dell’Antico e Nuovo Testamento (e in particolare delle Lettere paoline) lo porta a un prima conclusione:

 

Il risultato ovvio di quanto è stato detto è che credere nel carattere divino della Scrittura, o nel significato di qualsiasi suo brano, senza prove razionali e una coerenza evidente, costituisce una forma di credulità deprecabile e un’opinione temeraria, di solito fondata su una natura ignorante e ostinata, ma più generalmente sostenuta con la prospettiva di un vantaggio. [112]

 

Non solo ignoranza, dunque, ma anche mala fede! Nel Primo Capitolo della Sezione III si entra nel merito dei miracoli. Toland sostiene i miracoli per una fede cristiana ragionata non sono affatto misteriosi, ma che è a causa delle contaminazioni da parte delle misteriosofie pagane se il Cristianesimo si è corrotto in tal senso. Perora anche la causa di una “utilità” conoscitiva pragmatica, che si autolimita per evitare frutti immaginativi distorti nel tentativo di interpretare l’ignoto, sicché:

 

Dal momento che percepisco con facilità gli effetti positivi o negativi della pioggia sulla terra, che vantaggio avrei a conoscerne il modo di produzione nelle nuvole? Dopo tutto non potrei far piovere a mio piacere, né impedire alla pioggia di cadere in qualsiasi momento. [113]

 

Atteggiamento ovviamente antiscientifico ed empiristico, ma dove tale rinuncia alla scienza della natura sembra un prezzo che Toland è disposto a pagare per avvalorare la sua tesi contro le indebite fantasie interpretative dei testi sacri.

    Toland segue ancora Locke nel distinguere tra l’essenza nominale e quella reale delle cose, essendo la prima quella alla quale perlopiù noi ci riferiamo nel riconoscere e nominare le qualità osservabili. L’essenza reale, al contrario, è di rado conoscibile, ma ciò non ci autorizza a farne un   mistero [114]. Analogamente, quindi, ci dobbiamo accontentare di conoscere Dio attraverso i suoi attributi, senza necessariamente usare la parola mistero per ciò che non ci è accessibile. Ed allora:

 

Penso di poter ormai concludere legittimamente che niente è un mistero perché non ne conosciamo l’essenza, dal momento che essa non risulta conoscibile in se stessa, né è mai oggetto del nostro pensiero: tanto che da questo punto di vista lo stesso Ente divino non può essere considerato misterioso con maggior fondamento delle sue più infime creature. E non mi preoccupo molto che tali essenze sfuggano alla mia conoscenza, perché mi mantengo fermo nella convinzione che ciò che l’infinita bontà non si è compiaciuta di rivelarci, o siamo i grado di scoprirlo da soli, o non abbiamo alcun bisogno di comprenderlo. [115] 

 

Pare qui di poter scorgere un implicito criterio utilitaristico su base naturale; se qualcosa è per noi conoscibile è perché può esserci utile, se è invece inconoscibile è fuori del nostro orizzonte e non ci può interessare. Ma vi è anche un’aggiunta a questa frase nella seconda edizione del libro dove Toland si preoccupa di rilevare che è comunque illegittimo dimostrare l’esistenza di misteri religiosi «sulla base dei pretesi misteri della natura », dando così l’impressione di credere nella possibilità umana di conoscere la natura in ogni suo aspetto. 

    Nel Terzo Capitolo Toland passa a cercare sostegni alla sua tesi dell’illegittimità di evocare miracoli della fede, che rinviene sia in Clemente Alessandrino, sia in Tertulliano e sia in Origene, sostenendo che anche negli altri Padri dei primi tre secoli del Cristianesimo l’atteggiamento è simile [116]. In quanto a San Paolo (Capitolo IV) pensa che anche l’Apostolo delle Genti in qualche modo la pensasse come lui, ma ciò che gli interessa ribadire è che la ragione è utile alla fede e che i veri miracoli non la contraddicono mai [117], concludendo:

 

Così ho cercato di dimostrare agli altri ciò di cui sono pienamente convinto, cioè che non esiste alcun mistero nel cristianesimo, la religione più perfetta; e che di conseguenza nulla di contraddittorio o inconcepibile, per quanto trasformato in articolo di fede, può essere contenuto nel Vangelo, se esso è realmente la parola di Dio. [118]

 

Si noti il « se esso è realmente la parola di Dio », che sottintende il sospetto di manipolazioni e falsificazioni del testo sacro.

    Delle Lettere a Serena, pubblicate nel 1702, sono dedicate a Sofia Carlotta di Prussia le prime tre (meno importanti dal punto di vista teorico) mentre la IV e la V (circa la confutazione di Spinoza e l’esposizione del “panteismo” tolandiano) si rivolgono a un “gentiluomo d’Olanda” e la VI a un “gentiluomo a Londra”.  Nella Prefazione (ma si tenga conto che il dedicatario è una donna) vi è un’interessante apologia del sesso femminile:

 

Quante volte sono stato costretto a descrivervi quali mostri rozzi, ignoranti e incolti, siano generalmente le persone del nostro sesso che non sono educate e raffinate dall’educazione e dalla cultura; e come le mogli e le figlie di tali contadini abbiano di solito maggior spirito e ingegno, un grado più elevato di educazione e di sagacia! Se l’esclusione delle donne dalla cultura derivi da un’abitudine inveterata o dall’intenzione degli uomini non intendo indagarlo: ma se a una donna, una volta nella vita, capita di rivolgere la curiosità ai libri e per questo diviene noiosa, affettata o ridicola (cosa che accade in un caso su mille), quanto chiasso facciamo a questo proposito, come siamo pronti ad attribuirlo alla sua inclinazione naturale e quali trionfi decretiamo alla superiorità della nostra intelligenza? [119]

 

La perorazione pare sincera, sì da giustificare la simpatia di Sofia Carlotta per il turbolento Toland (e la malcelata invidia di Leibniz), ma mostra anche una sensibilità notevole per un problema sociale onnipresente e ubiquitario.

    La I Lettera ha per titolo L’origine e la forza dei pregiudizi e in essa è sviluppata la tesi che, sin dall’infanzia, il modo di impartire le prime conoscenze si caratterizza per la sua astrazione dalla realtà e per il privilegiamento del fantastico, mentre in seguito le convenzioni sociali e le mode favoriscono l’instaurarsi del pregiudizio. Alla negatività di tale formazione intellettuale contribuiscono «i nostri timori e la nostra vanità, l’ignoranza del passato, l’incertezza del presente e l’ansiosa curiosità del futuro; la precipitazione nel giudizio, la sconsideratezza nel dare l’assenso e la mancanza della necessità imparziale nell’esame.» [120] L’inevitabile conclusione è che «i nostri pregiudizi ci dominano» e che attraverso una catena di inganni, della quale siamo perlopiù inconsapevoli, ci troviamo spesso ingabbiati nel «contagio» della moltitudine. Solo la persona «libera dai pregiudizi », per quanto paia svantaggiata sul piano della socialità in quanto talvolta emarginata, «trova nel corretto uso della propria intelligenza una sicura difesa contro tutti questi vani sogni e terribili fantasmi » generati dai pregiudizi e «non si lascia trasportare come una bestia dall’autorità o dall’istinto, ma stabilisce da solo le norme del suo comportamento di uomo libero e ragionevole.» [121]

    L’argomento della II Lettera è la Storia dell’immortalità dell’anima presso i pagani e si configura come un riconoscimento al mondo pagano di aver avuto chiara cognizione dell’anima e della sua provenienza divina, sicché: «furono i primi pagani a sostenere in particolare l’immortalità dell’anima con tutto ciò che ne deriva », che «gli Ebrei erano i più ignoranti tra tutti i popoli orientali » e che lo stesso Mosè era di formazione culturale egiziana [122]. Toland vede negli Egizi i padri della cultura con i Greci da essa dipendenti, ma soprattutto sviluppa una tesi di storia comparata delle religioni dove si coglie l’uniformità del sentire il divino, per dimostrare che molte pretese priorità temporali della fede ebraico-cristiana relative ai più importanti concetti religiosi sono ingiustificate. Ma si mette in rilievo anche il fatto che non furono pochi a negare l’immortalità dell’anima sulle orme di Epicuro. Tra essi Seneca, che aveva fatto declamare al coro delle Troadi (Atto II): «Nulla vi è dopo la morte, e in sé la morte è nulla, solo l’ultima meta di una corsa veloce. […] » [123], e poi Virgilio, Orazio, Giovenale, Cornelio Severo e Plinio il Vecchio, che aveva scritto (Storia naturale, VII): «In verità, questa illusoria credulità distrugge l’utilità della morte, che è il bene principale della natura, e raddoppia le sofferenze di un morente, se lo assale la preoccupazione relativa al suo stato futuro.» [124]

    La III Lettera concerne L’origine dell’idolatria e le cause del paganesimo e tornano in campo gli Egiziani come primi inventori della magia e dell’astrologia, secondo Toland due elementi principali del paganesimo. Severo con i Greci e i loro dèi viziosi («Agli Ateniesi toccò la benedizione di due belle divinità: l’Ingiuria e l’Insolenza.» [125] e non meno con i Romani, che quali divinità «avevano la Speranza e la Paura, il Pallore e il Tremito.» [126] La lettera opera una ricognizione storica sui vari aspetti del paganesimo, ma anche sui personaggi che ne hanno messo in evidenza i difetti, tra i quali spicca il Cicerone del De divinatione e del De natura deorum quale encomiabile demolitore degli aspetti più deteriori del paganesimo. Il pensare «che siano stati idolatri tutti coloro che vissero quando dominava il paganesimo è l’errore più grossolano che si possa commettere.» [127] e per di più:

 

Possiamo osservare che quasi ogni aspetto di quelle religioni superstiziose e idolatre è stato resuscitato in forme simili o ancora più grossolane per opera di molti Cristiani nella parte occidentale dell’Europa e di tutte le sètte orientali. [128]

 

Considerazione pesante aggravata da quella che conclude:

 

Ma se qualcuno dovesse chiedersi come gli uomini abbiano potuto lasciare la strada facile e diretta della ragione per perdersi in tali labirinti inestricabili, basterà che consideri come in tante nazioni importanti il chiaro insegnamento di Gesù Cristo abbia potuto degenerare nelle dottrine più assurde, in un gergo incomprensibile, in pratiche ridicole e misteri inesplicabili; e come quasi in ogni angolo del mondo la religione e la verità abbiano potuto trasformarsi in superstizione e potere sacerdotale. In breve, l’argomento di questa lunga lettera è racchiuso elegantemente nei quattro versi seguenti, che sono sulla bocca di tutti: La religione naturale era all’inizio semplice e piana, / le favole la resero misteriosa, le offerte una fonte di guadagno; / col tempo furono istituiti sacrifici e esibizioni, / i preti banchettavano e il popolo stava a guardare. [129] 

 

Si noti l’associazione della superstizione (e più in generale della degenerazione della fede) col potere sacerdotale. I quattro versi (che hanno tutta l’aria di essere suoi) riassumono sinteticamente ciò che il Nostro va sostenendo da tempo..  

    Passiamo ora alla IV Lettera, quella che pone le premesse dell’argomento cosmologico che è sviluppato nel allunga Lettera V. Ciò che sorprende è il fatto che in entrambe, ma specificamente nella IV, si assuma il panenteismo di Spinoza come riferimento negativo, sì che il sottotitolo recita: dove si dimostra che il sistema di Spinoza è privo di qualsiasi fondamento. Enunciazione così severa da risultare sospetta, tanto più che, fatta salva la differenza che l’olandese è panpsichista e l’irlandese materialista, tutto sommato i principi di fondo dei due sistemi coincidono. Ma vi è probabilmente anche un problema nominalistico, poiché, siccome Toland si definisce “panteista”, come almeno dal 1680 era già stato definito Spinoza e prima di lui Bruno, viene da pensare che demolendo il sistema spinoziano Toland intenda porre le premesse per acquisire la titolarità unica dell’aggettivo sottraendola all’ormai famoso olandese. Fin dalla terza pagina lo scrivente ribadisce e rincara il titolo nel dire al destinatario “gentiluomo olandese” di essere «convinto che l’intero sistema di Spinoza non è solo falso, ma anche precario e privo di ogni sorta di fondamento.» [130] Ma si stia attenti al periodo che la segue di poco:

 

5. Ammettendo pure che egli sia stato il più onesto degli uomini, suppongo che non lo riterrete esente da molte debolezze umane alle quali sono soggetti anche i migliori: e io sono incline a sospettare che la sua principale debolezza fosse una, di avere dei discepoli e un nuovo sistema di filosofia che si fregiasse del suo nome, dato l’esempio recente e invitante dato dalla buona fortuna del suo maestro Cartesio. [131]

 

Le considerazioni che ne emergono sono almeno tre. La prima: l’encomio come «il più onesto degli uomini » non solo contrasta con la successiva affermazione circa la sua «smodata passione di diventare il capo di una setta », ma soprattutto non rende ragione del fatto che la rivendicazione di libertà interpretativa delle sacre Scritture rivendicata da Toland è esattamente la stessa rivendicata da Spinoza oltre trent’anni prima. Entrambi poi sono i fautori di un progetto teologico “revisionista” che si presenta come la cassazione della superstizione e delle derive irrazionalistiche della fede ebraico-cristiana. La seconda: relativamente al “sospetto” che egli cala sull’olandese è invece evidente essere proprio lui, col suo attivismo politico, a perseguire l’obbiettivo che attribuisce a Spinoza, tanto più che questi con la sua vita ritirata non aveva fatto nulla per conseguirlo. La terza: affermare che Spinoza potesse aver fatto riferimento a Cartesio è insostenibile, poiché egli ha affossato ogni dualismo ontologico per instaurare un monismo assoluto. Nasce allora il legittimo sospetto che Spinoza costituisse per Toland un precedente così importante che, ai fini di non passare per il “nano sulle spalle del gigante”, abbia deciso di seppellirlo sotto un assai poco probabile disprezzo.

    Arriviamo al punto centrale dell’“inconsistenza” spinoziana che Toland pone nel fatto che l’olandese non definisce alcuna causa di movimento nella materia, né precisa in virtù di che cosa i corpi siano ora in stato di moto e ora in stato di quiete (Etica, Parte II) pur affermando che la differenza dei corpi dipende dall’un stato e dall’altro. Ora, se Spinoza trascura tale aspetto è perché lo ritiene irrilevante, poiché i singoli corpi sono solo gli aspetti effimeri di un Uno-Tutto in cui scompaiono come entità prive non solo di sostanza ma addirittura di realtà. Infatti, l’unica cosa “che esiste” è l’Uno-Tutto, e le pluralità che si offrono alla nostra percezione sono pure apparenze. D’altra parte, come avevamo già rilevato in La filosofia e la teologia filosofale, Spinoza è l’inventore in ambito occidentale di un panenteismo (Hegel lo chiamerà “panteismo acosmistico”) teorizzato già da millenni in ambito indiano. La materia, per l’olandese, non esiste i quanto tale: essa, oltre che divina, è “in Dio”, che è pensiero puro; quiete o moto per il Dio spinoziano sono privi di senso ed in tale orizzonte ontologico il movimento, fattore puramente materiale dell’estensione (ed intrinseco ad essa), è privo di alcun significato. Se ne rende conto Toland? Fa finta di non rendersene conto? Tutto tende a far pensare a una tesi pretestuosa e che il suo fine sia quello di oscurare il suo modello di riferimento per prenderne il posto, capovolgendone la premessa ontologica (da spiritualista a materialista) e ripristinando un” Motore-Logos” esterno alla materia in senso aristotelico.

    Per Toland l’impianto spinoziano è debole e incoerente, affermando: « la sua filosofia non è costruita su fondamenti certi o probabili, ma su ipotesi gratuite.» [132] Il che è sicuramente vero; ma quando mai una metafisica non si fonda su ipotesi gratuite? L’asserzione tolandiana è meramente tautologica. Egli, volendo porre l’essenzialità del moto come strutturalmente inerente alla materia va però contro la metafisica, per la quale vi è sempre una sostanza (gabellata anche per essenza) che è reale, accompagnata da accidenti-attributi apparenti-inconsistenti che si offrono alla percezione. Per la filosofia sono invece proprio questi a costituire la sola realtà, l’essenza del reale, e la presunta sostanza essere una pura invenzione logico-dialettica. Toland aggiunge:

 

Io sostengo dunque che il moto è essenziale alla materia, cioè è altrettanto inseparabile dalla sua natura di quanto siano l’impenetrabilità e l’estensione,  che dovrebbe costituire una parte della sua definizione […] Nego che la materia sia o sia mai stata una massa morta e inattiva in assoluto riposo, un’entità passiva e pesante. [133]

 

L’espressione « Nego che la materia sia o sia mai stata » è problematica. Che cosa può significare quel « mai »? Che la materia è eterna? Che non è stata creata da Dio? Che Dio (se esiste) non c’entra con essa? Pare di trovarci di fronte a una tesi atomistica. Ma non è così e subito dopo si precisa:

 

Spero di dimostrare che questa sola nozione spiega la persistenza della medesima quantità di moto nell’universo: essa soltanto spiega l’inesistenza e l’impossibilità del vuoto, permette di dare una definizione appropriata della materia, risolve tutte le difficoltà relative alla forza motrice e tutti gli altri problemi che abbiamo ricordato prima. [134] 

 

Siamo tornati a Cartesio! Per Toland il cosmo è un “tutto pieno” di materia e la res cogitans suprema è il Dio-Ordinatore-Motore esterno ad essa. Ma, “cartesianamente”, ne è anche creatore? Parrebbe di no, perché Toland aggiunge:

 

Quindi coloro che ritengono la materia creata possono concepire altrettanto bene che Dio l’abbia dotata di azione come di estensione, mentre coloro che la ritengono eterna possono considerarla altrettanto bene eternamente attiva quanto eternamente divisibile: non possono spiegare mai qualsiasi cambiamento in natura senza ammettere questo, come ho provato in precedenza contro Spinoza. Il mio solo compito è dimostrare che la materia è necessariamente attiva oltre che estesa, e quindi spiegare quanto mi è possibile delle sue affezioni: ma non intromettermi nelle dispute che altri potrebbero sollevare sulla sua origine o durata. [135]

 

Non si prende quindi posizione né sull’origine né sull’eternità della materia, cioè sul fatto che abbia la propria causa in Dio o sia invece causa sui. Una domanda però emerge inevitabile: come si può credere in Dio e nel contempo non considerarlo come causa prima della materia? 

    Vediamo se la Lettera V ci può aiutare a dirimere la questione. La materia è per Toland “necessariamente” attiva, e la necessità è presupposta sia da Cartesio che da Spinoza e assai prima da Democrito (ma non da Leucippo, Epicuro e Lucrezio). Toland non ha le idee chiare sull’atomismo antico?  È probabile. Ma seguiamolo ancora:

 

Cercherò di avvalorare questa definizione [della necessità del movimento] mediante le ragioni che addurrò per dimostrare che tutta la materia nella natura, ogni sua parte e particella, è sempre stata in movimento, e non può mai essere in una condizione diversa; che le particelle poste al centro delle rocce più solide e massicce, nel cuore di sbarre di ferro e lingotti d’oro, sono in costante attività al pari di quelle del fuoco, dell’aria o dell’acqua, sia pure non secondo le stesse determinazioni né gli stessi gradi, così come le particelle di questi ultimi elementi confrontate tra loro. Tale azione è infatti ugualmente naturale e interna ad esse come a tutte le altre specie di materia nell’universo, per quanto i loro movimenti specifici siano tanto vari e differenti, a causa dei loro diversi modi di influenzarsi a vicenda. [136]

 

Abbiamo qui una prima enunciazione sufficientemente esauriente della cosmologia tolandiana su cui conviene soffermarci. In primo luogo notiamo un significativo « è sempre stata in movimento » che conferma quanto precedentemente rilevato, ovvero che parrebbe esclusa ogni Creazione; essendo essa “da sempre” Dio non l’ha creata. A questo stadio dell’esposizione si direbbe però che l’universo materiale e Dio debbano essere considerati coeterni, e che Dio “potrebbe” esserne il suo ordinatore.  Un secondo elemento da rilevare è che in movimento non è la materia come “tutto”, bensì dinamiche sono le particelle che la compongono, ovvero i suoi elementi primi. Il che farebbe pensare di nuovo ad una concezione atomistica, che però abbiamo dovuto escludere per la negazione del vuoto. Ma, come vedremo, è invece ai semi anassagorei che Toland pensa: sono infatti considerazioni qualitative e non quantitative quelle che fanno parlare di “elementi”. Il Nostro pare aver fatto riferimento al Circulus Pisanus di Claudio Berigardo, docente a Padova dal 1640, che aveva passato in rassegna in cui erano esaminati i vari modelli di atomismo includendovi quello anassimandreo dei semi. Notiamo ancora che ogni tipo di materia possiede propri «movimenti specifici» e che la varietà dei moti dipende da un”interazione” dinamica tra essi (il che suona però tautologico).

    Viene successivamente precisato che il movimento e l’estensione sono coessenziali ed inseparabili in ogni parte di materia, poiché è il primo che determina le qualità “secondarie”  sensibili della materia (figura, colore, durezza, ecc.). Di più:

 

Tutti questi aspetti dipendono infatti dal movimento, così come le forme di tutti gli esseri corporei, la loro generazione, successione e corruzione mediante le innumerevoli commistioni, trasposizioni e altre combinazioni delle loro parti, che sono tutte effetti naturali e indiscutibili del movimento: o piuttosto sono il movimento stesso sotto questi vari nomi e determinazioni. [137]

 

Non solo il moto determina le varie forme del divenire ma le “parti elementari” stesse sono suoi “effetti” o “specie”. Ci troviamo perciò di fronte ad una concezione “pandinamica” dell’essere che a dispetto del suo carattere “qualitativo” prelude in maniera profetica allo spinning delle particelle elementari quale “movimento intrinseco”. Toland ha però anche l’accortezza di precisare che tutto ciò riguarda solo gli «esseri corporei» lasciando plausibile l’esistenza di “esseri incorporei” (e ovviamente di Dio). Per quanto la namis crei l’essere dell’universo materiale, l’esistenza dell”immateriale” (dello spirito) non risulta negata nel materialismo tolandiano, che si limita a “separare” ontologicamente la materia dallo spirito in un dualismo non molto dissimile da quello cartesiano.

    Il movimento è anche la causa della divisibilità, e questa diventa «prova innegabile del fatto che essa [la materia] non può essere concepita senza il moto, dal momento che è il moto che la diversifica e la divide.» [138] Ma successivamente si affronta il concetto di sostanza sferrando un duro colpo alla metafisica aristotelica e alle sue propaggini scolastiche e secentesche:

 

Come potete concepire che la materia sia una sostanza se non è dotata di attività? Come può essere il soggetto di accidenti, secondo la definizione corrente, dal momento che gli accidenti non sono altro ­­che varie determinazioni dell’attività della materia, differenziate in base alle loro differenti situazioni relative ai nostri sensi, ma in realtà non distinte dalla nostra immaginazione, o dalla cosa stessa in cui si ritiene che esistano? [139]

 

E il Nostro passa poi ad un significativo realismo anti-metafisico affermando che l’universale è concepibile solo nella misura in cui c’è un particolare che ne legittima l’enunciazione. Infatti: « La rotondità non è differente dal corpo rotondo (il che vale per tutte le figure), perché tale rotondità non è il nome di una cosa reale, ma soltanto un termine per esprimere la particolare modalità di un certo corpo.» [140] L’universale diventa quindi solo una modalità d’essere, cioè un attributo, del singolo corpo materiale; si realizzerebbe allora un capovolgimento concettuale di uno dei principi fondanti della metafisica, che concepisce invece la sostanza nell’universalità e l’accidente nella particolarità. Purtroppo che, come vedremo, il particolare perde a sua volta realtà in una supposta unità-totalità panteistica che Toland si appresta a teorizzare con forza. 

    Posta la negazione del vuoto come passaggio obbligato alla tesi dell’Uno-Tutto panteistico l’accorpamento di estensione e movimento come co-inerenti lo rende anche teoricamente superfluo:

 

L’opinione del vuoto è una delle innumerevoli conseguenze erronee della definizione di materia basata sulla sola estensione, della tesi della sua naturale inattività e dell’idea della sua divisione in parti reali, reciprocamente indipendenti sotto ogni aspetto. [141]

 

In realtà, non si vede neppure bene “contro chi” potrebbe essere giustificatamente mossa l’obiezione, se non conto una generica teologia metafisica. Non contro gli atomisti (i primi e maggiori sostenitori del vuoto), che ritenevano il movimento “proprio” degli atomi; ma neppure contro Newton, che ammette il vuoto come il medium in cui il moto (e non l’estensione) della materia si fa possibile. Ma siccome per Toland la materia è, cartesianamente, un “tutto-pieno”, si comprende subito dopo come tale posizione sia solo un corollario del sistema panteistico che egli intende proporre, il quale non può che negare ogni realtà a “parti” della materia:

 

Si può dimostrare che quelle che noi chiamiamo parti della materia sono soltanto i diversi modi di concepire le sue affezioni, le distinzioni delle sue modificazioni. Tali parti sono perciò solo immaginarie o relative, ma non reali e divise in senso assoluto. L’acqua come tale può essere generata, divisa e corrotta, aumentata e diminuita, ma non quando è considerata come materia. [142]

 

Egli pare non rendersi conto che dopo aver tentato di affossare il panteismo spinoziano utilizzando un mero cavillo (come quello della mancata tematizzazione del movimento ne riprende pari pari un suo elemento fondante, quello di “modificazione”, per qualificare ciò che noi percepiamo come “parte”. Non è quindi il modello strutturale dello spinozismo a mutare, ma la sua “sostanza”, che da “estensione-pensiero” diventa “movimento-materia”. Rimane però anche l’altra differenza importante in base alla quale per Spinoza Dio “è” il cosmo, mentre per Toland Dio “sta fuori” del cosmo. Ci si deve quindi domandare come egli possa pretendere la definizione di panteismo per il suo sistema, dal momento che, in realtà, stando Dio fuori del cosmo, si ricade in una mera variante del dualismo cartesiano. E tuttavia il Nostro aggiunge ancora, “spinozianamente”:

 

7. In questa occasione, per evitare ogni ambiguità, è opportuno informarvi che per corpi io intendo certe modificazioni della materia concepite dalla mente come altrettanti sistemi limitati o quantità particolari astratte col pensiero, ma non effettivamente separate dall’estensione dell’universo. [143]   

 

    Passiamo ora a considerare l’atteggiamento del Nostro nei confronti della matematica e della geometria; in realtà il tentativo di contestare un’interpretazione “troppo matematica” del newtonismo. Il tema viene dapprima preso alla larga: « Così si è sostenuta l’esistenza reale di linee, superfici e punti matematici, e ne sono state dedotte molte conseguenze assai infelici […] Così la parola “infinito” resta estremamente confusa […] », ma poi si arriva all’affondo contro il tempo e lo spazio assoluti:

 

Della medesima natura sono il tempo infinito, il pensiero umano infinito, le linee asintotiche e molte altre progressioni senza limiti […] Ma nessun termine è stato così male impiegato e h dato occasione a tante discussioni come lo spazio, che è soltanto una nozione astratta, come vedremo in seguito, o la relazione che un oggetto ha con altri enti posti a una certa distanza […] [144]

 

Ma Toland finisce poi per andare persino oltre il Cartesio dei Principia philosophiae (II, 14 e 16) con la sua negazione dello spazio: «Da parte mia, non posso credere in uno spazio assoluto distinto dalla materia, come suo luogo, non più di quanto possa credere che esiste un tempo assoluto, differente dalle cose di cui si considera la durata.» [145] Egli insiste nel proporre un’interpretazione meno matematica delle asserzioni di Newton aggiungendo: « E tuttavia si ritiene che il signor Newton non solo sia convinto di tali asserzioni, ma li ponga entrambi sullo stesso piano.». Cita poi per esteso un noto passo di Newton che recita: «Il tempo e lo spazio sono per così dire i luoghi di se stessi […] » e afferma:

 

Sono convinto che queste parole siano suscettibili di un’interpretazione favorevole al mio parere: ma preferisco citarle nel senso in cui sono comunemente intese, a parte il fatto che il suo libro, come ho detto prima, non ne risente in nessun caso. [146]

 

Il Nostro sa benissimo che il senso « in cui sono comunemente intese » è quello di Newton stesso, ma non se la sente di smentire colui che si sta affermando come “padre delle moderna fisica”.

    Va però precisato che non solo Toland è indifferente a Newton, ma sta decisamente dalla parte di Cartesio nel concepire un universo tutto “pieno”. Ma egli neppure crede all’attrazione gravitazionale, sì da scrivere relativamente al concetto di “peso”: « Infatti lo stesso corpo diventa pesante o leggero in momenti diversi, a seconda della sua posizione rispetto agli altri corpi, e si sa benissimo che molti oggetti a volte non si trovano in uno stato di leggerezza o pesantezza.» [147] Con ciò egli intende anche colpire l’idea empedoclea dei quattro elementi «che si dispongono ordinatamente secondo i loro gradi di gravità o leggerezza » che ammetterebbe l’esistenza di un caos originario dove sarebbe il peso a mettere ordine, poiché: «ciò non potrebbe accadere neppure a quelle condizioni senza l’intervento di un Architetto onnipotente » [148] In realtà qui Toland è coerente col suo assunto di una materia che dall’eternità possiede il proprio ordine dinamico e ciò che intende colpire è l’ipotesi di un ordine conferito da un agente esterno alla materia. Ma questo significa negare l’intervento di Dio sul cosmo anche solo come ordinatore e quindi approdare ad un materialismo che ammette sì Dio, ma (come faceva Epicuro con gli dèi pagani) viene reso estraneo al mondo.

    La visione pandinamica tolandiana trova efficace espressione nel passo seguente, di sapore quasi lucreziano e abbastanza poco panteistico nell’individuazione degli “elementi” dinamici:

 

La terra, l’acqua, l’aria e il fuoco non sono soltanto strettamente mescolati e uniti, ma si trasformano a vicenda in una perpetua rivoluzione: la terra diviene acqua, l’acqua aria, l’aria etere e viceversa, in mescolanza senza fine e senza numero. Gli animali che distruggiamo servono a mantenerci in vita, finché noi stessi non siamo distrutti per conservare altre cose e diventare erba, piante, acqua o aria o qualche altra cosa che serve a produrre altri animali, e a fare di questi ultimi altri animali o altri uomini. Questi si trasformano ancora in pietra o legno, metalli o minerali o ancora animali, o divengono parti di tutte queste e di molte altre cose, mentre gli animali e i vegetali si consumano e si divorano l’un l’altro ogni giorno: tanto è vero che ogni cosa vive della distruzione di un altra. [149] 

 

Al di là della bellezza anche letteraria di questo passo, ciò che più colpisce è non solo la più totale assenza del divino in questa fenomenologia della materia, ma anche la mancanza del minimo accenno all’anima umana. E non solo quale testimone dell’esistenza del divino stesso nell’uomo ma neppure come fattore differenziale rispetto agli altri animali e addirittura alle materie morte. Ne emerge un panorama che da materialistico (e solo teoricamente dualistico) si configura ora anche come profondamente ateistico. Il prosieguo del passo ce ne offre conferma:

 

Tutte le parti dell’universo sono immerse in questo processo costante di distruzione e produzione, produzione e distruzione; ai grandi sistemi si attribuiscono movimenti incessanti così come alle particelle più piccole, mentre i globi centrali dei vortici ruotano attorno al proprio asse e ogni particella del vortice gravita verso il centro. I nostri corpi, per quanto possiamo illuderci, non differiscono per nulla da quelli delle altre creature […] senza restare oggi gli stessi rispetto a ieri né mantenersi gli stessi domani, vivendo in un flusso perpetuo come un fiume e destinati a diventare parti di mille altre cose nello stesso tempo, in seguito alla totale dissoluzione del nostro sistema dopo la morte. Le nostre spoglie si mescolano in parte con la polvere e l’acqua della terra, in parte evaporano e si diffondono nell’aria, volano in tanti luoghi differenti, si mescolano e s’incorporano con innumerevoli cose. [150]  

 

Nell’inciso « per quanto possiamo illuderci », anche se riferito i corpi, si intende colpire a fondo l’illusione di quella differenza ontologica che caratterizza ogni sentimento religioso e la nostra morte non dà luogo a un “volare” dell’anima al cielo ma ad un “volatilizzare” del nostro essere nella sua globalità in mille luoghi e cose senza il più piccolo cenno a un “qualcosa di noi” che non segua tale destino. Ci troviamo qui nel punto più profondo non solo del materialismo di Toland ma anche di un suo quasi inevitabile ateismo, per quanto mai dichiarato.

    Ma la V Lettera ci riserva ancora altre sorprese dove si dice «Ma dovete sempre distinguere fra l’energia interna, l’autocinesi o azione essenziale di tutta la materia […] e il moto locale » Qui l’autocinesi della materia viene espressa anche come energia interna, concetto che va oltre il mero aspetto dinamico per diventare decisamente ontico e configurare, per la prima volta in maniera chiara, il nesso esistente tra l’essere massa e contemporaneamente energia della materia stessa. Ma il pandinamismo porta anche Toland a porre in modo netto la “relatività” del moto, laddove afferma:

 

Dal momento dunque che la quiete è solo una certa determinazione del moto dei corpi, un fenomeno reale di azione e resistenza tra movimenti eguali, è chiaro che non esiste una forma di inattività assoluta nei corpi, ma solo una quiete relativa rispetto ad altri corpi che mutano sensibilmente di luogo. […] Ogni movimento è al tempo stesso passivo rispetto al corpo che ha fornito l’ultima determinazione, e attivo in rapporto al corpo che determina successivamente. [151]  

 

Un tipo di movimento sarebbe anche la gravità e Toland nega che esista una proporzionalità diretta tra il peso e la quantità di materia, sicché egli si dichiara convinto che non vi sia più peso (e quindi materia) «in un piede cubo di piombo che in un piede cubo di sughero » [152] e che le differenze gravitazionali derivino «in parte dalle pressioni esterne, in parte dalle strutture o modificazioni interne che conferiscono alla materia le varie forme che ne costituiscono le specie.» [153] Comincia qui a venire adombrata quella tesi anassagorea che sarà specificata in seguito, cioè che tutti i tipi di materia esistenti sono differenti “specie” di essa, e che alla loro base stanno elementi primi qualitativamente differenti. Tesi “qualitativa” che viene ribadita subito dopo:

 

Esse [le varie forme di materia] si distinguono in virtù della loro gravità così come delle figure, dei colori, dei sapori, degli odori e di ogni altra affezione che nasce dalla loro particolare disposizione, dall’azione degli altri corpi o dai nostri sensi e dall’immaginazione. [154]   

 

Siamo qui al punto in cui il peso potrebbe essere una “sensazione” umana di tipo sensorio o addirittura “immaginativa”, a testimonianza del fatto che il Nostro paga lo scotto di una speculazione totalmente astraente dall’esperienza scientifica. Nei confronti di essa egli mostra infatti totale indifferenza, sì da fargli affermare che uno stesso oggetto avrebbe diverso peso a seconda di «luoghi o situazioni » in cui si venga a trovare, fantasticando poi di «variazioni nel ritardo o nell’accelerazione della loro discesa a varie distanze dal centro.» Negata la validità della fisica sperimentale Toland ribadisce: « Secondo me dunque la gravità non implica il vuoto, come vi ho detto prima nel paragrafo 14, ed è solo uno dei molti modi dell’attività, comunque avvenga tale determinazione, il che non staremo ora ad esaminare.» [155] Chiaramente egli glissa per indifferenza e ignoranza sulla “determinazione sperimentale” del peso, cosi come dice «sorvolerò sull’attrazione dei pianeti », ribadendo invece che le reciproche influenze tra Sole, Luna e pianeti dipendono «dalle loro grandezze, figure, distanze e posizioni.» [156]

    Prestando poca attenzione alle osservazioni e alle sperimentazioni dei fisici e non avendo compreso il senso fisico del vuoto il Nostro deve rifugiarsi in ipotesi generiche, che per quanto relativamente corrette lo portano anche ad errori marchiani come il pensare che le “figure” possano determinare i fenomeni fisici non meno delle grandezze. Nota giustamente Chiara Giuntini: «Sul rapporto gravità-vuoto Toland assume qui una posizione decisamente antinewtoniana, schierandosi implicitamente con Bruno, Hobbes e Descartes, anche se nel § 27 giudicherà inappropriati i criteri della critica cartesiana alla nozione di vuoto, basata sulla sua presunta inconcepibilità.» ciò che emerge chiaramente è che Toland è in netto “ritardo” rispetto alle conoscenze del suo tempo e che per quanto possegga originalità ed intuito non riesca a metterli a frutto per ignoranza scientifica, sicché la sua posizione anti-metafisica finisce per ricadere nelle stesse assunzioni dogmatiche dei metafisici cui finisce, suo malgrado, per fare riferimento.

    Se le mutazioni in natura (per quanto inessenziali dal punto di vista panteistico) sono “movimento”, è esso che, come causa unica, organizza i corpi che esse determinano, sostiene Toland, e molti antichi filosofi che non l’hanno compreso sono stati indotti ad immaginare una materia “animata”. Errore in cui sono caduti partendo dall’assunto errato di una materia inerte e inattiva che avrebbe avuto bisogno di qualcosa di incorporeo, uno spirito o un’anima, per produrre vita. Egli invece, molto materialisticamente, ribadisce che è ancora l’intrinseco moto della materia a creare la vita. Da ciò una critica agli Stoici, che immaginavano un’”anima del mondo”, ai Platonici, che credevano in un’”anima universale spirituale”, a Stratone di Lampsaco (insieme con gli ilozoisti moderni) che vedeva le particelle di materia dotate di vita. Eraclito e Spinoza sono criticati per le loro “aggiunte” di cause intelligenti per motivare ciò che è perfettamente spiegabile con la dinamica intrinseca della materia [157]. In quest’assemblaggio cronologicamente disordinato di errori del passato Toland porta poi il discorso sulla dialettica religiosa del tempo (citando il platonico Cudworth, Giansenisti e Calvinisti) e sulle diverse posizioni ontologiche per giungere ad un’inaspettata capriola teologica:

 

Ma tutte queste ipotesi sono altrettanti espedienti per spiegare il moto effettivo della materia inattiva e per evitare di portare Dio sulla scena ad ogni momento e di vederlo al lavoro in ogni occasione, anzi in ogni forma di attività senza distinzione, per una necessità assoluta e inevitabile. [158]

 

Una definitiva conversione a uno spinozismo sempre negato? Si direbbe di sì, nella misura in cui la “necessità assoluta” è il cardine di tutto il sistema di Spinoza. E tuttavia poco oltre egli torna sull’erronea posizione dell’olandese (ma con quanta convinzione?) nel sostenere che egli, non meno di Stoici, spiritualisti e «filosofi plastici » (i neoplatonici alla Cudworth), sarebbe una sorta di ilozoista. Relativamente a Newton e al suo spazio assoluto egli torna a sostenerne l’inconsistenza, in quanto la sua nozione sarebbe stata derivata dal fatto che esso «viene considerato separatamente dal movimento, come il movimento rispetto alla materia » [159]. Giunge poi ad un’accusa nei confronti di quelli che chiama «i difensori dello spazio», cioè dell’”estensione assoluta”, affermando:

 

Molti di loro non hanno addirittura esitato a farla passare [l’estensione] per lo stesso ente supremo, o almeno per una concezione inadeguata della divinità, come si può vedere nell’ingegnoso libro del signor Raphson [160]  sullo spazio reale, che ho tenuto presente nei due paragrafi precedenti. [161]

 

Diventato paladino della religione Toland ora mette in evidenza la blasfemia derivante dalla scissione estensione/movimento e dall’assunzione degli elementi della fisica newtoniana in indebite estensioni metafisiche. In maniera abbastanza capziosa il Nostro sostiene poi che questo «zelo sconsiderato» di alcuni seguaci di Newton nell’interpretazione della sua fisica «li ha condotti alla nozione di un puro nulla, oppure hanno fatto della natura dell’universo il solo Dio, sebbene siano altrettanto poco disposti ad accettare tale conclusione.» [162]

    Il successivo richiamo a Locke del § 27 e alla sua implicita ammissione del vuoto (Saggio sull’intelligenza, II, XIII, 21) mostra quanto Toland lo tenga in considerazione. Nello stesso tempo gli offre l’occasione di rilevare:

 

Ma gli concedo che con questi esempi intendo perfettamente il significato di coloro che sostengono l’esistenza di uno spazio vuoto, tesi che era assurdo negare da parte dei Cartesiani, così com’era imperdonabile discutere su una cosa della quale professavano di non avere idea. [163]  

 

Da posizioni di partenza, che abbiamo visto connotarsi indubitabilmente come “cartesiane”, il Nostro qui fa un’altra capriola, trasferendosi per un momento, complice Locke, dalla parte di quelli che, in qualche maniera, il vuoto lo ritengono possibile, accusando nel contempo i cartesiani di averlo negato per leggerezza. Ma, tornando poi su una posizione dubitativa, ribadisce che Cartesio col suo concetto di “materia indefinita” alludeva in realtà all’infinità di essa, e che ciò lo ha condotto a equivocare sulla dinamica della materia e sulla sua divisibilità [164].  Un prendere quindi le distanze dal cartesianesimo, che in questo scorcio terminale della V Lettera a Serena gli fa invece ribadire la sua stima per la gnoseologica lockiana, affermando: «nonostante il mio dissenso da Locke riguardo allo spazio, io considero il Saggio sull’intelligenza umana il libro più utile che esista in qualunque lingua per raggiungere una conoscenza universale.» [165]

    Nell’avviarsi alla conclusione di quest’importante Lettera di carattere ontologico il Nostro pare tentare persino un avvicinamento a Newton nel dichiarare, relativamente ad alcune sue considerazioni “possibiliste” sul moto e sulle forze , che:

 

Quali possano essere quelle particolari forze e figure, con le loro misure e gradazioni, nessuno al mondo è tanto capace di scoprirle e ridurle a un sistema comprensibile come questo eccellentissimo autore. Ma per quanto riguarda la forza motrice di tutta la materia, mi lusingo di aver dato con questa lettera un qualche contributo in tale senso. [166]

 

Asserzione di encomiabile modestia che poi, attribuendo al suo interlocutore (il “nobile amico” gentiluomo di Londra) un’interpretazione ateistica delle sue posizioni, gli permette di ribadire la sua ortodossia teologica ed anti-atea (ma quanto sincera?) nel dire:

 

30. Così credo di aver dato una risposta specifica a ciascuna delle vostre domande, tranne la vostra ultima obiezione, che (se esistessero gradi di verità e falsità) è più debole di tutte le altre, per cui «avendo ammesso l’attività della materia non sembra esservi bisogno di un’intelligenza che la dirige». Questa, lasciatemelo dire, è l’espressione più assurda e sconsiderata […] Inoltre, se Dio era in grado di creare questa materia attiva oltre che estesa, se poteva attribuirle l’una proprietà al pari dell’altra e se non si può addurre alcuna ragione per cui non dovesse fornirla della prima come della seconda: forse non vi è ugualmente bisogno che diriga qualche volta, o piuttosto sempre, i suoi movimenti? [167]

 

Con queste parole siamo tornati per un verso nell’alveo di Cartesio (per quanto riguarda la Creazione), e per un altro in quello di Newton (relativamente all’intervento divino nella meccanica del cosmo). In entrambi i casi Toland evita la calata su di sé dell’accusa di ateismo, che rivolge invece al suo finto interlocutore al quale rimprovera di mostrare troppa propensione a pensare, con gli atomisti, che le combinazioni casuali degli atomi abbiano potuto creare un cosmo ordinato e mantenerlo tale. Ed egli aggiunge: «così com’è impossibile immaginare che combinando insieme le lettere di uno stampatore un milione di volte esse si pongano in una posizione tale da produrre l’Eneide di Virgilio o l’Iliade di Omero, o qualsiasi altro libro al mondo.» [168] Argomento classico dei teologi di tutti i tempi contro la casualità cosmogonica, che non tiene alcun conto né della processualità della materia ed ancor meno dei tempi cosmici. Avviandosi alla conclusione precisa ancora: « E quanto all’infinità della materia, essa esclude soltanto ciò che tutti gli uomini buoni e ragionevoli debbono escludere, un Dio esteso e corporeo, ma non un puro spirito o un essere immateriale.» [169]

    Quest’ultima lettera, fondamentale per comprendere il modello teorico di Toland è quella in cui si concentrano molte delle contraddizioni interne del sistema tolandiano, con uno stare in equilibrio sul filo del rasoio dell’ateismo senza mai cadervi. L’andamento è sì altalenante ma la conclusione è poi di carattere sostanzialmente “restaurativo” per non corree troppi rischi. Malgrado ciò Toland passerà ancora dei guai, non riuscendo mai ad integrarsi in alcun establishment intellettuale e rimanendo sempre un emarginato rispetto alle correnti filosofiche più accreditate. Ma prima di passare a quella curiosa opera che è il Pantheisticon, pubblicato nel 1720 (due anni prima della morte), ci corre ancora l’obbligo di un cenno al Nazarenus, un’opera importante ma che esula dal nostro tema. Si tratta di un lavoro storiografico-filologico di notevole impegno, che mostra un’indubbia capacità critica nell’analizzare testi antichi e condurre confronti, con la quale si affronta uno dei temi più scottanti della storiografia cristiana, quello relativo alle comunità costituitesi subito dopo la morte di Gesù e dei contrasti tra una corrente interpretativa “ebrea” della sua predicazione, che vede tra i suoi leaders apostoli come Giacomo Maggiore e Barnaba, ed una corrente “latina” che a per protagonista e capo indiscusso Paolo di Tarso.

    Com’è noto sarà la dottrina paolina a prevalere e porsi come ortodossa, assumendo come “autentici” i tre Vangeli Sinottici (probabili manipolazioni “paoline” di precedenti testi) e tutti gli altri fatti passare per apocrifi [170]. Tra questi vi è il Vangelo degli Ebrei (il proto-Vangelo di Matteo “non-manipolato”?), una cui versione ”mussulmana” (anzi turca), scoperta da Toland stesso ad Amsterdam nel 1709, è l’oggetto principale del lavoro Un vangelo che egli attribuisce a Barnaba e ritiene sostanzialmente identificabile con il Vangelo dei Maomettani che tratta, come quello “degli Ebrei”, il punto di vista storico secondo la comunità nazorea. I Nazorei o Ebioniti (chiamati impropriamente Nazareni) hanno costituito per lungo tempo una spina nel fianco per la corrente paolina, anche perché Paolo veniva considerato da essi null’altro che un impostore. Egli, infatti, senza aver mai conosciuto Gesù, millantava di fornire la versione autentica della sua predicazione in virtù dei suoi rapporti diretti con lui attraverso i sogni. Queste prime comunità cristiane, che facevano riferimento perlopiù all’apostolo Giacomo Maggiore, accusavano Paolo di Tarso di agire falsamente in nome di Gesù e di essersi inventato un Gesù “ideologico” lontano da quello “storico” [171]. Questo il quadro in cui si colloca lo studio tolandiano, il cui obbiettivo principale è di individuare un nucleo “comune” a Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo, occultato nei primi secoli dell’èra volgare da interventi manipolativi e dai numerosi concilî che hanno selezionato fonti ad hoc per costituire, dal 324 in poi, un corpo dottrinario coerente con le linee prevalse e approvate da Costantino. 

    Secondo Toland gli Ebioniti sono i “veri” eredi della predicazione di Gesù e «per un certo tempo i soli cristiani.» [172] e sin da queste prime battute la posizione tolandiana si presenta come eversiva rispetto alle posizioni ufficiali. La parte centrale del lavoro è imperniata sulla dimostrazione della sostanziale coincidenza dei contenuti del Vangelo di Barnaba e quello dei Maomettani, ma la tesi è che il testo di riferimento per la vera dottrina cristiana è il Vangelo degli Ebrei (Nazorei-Ebioniti-Nazareni) in quanto conciliabile con le tre fedi abramitiche in uno spirito di tolleranza e di comprensione reciproche.  Ed il Nostro svolge i suoi argomenti in maniera diplomatica, senza mai mettere in discussione l’autorità di San Paolo né quella dei Padri. Chiudiamo con la citazione di un significativo passo del Capitolo XIX, dove si afferma contro i detrattori:

 

Non ritengo che sia un piccolo servigio reso alla vera religione porre nella luce più chiara obiezioni di questa natura […]  Sono ben lontano dall’ignorare che i preti e teologi da strapazzo di tutte le confessioni (che si distinguono facilmente rispetto ai veri pastori), invece di darsi da fare per dare soddisfazione in simili casi a se stessi e agli altri, sono abituati a inveire e ad alzare un gran clamore contro coloro che lo fanno, [presentandoli] come eretici dichiarati o atei mascherati […] Quei saccenti ipocriti in verità cercano di solito di coprire la loro malizia con l’ostentazione di zelo; ma la causa vera della loro agitazione è l’ignoranza che non vorrebbero rivelare o la pigrizia che non vorrebbero fosse disturbata, insieme ai vantaggi legati alla loro professione. [173]

 

    Ci occupiamo adesso del Pantheisticon, l’ultima fatica di Toland, apparsa nel 1720; opera assai singolare per la struttura e lo stile letterario e divenuta oggetto di studi specifici anche in Italia [174]. Essa si offre come il progetto per la fondazione di una Società Socratica (o dei Sodali); una specie di confraternita gnostica che ha per fine il conseguimento della verità e della bontà in un clima di sincera amicizia e serenità. Una certa dose di  ironia fa dell’opera un trattato in qualche punto semi-serio, ma offre anche l’occasione a Toland di definire meglio il modello ontologico esposto nella V Lettera a Serena.  Il modello letterario è la panphlettistica secentesca e in particolare quella di Jonathan Swift. Il titolo recita: PANTHEISTICON, ossia formulario per la celebrazione di una società socratica diviso in tre parti, che contengono: I. Le usanze e i principi dei Panteisti, ossia dei sodali.  II. Le concezioni della divinità e le dottrine filosofiche.  III. La dottrina della libertà e la legge infallibile e inviolabile. Segue l’indicazione del contenuto della Premessa (Discorso sulle comunità antiche e moderne di dotti e sull’eternità e infinità dell’Universo) e dell’Appendice (Breve dissertazione sulla necessità di adottare la duplice filosofia dei Panteisti e sull’idea di uomo perfetto e coltissimo).

    Sin dall’inizio della Prefazione viene precisato che la società panteistica trova il proprio fondamento pratico nella convivialità greca antica e che essa si esprime come « sodalizio di dotti » che coltiva la sapienza in « banchetti tra amici ». Progetto che pare ricordare più il Giardino di Epicuro che una Scuola di Socrate (sappiamo che Toland ha poca simpatia per Epicuro) ma che fa riferimento ai Conviviali di Plutarco per quanto riguarda «le regole del bere e quelle della discussione.»  [175] Dopo una sommaria introduzione Toland precisa che «Anche ai nostri tempi» alcuni si sono resi conto «come a tavola si discuta liberamente e in modo più interessante su qualsiasi argomento» e da ciò l’idea di costituire una « società socratica » fatta di:

 

persone molto vicine alla filosofia, che non accettano alcuna autorità intellettuale, non sono trascinati dall’educazione e dall’abitudine, non sono vincolai dalla religione e dalle leggi del loro paese, ma discutono con la massima serenità su qualsiasi argomento, tanto sacre (come si suol dire) quanto profano, usando un’estrema libertà di valutazione senza pregiudizi di sorta. Vengono di solito chiamati “Panteisti” a causa della loro concezione di Dio e dell’universo, radicalmente opposta a quella degli Epicurei, dei sostenitori del caos e di fabbricanti di sogni. I panteisti infatti non ammettono una confusioni primigenia, né la fortuna né il caso per spiegare l’origine del mondo, ma concordano con l’opinione di Lino, antichissimo e santissimo profeta  della scienza più occulta, sulla causa e sull’ordine delle cose, affermando che «tutte le cose derivano dal Tutto e il Tutto deriva da tutte le cose.» [176]

 

La linea teorica è chiara e si colloca nell’ambito dei classici panteismi, ma, come vedremo il modello di riferimento pare essere con buona approssimazione quello di Giordano Bruno. Come per Bruno, infatti, l’infinità è una caratteristica basilare del cosmo tolandiano. Quel che si precisa rispetto alla Lettera V è che qui esso è definito «immobile nella sua totalità, poiché al di fuori di esso non esiste alcun luogo né spazio, ma mobile nelle sue parti […] incorruttibile e necessario in ogni senso.» [177]  Vi è un riferimento alle differenziazioni bruniane parti/tutto [178] ed è da subito posto il più rigido determinismo. Esso è eterno e «dotato di un sommo grado di intelligenza […] e le parti che lo compongono sono sempre in moto.» [179] Ed ecco la tematizzazione del pandinamismo:

 

IV. Da tale movimento e dall’intelligenza (che è la forza e l’armonia del Tutto infinito) nascono le innumerevoli specie delle cose […] tutto è governato secondo una razionalità assoluta e un ordine perfettissimo […] Dunque la forza e l’energia del Tutto, che crea e governa tutte le cose e tende sempre al fine migliore, è Dio, che se si vuole si può chiamare “mente” e “anima del mondo”. [180]

 

Risulta qui l’abbandono di ogni elemento materialistico precedentemente espresso e l’adesione integrale al panmentalismo bruniano (ma non meno spinoziano) per quanto la sottolineatura della «razionalità assoluta» ci riporti piuttosto agli Stoici e a Spinoza. manca un riferimento a Plotino e al suo concetto emanatistico nella successiva frase: «Dio è la causa eterna di un mondo eterno, e tutte le cose son emanate senza mediazione da Dio fin dall’eternità.» [181], e poi ad uno dei padri della dottrina cristiana: «Ma soprattutto Girolamo ha usato una formula davvero felice, dicendo che “Dio dall’esterno e dall’interno è infuso e circonfuso al mondo “, chiudendo con: «È questo il modo di esprimersi degli antichi e soprattutto dei Pitagorici » [182]

    Il quadro “mistico” di riferimento pare ormai completato, ma poi Toland introduce quegli «elementi semplicissimi e indivisibili in atto, infiniti per specie e per numero » che farebbero pensare agli atomi, ma che in realtà sono i semi “qualitativi” anassagorei (omeomerìe). Infatti, ad evitare ogni equivoco, si precisa subito dopo che la divisione dei corpi «nei propri elementi avviene senza che esista alcun vuoto.» [183] Ripresa forse da Anassagora l’assunzione dell’etere come medium cosmico igneo, ma si comprende meglio il riferimento a Bruno: «Il fuoco etereo che circonda tutte le cose, e perciò è supremo; che penetra ogni cosa, e perciò è interno; che ha una somiglianza soltanto analogica e imperfetta col fuoco di uso domestico; l’etere, dico, compie nel modo appropriato tutte le operazioni della percezione, dell’immaginazione, della memoria, dell’estensione e riduzione delle idee » [184] Ma si scopre presto il riferimento anche all’Ippocrate del De Diaeta (A, X, 3):  « Solo tale fuoco, più mobile del pensiero stesso e più sottile di qualsiasi altra materia può percorrere  con un moto tanto rapido  le corde tese e i filamenti  dei nervi […] » [185] Ma è anche il « soffio divino » in Orazio e la «forza infuocata » di Virgilio. Questi richiami al classicismo pagano ci rendono chiaro il fatto che al di là delle dichiarazioni di fede cristiana egli continua a far riferimento a uno spirito religioso più generale, tendente teologicamente ad ”includere” e non a “escludere”, come il Cristianesimo dell’epoca perlopiù faceva. E non manca anche il ricordo del De morbo sacro dello stesso Ippocrate, che Toland, secondo una tradizione minoritaria, attribuisce invece a Democrito.

    Nel capitolo VII Toland è esposto il lato più specificamente anassagoreo del sistema, definendo gli elementi primi dell’essere:

 

Da questi primi corpuscoli, o principi più semplici (i  quattro elementi comunemente ammessi no nono infatti né semplici né sufficiente) traggono origine i semi composti di tutte le cose, abbozzati dall’eternità […] il seme dell’albero non è soltanto un albero in potenza, come supponeva Aristotele, ma un vero albero, nel quale sono contenute tutte le parti integranti dell’albero;  anche se sono tanto piccole da non poter essere accessibili ai sensi senza i microscopi, e neppure allora con sicurezza, tranne che in pochissimi casi. [186]

 

È notevole il fatto che Toland, assai poco attento alla sperimentazione scientifica, accenni qui al microscopio come strumento in grado di accedere al seme. Proseguiamo:

 

Ma a tale albero in miniatura mancano soltanto una distinzione più completa delle parti e la grandezza, che esso acquista gradualmente per aggiunta di corpi semplici, distinti per specie; e queste sono le parti costitutive necessarie al nutrimento e all’accrescimento di quel corpo composto. […] Lo stesso vale per le altre specie dell’universo […] [187]

 

Si ricorderà che questo concetto era già stato espresso e che gli esseri viventi erano stati associati ai metalli e ai minerali. Il concetto viene qui ribadito con l’unica aggiunta di un «in forma differente »

 

Se infatti neppure le piante fruttificano nello stesso modo, perché meravigliarsi se le cose che crescono sotto terra hanno in sorte un diverso sistema di vita? Chiunque abbia osservato in qualche luogo la produzione di innumerevoli pietruzze degne di nota per la varietà delle loro forme, non avrà motivo di credere che fossero meno dotate di vita rispetto ai denti e alle ossa degli animali. Come ogni terreno non produce ogni cosa, così non tutte le pietre, e neppure tutte le piante, nascono in qualsiasi luogo, poiché non si trova dappertutto il nutrimento adatto per ciascuna. [188]

 

Vale la pena soffermarsi perché rivela la complessità del background culturale tolandiano, costituito da una commistione di credenze pagane, di velleitarie illusioni alchemiche e di elementi della ricerca mineralogica e biologica dell’epoca. E nello specifico il seme dell’albero come “albero in miniatura” riecheggia in pieno le posizioni del partito dei biologi preformisti.

    Quest’elemento fisico-biologico si accompagna ad asserzioni teologiche: «Non vi è  nulla sulla Terra, per dirla in breve, che non sia organico; e non si dà per alcun corpo una generazione equivoca, ossia senza il proprio seme. Perciò non senza motivo va attribuito alla Terra il titolo di Madre Panspermia, della quale il Sole Panmestor è lo sposo che non invecchia mai.» [189] Ad essa si accompagnano asserzioni di carattere massonico: «IX. I Panteisti aderiscono all’astronomia pitagorica, o piuttosto egiziana e, per parlare come i moderni, copernicana; pongono il Sole il centro e i pianeti che gli ruotano intorno, tra i quali la nostra Terra non è la più piccola né l’ultima.» [190]  Abbiamo già rilevato come Toland riservi molta attenzione agli antichi Egizi, e siccome la simbologia egizia è alla base di quella massonica più di uno studioso si è chiesto se egli fosse massone e Margaret C.Jacob ha concluso per il sì [191]. Ma nessuna evidenza esiste in proposito e si può ritenere che egli partecipasse di un clima esoterico molto vivo in una massoneria che stava trovando consensi e adesioni. Il Capitolo XVI fa però pensare a qualcosa più di coincidenze laddove il Nostro scrive:

 

Per tornare finalmente sulla Terra: poiché la filosofia secondo i Panteisti, come secondo i più saggi degli antichi, si divide in esterna, o popolare e corrotta, e interna, ovvero pura e autentica, fra di loro non sorge alcun conflitto se qualcuno dei sodali professa un’eresia ispirata alla tradizione (purché non sia completamente falsa) o una dottrina universalmente accettata. Non discutono mai delle sciocchezze delle scuole, ritenendo che nelle questioni indifferenti non vi sia massima più  prudente del vecchio detto «occorre parlare come il volgo e pensare come i filosofi.» [192]

 

Questa tolleranza accompagnata ad indifferenza appartiene a un orizzonte “aperto” che agli inizi la Massoneria ha puntualmente onorato, salvo venirne meno in seguito. Ma qui emerge anche, tipico dell’epoca, il malcelato disprezzo per le “scuole” universitarie, luoghi deputati a propinare una cultura ormai sclerotizzata.   

    Conclusa la parte teorica Toland sviluppa quella dei rituali, che evocano quelle della liturgia cristiana nei meccanismi dell’”invocazione e risposta”, su cui non ci soffermiamo. Vediamo invece la Breve dissertazione che chiude l’opera, dove i Panteisti sono definiti «adepti e sacerdoti della natura […] come un tempo i Druidi, eminenti per le loro qualità intellettuali.» [193]   Ne segue un quasi ironico: «Chi mai potrebbe essere più sapiente e migliore? […] Qui non si tratta affatto, data la sede inopportuna, dei santissimi detti del Messia, che vanno sempre professati senza aggiunte fraudolente e interpretazioni perverse […] Infine, per quanto riguarda i dogmi più sacri, per esempio quelli relativi alla natura di Dio e dell’anima, li contemplerà in silenzio e vi mediterà secondo la loro importanza.» [194]. La separazione tra il serio e il faceto è qui ribadita e ciò che sembra un gioco semi-serio si avvia alla conclusione con la domanda:

 

Ma forse qualcuno, curioso più che saggio e riflessivo, chiederà se esista realmente una società di questo genere; se davvero vi si reciti il formulario che abbiamo citato, o se piuttosto, così come sono stati immaginati modelli di sovrani e Stati perfetti, così tutte quelle notiziole relative ai Panteisti siano state inventate per fornire l’immagine di una società ricca di allegria e di erudizione? Può darsi […] [195]

 

 E dopo una citazione dal De Arte Poetica di Orazio (« […] Custodisca ciò che gli è stato affidato; invochi gli Dèi, e preghi / che la fortuna si accosti ai miseri e abbandoni i superbi.» la chiusa:

 

Se nella poesia o nella pittura qualcuno si dipinge un’amante perfetta, dotata di ogni bellezza e grazia, anche se non ne ha davvero una simile, non sarà per questo da ritenere inesperto d’amore o spregiatore della bellezza. Ma, per dirla in poche parole, vi sono senza dubbio in alcuni luoghi non pochi Panteisti: i quali, al pari di altri, hanno riunioni e società private, nelle quali tengono conviti e inoltre discutono di filosofia, che è il tipo più piacevole di condimento. Ma qualora mi si chieda se fra loro sia sempre e dovunque recitata questa formula, o qualche sua parte, lascio in sospeso la questione. Tu però fanne buon uso, chiunque tu sia: e mi auguro che ti faccia del bene. [196]

 

Dunque un sorta di sogno?

 

 

 

NOTE

[1] V.Ferrone e D.Roche, Postfazione a L’Illuminismo, Dizionario storico, cit., p.523.

[2] D.Diderot, Opere filosofiche, a cura di P.Rossi, Milano, Feltrinelli 1963, p.16.

[3] Si veda: C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Firenze, Clinamen 2007, 143-147.

[4] Si veda: C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, cit. pp.12-13.

[5] D.Mornet, op.cit., p.40.

[6] E.Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, Firenze, La Nuova Italia 1974, pp.22-23.

[7] Ivi, pp.23-24.

[8] Ivi, pp.30-31.

[9] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, il Mulino 1987, p.249.

[10] B.de Mandeville, La favola delle api, Roma, Laterza 1987, p.13

[11] Ivi, p.15.

[12] Ivi, p.62.

[13] H.Butterfield, cit, pp.185-186.

[14] R.Lenoble, Le origini del pensiero scientifico moderno, in: AaVv, Storia della scienza, tomo I, cit, pp.407-408

[15] AaVv, Il libertinismo in Europa, Presentazione, Milano-Napoli, Ricciardi 1980, p.3.

[16] G.Minois, Storia dell’ateismo, Roma, Editori Riuniti 2000, pp.20-29.

[17] Ivi, p30.

[18] C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Firenze, Clinamen 2007, 148-153.

[19] O.Blanc, Parigi libertina al tempo di Luigi XVI; Roma, Salerno Editrice 2003, p.325.

[20] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit, p.123.

[21] Ivi, p.138.

[22] Ibidem.

[23] G.Spini, Ricerca dei libertini, Firenze, La Nuova Italia 1983, p.7.

[24] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit,, p.94.

[25] Ivi, p.148.

[26] Ivi, p.156.

[27] Ivi, pp.156-157.

[28] A.Tenenti, Credenze, ideologie, libertinismi, Bologna, Il Mulino 1978, p.279.

[29] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit,, p.127.

[30] Ivi, p.186.

[31] Ibidem

[32] Ibidem.

[33] Ivi, p.191.

[34] Ibidem.

[35] Ivi, p.195.

[36] Ivi, p.196.

[37] Ivi, p.196-197.

[38] Ivi, p.197.

[39] Ibidem.

[40] Ivi, p.212.

[41] Ibidem.

[42] C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, cit., pp.69-72.

[43] T.Gregory, Etica e religione nella critica libertina, Napoli, Guida 1986, p.56..

[44] D.Bosco, Metamorfosi del “libertinage, Milano, Vita e Pensiero, p.128.

[45] Ivi, p.129.

[46] Ivi, pp. 160-161.

[47] Ivi,p.163.

[48] Ivi, pp.163-164.

[49] Ivi, pp.164-165.

[50] Ivi, p.194.

[51] J.S.Spink, Il libero pensiero in Francia da Gassendi a Voltaire, Firenze, Vallecchi 1974, p.72.

[52] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit, p.228.

[53] C.Borghero, L’egoismo e il benessere, in: Storia della filosofia, cit., vol. III, Roma-Bari, Laterza 1996, p.187.

[54] Cfr. Saint-Evremond, Sur la morale d’Épicure, in: A.Adam, Les libertins au XVIIe siècle, Paris 1964, pp.229-235.

[55] Sull’argomento si veda: C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, Firenze, Clinamen 2005, §§ 5.1 e 5.2.

[56] http://www.vc.unipmn.it/%7Emori/e-texts/index_it.htm

[57] H. Ostrowiecki, Le jeu de l’athéisme dans le Theophrastus redivivus, in: Revue philosophique de la France et de l’étranger, Presse Universitaire de France, n°121, 2/1996.

[58] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit, p.255.

[59] Ivi, pp.255-256.

[60] Ivi, p.255

[61] T.Gregory, Theophrastus redivivus. Erudizione e ateismo del Seicento, Napoli, Morano 1979, p.19.

[62] Ivi, p.23.

[63] Ivi, p.29.

[64] Ivi, p.31.

[65] Ivi, p.39

[66] Ivi, p.44.

[67] Ivi, p.45.

[68] Ivi, pp.49-52.

[69] Ivi, p.53.

[70] Ivi, p.56.

[71] Ivi, pp.59-64.

[72] Ivi, p.69.

[73] Ivi, p.81.

[74] Ivi, p.83.

[75] Ivi, p.87.

[76] Ivi, p.89.

[77] Ivi, p.91.

[78] Ivi, p.132.

[79] Ivi, pp.180-181.

[80] Ivi, pp.184-185.

[81] Ivi, pp.185-186.

[82] Ivi, p.187.

[83] Ibidem.

[84] Ivi, p.188.

[85] Ivi, p.190.

[86] Un originario (e quasi mitico) De Tribus impostoribus, risalente al XIII secolo, è stato attribuito a Pier delle Vigne e a Federico II, ma senza alcun fondamento.

[87] Secondo Margaret C.Jacob (L’Illuminismo radicale, cit., p.175) quest’opera sarebbe stata stampata all’Aia nel 1719 e nata nell’ambito della società dei Cavalieri del Giubilo, legata alla Massoneria. La Jacob ha individuato gli autori in Charles Levier e Rousset de Missy, due protestanti francesi fuorusciti cogliendo una continuità tra essi e Toland e la parziale derivazione del Sistema della natura di d’Holbach dalle Lettere a Serena dell’irlandese (Ivi, p.327).

[88] F.Charles-Dubert, Les Traités des trois imposteurs aux XVIIe et XVIIIe siècles, in: Aa Vv., Filosofia e religione nella letteratura clandestina, a cura di G.Canziani, Milano, FrancoAngeli 1994, pp.291-336.

[89] Si tratta di un personaggio importante, amico di Diderot e d’Holbach. Ateo di ispirazione holbachiana è tra i più attivi rappresentanti del radicalismo anticlericale. Con estrema coerenza osteggia l’istituzione del culto dell’Essere Supremo voluto da Robespierre. Scrive tre voci dell’Encyclopédie, un Recueil philosophique ou  Mélange de pièces sur la religion et la morale (1770), un’Histoire de la philosophie ancienne et moderne (1791) e  le Mémoires  sur la vie et les oevres de Diderot, apparse  postume nel 1821.  

[90] C.Giuntini, Il deismo, in:, Storia della filosofia, a cura di P.Rossi e C.A.Viano, vol.IV, Roma-Bari, Laterza 1996, p.107.

[91] Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, p.46.

[92] Ivi, p.49.

[93] Ivi, p.50.

[94] Ivi, pp.54-55.

[95] Francis Glisson (1597-1677) fu un anatomista di tendenza naturalista e seguace di Bacone che individuò per primo il carattere energetico della materia in generale. Nello specifico, come medico, studiò il rachitismo e la struttura e il funzionamento del fegato. Studiò l’irritabilità delle fibre muscolari e distinse acutamente la percezione dalla sensazione.

[96] Niklaas Hartsoeker (1656-1725) sviluppa una concezione atomistica qualitativa, dove gli atomi hanno forme differenti (sferici quelli del mercurio, prismatici quelli del ferro, ecc.). Mette anche in dubbio l’esistenza del vuoto sostituendovi l’etere, sostanza fluida incorporea che pervade lo spazio; bandito ogni materialismo sostiene che la struttura atomistica dell’universo è frutto della Creazione. Hartsoeker (che segue Leeuvenhoek nel concepire l’animalculismo preformista) sostiene anche una sorta di “panspermia” del tipo già proposto da Claudio Berigardo, per quanto questi pensasse ad atomi-semi fisici e Hartsoeker a bio-semi.

[97] P.Rossi, L’universo-macchina, Bari, Laterza 1969, p.210..

[98] Ivi, p.217 n.

[99] Ivi, pp.218-219.

[100] Ivi, p.220.

[101] Ivi, p.221.

[102] J.Toland, Pantheisticon, in: Opere, a cura di C.Giuntini, Torino, UTET 2002, p.95.

[103] Ivi, p.96.

[104] Ivi, p.97.

[105] Ivi, p.98.

[106] Ivi, pp.100-101

[107] Ivi, pp.108-109.

[108] Ivi, p.111.

[109] Ibidem.

[110] Ivi, pp.112-113.

[111] Ivi, pp.117-119.

[112] Ivi, pp.122-123.

[113] Ivi, p.143,

[114] Ivi, p.145.

[115] Ivi, p.147.

[116] Ivi, pp.161-162.

[117] Ivi, pp.174-175.

[118] Ivi, p.186.

[119] J.Toland, Lettere a Serena, in: Opere, cit, pp.194-195.

[120] Ivi, p.217.

[121] Ivi, p.218.

[122] Ivi, p.235.

[123] Ivi, pp.244-245.

[124] Ivi, p.246.

[125] Ivi, p.260.

[126] Ibidem.

[127] Ivi, p.273.

[128] Ivi, p.278.

[129] Ivi, p.279.

[130] Ivi, p.282.

[131] Ibidem.

[132] Ivi, p.291.

[133] Ivi, p.294.

[134] Ibidem.

[135] Ivi, p.295.

[136] Ivi, p.299.

[137] Ivi, pp.299-300.

[138] Ivi, p.300.

[139] Ibidem.

[140] Ibidem.

[141] Ivi, p.302.

[142] Ibidem.

[143] Ibidem.

[144] Ivi, pp.305-306.

[145] Ivi, p.306.

[146] Ivi, p.307.

[147] Ibidem.

[148] Ivi, p.308.

[149] Ivi, p.309.

[150] Ivi, pp.309-310.

[151] Ivi, pp.314-315.

[152] Ivi, p.318.

[153] Ibidem.

[154] Ibidem.

[155] Ivi, p.219.

[156] Ibidem.

[157] Ivi, p.320.

[158] Ivi, p.321.

[159] Ivi, p.324.

[160] Joseph Raphson nel De spatio reali seu ente infinito conamen matematico-metaphisicum (1697) aveva individuato nello spazio assoluto il luogo privilegiato dell’attività divina.

[161] J.Toland, Lettere a Serena, in: Opere, cit, p.324.

[162] Ivi, p.325.

[163] Ivi, p.326.

[164] Ivi, p.328.

[165] Ibidem.

[166] Ivi, p.332.

[167] Ivi, p.333.

[168] Ibidem.

[169] Ibidem.

[170] Per avere un’idea di che cosa siano i vangeli apocrifi (letteralmente = nascosti) si tenga presente che contro i 4 considerati autentici (3 Sinottici  + Giovanni) gli apocrifi  sono ben 47. Si aggiunga poi che sono anche considerati apocrifi 30 Atti alternativi a quelli riconosciuti, 12 Epistole, 10 Apocalissi e una ventina di altri scritti di vario genere. 

[171] Sull’argomento si veda l’interessante saggio di L.Zen, L’invenzione del Cristianesimo, Firenze, Clinamen 2003.

[172] J.Toland, Nazareno, in: Opere, cit, p.415.

[173] Ivi, pp.497-498.

[174] Tra gli altri l’edizione critica (con testo originale latino a fronte) a cura di O.Nicastro e M.Iofrida (Pisa, ETS 1996).

[175] J.Toland, Pantheisticon, in: Opere, cit.,p.580.

[176] Ivi, p.581

[177] Ivi, pp.581-582.

[178] Si veda: C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Firenze, Clinamen 2007, pp.140-143.

[179] Pantheisticon, p.582

[180] Ibidem.

[181] Ivi, p.583.

[182] Ibidem.

[183] Ivi, pp.383-384.

[184] Ivi, p.385.

[185] Ibidem.

[186] Ivi, p.587.

[187] ivi, pp.587-588.

[188] Ivi, p.589.

[189] Ivi, p.590.

[190] Ibidem.

[191] M.C.Jacob, L’Illuminismo radicale, pp.263-327.

[192] Ivi, p.601.

[193] Ivi, p.619.

[194] ivi, p.624.

[195] Ivi, p.624.

[196] Ivi, p.625.