10.1 Introduzione
Quattro considerazioni
preliminari concernenti il presente paragrafo:
1. il Settecento è sicuramente
il secolo nel quale per la prima volta l’atteggiamento
laicistico in generale e
la morale laica in particolare escono alla
luce del sole e trovano spazio
pubblico; 2. ciò non significa affatto che
essi influenzino in maniera decisiva
il corso la scienza, che per sua natura,
per i suoi principi euristici e per il
suo modo di operare, prescinde dalla sfera
morale; 3. la strumentazione tecnica
entra, in modo diffuso e determinante (si
pensi solo al microscopio) come
attrice principale e determinante delle scoperte
e degli sviluppi della scienza;
4. se il Settecento offre un panorama di
eccellenza in tutte le discipline
scientifiche, ciò non significa che il secolo
che lo precede gli sia da meno; anzi,
per alcuni versi il Seicento, ad esempio
nella fisica astronomica, può essere
considerato addirittura più prolifico. Ma
il Settecento è quello in cui gli
scienziati operano nella consapevolezza di
una dignità del loro operare
indipendentemente dalla metafisica e dalla
religione. Essi diventano
consapevoli che il valore delle loro scoperte
sta nella conoscenza “in sé” e
non nel rapporto con la “verità” religiosa
che possa essere eventualmente confermata
o contraddetta. Il cosmo in generale e la
natura non sono più visti solo come il
frutto della sapienza-potenza-intelligenza
del Creatore, poiché essi celano
meraviglie e perfezioni riferibili ad un
ordine interno non necessariamente
tributario del progetto divino.
Il passo più importante è
quello di aver reso la scienza indipendente
dalla metafisica; gli scienziati
incominciano ad assumere a propria guida
e ispirazione il “come funziona”,
concetto di base del fare scienza moderno;
quindi dal “che cosa” sia la natura
si passa al “com’è” e al “quel che fa”. Sino
a tutto il Seicento tutti o quasi
gli uomini di scienza operavano per conoscere
meglio la meravigliosa opera
della Creazione agendo “per la maggior gloria
di Dio”; dal Settecento in poi
qualcuno incomincia a mirare ad un conoscere
in quanto tale e per se stesso,
schiettamente a-teologico, che pone nell’oggetto
o nella situazione da conoscere
“il fine” del proprio operare. E
tuttavia, come abbiamo già visto e come vedremo
ancora, il sistema di potere
teologico non era assolutamente disposto
a tollerare questa nuova impostazione dell’attività
umana e la libertà di ricercare, scoprire,
calcolare e teorizzare in contrasto
con la verità religiosa doveva incontrare
ancora serie difficoltà. Ma
inesorabilmente, lentamente all’inizio e
in accelerazione verso la fine del
secolo, un operare della scienza a-teologico,
una ricercare in quanto tale, cominciano
ad assumere una nuova dignità indipendentemente
dai lacci della tradizione
metafisica ed a costituire un nuovo orizzonte
per la mente umana.
Difetto tipico delle interpretazioni degli
storici
idealisti o bigotti, spesso troppo legati
alla tradizione umanistica, è il
trascurare l’importanza del procedere della
conoscenza e della tecnica sul
progresso culturale generale, al punto da
metterne talvolta in evidenza
supposte negatività. Così ci sono storici
pur pregevoli come Chaunu che tendono
a minimizzare la scienza del Settecento per
enfatizzare la metafisica del
Seicento quale sua fonte primaria. Anche
noi siamo convinti che il XVII secolo
abbia portato molta acqua al mulino della
cultura settecentesca, ma per la
ragione opposta, ovvero grazie a ciò che
di “non-metafisico” vi era in esso. La
metafisica è infatti quell’attività umana
che “inventa” o “fabbrica ad hoc”
una realtà fittizia attraverso costruzioni
logico-dialettiche che nulla hanno a
che fare con la conoscenza. Una fabbricazione
che si basa su una creatività
inesauribile per mezzo di una strumentazione
logico-dialettica surrettizia,
quella che ha prodotto una gigantesca massa
di teologia filosofale gabellata
per filosofia. Una filosofalità zeppa di
teorie pseudo-scientifiche quanto
povere di scienza vera che si estrinseca
nelle invenzioni metafisiche di un Cartesio
o di un Leibniz. Eppure, già con Bacone,
era stata indicata la via
dell’”esperienza” come la strada maestra
per la produzione di conoscenza
autentica, ribaltando il concetto aristotelico
di scienza come studio delle
“sostanze” e ponendo invece l’osservazione
e lo studio degli “accidenti” a base
del sapere. Se la metafisica aveva sempre
ritenuto la realtà fattuale ed
effettuale come elemento secondario ed inessenziale
per il raggiungimento della
“verità”, da Bacone in poi diventa possibile
pensare la realtà “in sé” come
punto di partenza del conoscere. Dopo di
lui Locke, Gassendi, Bayle e infine
Newton rafforzeranno questa posizione ognuno
a suo modo: approfondendo le modalità
del conoscere, analizzandone tutti gli aspetti
in profondità, esperendo ricerca
diretta e ponendole basi della nuova fisica.
Il Settecento si presenta come il
primo secolo nel quale una parte significativa
degli intellettuali conduce le
proprie ricerche e le proprie analisi adottando
il criterio, totalmente nuovo,
di tradurre l’esperienza in teoria e non
di fabbricare teorie per produrre
pseudo-conoscenza.
L’attività scientifica e la
tecnologia, con la realizzazione di strumenti
e macchine, assume importanza
primaria n non perché il XVIII sia un secolo
in cui il progresso
scientifico-tecnologico sia particolarmente
tumultuoso in termini di
innovazione. Al contrario, le vere novità,
le autentiche nuove scoperte e le
nuove invenzioni sono nel Settecento tutto
sommato inferiori a quelle del
Seicento. Gli storici che sostengono essere
questo secolo più “innovativo” sul
piano scientifico di un Settecento più “applicativo”
dicono il vero, l’affermazione
viene però da due punti di vista molto differenti.
Il primo ritiene che le
teorizzazioni tipiche dei metafisici, Cartesio
e Leibniz in testa, basate
eminentemente sulla matematica, siano più
importanti rispetto all’osservazione e
alla sperimentazione sul. Il secondo gruppo
non ne fa una questione metafisico-matematica
ma di priorità, cioè ritiene che il momento
importante da evidenziare sia
quello in cui “nasce” un nuovo concetto scientifico,
un indirizzo di ricerca,
una soluzione tecnologica, e in tal senso
è indubitabile che uomini come
Galileo, Keplero, Boyle, Harvey, Huygens,
Newton, Dalton, Leeuwenhoek Lavoisier,
per citare solo i maggiori, siano i veri
pionieri della scienza moderna. Il
fatto più significativo e ché questi geni
operano in condizioni spesso di
estrema difficoltà, in relazione sia allo
scarso interesse loro prestato dal
mondo culturale umanistico e politico in
genere e soprattutto per la diffidenza,
se non dall’aperta ostilità, delle autorità
religiose, che in epoca barocca
controllano quasi totalmente l’istruzione
specialmente attraverso i Gesuiti.
Il Settecento è importante
per la scienza e la tecnologia perché in
larga parte, specialmente nella
seconda metà, sgancia la prima dalle università,
trasferendola nelle accademie
e nelle società di promozione, ed assume
la seconda come primario motore di
progresso attraverso una nuova attenzione
a un profano che si libera dai
lacci del sacro. Ma il fatto principale consiste nel fatto
che sono
molte gli intellettuali, ma anche solo le
persone do media cultura, ed in
sempre più larghi strati della popolazione,
che spostano l’asse del loro
interesse dalla religione alla scienza. Un
nuovo atteggiamento che può essere
considerato un vero e proprio “spirito del
secolo”, si da trasformare nel
profondo la società europea aprendo orizzonti
antropologici del tutto nuovi
rispetto al passato. La scienza e la tecnica
non sono che i veicoli reali che
trasportano l’homo sapiens in questo nuovo orizzonte e la matematica
si trasforma
in “geometria”, sì che l’aggettivo “geometra”
indica nel Settecento la persona
che si occupa di scienza. Simon Tyssot de
Patot (1655-1728) in una delle sue
ultime Lettere scelte (la n° 67
del 1727), aveva scritto: «Ormai sono tanti
anni che spazio per le vie vaste e
illuminate della geometria che tollero a
stento i sentieri stretti e bui della
religione.» [1] L’astronomo inglese Francis Baily (1774-1844)
darà più tardi questa definizione:
Un geometra è un uomo che si propone di
scoprire la verità e questa ricerca è sempre
difficile sia nelle scienze che
nella morale. Profondità di penetrazione,
precisione di giudizio, vivezza di
immaginazione, ecco le qualità dl geometra.
[2]
Relativamente alle
istituzioni che promuovono e sviluppano questo
nuovo corso della cultura a
favore del sapere scientifico, vanno ricordate
istituzioni vecchie come la Royal
Society (1660) e l’Académie des sciences
(1666), e nuove come l’Accademia delle
scienze di Berlino (1710), l’Accademia Reale
di Stoccolma (1739), la società
Reale di Copenaghen (1745). Ma insieme a
queste ultime nascono centinaia di
accademie ed associazioni locali pubbliche
e private, che svolgeranno un ruolo
fondamentale nella diffusione della scienza.
E saranno proprio queste i veri
motori di una nuova cultura; nate in Gran
Bretagna dall’iniziativa privata
attraverso l’associazionismo dal basso e
l’opera volontaria e gratuita degli
studiosi, altrove, specialmente in Francia
e Italia, nascono perlopiù sotto il
patrocinio pubblico o grazie ai buoni uffici
(e ai quattrini) di qualche
munifico mecenate. Ciò che importa rilevare
è che si tratta di un movimento
tendenziale che muta completamente la situazione
della cultura, e che vede alcuni
politici avveduti farsi promotori anche dello
sviluppo delle arti e dei
mestieri. Si legga che cosa pensa Turgot
nel 1748:
Un’arte, una volta inventata e stabilita,
diventa un oggetto di commercio capace di
sorreggersi da sola. Non c’è da
temere che sparisca l’arte di fare velluti,
finché vi sarà della gente che ne
acquista. Le arti meccaniche sussisteranno
anche durante la caduta delle
lettere e del gusto, e sussistendo si perfezioneranno.
Il genio è diffuso tra
la massa degli uomini come l’oro in una miniera;
quanto più si scava la
miniera, tanto più si ottiene il metallo.
Una qualsiasi arte, coltivata per una
lunga serie di secoli, ha dovuto quindi capitare
nelle mani di qualche spirito
inventivo. [3]
Ma se
fin’ora abbiamo dato qualche indicazione
circa il progredire della conoscenza
scientifica, ci corre l’obbligo di un cenno
a una pseudo-conoscenza che agisce
in senso antiscientifico, ma che ha il grande
fascino letterario di evocare
miti ancestrali mai sopiti nell’immaginario
umano e sempre ricorrenti a ondate
successive: il vitalismo. Ne è esponente principale Jean Baptiste
Robinet (1735-1820), autore di un corposo
Sulla natura in quattro tomi,
usciti tra il 1761 e il 1766, che fu molto
apprezzato dai romantici tedeschi
(in particolare Herder e Goethe, che ne rielaborarono
alcune premesse) nonché
da Hegel, il quale, nelle sue Lezioni sulla storia
della filosofia,
dedica a lui molta più attenzione e spazio
di quanti ne dedichi a tutti i philosophes
messi assieme. Non a caso Robinet considera
l’insieme della natura vivente come
un’Unità complessa e progressiva, un Uno-Tutto
panteistico e necessitato che
progredisce incessantemente e deterministicamente
dal meno perfetto al più
perfetto. In questa scala di esseri l’uomo
bianco europeo è al vertice della
scala biologica, mentre l’asiatico giallo
è l’anello di congiunzione regressiva
al negro africano, il genere di uomo che
a sua volta si collega (quale gradino
evolutivo successivo alle scimmie) con lo
scimpanzé. Si comprende bene come ci
troviamo di fronte ad un razzismo radicale,
che va a sostegno e conforto morale
del nascente colonialismo e dei suoi fini
egoistici. Ma se si cerca il senso
del suo successo nell’ambito del Romanticismo
e dell’Idealismo panteista
tedesco, bisogna coglierlo nella sua teoria
in base alla quale l’universo è un
“continuo” evolutivo che parte dall’atomo
per arrivare all’uomo bianco in una
grandiosa “catena dell’essere”. Teoria nettamente
storicistica e finalistica, e
per tale ragione interessante per Hegel,
anche perché per Robinet gli atomi
sono, vitalisticamente, già forniti di vita
e di anima a uno stadio-base che
non chiede altro che tempo e “storia” per
arrivare all’obiettivo-vertice. Manca
solamente l’ultimo passaggio per arrivare
a quello Spirito Assoluto che
riassume e ricapitola la teologica storia
dell’essere.
10.2 La scienza come attività umana
specifica
Per noi, uomini del XXI
secolo, è difficile immaginare una situazione
più equivoca e una terminologia
più confusionaria di quella che permea ancora
buona parte del XVIII, quando
l’aggiunta dell’aggettivo “naturale” al termine
di filosofia è già in
uso per indicare una ricerca naturalistica
ancora impregnata di teologia,
mentre l’attività filosofica in senso lato
è ancora largamente dominata dalla
metafisica. Sino alla fine del Settecento
gli scienziati puri sono pochissimi e
gli scienziati che nella loro vita si occupano
di un’unica disciplina, come
specialisti di essa, ancor meno. Il criterio
della “divisione del lavoro”, al
fine di concentrare attenzione ed energie,
è limitato a pochi ambiti; l’uomo di
scienza è molto spesso un letterato che ha
deciso di abbracciare le ricerche
sulla natura solo per passione e la scienza
si configura ancora in gran parte
come attività dilettantistica. I dilettanti,
che hanno un ruolo fondamentale
per gli sviluppi della scienza e della tecnica
sono dei privilegiati, persone perlopiù
facoltose che non lavorano per vivere, e
che quindi possono permettersi di
spendere il proprio tempo ed utilizzare risorse
economiche per amore della
conoscenza senza dover fare i conti con lo
sbarcare il lunario attraverso i
frutti del proprio lavoro.
Questa nuova dignità della
scienza, tuttavia, affonda le proprie radici
nel Seicento, il secolo dei grandi
metafisici ma anche quello di grandi fisici,
astronomi e medici-fisiologi. Per
quanto i Galileo, i Keplero, gli Harvey,
gli Huygens e i Newton operassero “per
la maggior gloria di Dio” non meno dei metafisici
Cartesio, Spinoza e Leibniz,
furono essi ad aver posto le basi del “fare
scienza” in senso moderno. Prima
ancora della sistematica matematizzazione
e meccanicizzazione del mondo fisico,
Newton apre la strada alla metodologia scientifica
ponendo le “leggi” della
materia a fondamento di ogni possibile comprensione
della realtà. Le leggi
fisiche che governano gli enti del cosmo,
i loro movimenti e le loro
trasformazioni, diventano il sistema astratto
attraverso il quale l’immanenza,
il mondo, si fa intelligibile. La gloria
del Dio “trascendente” tende a
diventare sempre meno il “fine” del produrre
scienza per scoprire le meraviglie della
Creazione; Il Creatore è sempre più soltanto
il “notaio” della realtà del cosmo, il garante
dell’esistenza del mondo
“immanente”e del pensiero umano che ne va
scoprendo le leggi. Questa nuova
visione, perlopiù meccanicistica, della materia
determina anche la definitiva
separazione della sfera delle lettere da
quella delle scienze. E tuttavia, il
Settecento non riesce a sbarazzarsi del tutto
dalla metafisica,
dall’anti-scienza, in base alla quale il
sapere è un “tutto” omogeneo e non un
“insieme” di discipline. Non solo, alcuni
tra i più influenti intellettuali del
secolo non fanno che confermare un’immagine
statica dell’universo, e Voltaire può
affermare, a sostegno della stabilità non
solo del mondo fisico ma anche di
quello biologico (ovvero del “fissismo” delle
specie), che è Dio a garantire la
stabilità del mondo e la certezza di ogni
conoscenza; che allontanarsi da Dio
significa smarrirsi (si ricordi l’affermazione:
«l’ateo non ha che dubbi»).
Per quanto se ne sappia è
nelle Considérations sur les moeurs de ce siècle di Duclos, scritte nel
1751, che per la prima volta viene effettuata
espressamente la distinzione
culturale tra lettere, arti e scienze, definendo
tre ambiti i cui confini erano
prima assai confusi. Ma va detto, come osserva
giustamente la storica inglese
Dorinda Outram che: « […] lo statuto intellettuale
della scienza era
contestato, le sue organizzazioni istituzionali
spesso deboli, e di certo
sorrette da una base limitatissima, la natura
dei suoi rapporti con l’economia
e con il potere spesso tenue. Nessuna istituzione
scientifica figurava tra i
grandi datori di lavoro, e le strutture educative
della maggior parte dei paesi
prestavano scarsa attenzione alla disseminazione
della conoscenza scientifica.
Solo pochi potevano mantenersi a tempo pieno
come scienziati.» [4]
Considerazioni che mettono in luce due aspetti
diversi della situazione. Un
primo più evidente: nel ‘700 l’attività scientifica
è in prevalenza opera di
“dilettanti” isolati o di organizzazioni
amatoriali basate sul volontariato e
sulla passione individuale. Un secondo: per
“scienza” si intende anche la
metafisica di Cartesio o quella di Leibniz
quali “garanti” teoriche e
veritativa del puro sperimentalismo, incapace
a fare delle sue scoperte delle
“verità”, ma solo delle “supposizioni” plausibili
sul mondo, rimanendo la
Bibbia l’unica verità indiscussa e la dottrina
cristiana la fonte di ogni vera sapienza.
La distinzione posta da
Duclos darà col tempo i suoi frutti, contribuendo
ad eliminare l’ambiguità di
cui era portatrice autorevole e riconosciuta
la cosiddetta “scienza
metafisica”, che tutto inglobava e supportava
nella sua mistificazione
filosofale. Una cultura ancora eminentemente
teologica non può tollerare di
venir compromessa da una scienza laicistica,
anche perché può contare su interpretazioni teologiche
prodotte da prestigiosi teologi filosofali
che si appoggiano all’impianto
fideistico e dottrinario di base. La nuova
distinzione tra lettere, arti e
scienze porta inoltre in Francia alla promozione
di singoli settori di attività
intellettuali separate, a fronte delle quali
alcuni settori di importanza
vitale per la vita pubblica e per la circolazione
del sapere riceveranno
impulsi e risorse economiche. È infatti nella
prima metà del secolo che avrà
luogo la creazione della “Scuola dei ponti
e delle miniere”, costituita da un
corpo di ingegneri che determinano la rete
delle infrastrutture comunicazionali
e il sistema di rifornimento delle risorse
fondamentali del paese: acqua,
materie prime, carbone. Un certo contributo
verrà a ciò anche da intellettuali
come d’Holbach, che promuove la traduzione,
nel 1753, dell’opera La
Mineralogia o Descrizione generale delle
sostanze del regno minerale del
chimico tedesco Wallerius. Nel 1747 il Perronet
veniva incaricato di fondare
una “Scuola dei geografi e disegnatori delle
mappe e delle carte delle grandi
strade urbane ed extra-urbane del regno”.
Nel 1771 César-François Cassini
(nipote di Gian Domenico) fu incaricato di
produrre la “Gran carta di Francia”
in 182 fogli.
Quel che è importante
sottolineare è che la scienza nel Settecento
rimaneva ancora conoscenza
“incerta”, opposta alla lettera delle Sacre
Scritture quale conoscenza “certa”.
Come rileva ancora la Outram, non va dimenticato
che nel XVIII secolo continua
a valere il principio aristotelico della
teologia come “regina delle scienze”,
la quale pilota e condiziona le altre scienze
“minori” verso la divina verità [5]. Di
fatto continua a prevalere un concetto ben
espresso dal Vico, secondo il quale
l’uomo non può conoscere l’opera di Dio ma
unicamente la propria, e siccome
l’uomo produce di proprio soltanto storia,
essa è l’unico oggetto conoscibile
dall’uomo e di cui si può dare un sapere
autentico. Ma il concetto di scienza,
quale invarrà dal XIX secolo in poi, è ancora
tributario del concetto piuttosto
ambiguo di filosofia naturale, che nello
studio della natura vede la finalità
primaria di confermare la lettera biblica
e glorificare il Creatore attraverso
l’evidenziazione della magnificenza della
sua opera. Un’opera peraltro
“definita” e “bloccata” una volta per tutte
sin dal Fiat lux!, come
peraltro anche la classificazione di Linneo
tende a considerarla. Sarà soltanto
con Buffon, in seguito i suoi studi sui fossili,
che potrà affacciarsi l’idea
che la natura abbia una storia, e che delle
specie di animali creati da Dio e
salvati sull’Arca di Noè alcuni potrebbero
non più esistere [6]. In
generale, tuttavia, prevaleva ancora l’idea
che le conquiste cognitive dovute
all’osservazione o alla sperimentazione siano
di rango inferiore rispetto a
quelle dovute al ragionamento e allo sviluppo
delle “eterne verità” già illo
tempore rivelate.
Il concetto gnoseologico
ancora in vigore all’epoca, d’altra parte,
è chiarissimo: essendo l’uomo fatto
ad imitazione di Dio, ogni cosa che da questi
venga è sempre di rango superiore
a ciò che il cosmo da Lui creato, e più in
particolare il cielo, la natura
animale, vegetale e minerale, possano rivelarci
di se stessi. Non solo, in base
al principio per cui la nostra anima reca
l’impronta di Dio, dei suoi attributi
e delle sue leggi, questi, in quanto elementi
divini “innati” nella nostra
anima, sono innati, solo da scoprire ed evidenziare.
Aldilà di ogni sviluppo
cognitivo del conoscere il mondo, solo ciò
che sta “dentro” la nostra anima
conduce alla verità, dunque solo ciò che
noi scopriamo “attraverso” essa è
veritativo, o quanto meno esso è sempre molto
più affidabile di quanto si possa
scoprire fuori di noi con i sensi e l’osservazione.
Il “conosci te stesso”
socratico-platonico si sposa così perfettamente
colla teologia di Sant’Agostino
e dei suoi epigoni; l’approccio sperimentale
viene raramente viene reso
pubblico da parte dello scopritore, e quando
ciò accade in ogni caso riguarda
un sapere considerato “volgare”. La scienza
su base analitica, fatta di “dati”,
è considerata in ogni caso di rango inferiore
rispetto a quella “discorsiva”,
opera di teorizzatori o commentatori che
mutuano le acquisizioni scientifiche e
le rielaboravano per porgerle ad un pubblico
di profani in maniera
comprensibile e piacevole.
Per aver un’idea più precisa
della situazione culturale basti rilevare
che all’inizio del secolo XVIII nelle
biblioteche pubbliche prevalevano i libri
di teologia e di narrativa
edificante, mentre solo alla fine di esso
cominciarono a comparire anche opere
di divulgazione scientifica. D’altra parte,
il Settecento può essere
considerato il primo secolo in cui si comincia
a produrre sistematicamente
conoscenza vera e nel quale il “fare” cultura
è visto in maniera nuova, sì da
cominciare a mettere in mora un retorico
e dominante “disquisire”. E tuttavia
questo è ciò che si continua ancora a lungo
a fare, almeno sino al terzo quarto
del secolo, nelle ormai sclerotizzate università,
mentre nelle accademie
private e nei circoli di discussione si comincia
a trattare in maniera
pragmatica di “cose” da conoscere e di altre
da produrre. I veri centri
dinamici della cultura escono totalmente
dall’ambito accademico per trovare
spazio nelle iniziative locali di privati
cittadini, nei laboratori privati e
nelle officine in cui si praticano le tecnologie
d’avanguardia.
Di fronte alla posizione del
Vico e di numerosi altri pensatori del Settecento
sono poche le voci che si
levano a difendere le prerogative cognitive
della scienza. Ad essa si
contrappongono le posizioni scettiche di
uno Hume che non crede in nulla salvo
che in Dio, di un Berkeley per cui tutto
l’essere della materia sta in
un’illusoria percezione di essa, di un Kant
che pone il fenomeno come apparenza
di un’immaginaria cosa in sé. La possibilità di conoscere l’”essenza”
della realtà più profonda (quella del mondo
“in sé” come Creazione divina) è
ritenuta totalmente fuori dall’orizzonte
antropico, poiché all’uomo è concesso
di conoscere soltanto l’apparenza fenomenica.
In altre parole, la scienza non
offre alcuna possibilità di giungere al fondamento
della realtà, né di
coglierne i principi profondi, ma semplicemente
di descriverne la superficie.
Né la scienza poteva pretendere di sostituire
la cosiddetta “filosofia naturale”,
strettamente connessa alla teologia, non
potendo vantare requisiti metafisici
per poter pretendere di operare in sua vece.
Un pregiudizio che peserà
duramente sino al secolo successivo, nel
quale si verificherà anche un’equivoca
“teologizzazione” della scienza da parte
del positivismo di Comte, che opererà
una sostituzione della teologia con una scientologia
non meno deprecabile. Lo
scientismo sta d’altra parte all’opposto
del modo corretto di considerare
l’attività della scienza, come ricerca delle
cause dei fenomeni in continua
evoluzione.
L’idea che il pensiero
illuministico abbia costituito una sopravvalutazione
della scienza rispetto
alla teologia è quindi totalmente privo di
fondamento. La cultura
dell’Illuminismo va vista come un coacervo
di tendenze assai differenti, che
vedono l’arcaismo reazionario di Rousseau
agire da motore dell’evoluzione
sociale assai più del rivoluzionario concetto
dell’uomo macchina” di La
Mettrie. Ciò detto, occorre concludere che
dal punto di vista concettuale nulla
avrebbe potuto autorizzare gli enormi progressi
fatti dalla scienza nel XVIII
secolo se non l’iniziativa di pochi “appassionati”
della conoscenza. Fu
perlopiù l’iniziativa di libere menti “fuori
sistema” che perseguivano la
conoscenza per pura passione (diremo noi
per gnòresi [7]) ed indipendentemente da ogni sostegno da parte
della società del tempo nella sua generalità,
ancora devotamente tributaria
della teologia cultuale e filosofale. Va
tuttavia aggiunto che tra queste
libere menti vi furono anche uomini di sincera
fede, che continuarono ad
operare e per la fede e per la scienza nella
forma della “doppia verità”
Anche l’eccelsa lezione
morale di Spinoza aveva fatto la sua strada:
come Baruch aveva ri-letto le
Sacre Scritture alla luce della sua metafisica
necessitaristica in nome della
libertà interpretativa e della tolleranza,
alcuni scienziati ora leggevano la
natura cercandovi le concordanze o le discordanze
con la Bibbia. Ma se la
scienza non riusciva ancora ad ottenere uno
status adeguato al suo
ruolo, le sue acquisizioni incominciavano
a circolare in sempre più ampi strati
della popolazione attraverso la pubblicistica
clandestina, perlopiù ad opera di
deisti anti-cristiani, ma anche di pochi
atei che vedevano sì nella scienza una
guida affidabile per il loro pensiero, ma
che spesso confondevano ancora la
scienza con la metafisica. E sarà infatti
la metafisica meccanicistica ad
improntare prevalentemente il pensiero ateo;
un meccanicismo cartesiano
de-teologizzato sarà perlopiù il protagonista,
assai meno un materialismo
autentico basato sulla conoscenza della materia
in quanto tale. Ma c’è anche un
meccanicismo più scientifico e meno rozzo,
che fa riferimento a Newton, a
suggerire una nuova filosofia su base materialistica
dove il concetto di “attrazione”
riceve interessanti interpretazioni anche
in biologia, ma ciò avverrà purtroppo
in direzione vitalistica, come si è visto
con Maupertuis. Si ricordi anche
Voltaire, grande divulgatore della fisica
di Newton, ma della quale dà una
versione semplificata e ideologizzata, nell’insieme
poco rispettosa della
complessità di essa, a favore di una religione
deista che egli chiamerà
“teista”. D’altra parte, come nota correttamente
la Outram [8], la
scienza newtoniana era già servita al teologo
Richard Bently, a fine ‘600, per
confortare il contenuto dei suoi sermoni
evangelici. E Saint-Simon utilizzerà
addirittura Newton sul piano sociologico,
proponendo un modello sociale
ordinato in base alla ragione, all’ordine
ed a una legge fisica universale
basata sull’astronomia.
10.3 Tecnologia, strumentazione e macchine
Spesso si tende a disgiungere
la scienza dalla tecnologia, l’abbiamo fatto
anche noi in un contesto teoretico
in cui distinguevamo tra l’entusiasmo dello
scoprire e del conoscere e la messa
a frutto di essi al fine “di fare o produrre”
tecnologie e macchine [9]. Ma,
in termini storici e fattuali, un disgiungimento
della scienza dalla tecnica è
privo di senso, poiché la prima promuove
la seconda nella misura in cui questa
alimenta e feconda quella. Tutti i grandi
progressi scientifici del XVII e
XVIII secolo nascono grazie a nuovi strumenti
d’indagine, come il telescopio o
il microscopio. Una nuova metallurgia, la
produzione di leghe sempre più sofisticate,
e specialmente l’arte vetraria, mettono a
disposizione dello scienziato o
dell’ingegnere materiali prima impensabili
per fabbricare strumenti scientifici
forieri di scoperte prima impossibili, in
un interscambio dove lo scienziato
offre conoscenza all’ingegnere e questo a
quello. Quasi superfluo aggiungere
che il progresso tecnologico ha ricadute
anche per il “modo di vivere” e che i conforts
e la bellezza dei manufatti tendono a migliorare
anche il corso della
quotidianità. Materiali nuovi entrano nell’attività
artigianale e in campi
assai differenti. Nell’edilizia e nell’arredamento
il legno, materiale principe
sino a tutto il Medioevo, è ormai largamente
sostituito da altri, diventando
nel contempo preziosa materia prima per un
artigianato sempre più raffinato. La
più semplice costruzione dei vecchi bauli,
dei cassoni, delle cassapanche,
lasciano ora spazio alla raffinata falegnameria
dell’armadio, il nuovo mobile
che si specializza per contenere abiti e
biancheria intima, oppure, in forma
differente, come dispensa da cucina, per
ricevere e ordinare contenitori di
cibo, attrezzi, stoviglie.
Vi sono anche alcuni casi
eclatanti di costruzioni di nuove macchine
che utilizzano principi scientifici
ancora da teorizzare, diventando forieri
di ricerca teorica sulla base di
risultati puramente empirici. È questo il
caso della macchina a vapore,
costruita e impiegata come produttrice di
forza motrice assai prima che Sadi
Carnot, studiasse il problema e potesse pubblicare
nel 1824 le sue Riflessioni
sulla potenza motrice del fuoco. In generale, molta attrezzatura prima di
diventare scientifica era servita ad altri
scopi, tra cui la guerra, come alcune
attività di ricerca di soluzioni e di produzione
di strutture e congegni erano
riservate prima al Genio Militare, dominato
dall’aristocrazia, che passa però
nel Settecento ad una classe di ingegneri
prevalentemente di estrazione
borghese. Una classe di tecnici che avrà
un ruolo importante nei progressi
posteriori al 1780, senza peraltro che l’ammodernamento
del sistema
tecnologico-amministrativo del regno di Francia
riesca a produrre effetti
sociali rilevanti. Non vi sarà redistribuzione
del potere, rimanendo in vigore
il vecchio modello di Luigi XIV; il nipote
Luigi XVI, pur operando in certi
settori in maniera positiva, farà le spese
di un sistema di potere
centralistico e rigido ereditato dai suoi
predecessori. Uno stato non rinnovato
in rapporto ai Lumi, né sufficientemente
attento alla scienza e alla tecnica e
né ad umili categorie di lavoratori di grande
utilità pubblica.
L’industria manifatturiera si sviluppa
inizialmente in Inghilterra, dove la produzione
industriale triplica tra il
1700 e il 1790, estendendosi poi nel vicino
oltre-Manica e raggiungendo più
tardi le altre regioni d’Europa. La necessità
di produrre energia per via
termica (la caldaia a vapore di Watt nasce
nel 1780) per il funzionamento delle
macchine intensifica anche la ricerca e l’estrazione
del carbone e le regioni
che ne sono ricche risultano avvantaggiate.
È l’industria tessile a registrare
i maggiori investimenti in nuovi insediamenti
produttivi, ma si sviluppa nel
contempo una fitta rete di lavoro a domicilio
e la piccola Boemia conta nel
1770 circa 200.000 filatori di lino che lavorano
in casa [10]. La
“navetta volante” di Kay (del 1733), la giannetta
di Hargreaves (1768) e il
telaio ad acqua Arkwright e il filatoio intermittente
di Crompton (1779) sono
quattro novità fondamentali dell’industria
tessile moderna. Sempre in Inghilterra
è Henry Cort a mettere a punto intorno al
1780 la produzione del coke in
sostituzione del carbone di legna per la
fusione del ferro. I tecnici inglesi sono
ingaggiati quali esperti in un industria
continentale più arretrata per avvicinarsi
a rese e qualità “britannici”. Potenza e
snellezza dell’apparato produttivo
della Gran Bretagna furono anche favoriti
da un intenso programma di
miglioramento delle comunicazioni stradali
e dall’assenza di pedaggi e gabelle
che ostacolavano altrove (come in Francia)
la libera circolazione delle merci.
Un nuovo genere di operatori “dal basso”
fa la sua apparizione: gli entrepreneurs;
sono uomini come il birraio Whitebread, il
magliaro Strutt, il siderurgico
Wilkinson, il vasaio Wedgwood. Il sistema
bancario inglese è tra i più antichi
dopo quello fiorentino ed olandese, ma ha
grande incremento già nel corso del
XVII secolo e nel 1694 viene fondata la Banca
d’Inghilterra. Nel ‘700 a
sostegno delle attività produttive e dei
commerci il numero delle banche
accreditate alla City di Londra cresce ancora,
passando dalle trentacinque del
1760 alle settanta del 1795.
A favorire iniziative produttive sono
società private di pubblica utilità votate
alla cultura pratica attraverso
attività didattiche di vario tipo, frequenti
nel mondo anglosassone fin
dall’inizio del Settecento e in seguito diffuse
nelle stesse forme o in altre (ma
perlopiù statali) anche sul continente. Tra
esse va ricordata la Society for
the improvement of Husbandry, Agricolture
and Other Useful Arts di Dublino,
fondata nel 1731, sul cui esempio nascerà
nel 1754 la più potente e organizzata
Society for the Encouragement of Arts, Manufactures,
and Commerce di Londra.
L’intento di queste società non era solo
il perseguimento del progresso delle
conoscenze bensì la loro immediata applicazione
in attività produttive. Sul
continente fecero presto seguito le Sociétes
Royales d’Agricolture in Francia,
le Kaiserlich-Königlichen Ackerbaugesellschaften
nell’Impero Asburgico e
Societad des Amigos del Paìs in Spagna. In
realtà la prima nata, quella di
Dublino, aveva tratto stimolo e origine dalla
terribile carestia del 1724, che
aveva rivelato gravi carenze di cultura agraria
e tecnologica, e non meno di
quella economico-domestica ed alimentare.
I fondatori (il filantropo Thomas
Prior e il sacerdote anglicano Samuel Madden,
ai quali si associarono altre
dieci persone) intendevano ovviare a tali
carenze, anche in vista di temibili e
future negative incombenze, attraverso un
programma estremamente pragmatico di
cultura tradotta in attività reale, ben espresso
nelle parole seguenti:
I
membri della società … intendono favorire
nel modo più semplice la diligenza
del semplice artigiano, vogliono portare
il sapere pratico ed utile dalle
biblioteche e dai gabinetti scientifici alla
luce del sole. In breve, il loro
unico intento è di fare del bene, a prescindere
che questo avvenga per via di
nuove scoperte, attraverso la pubblicazione
di invenzioni già note, oppure
ampliando le conoscenze attuali diffondendole
tra un pubblico più vasto. [11]
Non
si sottovaluti tale programma nominalmente
modesto ed assai semplice nella sua
formulazione e se ne colgano le importanti
implicazioni di promozione
tecnologica presenti. Se lo si confronta
con la vuota retorica dei programmi
delle strutture deputate all’istruzione,
perlopiù teologica o umanistica in
quel tempo, ci si renderà conto che qui qualche
cosa di nuovo appare e si
impone. Si tratta di un pragmatismo che caratterizza
precipuamente il mondo
britannico e che, facendosi esempio per le
altre culture europee, segnerà uno
degli aspetti più importanti della cultura
“pratica” e finalizzata
dell’Illuminismo scientifico-tecnologico.
Nel 1754 nasce a Birmingham anche una
società collegata alla Society of Art di Londra con lo scopo di
promuovere nella zona le attività commerciali
e industriali. Ad essa si
aggiunse un gruppo di uomini, perlopiù imprenditori
e tecnici, che si riunivano
(nei giorni di luna piena) nella casa di
Mattew Boulton, titolare di
un’importante officina meccanica Più tardi,
nel 1775, quelle persone
costituiranno la Lunar Society of Birmingham, tra i cui membri si
contavano naturalisti come William Small
e tecnologi come James Watt [12].
Per entrare nel tema della
tecnologia diremo che, approssimativamente,
gli oggetti che la concernono si
possono dividere in due grandi categorie:
gli strumenti e le macchine. I primi,
spesso chiamati anche apparecchi, sono perlopiù
di dimensioni modeste, ed il
loro scopo è contribuire al conseguimento
di un risultato scientifico
esprimibile in “dati”; essi sono pertanto
oggetti utili all’osservazione,
all’indagine e alla misurazione. Le macchine
sono invece oggetti di maggiori
dimensioni e spesso assai complessi, costituiti
dall’assemblaggio di congegni
collegati e concorrenti a un fine unitario,
il cui scopo è quello di svolgere
una funzione circoscritta o di produrre energia
nelle sue varie forme o
movimento di un certo tipo su certi materiali
che devono essere trasformati in
altri. Ebbene, termini come quelli che abbiamo
qui utilizzato vedono la luce
proprio nel Settecento, poiché in precedenza
anche la nominazione delle
apparecchiature scientifiche poteva risultare
impropria quanto sviante. Anche
il linguaggio “della macchina” si affina
nell’epoca in cui le macchine
incominciano ad essere degli oggetti apprezzati
non solo più per la guerra o
per le grandi opere edilizie ed idrauliche
ma di uso comune. Il manufatto
artigiano nel Settecento si avvia a diventare
un manufatto industriale, e
l’industria diventa la protagonista di un
nuovo modo di produrre beni d’uso.
Relativamente alla strumentazione
è il campo dell’ottica a portare il più alto
contributo per i progressi della
scienza, e tutto ciò grazie a un pezzo di
vetro: la lente. Nata a Venezia nel
XIV secolo questa lastrina di vetro a sezione
tonda diventerà ciò che
permetterà all’uomo di superare i limiti
della visione naturale per aprire
l’orizzonte di quella artificiale, l’unica
che avrebbe permesso di indagare
l’estremamente piccolo e l’enormemente lontano.
Ma solo all’inizio del ‘600, in
Olanda, verrà impreso un grande stimolo alla
ricerca e ne è testimonianza la
richiesta di brevetto per un nuovo strumento
per vedere lontano da parte di
Hans Lippershey, un fabbricante di occhiali
di Meddleburg. Sugli strumenti
ottici di Galileo, di Keplero, di Newton
e di Huygens (che nel 1684 era riuscito
a costruire una lente quasi-acromatica) parlano
le loro scoperte, possibili
appunti in virtù di quei loro apparecchi.
Le lenti, perlopiù accoppiate, sono
l’elemento fondamentale di strumenti che
portano i nomi di cannocchiale,
telescopio, microscopio. L’evoluzione delle
lenti e il loro assemblaggio è
stato un processo secolare, ma che vede solo
nel Settecento il conseguimento
dell’acromaticità, cioè la rifrazione della
luce senza la scomposizione. Ci
informa Corrado Mangione che nel Settecento:
Si formò perfino un nuovo mercato per la
costruzione di strumenti
scientifici ad uso dimostrativo. Come scrive
Derek J.Price: «gli artigiani più
in vista cominciarono ora a vendere attraenti
cassette contenenti serie di
apparecchi per la dimostrazione delle leggi
della meccanica o del magnetismo,
scatole di modelli per illustrare la geometria
solida, serie di lastre e
oggetti per il microscopio del principiante,
globi e complicati congegni
istruttivi come il planetario. Questa tendenza
si accentuò man mano che il
secolo s’inoltrava […]» [13]
Per quanto riguarda la
termometria l’inizio del Settecento vede
la comparsa dei primi apparecchi ad
opera di Fahrenheit e di Réamur intorno al
1730, avendo utilizzato il primo il
mercurio e il secondo l’alcool etilico. Ma
è molto importante la contemporanea
definizione da parte di Celsius della scala
centigrada, dove lo 0° coincide con
il congelamento dell’acqua e il 100° con
la sua ebollizione. Anche la
cronometria ha nel secolo uno sviluppo straordinario,soprattutto
perché
l’orologio riduce le sue dimensioni sino
al portatile da tasca. Già Huygens si
era occupato a lungo della misura del tempo
arrivando nel 1675 a proporre la
spirale in sostituzione del pendolo, ma notevole
impulso al perfezionamento viene
nel 1714 dal Parlamento inglese, che mette
in palio lauti premi in una gara per
la fabbricazione dell’orologio più esatto,
seguito da un’analoga iniziativa
francese nel 1720 da parte dell’Académie
des Sciences. In tali gare per la
misurazione del tempo un punto importante
è quello conseguito con l’apparecchio
di Ferdinand Berthoud (1727-1807) nel 1771
il cui scarto nell’arco delle 24 ore
era di un secondo. Le bilance di
precisione, alle quali molto concorse Lavoisier,
vedono la luce intorno al
1770, ma fin dalla metà del secolo una fiorente
industria di strumenti molto
raffinati si sviluppa in Inghilterra, dove
vi sono aziende come quella di John
Dollond (inventore di un obbiettivo acromatico
complesso) che producono
microscopi e cannocchiali tecnologicamente
molto avanzati [14].
Per quanto riguarda le
macchine, si può affermare senza ombra di
dubbio che il XVIII secolo vede ancora
il modo britannico nettamente davanti agli
altri. È là dove il ferro va più
rapidamente sostituendo il legno nella costruzione
di macchinario, cui si
affianca la macchina a vapore come produttrice
di energia. È infatti nel 1709
che Adam Darby riesce per la prima volta
a fondere il ferro utilizzando il carbon
coke, mentre nel 1720 la produzione
annua di ghisa nel Regno Unito raggiunge
le 25.000 tonnellate [15]. Vedono anche la luce nel Settecento inglese
le “macchine per fare macchine” e i primi
torni per filettare le viti, come
quello realizzato da Jesse Ramdsen intorno
al 1770. Ma le macchine utensili
sono ora inventate anche per produrre un
infinità di parti e sottoparti di
congegni e macchine; è la nascita della “componentistica”,
che va dagli spilli
agli spinotti, dai cilindri ai tubi, dalle
ruote agli ingranaggi di precisione
per l’orologeria. In questo campo eccelle
il già citato Berthoud nominato Horologer mécanicien du Roi e de
la
Marine. Ed ancora in Francia Nicolas Focq
nel 1751 inventa una nuova alesatrice
per l’interno di cilindri [16],
mentre Watt fa produrre nelle ferriere Wilkinson
un maglio a vapore capace di
150 colpi al minuto.
L’industria tessile vede nel
‘700 uno straordinario affinamento tecnologico
e la più straordinaria
innovazione nella tessitura è sicuramente
la “spoletta volante”, un dispositivo
inventato da John Kay nel 1730, che passa
velocemente da un lato all’altro dell’ordito
senza richiedere l’intervento manuale del
tessitore raddoppiando la velocità di
produzione. Nel 1748 nasce la cardatrice
tecnica, poi nel 1787 nasce il primo
telaio completamente meccanico. Ma nella
tessitura vi è anche uno straordinario
sviluppo nella lavorazione di nuove fibre
come il lino e il cotone, questo ha uno
sviluppo tumultuoso e diventa la prima fibra
tessile per metri quadrati tessuti.
Nel 1749 Jacques de Vaucanson (già celebre
fabbricante di automi) progetta un
avanzato tipo di filatoio per la seta, che
ottiene filati meglio rifiniti, più
resistenti e soprattutto quasi asciutti quando
arrivano all’avvolgimento
sull’aspo. Ma non tutte le nuove macchine
hanno utilità così spiccate; nel 1729
Charles Marie de La Condamine, coraggioso
viaggiatore ed estroso scienziato,
inventa un tornio curioso, guidato da una
camma rotante coassiale al mandrino
che mette in movimento una punta scrivente
o un utensile a taglio frontale,
realizzando una sorta di pantografo a bilanciere
che taglia profili copiati per
realizzare forme curiose come quelle cicloidali.
[17]
Né la macchina ha il solo
scopo di produrre “cose”, poiché i progressi
settecenteschi riguarda anche le
macchine per nutrire lo spirito umano non
solo attraverso la stampa e le arti
figurative ma attraverso il suono; è questo
il caso degli organi, cui è
dedicato L’art du facteur d’orgues di Dom Bedos de Celles, che dal 1766
al 1778 scrive questo trattato al fine pratico
di affinare la tecnica
costruttiva di una macchina che mette insieme
l’arte della falegnameria, quella
della meccanica e quella della pneumatica
[18]. Niccolò
Tron, che era stato nel 1718 ambasciatore
della Repubblica veneta a Londra,
dove aveva conosciuto un già anziano Newton,
si era così appassionato alla
meccanica da dimenticare le incombenze diplomatiche
da mettersi a studiare
assiduamente «le meccaniche, ora portavasi
nei cantieri, negli arsenali e nelle
fabbriche per vedere applicate le teorie
e le speculazioni geometriche alla
costruzione delle macchine» [19].
Questa notizia ce la rende Francesco Griselini,
che nel 1769 scrive un Dizionario
delle arti e dei mestieri ed è un animatore del progresso tecnologico
nella
Repubblica di Venezia nelle sue realizzazioni
manifatturiere [20]. Ma
la tecnologia non riguarda solo la produzione
di manufatti: il tedesco Johann
Beckmann, ispettore alle miniere e alle fonderie
del suo paese, decide di
estendere i benefici della meccanica all’agricoltura
scrivendo nel 1777 l’Anleitung
zur Tecnologie.
Uno straordinario apporto
alla tecnologia settecentesca viene dall’americano
Benjamin Franklin
(1706-1790). Operaio a 12 anni, aiuto tipografo
a giornata a Filadelfia nel
1723 ed apprendista a Londra dal ’24 al ’26,
torna in America nel 1727 e fonda
il circolo culturale Junto, diviene editore, nel 1742 fonda l’Accademia
(che costituirà il primo nucleo
dell’Università della Pennsylvania). Nel
1743, come sviluppo della Junto, nasce
l’American Philosophical Society di cui diviene
segretario. Tecnologo e
filantropo, Franklin promuove la prima biblioteca
circolante in America
fornendo libri anche gratuitamente, mentre
sviluppa importanti ricerche di
elettrologia, con esperimenti nel suo laboratorio
e studi all’aperto sui
fulmini fino a produrre il primo parafulmine.
Esperienze e invenzioni
documentate nel suo Experiments and Observations on Electricity del 1754
alle quali si accompagnano studi di calorimetria,
di ottica, di medicina,
di meteorologia e di oceanografia. Genio
vulcanico ed eclettico egli si occupa di
etica e di organizzazione sociale non
meno che di tecnologia, scrivendo dalla gioventù
alla vecchiaia saggi di vario
genere. Nel 1776 è firmatario della dichiarazione
d’indipendenza degli Stati
Uniti e nel 1777 è ambasciatore a Parigi.
Per comprendere lo spirito col quale
Franklin vede la tecnica nella sua generalità
come “aiuto al vivere quotidiano”
va ricordato che nel 1741, già uomo famoso
e facoltoso, egli si dedica alla
messa a punto di una stufa di nuova concezione,
che deve produrre la massima
efficienza termica e il massimo risparmio
di combustibile.
Ultimo aspetto della
rivoluzione tecnologica è l’architettura
industriale. Se sino a tutto il
Seicento le officine erano sostanzialmente
case di civile abitazione adibite
alla produzione di manufatti, nel Settecento
cominciano a venir progettati
edifici il cui unico scopo è di costituire
il luogo in cui installare macchine.
È così che all’interno o alle periferie dei
centri urbani o di semplici
villaggi nascono nuove fisionomie edilizie
ed urbanistiche dove compaiono le
prime costruzioni concepite per produrci
dei beni e non per abitarci.
Manchester è uno dei primi grandi sistemi
urbani inglesi organizzati anche per
la produzione industriale, e nel Kent, dove
le ferriere fanno dalle pentole ai
cannoni, si incominciano a vedere vere e
proprie “fabbriche”. Anche Glasgow in
Scozia diventa città industriale e vi nascono
fabbriche dove si producono
particolari tessuti come i plaids di lana e le muslins di cotone;
ma accanto vi sono zuccherifici e famose
distillerie di brandy. Ed è
proprio in Gran Bretagna che intorno al 1760
Josiah Wedgwood, fondatore di
un’industria per la produzione di ceramiche
farà costruire il primo villaggio
in prossimità del centro produttivo per accogliere
gli operai che vi lavorano.
Da un certo punto di vista una ghettizzazione
dell’operaio e della sua
famiglia, ma da un altro la razionalizzazione
o l’eliminazione del
trasferimento dal domicilio al luogo di lavoro
del lavoratore.
In Francia si cura
soprattutto l’organizzazione della viabilità
e del trasporto, perciò nel 1747
viene fondata l’École des Ponts et Chaussées,
moderna scuola di ingegneria
civile che si deve occupare della progettazione
e della costruzione di strade e
ponti. Tra gli insegnanti vi è Gaspard-François
Riche de Prony, autore di opere
importanti come la Nouvelle architecture hydraulique del 1790 e il
successivo Leçons de mécanique analytique. Faranno seguito all’indomani
delle Rivoluzione l’”École de navigation
et de cannonade maritimes” e l’”École
des armes” per affrontare razionalmente incombenze
belliche, cui seguono l’”École
des travaux publics” e il “Conservatoire
des Arts et Métiers” nel 1794.
Relativamente al campo idraulico nel 1706
era apparso sull’Histoire et
Mémoires de l’Académie Royal des Sciences un importante studio di Antoine
Parent dove veniva posto il problema di quanta
energia utile fosse ottenibile
dal flusso di una determinata quantità d’acqua,
riguardando i tipi di ruote e
pale da utilizzare. Lo studio peccava di
errori di impostazione ma stimolava altri
studi. Bernard Forest de Bélidor dal 1737
al 1753 scrive una ponderosa opera in
4 volumi dal titolo Architecture Hydraulique, divenuta famosa e più
volte ristampata e tradotta in varie lingue.
In Gran Bretagna l’interesse pratico
prevale sul teorico ed è interessante il
caso dell’artigiano John Smeaton, che
nel 1759 smentisce i due francesi dopo ripetuti
esperimenti e calcoli per
determinare la resa ideale di una ruota idraulica,
scoprendo che
l’alimentazione dall’alto porta a un resa
quasi doppia rispetto a quella dal
basso. Conclusioni esatte ed opposte sia
a quelle di Parent sia a quelle di Bélidor,
comprensibili col semplice fatto che Smeaton
è un progettista e un riparatore
di ruote da mulino e non un professore. Ma
l’inglese non osa contraddire i dati
dei due luminari francesi (peraltro confermati
dai calcoli del fisico Colin
MacLaurin) e si limita modestamente a comunicare
a chi ne è interessato i dati
dei suoi esperimenti. L’esattezza delle valutazioni
di Smeaton tuttavia emerge
a poco a poco e i suoi modelli di ruota e
di impianto si diffondono in Gran
Bretagna prima, in Francia poi, quindi in
Italia e poi in tutto il resto
d’Europa [21].
Ma John Smeaton è un geniale
meccanico che non si ferma: nel 1769
progetta un’alesatrice-trapanatrice di nuova
concezione che è fabbricato nelle
Officine Wilkinson a partire dal 1775, essa
permette di alesare grandi cilindri
con la massima precisione. I cilindri che
ne derivano sono molto apprezzati
dall’industriale Boulton (che ha per socio
Watt) e per lui la Wilkinson
costruirà per vent’anni tali manufatti [22]. Il
tornio più perfetto è realizzato da Henry
Mudslay, che dall’età di dodici anni
fa l’apprendista e a sedici è già un fabbro
provetto, sì da far dire ai suoi
compagni che «vederlo maneggiare la lima
da diciotto pollici era semplicemente
splendido» Il giovane entra nell’officina
di Joseph Bramah dove inventa una
serratura, una macchina per avvolgere le
molle a spirale e una segatrice,
collaborando con lui per la messa a punto
della sua famosa pressa idraulica. Ma
quando gli viene rifiutato un aumento di
salario se ne va ed apre una propria
officina dove produce ottime macchine interamente
metalliche. Applica su vasta
scala il portautensili scorrevole, una macchina
filettatrice e un micrometro da
banco di alta precisione [23]. Ma
anche Bramah è un talento della meccanica
che nel 1784 inventa un famoso tipo
di serratura che costruisce direttamente
e che sarà prodotta venduta sino al 1851.
Il modo di affrontare i
problemi tecnici non solamente con la teoria
e con la matematica ma con la
sperimentazione pratica trova compiuta espressione
nell’importante iniziativa
di Isaac Milner, primo titolare della “Jacksonian
Chair”, che dal 1784 al 1792
realizza presso il Queen’s College un laboratorio
di meccanica dotato di ogni
sorta di torni, mole, mantici, forni e banchi
elettrostatici, dove mettere in
atto una larga messe di esperimenti. Analogamente
William Farish a Cambridge
conduce il primo serio tentativo di istituire
come materia autonoma di
insegnamento la “Costruzione di macchine”,
mettendo gli studenti nelle
condizioni di lavorare come costruttori prima
che come progettisti. Criterio
che trova la sua migliore espressione nella
produzione di strumenti scientifici
in generale e nell’orologeria in particolare.
Abbiamo già parlato di questo
settore tecnologico, ma lo concludiamo qui
con tre notizie editoriali relative
al trentennio 1730-1760, periodo in cui sono
fatti progressi enormi, producendo
apparecchi sempre più piccoli e sempre più
precisi che hanno come ingredienti
principali lo scappamento a molla, il bilanciere
e la conoide. Le edizioni
Ozanam pubblicano nel 1735 un Traité des horologes élémentaires, cui
segue da parte di Thiout un Traité d’horologerie nel 1741, mentre nel
1763 vede la luce l’importante Essai sur l’horologerie di Ferdinand
Berthoud, uno dei più geniali orologiai del
Settecento.
Proseguiamo trattando del
pallone aerostatico, più noto come mongolfiera, una macchina tanto
semplice quanto geniale ed affascinante.
Tutto nasce dalle osservazioni di
Joseph Mongolfier davanti a un caminetto,
quando si accorge che l’aria calda
spinge in alto oggetti leggeri di carta o
di tessuto. La macchina che inventa
col fratello Étienne e che si alza nel giugno
dell’’83 è costituita da un
fornello posizionato sotto un pallone di
tela del volume di 800 metri cubi.
Poco dopo ripetono l’esperimento Pilâtre
de Rozier e il marchese d’Arlandes
come passeggeri. L’evento fa scalpore e l’Accademia
delle scienze incarica
Lavoisier e Condorcet di valutare meglio
l’invenzione poiché i fratelli
Mongolfier sono solo degli artigiani e degli
empirici. Il fisico J.A.C. Charles
viene incaricato di perfezionare il pallone
aerostatico con i fratelli Robert quali
costruttori e decide di utilizzare l’idrogeno
(appena scoperto nel 1666
dall’inglese Cavendish). L’ascensione di
questo nuovo apparecchio avviene il 1
dicembre dallo stesso anno alla presenza
di una grande folla entusiasta e
l’anno dopo Vincenzo Monti compone l’ode
Al signor di Mongolfier [24].
Chiudiamo la nostra rassegna
con un argomento più leggero ma non di minor
importanza sotto il profilo
strettamente tecnico: la progettazione di
automi e giocattoli meccanici. Un
genio in questo campo è Jacques de Vaucanson
(1709-1782) che già a 15 anni
costruisce una navicella meccanica. È solo
l’inizio di una straordinaria
carriera poiché ha il pallino di costruire
androidi e frequenta corsi di
anatomia e medicina; così, nel 1732, costruisce
il primo automa umano. Deve
confrontarsi con Maillard, che ha costruito
un cigno artificiale molto
apprezzato, ma Jacques punta alle antropomorfe
«anatomie mouvantes» e prosegue
instancabile le sue ricerche. Finalmente,
nel 1738 può presentare all’Accademia
delle Scienze il suo “flautista, un automa
che suona il flauto muovendo le
labbra, la lingua e le dita. Una macchina
che d’Alembert descrive e Diderot
ammira. Funziona come un carillon a doppio
movimento, che ruota su se stesso e
si sposta assialmente con la possibilità
di variare la combinazione dei
movimenti; dalla bocca esce un soffio d’aria
alimentato da un serbatoio che fa
produrre al suonatore note musicali di ben
tre ottave [25]. Sulla sua scia ottime cose faranno sia
dilettanti amanti della meccanica e sia veri
professionisti. Tra i primi i
tedeschi Friedrich von Knaus e il barone
von Kempelen e tra i secondi gli
orologiai svizzeri Pierre ed Henri Jaquet-Droz,
gli automi dei quali sono oggi
esposti nel Musée d’Art et d’Histoire di Neuchâtel [26].
10.4
La diffusione della cultura scientifica e
tecnologica
Le università, ancora legate
all’“autorità” di Aristotele, fin dal XVII
secolo avevano cominciato a perdere
il loro primato culturale a favore delle
“accademie”, istituzioni perlopiù
private di ricerca e di studio, libere da
schemi pregressi e aperte alle
novità. Lo scambio delle informazioni scientifiche
e tecnologiche finisce così
per tagliar fuori le istituzioni pubbliche
deputate ad una cultura organizzata
“dall’alto”, per trovare sviluppi ed innovazioni
in piccole e medie strutture
nate “dal basso”. Un prototipo di esse nasce
nel 1657 con la fiorentina
Accademia del Cimento, cui seguono le più
importanti Royal Society di Londra,
fondata nel 1662, e l’Académie des sciences,
nata a Parigi nel 1666. Un ruolo
importante in questi processi di acculturazione
si deve all’opera di dilettanti
e di autodidatti isolati, non sempre ricordati
nelle cronache del tempo. La
“dilettanza” e l’“autodidattica” sono due
fattori importanti della cultura
dell’Illuminismo mai abbastanza valorizzati,
tra i quali grandeggia
Leeuwenhoek, il biologo inventore del microscopio;
primo, tra l’altro, ad
osservare gli spermatozoi e a descriverli.
Il fisico olandese Pieter van
Musschenbroek [27] scrive nell’introduzione
ai suoi Principes de physique, apparsi in Francia nel 1736:
La fisica non è mai stata coltivata in Olanda
come ai nostri giorni: oggi esiste un gran
numero di persone che vi si dedicano
e ne traggono diletto. Notiamo infatti che
questa scienza compie quotidiani
progressi e si diffonde a poco a poco in
tutte le professioni. Non è, come un
tempo, esclusività di pochi filosofi, ma
fiorisce ed è bene accetta presso la
maggior parte degli uomini di cultura. Anche
il mercante si interessa di
fisica, e l’artigiano, che ne sente parlare
ogni giorno, comincia a gustarne
l’utilità. La fisica si fa conoscere ovunque
e ormai quasi non v’è persona di
qualsiasi condizione sociale, che non tragga
diletto dalla dimestichezza con
tale scienza. [28]
Se la testimonianza risponde a verità ci
troviamo di fronte a una vera
mutazione antropologica; sia per lo spostamento
degli interessi delle persone
colte dal campo della cultura umanistica
a quello della scienza per una
democratizzazione della cultura scientifica
che riguarda sia lo scienziato sia
il tecnico che costruisce strumenti. D’altra
parte, era stato solo grazie ai
rudimentali prototipi del microscopio se
William Harvey aveva potuto osservare
la pulsazione del cuore degli insetti e Francesco
Stelluti effettuare nel 1625
le sue osservazioni sulle api. Poi Robert
Hooke, un naturalista assistente di
Boyle dotato di grande spirito pratico, perfeziona
lo strumento e ne studia le
possibilità osservative, rendendo conto di
ciò nel saggio Micrographia del
1665.
Prima che Diderot e
D’Alembert diano corso al grandioso progetto
dell’Encyclopédie compare
nel 1735 uno straordinario libro di Jean
Gaffin Gallon dove vengono presentate
377 nuove macchine col corredo di 432 tavole
rappresentative ed esplicative: si
va dalle calcolatrici di Perrault e di Lepine
agli automi di Maillard. Leggiamo
che cosa dice l’autore nell’Avertissement:
Lo studio della meccanica e delle macchine
utili alle arti, a cui mi sono da sempre
applicato, avendomi condotto al
deposito dei modelli delle macchine e delle
invenzioni conservateci presso
l’Accademia delle Scienze nell’Osservatorio
Reale, ho ritenuto, esaminandole,
che sarebbe stata cosa conveniente per il
pubblico far conoscere queste
invenzioni in maniera più dettagliata di
quanto non appaia nella storia
dell’Accademia. [29]
Il destinatario dell’opera non è più il gruppo
ristretto degli uomini
di cultura, ma il “pubblico”, ovvero la massa
di persone che accede ora
all’opportunità di conoscere ciò che era
prima riservato a pochi. Ma non solo
questo:
Ho pensato tutto d’un tratto che un gran
numero di persone, dotate di senso meccanico,
avendole sotto i loro occhi,
avrebbero potuto perfezionare queste macchine
o inventarne delle nuove. Molte
persone prive di conoscenze esatte della
meccanica, come la maggior parte degli
artigiani e degli altri operai, avrebbero
potuto per mezzo di questa raccolta
contribuire al perfezionamento di queste
macchine o persino all’arte delle
macchine in generale. [30]
Siamo di fronte a un modo totalmente nuovo
di concepire la cultura e di
offrirla non solo all’uso delle classi lavoratrici
ma di contare sul loro
apporto per il perfezionamento delle macchine
stesse sulla base dell’esperienza
pratica. Gaffin Gallon non intende solo informare,
bensì promuovere i progressi
della meccanica contando sull’apporto dei
suoi operatori. Un’altra iniziativa
particolarmente interessante è quella presa
nel 1726 da un gruppo di studiosi
tra cui il matematico Clairault, il fisico
Nollet, il musicologo Rameau,
l’orologiaio Le Roy e l’architetto Chevotet,
i quali fondano una Societé des
Arts per sviluppare le scienze senza perdere
di vista le belle lettere,
nell’intento di «sposare le arti meccaniche
alla scienza» e «attirare lumi alla
conoscenza scientifica per mezzo delle tecniche,
così come è l’orologeria per
l’astronomia, la fabbricazione di lenti per
l’ottica» [31]
Insieme alle altre precedenti enciclopedie
cui Diderot e D’Alembert faranno
riferimento anche questa iniziativa può essere
considerata un tentativo di
produrre informazione tecnica attraverso
le lettere, dove è il letterato che
elabora l’informazione con il criterio descrittivo
del narratore o del
saggista. Si pensi infine che alla Fiera
del Libro di Lipsia nel 1764 vennero
messi a catalogo cinquemila titoli di libri
pubblicati negli anni
immediatamente precedenti e che in quella
del 1800 i titoli erano diventati
dodicimila.
L’attività
artigianale assume un’importanza notevole
e ne è esempio la sempre maggiore
specificazione della pluralità e multiformità
dei mestieri. Quell’attività
manuale, disprezzata nel mondo greco, romano
e medievale, assume ora un nuovo
significato sociale e culturale. A fine ‘500
un artigiano svizzero enumera già
novanta mestieri, l’Encyclopédie del 1745 duecentocinquanta [32], a testimonianza di un maggior
riconoscimento della specificità operativa
e oggettuale dell’attività
artigiana, dei cui frutti strumentali nessun
scienziato può più fare a meno. In
un contesto in cui il superamento di una
vecchia struttura sociale e la
fondazione di una società più libera ed egualitaria
tutti gli elementi debbono
adeguarsi ai nuovi tempi. La scienza e la
tecnologia, mal viste quando non
decisamente combattute dalle autorità ecclesiastiche
più conservatrici,
prendono così la loro rivincita e da ciò
l’opportunità di normare in un sistema
univoco e più razionale di misurazione l’esprimersi
dei dati dimensionali e di
peso. Una commissione nella quale figurano
Monge, Borda, Lagrange, Laplace e
Condorcet inizia un lavoro normativo che
si conclude con l’adozione del “metro
provvisorio” da parte della Convenzione nel
1793, ratificato poi in legge nel
1795 con l’obbligatorietà dell’uso in Francia
del sistema metrico
decimale.
10.5 Astronomia
La visione del cielo e dei suoi oggetti da
tempi immemorabili ha affascinato l’uomo
in tutti i luoghi della Terra, e
portato a conclusioni osservazionali empiriche,
come quelle calendariali, di
grande importanza per la sfera del quotidiano
(agricoltura, pesca,
navigazione, ecc.) ma non meno per la
teologia, che nel cielo ha posto le sue principali
divinità. Con Copernico non
soltanto cambia lo scenario celeste, ma l’uomo
si avvia, seppure lentamente e
faticosamente, verso una visione scientifica
di esso, le cui tappe principali
sono legate ai nomi di Galileo, Keplero,
Huygens e Newton. Il XVIII secolo non
vede scoperte eclatanti ma una successione
costante di affinamenti nella
conoscenze astronomiche, come quella di Edmund
Halley che nel 1718, confrontando
le latitudini di diverse stelle, si accorge
che la “fissità” delle stelle è
un’invenzione della metafisica, constatazione
confermata nel 1725 da Samuel
Molyneux dall’osservatorio di Kew. Ma è James
Bradley a trarre nel 1745 le più
importanti conclusioni sull’aberrazione delle
orbite e sulle complesse
reciproche influenze dei corpi celesti, poi
confermate in seguito da numerosi
altri studiosi. Sulle orme di Newton si sviluppano
nel XVIII secolo importanti
studi sulla meccanica dei corpi celesti.
Due francesi, Alexis-Claude Clairaut e
d’Alembert, e uno svizzero, Leonard Euler,
proseguono il lavoro del grande
Isac. Tutti e tre sono anche, specialmente
il terzo, grandi matematici, e
quindi esperti nei complessi calcoli necessari
per capire come si muovono
stelle e pianeti. Non risolvono certo il
“problema dei tre corpi” (determinazione
delle orbite di tre masse celesti che si
attraggono reciprocamente) ma se ne
occupano. Clairaut arriva ad una soluzione
approssimativa e Lagrange ne dà
soluzioni interessanti insieme con una spiegazione
razionale del fenomeno delle
“librazioni” lunari, piccole oscillazioni
dell’asse maggiore del nostro
satellite.
Le comete sono oggetti misteriosi che hanno
sempre stimolato la fantasia popolare ed
erano stati investiti dalle teologie dei
più strani compiti, perlopiù fausti (come
la nascita di Gesù) od invece
infausti. Halley nel 1682 ne osserva una
che conclude essere la stessa che
Keplero aveva già osservato nel 1607, da
ciò la domanda se anche “altre” comete
viste in precedenza non fossero la stessa.
Risale all’osservazione di un’altra
che Pietro Bennewitz (più noto come Appiano)
aveva visto solcare il cielo di
Ingolstadt nel 1535 e calcola che la cometa
(sempre la stessa) sarebbe
ricomparsa nel 1758. Ma Halley non fa un
calcolo preciso non tenendo conto
delle perturbazioni nel “passaggio a perielio”
(distanza minima dal sole).
Clairaut fa questo calcolo e stabilisce il
passaggio nell’aprile del 1759,
avvertendo però della possibilità di un margine
d’imprecisione. L’astro passerà
il 12 marzo confermando sostanzialmente il
calcolo del francese, e la cometa
prese il nome di Halley quale suo primo studioso.
Pierre-Simon Laplace è un eminente
matematico, fisico, astronomo, e figura dominante
del panorama scientifico
francese tra la fine del ‘700 e l’inizio
dell’800; un convinto monista e necessitarista
nel vedere le leggi fisiche concernere uniformemente
tutto il cosmo fisico. È anche
il fondatore del calcolo delle probabilità
che sviluppa in senso
deterministico, essendo già giunto a una
teoria della necessità cosmica di cui
tratteremo più avanti. Profonda l’eredità
di Newton, la cui fisica Laplace
assimila e trasmette ai suoi numerosi allievi,
facendo di lui uno dei migliori
interpreti della meccanica newtoniana e delle
sue implicazioni filosofiche,
consentendogli di andare oltre l’ideale maestro
nel dimostrare la stabilità del
sistema solare. Interessato anche alla filosofia,
egli desume da Kant la sua
tesi cosmogonica e la configura come coronamento
degli studi di Newton, una
teoria poi divenuta nota come “Ipotesi di
Kant-Laplace” e che chiude il
trattato Esposizione del sistema del mondo pubblicato nel 1796. Ed è
proprio in questo lavoro che è dato trovare
gli aspetti più notevoli del
filosofo Laplace, ma anche quelli meno convincenti
dal punto di vista
astronomico, per quanto l’ipotesi cosmogonica
sia tuttora valida per numerosi
aspetti. Laplace ipotizza una “nebulosa primitiva”
all’origine del sistema che
avrebbe occupato l’attuale posizione del
Sole, con un nucleo centrale
densissimo e ad altissima temperatura. Per
successivo raffreddamento si
sarebbero formati per rotazione centrifuga
una serie di anelli di materia
raffreddata esterni e concentrici, mentre
il nucleo centrale, assumendo sempre
più velocità, avrebbe dato origine al Sole.
L’anello di Saturno sarebbe
rimasto, come un fossile, a testimoniare
l’accaduto.
La teoria laplaciana è affascinante, per
molti versi convincente, e continuerà a stimolare
a lungo la fantasia dei
cosmologi. Ma il principio da cui parte il
Nostro è l’arbitraria assunzione
dell’assoluta costanza dei fenomeni cosmici,
tributaria di un in determinismo
filosofico che condurrà sempre Laplace a
sovrapporre la sua credenza
monistico-necessitaristica alle sue elaborazioni
concettuali di alto livello,
sì da fargli commettere non pochi errori
di carattere scientifico. La teoria
presenta diverse incongruenze di cui ne citeremo
solo due. La prima: la
formazione di anelli stabili è impossibile
poiché essi svanirebbero
rapidamente, e peraltro, l’aver preso solo
in considerazione il sistema solare,
non rende ragione di altre entità celesti
come le nebulose a spirale e le
stelle doppie. La seconda: l’assunzione di
una monodirezionalità di rotazione
dei pianeti è negata dal fatto che Urano,
Nettuno e alcuni satelliti di Giove
ruotano in senso contrario a quello supposto
da Laplace. Numerosi suoi seguaci
tentarono di modificarla lasciandone immutati
i fondamenti, sì che anche in
tempi recenti [33] i tentativi sono
proseguiti.
Ciò
che comunque ha acquisito un posto imperituro
nella storia della filosofia è il
cosiddetto “Universo di Laplace” di cui ci
siamo già occupati [34], una
rigorosa teoria deterministica che ritiene
essere tutto ciò che non è
dimostrabile dalle leggi fisiche in termini
di immutabilità e di necessità
dovuto esclusivamente all’impossibilità di
conoscere tutte le variabili
fenomeniche in gioco. Da qui l’assunto che
si deve «considerare
lo stato presente dell’universo come l’effetto
del suo stato anteriore e come
la causa del suo stato futuro » e che se «Un’Intelligenza […]
conoscesse tutte le forze da cui è animata
la natura e la situazione rispettiva
[…] nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire,
come il passato, sarebbe
presente ai suoi occhi.»
[35] Ci siamo permessi di rilevare che la
supposizione di un’intelligenza “superiore”
(un demone-dio) non può che alludere,
in qualche maniera, ad un “Colui” che avrebbe
partecipato alla creazione stessa
dell’universo, e da ciò il nostro parere
che tale tesi cosmogonica si presenti
anche come piuttosto “teologica”, sia nel
presupporre la Necessità come
ordinatrice nel mondo e sia nel presupporre
un’Onniscienza in grado di darne conferma.
10.6 Le scienze fisiche
Il
campo della fisica è estremamente vasto e
i suoi principi riconducibili a una
moltitudine di leggi specifiche che avevano
già ricevuto notevole sviluppo nel
XVII secolo; un secolo molto importante per
gli sviluppi delle matematiche, che
videro impegnati anche metafisici eminenti
come Cartesio e Leibniz. Senza le matematiche, come è ovvio, è quasi
impossibile occuparsi di fisica, e tuttavia
una considerazione va fatta, perché
la matematica è scienza dell’astratto e la
fisica invece del concreto, anche se
la fisica contemporanea sempre più sfocia
nell’astratto ogni qual volta deve
andare oltre i limiti del possibile e avventurarsi
nei modelli teorici di ciò
che suppone o immagina. Nel Settecento fisica
e matematica si sovrappongono ma
non si fondono. La differenziazione è ancora,
almeno nominalmente possibile: il
matematico calcola e formula equazioni, il
fisico osserva, sperimenta e induce.
È Newton a rappresentare lo straordinario
modello, valido ancor oggi, del
fisico-matematico, ma nel pieno il Settecento
i matematici più notevoli saranno
svizzeri e francesi. Tra i primi i Bernoulli
ed Euler, il genio instancabile
che creerà le premesse per una nuova matematica,
tra i secondi Clairaut,
d’Alembert, Lagrange, Laplace Matematici
eminenti ma anche scienziati che
trasferiscono il calcolo astratto in settori
particolari, come fanno Clairaut e
Laplace in astronomia.
Tra
le importanti novità matematiche del secolo
vi è anche la scoperta di un nuovo
ramo della geometria, quella “descrittiva”,
ad opera di Gaspar Monge, la cui
vicenda è significativa per comprendere come,
prima della Rivoluzione, l’umiltà
dei natali potesse ancora costituire un grave
handicap. Il giovane
Gaspar, figlio di un modesto mercante, pur
avendo mostrato ottime capacità e
godendo di un ottimo curriculum al collegio
locale e poi a quello “de la
Trinité” di Lione è accettato alla Scuola
Militare di Mezières, ma non ammesso
ai corsi di ingegneria, bensì solo a quelli
di disegno ed agrimensura.
Un’umiliazione che però il ragazzo riscatta,
diventando in seguito professore
di matematica e fisica della Scuola di Ingegneria
stessa e poco dopo, nel 1777,
corrispondente all’Accademia delle Scienze
di Parigi. Ma gli studi più
significativi nel campo restano quelli che
portano d’Alembert a pubblicare nel
1743 il Trattato di dinamica e specialmente quelli di Giuseppe Luigi
Lagrange, il quale, destinato a studi legali
è un autodidatta in matematica che
Solo in seguito, entrato in rapporti epistolari
con Euler e d’Alembert, ha modo
di farsi notare come fine matematico. Fondatore
dell’Accademia delle Scienze di
Torino, nel ’66 si trasferisce a Berlino,
dove rimane sino al 1787 per
approdare in seguito a Parigi e rimanervi
sino alla morte, nel 1813. Lagrange è uno dei più grandi matematici
di
tutti i tempi, ma il suo capolavoro si intitola
Meccanica analitica. In
esso, e per la prima volta, la matematica
viene espressa in pure formule, senza
alcun ausilio di figure geometriche esemplificative.
È il primo caso di
esposizione matematica totalmente astratta,
prova di forza di un grande teorico
che vede la propria materia nella sua unicità
ed assolutezza.
Abbiamo già accennato alla calorimetria dal
punto di vista strumentale e
abbiamo visto Réamur competere con Fahrenheit
e Celsius per la realizzazione
del miglior termometro. Ma è lo scozzese
Joseph Black ad utilizzare
l’apparecchio per le sue osservazioni e formulare
teorie che ne fanno il
fondatore della scienza del calore. Dal 1756
Black inizia le sue osservazioni
sul comportamento dell’acqua al variare della
temperatura e studia la fusione
del ghiaccio, l’ebollizione e il passaggio
a vapore. Gli interessa capire come
mai i passaggi di stato siano lenti e richiedano
tanta energia. Si pone l’obbiettivo di calcolarla e scopre
la
quantità di calore che occorre fornire per
determinare l’aumento o la
diminuzione di 1°F per una determinata massa
d’acqua. Le sue misure e i suoi
calcoli risulta importanti in quanto assimilano
correttamente il calore al
concetto di energia, permettendo anche a
Watt di perfezionare la macchina a
vapore. E tuttavia, incredibilmente, molti
continueranno ancora per lungo tempo
a ignorare le sue conclusioni ed a considerare
“metafisicamente” il calore un
fluido “molto sottile” e immateriale.
Il
Settecento è il secolo in cui si scopre l’essenza
dell’elettricità, dando corso
a una delle più affascinanti linee di ricerca
del sapere umano e della più
importante risorsa del mondo moderno, un
mondo senza di essa impensabile. Tutto
inizia verso la fine del ‘600 con la scoperta
dei fenomeni elettrostatici da
parte di Otto von Guericke, ma è solo all’inizio
del ‘700 che Francis Hawksbee,
per mezzo dello strofinamento del vetro,
riesce a farsene un’idea più precisa.
Dopo il 1730, e quasi contemporaneamente,
Stephen Gray e Charles du Fay ancora utilizzando
il vetro riescono a determinare meglio le
caratteristiche del fenomeno:
l’inglese conducendo elettricità in un conduttore
lungo 2 chilometri ed
elettrizzando più persone in catena, il francese
riuscendo ad ottenere
scintille dal corpo umano ed inventando rudimentali
elettrometri prima a filo e
poi a foglia [36]. Ancora quasi contemporaneamente due studiosi,
il dilettante tedesco Ewald Jurgen von Kleist
e il fisico olandese Petrus van
Musschenbroek, mettono a punto l’apparecchio
che prenderà il nome di Bottiglia
di Leida e con il quale si può elettrizzare
dell’acqua contenuta in una
bottiglia di vetro. Molti fisici ripetono
l’esperimento con apparecchi
modificati, in numerose varianti ed anche
su grande scala (come in una vasca
delle Tuileries da parte di Jean-Antoine
Nollet), traendone ulteriori spunti di
conoscenza e sviluppo.
La
corsa alla scoperta definitiva dei fenomeni
elettrici parte dall’inglese Peter
Collinson, che tra il 1747 e il 1754 entra
in contatto epistolare con Benjamin
Franklin e lo mette al corrente delle sue
ricerche; la collaborazione porta
alla definizione della nozione di conservazione
dell’elettricità e del
possibile accumulo di essa. Negli stessi
anni Franz Ulrich Aepinus e Charles
Coulomb estendono il campo della ricerca
al magnetismo. Poco dopo Franklin
studierà i fulmini e realizzerà il parafulmine.
Passi successivi saranno
compiuti da Coulomb tra il 1784 e il 1789
con gli studi sull’attrito e la
teorizzazione del momento magnetico. Nello stesso periodo in Italia
Luigi Galvani scopre per caso nel 1771 la
contrazione dei muscoli animali per
effetto dell’elettricità. Le sue ricerche
vengono riprese da Alessandro Volta
sino alla realizzazione della “pila”, un
generatore di elettricità costituito
da dischi di zinco e di argento impilati
e alternati e con l’interposizione di un
feltrino umido acidificato.
10.7
I primi passi della chimica
Ancora per buona parte del ‘600 nessuno pensa
alla possibilità di una
“scienza delle sostanze” indipendente dalla
fisica e dalla medicina e nello
stesso tempo non identificabile con l’alchimia
e le sue velleità stregonesche.
E tuttavia, già nel 1675, appare un Cours de chimie del francese Nicolas
Lemery che avrà trenta successive edizioni
e nel quale la tradizione
medico-farmaceutica e il meccanicismo fisico
si incontrano nel tentativo di
definizione del “principio chimico”. Un principio-base
per una nuova scienza
relativa alle sostanze (gas, liquidi e solidi)
a base delle quali dovevano
stare particelle misteriose ed invisibili
che Nicolaus Hartsoeker aveva
graficamente immaginato come dotate di ganci
e di incastri [37]
per stare assieme. Ma il concetto di chimica
rimane ancor per diversi decenni
abbastanza vago e nel 1723 Georg Ernst Stahl
scrive:
La chimica è stata per oltre duecento anni
dominio esclusivo di
ciarlatani che hanno prodotto un’infinità
di vittime […] Oggi alcune persone
cominciano ad occuparsi seriamente di questa
scienza. Il loro piccolo numero
non deve sorprendere. Era naturale che gli
impostori, le false promesse dei
fabbricanti di oro, i pretesi arcani, i rimedi
universali, le preparazioni
farmaceutiche spesso nocive degli alchimisti,
rendessero odiosa la chimica alle
perone oneste e sensibili, facessero sorgere
in loro un senso di disgusto per
un sapere caratterizzato dalla frode e dall’impostura.
[38]
Si tratta di un nuovo orizzonte di conoscenza
che Stahl identifica perfettamente e che
lo porta a porre una nuova linea di
ricerca di cui sarà protagonista per alcuni
decenni. In effetti, sino agli anni
15-20 del ‘700, lo studio della chimica si
basa sulle sue esperienze e sui suoi
libri, dal Theoria medica vera del 1707 al più tardo Esperimenta fundamentalis seu
fermentationis theoria generalis, del 1731. Stahl era colui che aveva
definito, all’inizio del secolo, i tre componenti-base
dell’universo materiale:
il “fluido umido” (l’acqua), il “principio
di secchezza” (la terra) e il
“flogisto”, principio incorporeo, concernente
la combustione e la
trasformazione dei derivati metallici. Egli
pensa che “perdendo” flogisto il
metallo si trasformi in ossido ed acquistandolo
ripassi a metallo, per cui esso
si presenta come una sorta di ossigeno “al
contrario” [39].
La teoria è molto approssimativa e per molti
versi errata, ma costituisce il
primo punto fermo per l’avvio verso un vera
scienza chimica, ma che si avrà
solo con la scoperta dell’affinità e la nascita
della teoria atomica. Le
scoperte ricevono un buon avvio con i lavori
del francese Étienne Geoffroy “il
Vecchio” e dell’olandese Boerhaave, ma occorreva
uscire coraggiosamente dalle
secche di un cartesianesimo ancora imperante.
Geoffroy riesce a comprendere e a
mettere in evidenza la sostanziale discontinuità
della materia e, rifacendosi a
Leucippo, concepire delle particelle-base
e indivisibili quali costituenti
elementari delle sostanze, elaborando un’ingegnose
“tavola di affinità” che
sarà di esempio per tutti i miglioramenti
successivi sino a quella di Torben
Olaf Bergman, che rimase la più completa
ed affidabile sino all’inizio
dell’800.
Ma
parliamo dei gas, che vedono come capofila
l’inglese Joseph Priestley, figura
pittoresca di chimico e pastore presbiteriano
dalla cultura vastissima e dal
carattere collerico. Dopo essersi interessato
a ricerche sull’elettricità sotto
l’influsso di Franklin egli passa ad occupasi
dei gas e nel 1772 scopre il “gas nitroso” (il biossido di azoto),
poi l’”aria nitrosa deflogistizzata“ e il
protossido di azoto. Scopre
l’ossigeno nel 1774 riscaldando minio di
piombo e ossido di mercurio in un vaso
chiuso e si rende conto che si tratta di
un comburente. Entra in contatto con Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), che già studia gli stessi
fenomeni, e lo informa degli esiti delle
sue ricerche, in anticipo su quelli del
francese. Priestley lo anticiperà anche con
altre intuizioni e scoperte, ma
Lavoisier è uno dei padri della chimica e
si distingue per l’approccio eminentemente
teorico. Inoltre, mentre l’inglese è ancora
legato a Stahl e al principio del
flogisto il francese è già oltre arrivando
alla precisa definizione dei due gas
fondamentali dell’atmosfera terrestre, l’azoto
e l’ossigeno, in quanto tali. Egli non fa tanto nuovi esperimenti ma ne
approfondisce i significati ed è seguace
del “metodo quantitativo”. Scrive nel Traité
élémentaire de chimie (1789)
Possiamo considerare un assioma
incontestabile il fatto che, in tutte le
operazioni artificiali o naturali,
nulla viene creato; sia prima sia dopo l’esperimento
sussiste un’eguale
quantità di materia; la quantità e la qualità
degli elementi rimangono
esattamente le stesse; null’altro avviene
se non modificazioni e mutamenti
nella combinazione di tali elementi. [40]
Lavoisier si propone di produrre fatti e dati reali e nel
1783 attacca la dottrina del flogisto mandandola in soffitta. Poi, nel
1787, elabora una nuova nomenclatura unificata
per le sostanze chimiche.
Anche
il farmacista tedesco Wilhelm Scheele scopre
l’ossigeno, ma attraverso un
metodo di lavoro più legato alla sperimentazione.
E tuttavia, questo
straordinario sperimentatore darà un enorme
contributo con la scoperta di
numerose nuove sostanze inorganiche ed organiche.
Tra le prime basti citare un
altro gas, il cloro, i composti del manganese,
l’acido fluoridrico, l’acido
prussico; tra le seconde gli acidi formico,
urico, lattico e malico. [41]
Ma il passo più importante nella chimica
è la scoperta della composizione
dell’acqua attraverso la combustione dell’idrogeno.
Due gas, idrogeno e
ossigeno, combinandosi producono un liquido:
l’acqua. Conclusione sconcertante
in una temperie culturale ancora impregnata
di metafisica e difficilmente
propensa a credere che due sostanze aeree
e quasi immateriali insieme a una
terza sostanza “quasi spirituale”, come il
fuoco, possano dar luogo ad un
liquido così “materiale” come l’acqua. Potere
di una scienza, la chimica, che
sin dai primordi era stata sempre vista dalla
religione come qualcosa di
stregonesco. Ne fa tesoro l’inglese Henry
Cavendish (1731-1810), fisico-chimico
rigoroso, che dal 1781 prosegue le sue ricerche
sui gas fino al 1784, offrendo
l’esempio di un rigore sperimentale esemplare
anche per i suoi successori e
riproducendo reazioni chimiche naturali in
laboratorio. Cercando l’origine di
tracce di acido nitrico nelle combustioni
si accorge che si tratta di un
prodotto secondario e riesce a produrlo combinando
direttamente azoto e
ossigeno facendoli attraversare da una scintilla
elettrica [42].
10.8
Biologia e genetica
Dopo la scoperta all’inizio del secolo da
parte di Leeuwenhoek,
e grazie al microscopio, degli spermatozoi
e della loro azione fecondatrice si
apre una nuova fase delle scienze biologiche
e la nuova scoperta viene
elaborata in senso filosofico da Maupertuis
che ne la Venus physique
scrive:
Ogni principio di vita risedendo nel picciolo
animale [lo spermatozoo], ed essendovi in
esso contenuto l’uomo intero, l’uovo
è ancora necessario: egli è una massa di
materia propria a somministrargli
l’alimento, e l’accrescimento. In quella
gran copia di animali deposti nella
vagina, o subito lanciati nella matrice uno
più fortunato, o più sgraziato
degli altri, nuotando, rampicandosi ne’ fluidi,
onde queste parti sono bagnate,
arriva all’imboccatura della tuba, che lo
conduce fino all’ovaia. Trovando
quivi un uovo pronto a riceverlo, ed a nodrirlo,
lo foracchia, vi si alloggia,
e vi riceve i primi gradi del suo ingrandimento.
[43]
Egli non solo vede chiaramente il processo
di
fecondazione, peraltro già noto, ma si rende
anche conto che soltanto uno
spermatozoo “più fortunato” o “più sgraziato”
raggiunge l’uovo, fccondandolo.
Con ciò conferma l’esclusione di ogni determinismo
per il fatto, oggettivo, che
ad uno tra molti capita, solo ed unico, di
fecondare invece di altri. Tutti
hanno infatti, teoricamente, le medesime
possibilità; il più veloce, ma
soprattutto il più fortunato, quello che
si trova al punto giusto nel momento
giusto sulla membrana della cellula ovarica,
entra, e arriva allo scopo.
Abbiamo utilizzato il brano di Maupertuis
per introdurre il nostro breve
excursus sulla storia della biologia e della genetica
nel Settecento.
Una storia che è innanzitutto quella dell’affrancamento
da molte convinzioni
metafisiche, col che le nuove scoperte tentano
di farsi strada faticosamente
tra cento equivoci, cento riserve e resistenze,
cento incomprensioni e contrasti.
Sono del Settecento anche i primi tentativi
di classificazione del mondo
vivente. Sia in botanica che in biologia
il microscopio permette di indagare
assai più a fondo la natura intima del fenomeno
della vita e dei suoi elementari
protagonisti. Basti ricordare che solo
nel 1723 si scoprirà, ad opera di Jean-André
Peyssonel, che il corallo è un animale,
e che nel 1740 Abraham Trembley scopre la
partenogenesi dell’idra di acqua
dolce e Charles Bonnet quella degli afidi
e dei vermi [44]. Le prime ricerche sistematiche sugli insetti
sono merito del già ricordato René-Antoine
Réamur: dal 1734 al 1742 pubblica in
sei volumi le sue Mémoires pour servir à l’histoire des insectes che
rimarranno a lungo un’opera di riferimento
per gli studi entomologici posteriori
[45].
Nella botanica, dopo l’Historia plantarum di John Ray, del 1686, vi è un
serrato susseguirsi di studi sull’argomento
che culmina nel Systema naturae
del 1735 dello svedese Linneo (Carl von Linné),
che definisce quella
nomenclatura binomia (genere e specie) ancor oggi utilizzata. La
classificazione linneiana è in gran parte
arbitraria, ma essendo molto semplice
ha finito per imporsi rispetto a classificazioni
più corrette ma più complesse.
Linneo, d’altra parte, uomo molto devoto,
si pone lo scopo di rendere
accessibile la comprensione dell’opera di
Dio fissata dalla Creazione,
immutabile e definitiva. Concezione rigorosamente
fissista, che naturalmente
confligge con quella evoluzionistica, ma
che, nonostante i suoi limiti teorici,
risulta ancora utile per la sua vastità,
poiché classifica e descrive ben oltre
7.700 specie di vegetali e 4.400 di animali
[46],
fornendo le basi di una codifica semplice
e chiara. L’opera di Antoine-Laurent
Jussieu Genera plantarum secundum ordines naturales
disposita, del 1786,
costituisce un importante passo in avanti
e si basa sulle ricerche dirette dei
suoi zii Antoine, Joseph e Bernard, curatori,
prima di lui, del Jardin du
Roi. Ma molto importante è anche l’opera Familles des plantes di
Michel Adanson, del 1763, un geniale ed originale
scienziato rimasto perlopiù
misconosciuto che visse oscuramente la sua
vita di ricercatore assiduo ed
attento sino al 1806 [47] in
una dedizione assoluta alle ricerche botanice.
Il
superamento delle teorie aristoteliche, rilanciate
in ambito padovano nel ‘500
ed ancora assai seguite in quasi tutte le
sclerotizzate università europee,
comportava l’abbandono della convinzione
che le piante assumessero la loro
energia prelevandola solo dal terreno. Il
naturalista fiammingo Jean Baptiste
Van Helmont, malgrado le sue tendenze spiritualistiche
e mistiche, aveva
capito, sin dall’inizio del Seicento, che
le cose non stavano così, e che le
piante non prelevavano esclusivamente dal
terreno le loro risorse accrescitive
ma anche dall’aria. Altri contributi vennero
da Marcello Malpigli (Anatomes
plantarum idea) e da Edme Mariotte, sino al 1727, quando
Stephen Hales
pubblica la Vegetable Staticks (tradotta in francese da Buffon) dove
espone le sue vaste ed importanti esperienze
che dimostrano definitivamente la
traspirazione delle foglie, il ruolo biologico
dell’aria e della luce, la
circolazione della linfa [48]. In
ambito animale sarà poi il grande Lazzaro
Spallanzani (1729-1799)
a
dimostrare che nei polmoni di chiocciole
chiuse in contenitori di azoto puro si
formava anidride carbonica, rilevabile dalla
respirazione, grazie all’ossigeno
assorbito prima del confinamento.
Il
problema della generazione delle forme viventi
costituisce il primo grande
contenzioso della storia delle scienze biologiche
nei secoli XVII e XVIII,
quello su cui pesavano le credenze della
più lontana tradizione greca, incerte
evidenze osservative e implicazioni di carattere
teologico. La credenza nella
“generazione spontanea” (il fango e la putredine
come foriere di vita) risaliva
ai naturalisti ionici, ripresa poi da Democrito
venne ammessa da Aristotele, e,
sostanzialmente, sino a tutta la prima metà
del Seicento la si riteneva del
tutto attendibile. Sarà Francesco Redi a
dimostrarne l’inconsistenza con
rigorose prove sperimentali che i suoi predecessori
non erano stati capaci di
fare, delle quali rende conto in Esperienze intorno alla generazione degli
insetti del 1668. Leeuwenhoek le
conferma nel 1687 e tuttavia le resistenze
rimangono forti e durano molto a
lungo. Come spiegare lo sviluppo delle larve
di insetti in bacche rigorosamente
chiuse? E com’è possibile la nascita dei
vermi intestinali? Qualcuno sostiene
addirittura che sin dalla creazione di Adamo
i loro germi fossero presenti nel
suo intestino [49]. D’altra parte la generazione
spontanea ha ancora nel Settecento molti
sostenitori in biologi illustri come
Needham e Buffon. Gli equivoci nascono dal
fatto che non è evidente il ruolo
dell’“asetticità” ed il limite minimo di
garanzia per poterla ritenere realizzata
nelle tecniche sperimentali, e ciò malgrado
le esperienze di Redi avessero già
lasciato intuire i termini veri del problema.
La questione si chiude
definitivamente con lo Spallanzani, uno dei
più grandi sperimentatori della
storia della biologia e della medicina, che
mette in atto la tecnica della bollitura
molto prolungata dell’acqua usata per gli
esperimenti e la sigillatura dei
contenitori per fusione a fuoco del vetro.
I risultati di tali esperienze sono
resi pubblici nel libro Saggio di osservazioni microscopiche del 1765,
ma Needham si difende portando la questione
sul terreno dell’indimostrabilità
scientifica. Egli, sostenendo che a base
del fenomeno della vita c’è una “forza
generativa” che può venir distrutta con processi
estremi di sterilizzazione,
spiega la mancata nascita della vita negli
esperimenti spallanzaniani come
“distruzione di vita” per effetto termico.
Sia Needham che Spallanzani sono dei
religiosi, ma il primo è ancora legato a
concetti metafisici, il secondo se n’è
sbarazzato. L’italiano ha infatti applicato
per primo quel rigore scientifico
oggettivo e neutrale che mette da parte ogni
“idea” interpretativa preconcetta, basando le proprie conclusioni
esclusivamente sul “dato” e non sull”interpretazione”
di esso, marcando così
quel discrimine netto tra esperienza e teoria
che è alla base di ogni ricerca
scientifica moderna.
Per
rendere però un’idea corretta di chi fosse
John Turberville Needhan, nato nel
1713 (e quindi di sedici anni più
vecchio del suo avversario Spallanzani) bisogna
sottolineare il fatto
che anch’egli è un grande sperimentatore
ed un assiduo utilizzatore del
microscopio. Gli va riconosciuto un ruolo
fondamentale per avere compreso in
modo corretto che il fenomeno della vita
è un fatto “a sé” nell’ambito del
reale. Egli escludendo perciò ogni fattore
meccanicistico, come uno stuolo di
cartesiani continuava a pensare e come materialisti
puri come La Mettrie finiscono
per perpetuarlo. Needham, per quanto sbagli,
ha il merito di mettere in un
angolo il meccanicismo in biologia, per quanto
nello stesso tempo dia spazio al
vitalismo, che già Maupertuis aveva proposto
e sostenuto. Nel contempo egli
corregge anche il suo amico Buffon, che aveva
ipotizzato la generazione
spontanea come una sorta di processo di “fecondazione”
della materia bruta da
parte di quella vivente, dimostrando l’irriducibilità
della materia viva a
quella inorganica. Per comprendere come Needham
non sia affatto un facilone
occorre tener presente che egli mette sempre
in atto prove multiple coi suoi
esperimenti. Ad esempio ripete 15 volte la
prova per verificare il processo
germinativo dei semi di mandorla in ambiente
sigillato e 70 volte l’esperimento
sul sugo di carne sterilizzato per dimostrare
che il processo della nascita di
forme di vita “in movimento” escludevano
comunque origini non-biologiche.
Relativamente a Spallanzani, colui che è
considerato il fondatore della
biologia moderna, ma che vanta anche grandi
meriti nella medicina relativamente
alla fecondazione, alla digestione e alla
circolazione sanguigna, va ribadito
che la sua grandezza sta tutta nel “rigore”
sperimentale, assunto quale
fondamento di ogni conclusione scientifica.
Ciò significa che la scienza vera,
l’autentica conoscenza che segna un confine
netto tra ciò che è solo ipotesi,
esige un “atto” di ricerca e indagine ed
un conseguente”fatto” verificabile e
ripetibile all’infinito che “sempre” confermano
lo stesso dato. È solo la
corretta acquisizione del “sempre” (e da
ciò il determinismo teorico), del
“qualche volta” (e quindi il probabilismo
statistico) o del “mai”
(impossibilità teorica) che marcano il discrimine
tra una tesi e un ipotesi, e
non l’assunzione di un criterio deterministico,
indeterministico o
probabilistico a priori. Spallanzani è anche
attore primario della disputa tra
preformismo ed epigenesi e dimostra (studiando
rane e rospi) che lo spermatozoo
non feconda l’uovo dall’esterno (con la supposta
aura seminalis) ma solo
se penetra in esso. E tuttavia non comprende
affatto la funzione spermatica
poiché, da buon teologo, rimane ancorato
al pregiudizio “preformista”,
negandosi il tal caso come scienziato per
voler rimanere cristiano integrale,
il che conferma che fede rigorosa e scienza
rigorosa sono per loro natura
inconciliabili e praticabili solo separatamente.
Un religioso può essere
certamente un eccellente scienziato, ma solo
a condizione che non mescoli mai
la fede con la scienza.
Entriamo ora nel vivo della grande querelle concerne
l’embriologia, ovvero la nascita e la formazione
dell’organismo animale.
Abbiamo già accennato ai due grandi partiti
che si contrappongono, quello
preformista e quello epigenista, e qui la
teologia cristiana assume un ruolo
negativo fondamentale. La realtà dell’epigenesi,
malgrado la sua determinazione
ancora un po’ rozza, si affermerà, ma attraverso
un lungo travaglio
dibattimentale di cui dovremo dare qualche
conto. Una volta cassata la tesi
della generazione spontanea restava infatti
la domanda del “come?” poteva
formarsi l’embrione. La tesi preformista
sostiene che il singolo organismo “sin
dall’inizio”possiede già “in sé” tutto ciò
che diventerà: il futuro di ogni
essere vivente “deve” essere già perfettamente
determinato sin dalla sua
concezione e si realizza deterministicamente
sin dal suo apparire. La tesi
epigenetica sostiene invece che l’individuo
si forma “nel suo farsi”, ovvero
per l’aggiunta di parti strutturalmente e
funzionalmente nuove ad un nucleo
vitale privo della gran parte degli elementi
che lo faranno essere un organismo
in grado di sopravvivere autonomamente. Il
preformismo, come materia “di fede”,
trasferito tal quale in biologia porta ad
un’inevitabile e abbastanza
paradossale conclusione: “tutti” gli uomini
che sarebbero nati dai loro
progenitori nel Paradiso Terrestre avrebbero
dovuto “già essere” o nelle ovaie
di Eva o nei testicoli di Adamo. Per quanto
a noi, oggi, la disputa possa
parere incongrua, in realtà, tre secoli fa,
vi erano degli accesi preformisti
in genetica che in altri ambiti erano ottimi
ed acuti ricercatori. Per non dire
di metafisici post-cartesiani come Malebranche,
che non era peraltro uno
sprovveduto, il quale squalificava il dibattito
sostenendo che siccome «lo
spirito vede assai più lontano del corpo»
era privo di senso fare ricerche ed
esperimenti su ciò che l’anima era già in
grado di conoscere grazie alla fede.
Nel
Seicento il preformismo era stato sostenuto
da Malpighi e Swammerdam,
l’epigenesi da Harvey, colui che coniò il
termine e trattò l’argomento in Exercitationes
de generatione animalium del 1651. Il Settecento vede schierasi per
il
preformismo gli svizzeri Haller e Bonnet
e l’italiano Spallanzani, mentre sono
epigenisti Maupertuis, Buffon, Kaspar Friederich
Wolff (1733-1794) e Friederich
Blumenbach (1752-1840). Giovanni Solinas,
uno studioso della filosofia e della
scienza settecentesche ci ha reso col suo
Il microscopio e le metafisiche
uno dei migliori resoconti di come si sia
sviluppato quel dibattito attraverso
i suoi temi e i suoi protagonisti; lo utilizzeremo
quindi come utile traccia
per la nostra sintesi. Charles Bonnet (1720-1793),
uno dei più convinti e
prestigiosi preformisti (peraltro ottimo
microscopista sì da diventar quasi
cieco per l’uso estremo dello strumento)
è colui che non solo meglio definisce la
preformazione, ma anche colui che, in
una nota del suo Contemplation de la nature (1764), dà una chiara
definizione di ciò che pensano i suoi avversari,
scrivendo essere quella
epigenetica : «Opinione di quelli che non
ammettono germi [embrioni]
preformati, e vogliono che l’animale sia
realmente generato parte dopo parte,
dalla riunione di differenti molecole che
si aggregano in virtù di certi
rapporti.» [50] I preformisti, peraltro,
si dividono a loro vola in ovisti e animalculisti, ritenendo i
primi che la preformazione sia nell’ovaia
e i secondi nello sperma. o tutti
preformati in Eva o tutti in Adamo. Per Bonnet,
che è un convinto ovista, la
Creazione ha determinato tutto ciò che ne
è seguito solo nelle femmine; nelle
ovaie della progenitrice di ogni specie animale
vi erano già, miniaturizzati e
incapsulati l’uno nell’altro, “tutti” i discendenti
di essa, mentre il seme
maschile funge da “stimolatore di crescita”.
Dello stesso parere è anche il più anziano
Albrecht von Haller, “grande
pontefice” della fisiologia e della psicologia
settecentesca, convinto ovista proprio
in base agli argomenti di Bonnet.
Si
tenga presente che una delle finalità principali
del preformismo è di escludere
categoricamente il caso in ogni possibile o supponibile processo
formativo, poiché anche la sola allusione
ad esso irrimediabilmente compromette
il determinismo creazionale. Siccome qualsiasi
interferenza nell’evolvere di un
mondo “voluto così” dal suo Creatore non
è tollerabile il fissismo
diventa dogma irrinunciabile per una biologia
cristiana, sì da costituire
ancora ai nostri giorni la barriera irrinunciabile
contro l’evoluzionismo. E
tuttavia il problema dei mostri ripropone
la presenza di un caso foriero
di mutazione genetica a meno di pensare che
nelle ovaie di Eva o nei testicoli
di Adamo i mostri fossero già presenti in nuce; ma con ciò violando la
perfezione del Creato e la Teodicea. Sin
dall’inizio il partito preformista deve
fare i conti con problemi esplicativi quasi
proibitivi e bisogna ricorrere a
tutte le scappatoie possibili ed utili. Ciò
non significa che gli epigenisti
non siano ferventi cristiani, ma soltanto
che hanno della Creazione un’idea non
rigida, oppure giudicano le affermazioni
bibliche metaforiche o dispositive; da
interpretare come già Filone Alessandrino
e più recentemente Spinoza avevano fatto.
Ma anche la più banale questione del parassitismo
pone problemi non da poco per
il preformismo (ed implicitamente per la
Teodicea), poiché, se essi erano stati
mandati da Dio all’uomo (dopo il crimine
di Caino) per tormentarlo della sua
peccaminosità è un conto, ma se sono preesistenti
nell’intestino di Adamo o di
Eva prima di mangiare la mela, perché Dio
ce li ha messi?
Per
quanto riguarda l’epigenesi gli orientamenti
sono due, il meccanicista e il vitalista,
quindi anche in questo campo i problemi non
sono pochi, e seppure la corrente
vitalista ha maggiori frecce al proprio arco
rispetto al riduzionismo
meccanicista deve fare i conti con elementi
vagamente “spiritualisti” che la riporta
sul terreno metafisico e l’allontanavano
a quello scientifico. Tanto più che si
sarebbero potuti vedere i due grandi teologi
filosofali barocchi Cartesio e
Leibniz quali possibili precursori rispettivamente
dell’epigenismo
meccanicistico e di quello vitalistico. Si
vede ancora una volta, come il
Settecento, il secolo in cui nasce la scienza
moderna, sia percorso da fermenti
e contraddizioni che lo rendono complesso,
problematico e tormentato. Eppure è
proprio grazie ai tormenti speculativi ed
ai turbamenti esistenziali e
fideistici dei suoi protagonisti se la scienza
settecentesca ha potuto
costruire la propria rigorosa cornice di
riferimento sia pure a costi umani non
trascurabili. Il prezzo da pagare da parte
dei credenti ortodossi è che nell’intento
di essere scienziati in buona fede viene
corso il rischio di diventare
cristiani “di cattiva fede”. In qualche caso
il preformismo, soprattutto nella
forma più radicale della “preesistenza” nei
proto-genitori ed in riferimento
alla rara ma continua generazione di mostri,
viene rifiutato proprio per il
fatto che suona offensivo per la bontà e
la sapienza divina. In generale la
posizione del fedele e le sue convinzioni
influenzano in maniera determinante
l’orientamento verso l’una o verso l’altra
e per questo, come nota giustamente
Solinas [51], la teoria preformista e
quella epigenica si presentano così intersecate
e connesse nella multiformità
delle rispettive articolazioni, che in qualche
caso riescono a convivere in
teorie “miste”.
All’interno
del preformiamo è esemplare l’atteggiamento
di Spallanzani; egli è per un verso
un credente granitico, ma per altro verso
un
rigoroso sperimentatore. In questa veste
non si appiattisce affatto
sulle posizioni di altri preformisti e riesce
nel contempo a mettere i crisi la
tesi delle moules avanzata da Buffon, dimostrando che aveva
osservato
non già spermatozoi vivi ma altre forme di
vita nate dalla putrefazione del
liquido seminale. L’errore di Spallanzani
sta però nel fatto che avendo
dimostrata falso uno dei presupposti di una
tesi epigenica tra le più
accreditate ha poi ritenuta chiusa la patita
in favore del preformismo, e
quindi della fede, senza preoccuparsi di
effettuare ulteriori verifiche
sperimentali confermative ritenendole inutili.
La fede, in tal caso, aveva
giocato un bruttissimo scherzo al grande
scienziato, poiché aveva salvato la credenza
ma offeso la scienza. Spallanzani è sicuro
di sé quando in base alle sue
ricerche su rane, rospi e salamandre, scrive:
Siccome quei
corpicelli fuora del corpo materno sono i
veri girini, così lo sono eziandio
dentro di esso; e per conseguente che il
feto esiste nella madre priaché vi
concorra il padre col liquore spermatico
[…] Conchiudo adunque, che anche in
quegli animali si trovano già i feti nelle
femmine, innanzi che concorsa vi sia
la fecondazione del maschio. [52]
Posizione
preformista comune nei cristiani ortodossi
ma non meno nei deisti, che
ugualmente ritengono che il lasciare strada
alla teoria epigenica conduca
facilmente al meccanicismo materialistico,
e da questo all’ateismo; un atteggiamento
che permane persino dopo che Wolff mette
fine alla disputa demolendo
definitivamente la tesi preformista. L’esempio
di un tipico intellettuale
preformista deista, e direttamente coinvolto
in questa attività di salvaguardia
di una cultura scientifica esente da rischi
ateistici, è Voltaire, che si vota ad
una fervente attività pubblicistica contro
l’epigenesi.
Come
si è già visto i più accesi epigenisti della
prima metà del secolo sono stati
biologi come Maupertuis e Buffon, seguiti
da filosofi come Diderot e d’Holbach,
ma è solo nella seconda metà di esso che
la contesa vede i loro successori
uscirne vincitori. Tra questi emerge la
figura di Théophile Bordeu, medico e biologo
amico di Diderot e protagonista del
Sogno di D’Alembert. Egli è sostenitore di un epigenismo vitalista
non
privo di elementi metafisici, ma comunque
più convincente di quello
semi-meccanicista di Maupertuis e di quello
iper-meccanicista di d’Holbach,
anche perché Bordeu ha dalla sua parte un
bagaglio di verifiche sperimentali
che mancano agli altri. E tuttavia non mancano
tentativi teologici di bloccare
fin sul nascere la tesi epigenetica con opere
come l’Anti-Venus physique
di Gilles Basset e l’Art de faire des garçons di M.P. Couteau [53], con
le quali si cerca di erigere anche una barriera
contro un lucrezianismo
sotterraneo introdotto dai libertini che
appare esiziale pere la fede. In
questo senso è notevole l’opera pastorale
di Melchior de Polignac, astuto
diplomatico, poi cardinale ed infine, nel
1726, arcivescovo di Auch, capoluogo
dell’Armagnac, una delle regioni più cattoliche
della Francia. Egli si impegna
nella composizione di un grandioso poema
(9 libri di 1000 versi ciascuno) che
non riesce a portare a termine (apparso postumo
nel 1742) dal titolo Anti-Lucretius,
sive de Deo et natura, con il quale Lucrezio è confutato alla
luce delle
fede, ma con l’intendimento di colpire anche
Bayle quale fautore
dell’indifferenza religiosa e dell’agnosticismo.
Il
vero vincitore della guerra genetica è l’acuto
e rigoroso embriologo tedesco
Kaspar Friedrich Wolff, che fa esperimenti
definitivi sugli embrioni di pollo a
favore dell’epigenesi rendendoli noti nella
sua Theoria generationis del
1759. E tuttavia quest’importante scienziato
non solo rimane abbastanza
ignorato, ma gli esiti del suo lavoro sono
riconosciti solo dopo la sua morte,
poiché la fama ed il prestigio di preformisti
come Haller ne mantengono in
ombra le scoperte. Molto a lungo continua
a dominare il preformismo negli
assertori delle varie teologie, la cristiana
come la deista e la panteista.
Wolff, boicottato in patria, schiacciato
tra i seguaci di Haller e i
leibniziani, veri dominatori della cultura
tedesca, facenti fronte comune in
difesa del fissismo deterministico che egli
contrasta finisce per trasferirsi
nel 1767 in Russia e mettersi al servizio
di Caterina II. L’espediente
utilizzato dai preformisti per contrastarlo,
a cominciare da Haller (ma anche
da Bonnet e da Spallanzani), è quello di
avanzare un “limite di visibilità”
oltre il quale l’osservazione non può andare;
ne deriva un “c’è ma non si vede”
poco scientifico, ma dialetticamente efficace
[54]. Per
quanto Wolff ponga la necessità di ipotizzare
un vis essentialis nella
generazione della vita, già dal 1764, senza
negarla, la lascia sempre più in
ombra. Porta anche un apporto determinante
alla fisiologia, nel far derivare
l’accrescimento dalla nutrizione, sicché
anche l’aumento delle facoltà
intellettive nel bambino deriva da un vile
“mangiare” che produce la crescita del
cervello insieme a quello del resto del corpo.
La nutrizione diventa così
elemento epigenetico primario per ogni forma
del vivente, sia vegetale che
animale; sia pure in forme differenti Wolff
fornirà un’articolata descrizione
dei vari tipi di nutrizione possibile, delle
varie forme di accrescimento e dei
fenomeni di nuova vascolarizzazione indotta
[55].
Quel
che è importante rilevare è che Wollf con
le sue ricerche demolisce non solo il
preformiamo, ma anche l’altro ramo della
teoria epigenetica, quella
meccanicistica, ancora legata a Cartesio;
tuttavia egli vede la questione in
maniera problematica e non aprioristica,
né si esime dal cercare i possibili
nessi tra biologia e meccanicismo. Ma, espunto
questo, egli si trova a dover
ipotizzare una forza essenziale su cui si fondi la vita, che non si
muove su vie prestabilite ma è essa stessa
che crea le vie per agire. Per
quanto essere anti-meccanicisti significasse
inevitabilmente essere vitalisti,
il Nostro riesce a stare lontano da derive
filosofiche, rimanendo strettamente
ancorato alla fisiologia, facendo molte descrizioni
ma poche interpretazioni
teorizzanti. E tuttavia, essendo ancora impossibile
definire l’esistenza di un
qualche tipo di “fluido accrescitivo” in
un embrione dove le cellule
mesodermiche non hanno ancora prodotto né
il cuore, né i vasi e né il sangue
che in essi dovrà circolare, l’ipotizzare
una “forza vitale” era quasi
automatico. Una forza che spinga i liquidi
nutritivi dove servono, sino a
determinare i tessuti costituenti i differenti
organi, nevi, tendini, muscoli,
ecc. attraverso un processo di solidescibilitas, di solidificazione [56]. Wolff opera poi una distinzione tra generazione
ed organizzazione, tra nutrizione
semplice e nutrizione organizzativa, ed oltre al principio della vis
essentialis e al fenomeno della solidescibilitas, egli individua
anche degli accessori vitali [57]. Il movimentoè per la biologia wolffiana accessorio
fondamentale degli esseri viventi, ma la vita può esistere
senza movimento.
In altre parole: i corpi organici possono
essere considerati macchine in via
“accessoria” ma non “fondamentale” [58].
Ben
più noto e fortunato epigenista sarà Johann-Friedrich
Blumenbach, nato
diciannove anni più tardi di Wollf e morto
a 88 anni nel 1840. Il fatto di
operare quasi una generazione dopo, in un
clima già molto differente e di aver
avuto tutto il tempo di elaborare compiutamente
ed attentamente le sue teorie,
ricevendo stima e apprezzamento da parte
di Kant che lo cita nella Critica
del Giudizio. Blumenbach si muove sulla strada tracciata
da Wolff, ma
utilizza una terminologia differente ed in
lui la vis essentialis
wolffiana prende il nome di nisus formativus [59],
concetto fortunatissimo che caratterizzerà
un vitalismo che nell’800 godrà di
vasti riconoscimenti ed adesioni. E tuttavia
il nisus , anzi “i” nisus, non sono cause bensì effetti, essendo le
vere
cause per Blumenbach l’irritabilità, la contrattilità e la sensibilità,
che egli desume da Glisson, da Haller e da
Bordeu, che già aveva utilizzati il
termine nisus. L’importanza del lavoro teorico di Blumenbach
sta quindi
nel fatto che egli “pluralizza” le cause
vitali, ipotizzando l’assemblaggio di
parti in base ad un coordinamento pluralistico
che esclude ogni monismo, sempre
foriero di derive teologiche o mistiche.
Blumenbach è anche noto per aver
analizzato i caratteri somatici dei vari
gruppi umani, raggruppandoli in 5
razze: A. la caucasica (europea e indiana),
B. la mongola (asiatica e boreale),
C. l’etiope (africana), D. americana, E.
malese (sud-asiatica e australe).
10.8 La salute dell’uomo
Durante
un lungo Medioevo l’unica salute di cui le
due istituzioni del potere
“garantite” da Dio (la”Croce” e la “spada”
in sua difesa) si occupassero, in
onore e gloria di Lui, era quella dell’anima;
solo dal Rinascimento in poi
qualche piccola attenzione alla salute del
corpo comincia ad affacciarsi con lo
spostarsi degli interessi da un sacro totalitario ad un profano
molto timido. Ma è il Settecento il secolo
in cui la salute comincia a venir
riconosciuta come un valore importante, di
cui il potere si deve occupare, anche
in considerazione dei guasti sociali ed economici
conseguenti ad epidemie e malattie
contagiose ed endemiche. Così ci si comincia
a porre seriamente il problema di
risolvere alcuni fondamentali problemi nosologici,
studiando i modi per favorire
e conservare un buon stato di salute del
popolo, sia prevenendo l’insorgenza
delle malattie e sia pianificandone le cure
a livello collettivo. Novità sociologica
importante, per la quale la cultura illuministica
si spende e fortemente
contribuisce sia con nuove tesi concernenti
sia la socialità che l’eticità. La
consapevolezza che la salute del corpo è
un bene inestimabile e primario, atteggiamento
tipico del mondo moderno e quasi del tutto
assente sino a tutto il Seicento (quando
il sacrale destino dell’uomo “figlio” di
Dio è di raggiungerlo nella sua
empirea beatitudine), muta il panorama sociale.
Il processo evolutivo che aveva
comportato un relativo passo indietro della
sfera del sacro lasciando emergere un
poco la sfera del profano, iniziato due secoli
prima, vede nel XVIII un suo
primo traguardo significativo e tuttavia
ancora abbastanza precario.
Prima di occuparci della medicina e della
chirurgia ci preme fornire
alcune informazioni circa il luogo deputato
al recupero della salute:
l’ospedale. All’inizio del Settecento è ancora
vivo il ricordo delle disastrose
epidemie di peste del 1629-1630 (memorabile
la manzoniana descrizione di ne I
promessi sposi del lazzaretto di Milano) e di quella del
1665 che aveva
colpito particolarmente Londra (magistralmente
descritta da Defoe nel Journal
of the Plaghe Year). Una nuova attenzione alla salute pubblica
pone un
problema generale che investe direttamente
lo stato, il solo a potersene occupare
in modo organico e istituzionale. D’altra
parte il superamento della leggenda
metropolitana degli “untori” impone di combattere
il contagio generalizzato
attraverso efficienti norme igieniche al
fine di dimostrarne la falsità. Quello
dell’igiene diventa nel XVIII secolo il problema
medico fondamentale, tenendo
conto che in molti centri urbani vengono
ancora gettati in strada escrementi ed
urine e che Luigi XVI fa installare nel palazzo
reale il primo water closet
solo nel 1774. Un’igiene che molti Illuministi,
ammiratori dell’igienismo del
mondo classico pagano e in specie romano,
vedevano accantonata da diciotto
secoli di era cristiana, quando l’igiene
dello spirito aveva fatto non solo
dimenticare quello corporea, ma aveva, se
non proibito, duramente sconsigliato
le lavature del corpo, presupponenti la nudità,
come foriere di vanità, di tentazioni
peccaminose, di lussuria e di libidine.
Sino al XVI secolo l’organizzazione ospedaliera
era impostata solo sulla
carità cristiana dei lazzaretti, dove più
che curare si preparava l’inevitabile
trapasso all’aldilà, affidati agli ordini
cavallereschi (San Lazzaro, San
Maurizio, Malta, Templari, Teutonici, ecc.)
e da essi gestiti. Pare che nel
XIII secolo di tali luoghi se ne contassero
in Europa 19.000; una rete
vastissima, quindi, di strutture indubbiamente
meritorie, ma che nella
tradizione della pietà cristiana dovevano
sì alleviare le malattie degli
sfortunati e possibilmente condurli alla
salvezza della vita, ma soprattutto condurli
alla santità, riposta nella sopportazione,
nella fede e nella preghiera. Dal
Rinascimento in poi, in seguito a profondi
mutamenti etici e sociali, anche
l’organizzazione ospedaliera si avvia verso
un profondo rinnovamento,
consistente nell’attenuazione del compito
caritativo e nella contemporanea
accentuazione di quello medico, orientamento
che impone l’intervento del potere
civile quale gestore diretto della salute
pubblica. A nosocomi veri e propri,
grazie ad una nuova attenzione per l’infanzia,
nascono anche luoghi dove ci si
occupa della salute dei bambini poveri e
dell’allevamento dei trovatelli. A
quell’epoca, ancora ignote le cause come
i meccanismi della trasmissione delle
malattie, in numerosi casi gli ospedali divengono
focolai di trasmissione, sì
da insinuare dubbi sulla loro reale utilità
e persino consigliarne la
soppressione. Solo l’abbandono di una medicina
fortemente “metafisica” e
l’affermarsi di quella “osservazionale e
sperimentale” determina quel
cambiamento sostanziale dell’orizzonte sanitario
che inizia nel XVII secolo e
che si completa con l’inizio del successivo
attraverso l’istituzione di centri
di studio e di ricerca sulle malattie.
In
Francia, nei primi decenni del Settecento,
tra le categoria dei medici e dei
barbieri-chirurghi si inserisce una categoria
intermedia, quella dei
medici-chirurghi, che danno vita all’Accademia
Regia di Chirurgia di Parigi. Si
incominciano anche a formare levatrici professioniste
che sostituiscono
gradualmente le praticone, ed un donna generosa
e intelligente come Angélique
le Boursier du Coudray compie viaggi all’estero
per aumentare le proprie
conoscenze e gira la Francia tenendo sedute
didattiche e veri e propri corsi di
istruzione utilizzando manichini fatti costruire
all’uopo [60].
Nasce anche la nuova categoria dei farmacisti
che via via si stacca da quella
degli erboristi. Ma la situazione rimane
ancora a lungo confusa e intricata,
con grande incertezza nella definizione delle
professioni e conflitti tra differenti
categorie professionali con compiti vicini
sin verso la fine del secolo,
allorché André Tissot (1728-1797) redige
un Avis au peuple su la santé, seguito
da Foderé che nel 1798 scrive un Traité de médecine légale et d’hygiène
publique [61]. Ma
la medicina e la chirurgia possono ora anche
contare su tutta una serie di
nuovi strumenti medicali resi possibili dalle
nuove scoperte della fisica e
dalle nuove tecnologie, come il termometro
e il microscopio insieme a nuovi di
sistemi di registrazione, catalogazione e
storicizzazione dei fenomeni
clinici.
I
primi segni di un cambiamento di atteggiamento
vengono anche da una ripresa
massiccia degli studi anatomici, un campo
nel quale eccelle l’italiano Gian
Battista Morgagni (1682-1771) che insegna
in varie università dove profonde le
sue conoscenze e i suoi metodi nella dissezione
dei cadaveri [62].
Operazione che, è il caso di ricordarlo,
fu sempre molto avversata dai teologi,
quale violazione di un corpo che le anime
beate avrebbero dovuto riassumere tal
quale all’indomani del Giudizio Universale.
L’accuratezza di Morgagni gli permette
di mettere in evidenza aspetti nascosti di
aree anatomiche già studiate da
altri e di correggerne le inadeguatezze,
scoprendo l’inserzione dei muscoli
jotiroidei e sternotiroidei, i canali escretori
delle ghiandole sottolinguali,
importanti particolari della laringe, delle
ghiandole lacrimali e della valvola
ileocecale, il legamento sospensore del pene,
i canali parauretrali,
particolari della mucosa rettale, ecc. [63]
È anche eccellente patologo e in De sedibus et causis morborum per
anatonomen indagatis del 1761 fissa non solo regole fondamentali
per la
pratica anatomica ma dà anche importanti
indicazioni sulle patologie connesse
alle diverse parti. Da ricordare anche un
altro italiano, Antonio Scarpa, esperto
di chirurgia e insegnante alle università
di Modena e di Pavia, che fa importanti
scoperte sull’apparato otorino-laringoiatrico
che portano ancora il suo nome.
Eminente figura della scuola olandese è Herman
Boerhaave (di cui sarà
allievo anche La Mettrie), colui che fa dell’Università
di Leida il principale
centro per lo studio della medicina in Europa
dall’inizio del Settecento. La
sua importanza sta nell’aver combattuto l’astrattezza
di molta medicina
dell’epoca, mettendo in atto una rigorosa
pratica medica “sul malato”. Le sue
lezioni cliniche sono basate sui fatti medici
reali, distinguendo rigorosamente
tra diagnosi, prognosi e terapia [64].
Anche la scuola tedesca produce ottimi medici
ed in particolare
anatomo-patologi e fisiologi. Tra questi
il già citato Albrecht Haller, che
studia la bocca, l’utero, il sistema vascolare
e i genitali. I nove volumi del
suo Esperimenta physiologiae corporis umani, pubblicati tra il 1759 e il
1776, sono la corposa testimonianza del suo
lavoro e si offrono come un compendio
esaustivo dello stato delle nozioni fisiopatologiche
nella seconda metà del
Settecento. Nella fisiologia emerge ancora
la figura di Spallanzani, il quale
dimostra nel 1780 che nella digestione nei
mammiferi non avviene alcuna
“fermentazione”, ma che sono i succhi gastrici
a decostruire gli alimenti. E
sempre con numerosi esperimenti su animali
studia la circolazione sanguigna nei
capillari venosi, dimostrando poi che la
respirazione è essenzialmente un
processo di scambio tra ossigeno e anidride
carbonica, Un fatto rilevante e
assai significativo riguarda anche la nuova
attenzione alle parti non vitali
del corpo umano ma sicuramente fonti di grandi
sofferenze, come i denti. Grazie
a Pierre Fauchard (1678-1761) l’odontostomatologia
diventa una branca della
medicina e vanno diminuendo le persone che
si fanno estrarre i denti da
ciarlatani privi di conoscenze mediche ed
itineranti di fiera in fiera a cavar
denti in modo rozzo e senz’alcuna norma igienica
[65].
Sul piano della terapia
preventiva un’epocale innovazione viene dalla
pratica della vaccinazione, messa
in atto da Eduard Jenner a partire dal maggio
1796 con l’inoculazione in un
bambino sano di u siero vaccino contenente
bacilli morti di vaiolo. È il caso
di accennare alla lunga storia della terapia
contro il vaiolo fino a questa
tappa finale, trattandosi di una delle più
gravi malattie organiche dell’Asia e
dell’Europa e che sarebbe divenuta devastante
per le popolazioni dell’America
all’indomani della sua scoperta, proprio
perché gli Amerindi non ne erano mai
stati toccati. Tutto inizia con la cosiddetta
“variolizzazione”, ovvero con la
pratica di introdurre nel corpo umano piccole
porzioni di tessuto già infettato
dal vaiolo. In Cina, sin dall’antichità,
si usava infilare nelle narici croste
dissecate di pustole vaiolose per provocare
artificialmente una forma leggera
di vaiolo. In altre parti dell’Asia, come
la Turchia, e in Africa, si pungeva o
si scarnificava la cute introducendovi del
pus vaioloso. Tutto ciò nasceva
dalla constatazione che molti malati che
avevano superato fasi lievi della
malattia ne erano poi definitivamente immuni.
La variolizzazione viene
introdotta in via sperimentale in Europa
già all’inizio del ‘700, ma gli esiti sono
incerti in relazione a rischi notevoli di
malattia e di infezione. Jenner è al
corrente di queste pratiche, ma si accorge
anche che i mungitori che contraggono
forme lievi di vaiolo bovino toccando le
pustole sulle mammelle delle mucche
diventano poi immuni anche al vaiolo umano.
Egli pone in opera una serie di
esperimenti inoculativi che lo convincono
a decidere per la pratica poi
universalmente adottata. Ma l’’inoculazione
incontra opposizioni non
trascurabili da parte di medici ancorati
alla “dottrina umorale”, che vedono
l’escrescenza pustolosa “spurgo benefico”,
nella stessa misura in si pensava
funzionasse il salasso. Vi era anche il timore
di una “bestializzazione” degli
umori umani e quello teologico di contaminare
un corpo umano “tabernacolo
dell’anima” con elementi di una “macchina”
bestiale (Cartesius docet).
[1] R.Mousnier-E.Labrousse, Le XVIII e siècle, Paris, Presse Universitaire de France 1955, vers.it.Firenze, Storia generale della civiltà, vol.V, Il XVIII secolo, Casini 1959, p.13.
[2] Ivi, p.21.
[3] Turgot, Recherches sur les causes des progrés
et de la décadence des sciences e des arts, (Schelle, I, pp.118-9) in: Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher
1987, pp.359-360.
[4] D.Outram, L’Illuminismo, Bologna, Il Mulino 1997, p.67
[5] A questo proposito si veda: C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Clinamen 2007, p.54.
[6] Buffon come direttore del Jardin des Plantes di Parigi lo aprì per primo all’accesso del pubblico, con l’evidente scopo di promuovere e diffondere una didattica della natura sotto il profilo scientifico all’epoca assai carente.
[7] Cfr: C.Tamagnone, Necessità e libertà, cit., p.182 e pp.198-199.
[8] D.Outram, L’Illuminismo, Bologna, Il Mulino 1997, p.76.
[9] Si veda la nota 298.
[10] G.Rudé, L’Europa del Settecento, storia e cultura, Roma-Bari, Laterza 1986, p.69.
[11] U. Im Hof, L’Europa dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1993, pp.129-130.
[12] U. Im Hof, cit., pp.131-132.
[13] AaVv, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.III, Milano, Garzanti 1973, p.240.
[14] Cf:r: AaVv, Storia della scienza, vol. I, a cura di M.Dumas, Roma-Bari, Laterza 1969, p.140
[15] V.Marchis, Storia delle macchine, Bari-Roma, Laterza 1994, p.130.
[16] Ivi, pp.140-141.
[17] V.Marchis, cit., p.153.
[18] Ivi, p.156.
[19] Ivi, p.157.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, pp.180-182.
[22] A.Mondini, Storia della tecnica, vol.III, Torino, UTET 1977, p.323
[23] Ivi, pp.326-327.
[24] A.Mondini, cit., p.121-123,
[25] V.Marchis, cit., p.186.
[26] Ivi, p.187.
[27] Si tratta del rampollo di una famosa famiglia di costruttori di apparecchi scientifici nei campi dell’ottica e della meccanica, il cui capostipite era stato Samuel (1639-1682). Pieter (1692-1761) fu professore nelle università di Leida, di Duisburg e di Utrecht; si occupò di rifrazione della luce, costruì il primo pirometro e inventò “la bottiglia di Leida”, il più antico condensatore elettrostatico noto. Tra i suoi scritti: De certa methodo philosophiae exsperimentalis, Dissertationes physicae et geometriae (1729), De methodo instituendi experimenta physicae (1735), Introductio ad philosophiam naturalem (1762).
[28] AaVv, Storia della scienza, tomo primo, cit., Profilo della storia della vita scientifica di M.Dumas, p.116.
[29] V.Marchis, cit., pp.152-153.
[30] Ivi, p.153
[31] V.Marchis, cit,, p.158.
[32] F.Braudel, Le strutture del quotidiano, Torino, Einaudi 1982, p.399.
[33] P.Humbert, L’astronomia dal Rinascimento ai nostri giorni, in Storia della scienza, vol.I, a cura di M.Dumas, Roma-Bari, Laterza 1969, pp.594-596.
[34] C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Firenze, Clinamen 2007, pp.175-178.
[35] Pierre Simon Laplace, Opere, UTET, Torino 1967, p.243.
[36] R.Viallard-M.Daumas, Nascita e sviluppo della scienza classica, in Storia della scienza, vol.II, a cura di M.Dumas, Roma-Bari, Laterza 1969, pp.710-711.
[37] P.Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari, Laterza 1997, p.226-227.
[38] Ivi, p.226.
[39]R.Viallard-M.Daumas, Nascita e sviluppo della scienza classica, in Storia della scienza, vol.II, a cura di M.Dumas, Roma-Bari, Laterza 1969, p, p.681.
[40] A.Rupert Hall, cit., p.307.
[41] Ivi, pp.686-688.
[42] Ivi, p.689.
[43] P-L. M. de Maupertuis, La Venere fisica, a cura di F.Focher, Pavia, Studia Ghisleriana 2003 (Ibis, Como), pp.63-64. Il linguaggio forbito è quello del traduttore settecentesco Diodato Anniani, a cura del quale comparve la prima edizione italiana dell’opera a Venezia nel 1767 per i tipi di Antonio Graziosi, e che secondo i curatori dell’edizione pavese offre massima fedeltà letterale al testo originale francese..
[44] M.Caullery, Le scienze biologiche, in Storia della scienza, vol..II, a cura di M.Dumas, cit., p.909.
[45] Ivi, p.910.
[46] Ivi, pp.911-912
[47] Ivi, pp.912-913.
[48] Ivi, p.913
[49] Ivi, p.916.
[50] G.Solinas, Il microscopio e le metafisiche, Milano, Feltrinelli 1967, p.20.
[51] Ivi, p.49.
[52] L.Spallanzani, da Della generazione di alcuni animali anfibi, in: G.Solinas, cit, p.140.
[53] Ivi, p.127.
[54] ivi, p.150.
[55] Ivi, p.160-161.
[56] Ivi, p.162.
[57] Ivi, pp.166-167.
[58] Ivi, p.168.
[59] Ivi, pp.182-183.
[60] J.-Ch. Sournia, Storia della medicina, Bari, Dedalo 1994, p.225
[61] Ivi, p.226.
[62] In Francia specifici decreti avevano ammesso dal 1707 la pratica autoptica e lo studio dei cadaveri.
[63] G.Maconi, Storia della medicina e della chirurgia, Milano, Ambrosiana 1991, pp.235-236.
[64] G.Maconi, cit., p.248.
[65] J.-Ch. Sournia, Storia della medicina, Bari, Dedalo 1994, p.218.
[66] R.Fabietti, La filosofia nell’epoca moderna, vol.II, AaVv, Filosofie e società, Bologna, Zanichelli 1981, pp.482-483.