Mercoledì 16 gennaio 2002 alle ore 21.00, “Kamille va alla guerra”- spettacolo teatrale per Emergency presso il Cinema Teatro S.Pietro di Montecchio Maggiore (VI)
Giovedì 17
gennaio 2002 alle ore 20.45, presso l'aula magna A. Manzoni, via Lorenzoni
2, Montecchio Maggiore (VI),
«LEGISLAZIONE, DIRITTI E DOVERI DEL CITTADINO MIGRANTE» è il titolo dell’incontro dibattito organizzato dal «Forum delle comunità in dialogo» in collaborazione con 7 associazioni di volontariato dell’Est veronese e con il patrocinio del Comune di San Bonifacio. All’incontro, che si terrà presso la Sala Civica “Barbarani” di San Bonifacio alle ore 9,30, interverranno: Enrico Varali (Cestim - Centro Studi Immigrazione di Verona) e Marta Farfan (Inas-Cisl Roma). Coordina Amedeo Tosi (giornalista). Nel corso dell’incontro sarà presa in esame la normativa vigente sull’immigrazione sia per quanto concerne gli ingressi sia la permanenza nel nostro Paese e l’ottenimento della cittadinanza.
IN PRIMO PIANO
" They have done a good job". Un
amico americano, sicuramente liberal, riassumeva così la situazione
bellica in Afghanistan dopo il definitivo massacro dei taliban e di Al Qaeda.
"Loro" erano e sono il team di George W. Bush, primo Imperatore del XXI
secolo. E unico. In effetti alcuni obiettivi, anche se non tutti, sono
stati raggiunti. E cercherò qui di spiegare in cosa consistono. Tra questi,
tuttavia, non c'è la vittoria contro il terrorismo internazionale. Del
resto essa non poteva esserci poiché la guerra, iniziata il 7 ottobre 2001, non
può concludersi così in fretta. Altrimenti verrebbero contraddette le previsioni
del vice-imperatore Dick Cheney, secondo cui essa durerà ben oltre l'aspettativa
di vita della presente generazione.
Il primo obiettivo raggiunto è la
vendetta. Il numero dei taliban e degli arabi annientato è e rimarrà
sconosciuto ma, mettendo insieme tutte le notizie ufficiose provenienti dal
campo dei vincitori (altre notizie non abbiamo, essendo quelle del nemico, per
definizione, false), possiamo calcolare che almeno 20.000 uomini siano stati
uccisi nei bombardamenti, nei combattimenti, nelle stragi che hanno accompagnato
la vittoria, nei massacri di prigionieri (non si fanno prigionieri in questa
guerra). Un rapporto di cinque contro uno, se si assume che il numero dei morti
nell'attacco dell'11 settembre si aggiri attorno ai 4000. Un rapporto certo
inferiore a quello delle rappresaglie naziste della seconda guerra mondiale, ma
comunque tale da soddisfare i requisiti della proclamazione di guerra ("la
nostra causa è giusta, la nostra causa è necessaria", ha detto George Bush) e
l'ira del consumatore americano.
Per quanto concerne le vittime civili,
esse - com'è noto - non erano un obiettivo e sono, per definizione,
collaterali. Come tali esse non sono state né fornite, né indagate, e
dunque non le conosceremo mai. Anche perché, quando qualcuno comincerà a
contarle, l'Afghanistan sarà già sparito dalle prime pagine dei giornali e dei
notiziari televisivi, e dunque non varrà la pena occuparsene.
Il secondo
obiettivo raggiunto è la profonda modificazione delle linee di demarcazione
dell'influenza degli Stati uniti in tutta l'Asia, particolarmente nell'Asia
Centrale. Al termine della guerra afghana gli Stati uniti si sono assicurati il
controllo diretto di almeno quattro delle repubbliche ex sovietiche collocate
tra il Medio Oriente e l'area del Mar Caspio. Per la precisione la dipendenza di
Georgia e Azerbaijan - entrambe guidati da ex membri del Politburò del Pcus -
era già un dato di fatto prima dell'inizio della guerra afghana. Ma ora essa è
sancita poco meno che ufficialmente e, comunque, ben nota a tutte le cancellerie
diplomatiche. In altre epoche sarebbe stato detto che la Georgia di Eduard
Shevardnadze e l'Azerbaijan di Geidar Aliev erano diventate due colonie degli
Stati uniti, ma ora si usano espressioni più soft. Si aggiungono ora al
bottino di guerra l'Uzbekistan di Islam Karimov e il Turkmenistan di Saparmurad
Nijazov. Nel primo di questi due stati gli Usa hanno installato una base
militare permanente. Del secondo nulla si sa con precisione, anche perché
Ashkhabad, la capitale, è impenetrabile agli stranieri, in particolare ai
giornalisti. Tuttavia buone fonti (russe) affermano che Turkmenbashì (il padre
di tutti i turkmeni, come Nijazov ama farsi chiamare) avrebbe consegnato in mani
americane l'aeroporto ex strategico - fu strategico per i sovietici nel corso
della loro guerra afghana - di Mary, e forse anche quello di Charzhou.
Naturalmente Nijazov si è anche dichiarato disponibile ad ospitare i terminali
dei futuri oleodotti e gasdotti per il trasporto dell'energia dall'area del
Caspio al Golfo Persico. Progetto che, come vedremo meglio più avanti, risale
alla metà degli anni '90 ed è strettamente connesso alla nascita del regime dei
taliban.
In poco meno di tre mesi l'amministrazione Bush ha disegnato una
Yalta asiatica, rimodellando a suo vantaggio tutti i rapporti
geo-politici continentali. La nuova superguerra contro il terrorismo
internazionale sta pagando ottimi dividendi. E tutto lascia intravvedere che
anche le fasi future della superguerra saranno accompagnate da analoghe
modificazioni geo-politiche in altre aree del pianeta. Ciò varrà per l'area
della Palestina, dove Israele ha cominciato, con l'appoggio di Washington, la
guerra per la liquidazione dello stato palestinese, avendo in vista il rilancio
del progetto di un grande stato ebraico. La liquidazione di Arafat è la via per
questo disegno, che chiuderà ogni via per un negoziato. Ciò varrà per l'Iraq,
dove la fine di Saddam Hussein porterà all'instaurazione di un protettorato
statunitense e all'installazione di basi americane, analogamente a quanto fu
fatto con l'Arabia Saudita dopo la guerra del Golfo del 1991.
Altrettanto
vasti rimodellamenti di influenze a vantaggio degli Usa accompagneranno le
previste guerre in Somalia e Sudan. Tutto lascia pensare che la nuova guerra
asimmetrica e planetaria non si limiterà allo sterminio sistematico delle
tentacolari propaggini della piovra di Al Qaeda. A Washington sanno che ciò non
basterà a eliminare il pericolo, anche nell'ipotesi di un successo totale delle
operazioni di polizia. Infatti la tensione sociale nel pianeta - già dilatatasi
spasmodicamente nell'ultimo ventennio - è destinata anch'essa a crescere di pari
passo con il rilancio (in chiave keynesiana e militare) della globalizzazione
americana. E dunque si pone fin d'ora il problema della moltiplicazione di basi
e presidi permanenti degli Stati uniti in tutte le aree del pianeta in cui sarà
possibile prevedere il risorgere della minaccia agl'interessi economici e
politici americani.
Ciò detto occorre tuttavia dare un'occhiata al
rovescio della medaglia del "good job". La Grande Yalta asiatica implica
l'esistenza di una partner-avversario cui concedere parte del bottino. Questo
partner-avversario è la Russia. Che è rientrata in gioco dopo il lungo limbo
decennale in cui la sua debolezza oggettiva (e l'assoluta subalternità di Eltsin
agli interessi americani) l'avevano relegata. Paradossalmente è stato proprio
l'Imperatore a richiamare la Russia nel grande gioco. Per ragioni di necessità,
costretto a pagare un prezzo che potrebbe rivelarsi perfino più salato di quanto
appaia oggi. Occorreva la Russia, la sua solidarietà, per mostrare al mondo la
Grande Alleanza contro il terrorismo internazionale. L'esistenza stessa
di una Grande Alleanza forniva infatti la prova apparentemente
inconfutabile della legittimità morale della guerra afghana. Per ottenere
l'appoggio di Mosca l'amministrazione Usa non ha lesinato sforzi e impegni, come
dimostra la frequenza febbrile dei contatti, viaggi in Russia, missioni
diplomatiche, concessioni di vario genere, dispiegate dal poker d'assi
Bush-Cheney-Rumsfeld-Powell.
Vladimir Putin ha assecondato molto abilmente
questo abbraccio multiplo offertogli da Washington. Lo ha perfino anticipato
offrendo, per primo, addirittura più tempestivo di alcuni alleati occidentali,
condoglianze e solidarietà dopo la tragedia dell'11 settembre. Da quel momento
si è avuta l'impressione di una totale sintonia tra Mosca e Washington.
Impressione che è stata accresciuta da un impegno davvero totale, spasmodico,
ossessivo, unanime (al punto da far sospettare un ordine di scuderia) di tutta
l'informazione occidentale nel confermare quella sintonia.
In realtà abbiamo
assistito all'inizio di una serrata (e a tratti molto rude) trattativa tra Stati
uniti e Russia per ridefinire i loro reciproci rapporti e per ridisegnare -
appunto - la carta asiatica alla luce cruda dell'11 settembre. Il presidente
russo ha trattato con grande maestria, specie se si tiene conto che le carte che
aveva in mano non erano né molte, né decisive. Il primo a sapere che la Russia è
debole, è proprio lui. Così Vladimir Putin ha giocato a carte scoperte, mettendo
sul tavolo del ranch texano di Bush, tutto intero, il quadro del contenzioso tra
Russia e Stati uniti. Si è dunque negoziato su molte questioni
contemporaneamente. Ci si è lasciati con una stretta di mano perché ciascuno dei
due ha ritenuto (o ha finto di ritenere) di avere conquistato qualche vantaggio.
Putin ha subito ottenuto la fine di ogni ingerenza esterna sulla Cecenia. Cioè
sia la fine dell'aiuto ai ribelli ceceni, fino a ieri abbondantemente fornito,
attraverso la Georgia e l'Azerbaijan, dai servizi segreti turchi con la
benedizione della Cia, sia la fine delle periodiche lamentele occidentali in
tema di violazione dei diritti umani in Cecenia. D'ora in poi, e per qualche
tempo, il silenzio dell'Occidente è garantito.
Putin, dal canto suo, ha
inghiottito la perdita delle due repubbliche ex sovietiche di Uzbekistan e
Turkmenistan, dopo aver dovuto subire, senza poter fare quasi nulla, quella di
Georgia e Azerbaijan. Ma ha ottenuto, in cambio, l'assicurazione che l'area
d'influenza russa su Armenia, Kazakhistan, Kirgizia, Tajikistan sono sarà
minacciata nell'immediato futuro. La Russia compie una cospicua ritirata
strategica da una parte dell'Asia Centrale, riconoscendo implicitamente la
rivendicazione americana sull'area, già proclamata da Clinton come "area
d'interesse vitale per gli Stati uniti d'America". E' probabile che Mosca
consideri questa ritirata come temporanea, o tattica, ma essa, per quanto
dolorosa, rappresenta un riconoscimento dei rapporti di forza reali.
Tanto
più ferma, di conseguenza, è stata la posizione di Putin in tema di regolamento
politico della situazione afghana dopo la definitiva liquidazione del regime
talibano. Non era certo sfuggita a Mosca la lunga operazione
pakistano-saudita-statunitense il cui obiettivo avrebbe dovuto essere la
creazione di una serie di oleodotti e gasdotti in grado di portare le immense
risorse energetiche del Mar Caspio agli utilizzatori occidentali attraverso
l'Afghanistan.
L'operazione, iniziata nei primi anni '90, aveva visto, come
protagoniste, due importanti compagnie petrolifere, la Unocal Corp. (americana)
e la Delta Oil (di proprietà del sovrano saudita). Entrambe avevano soppiantato
la minuscola compagnia petrolifera argentina Bridas nei rapporti con il satrapo
turkmeno Saparmurad Nijazov (che avrebbe dovuto assicurare il terminale nord di
oleodotti e gasdotti) e con i mujaheddin afghani (che si pensava di poter
mettere d'accordo in cambio di molto denaro), che avrebbero dovuto smettere di
combattersi, garantire un futuro relativamente tranquillo all'Afghanistan e
consentire il passaggio degli oleodotti verso il sud, verso il Golfo
Persico.
Operazione strategica a doppia valenza: economica e politica. Da
un lato avrebbe consentito una soluzione molto economica per il movimento di
ingenti quantità di energia verso le grandi economie occidentali. Dall'altro
avrebbe permesso di bypassare la Russia, sottraendole al tempo stesso
principesche royalties e l'influenza sull'intera area centro-asiatica.
Quest'ultimo aspetto era in stretta connessione con il progetto strategico
(sostenuto da influenti circoli di Washington) di indebolire ulteriormente la
Russia fino a un suo completo collasso, la sua trasformazione in "confederazione
debole", infine la suddivisione in tre stati (Russia europea, senza il Caucaso
del Nord, Siberia Occidentale e Estremo Oriente). Il progetto fallì per
l'impossibilità di mettere d'accordo le fazioni afghane. Al suo posto venne
deciso di "pacificare" l'Afghanistan mediante un nuovo regime, costruito
artificialmente dall'esterno. Il movimento dei Taleban era nato così, tra il
1994 e il 1995, mediante il finanziamento saudita delle madrassas (scuole
coraniche) e il massiccio intervento dei servizi segreti pakistani, che
fornirono istruzione, comandi, intelligence per la guerra contro i mujaheddin.
Decine di migliaia di studenti coranici vennero così formati a una nuova Jihad,
addestrati, armati e trasportati in Afghanistan dai campi profughi della
North-West Frontier. In meno di due anni, con armi e fiumi di dollari, i Taleban
del mullah Omar conquistarono o comprarono quasi tutti i comandanti militari ex
mujaheddin, costrinsero gli altri alla fuga, e s'impadronirono del 90% del
territorio del paese. Era il 1996 quando arrivarono a Kabul. Ma la Russia non
era rimasta con le mani in mano. I militari e i servizi segreti russi avevano
riempito il vuoto politico del presidente Eltsin. Resisi conto che
l'operazione taliban era diretta a colpire a fondo gl'interessi russi,
avevano cominciato a sostenere e armare l'unico antagonista afghano rimasto sul
terreno a contrastare la travolgente avanzata dei taliban: il tagiko Ahmad Shah
Massud, trincerato nella fortezza naturale della Valle del Panshir.
Il
fallimento dell'operazione taliban era stato figlio della
spregiudicatezza di Mosca, pronta a sostenere colui che era stato il suo
acerrimo nemico durante gli anni dell'intervento sovietico in Afghanistan. Ma
ora Vladimir Putin aveva le sue rimostranze da fare a George Bush. E una
proposta: vi diamo l'appoggio politico necessario per liquidare i taliban, che
nel frattempo sono divenuti pericolosi anche per voi. Ma a condizione che il
futuro governo dell'Afghanistan sia concordato con noi. E a un'altra condizione:
che il futuro uso delle risorse strategiche del Caspio sia gestito assieme alla
Russia e non contro la Russia.
Alla luce degli eventi successivi sembra di
poter dire che l'accordo raggiunto nel ranch del Texas, tra Bush e Putin, non fu
né chiaro, né completo. Gli Usa devono soddisfare le esigenze del generale
Musharraf, pericolante e infido, mentre la Russia ha tutto l'interesse a
sostenere fino in fondo le richieste dei tagiki eredi di Massud. E tra tagiki e
Islamabad non c'è pacificazione possibile, poiché l'assassinio di Massud è opera
di Osama bin Laden non meno che dell'Inter Service Intelligence pakistana. Si
spiega così perché i tagiki sono entrati a Kabul per primi, contro
l'avvertimento di Bush, impadronendosi di fatto del potere, certo d'accordo con
Mosca, senza aspettare il via libera americano. E si spiega così anche l'arrivo
a Kabul, di nuovo per primi, del contingente russo: secondo il proverbio
"fidarsi è bene, non fidarsi è meglio". Che nella versione russa suona: "abbi
fiducia, ma prima verifica" (doveriaj, no proveriaj).
Ciò che
succederà, a Kabul e dintorni, nei prossimi mesi, dovrà essere letto in questa
chiave, se si vorrà capire qualcosa. Putin non è disposto a regalare
l'Afghanistan all'America. Né è disposto a lasciare che Washington decida da
sola sul futuro dell'Asia Centrale e su quello delle risorse energetiche ivi
contenute. E' vero che Mosca è relativamente debole, che non è più potenza
globale. Ma è anche vero che nell'area in questione - il suo "cortile di casa" -
Mosca è ancora molto forte, temibile, in grado d'influenzare molte situazioni.
Ad esempio la tenuta di regimi come quello di Tashkent e quello di Ashkhabad può
essere messa rapidamente a repentaglio se la Russia scoprisse di essere stata
ingannata o colpita nei propri interessi. A Mosca non c'è più Eltsin,
manutengolo degl'interessi occidentali. Putin, convinto assertore del
capitalismo in Russia, è anche un altrettanto convinto fautore degli interessi
nazionali russi. E, se non fosse sufficientemente convinto, dovrebbe fare i
conti con quei settori dell'establishment russo che premono perché essi vengano
difesi.
Sotto questa prospettiva occorre esaminare anche gli altri due temi
che sono stati al centro dell'incontro di novembre nel ranch del Texas. Su
entrambi non c'è stato accordo. Su uno si è registrata una modesta convergenza,
sull'altro si è registrata una completa divergenza. Si tratta, rispettivamente,
dell'allargamento a est della Nato, e del trattato Abm del 1972. Colin Powell -
ma Donald Rumsfeld è di altro avviso - è disposto a concedere molto a una Russia
che conceda molto. Per esempio anche un avvicinamento della Russia alla Nato,
che le consenta di entrare in un organismo congiunto, da inventare ad
hoc, in cui alla Russia sia perfino concesso qualche diritto in materia di
decisioni collettive. Putin ha mostrato di essere interessato a una tale
eventualità, riservandosi di decidere quando le cose si faranno più chiare e,
soprattutto, quando a Washington si sarà deciso cosa s'intende regalare alla
Russia. Niente di più.
Del resto Putin sa perfettamente che l'allargamento
verso est dei confini della Nato sarà deciso indipendentemente dalla Russia e,
quindi, sa che il proprio spazio di manovra è segnato dai rapporti di forza
concreti, che sono a suo svantaggio. Per questo non strilla, non si agita, non
dà in escandescenze (come amava fare Eltsin) quando lo si chiude in angolo:
aspetta il momento in cui potrà far valere la sua forza. D'altro canto la
vicenda afghana, cioè l'inizio della guerra infinita, sembra dire che
Washington non ha più molto bisogno della Nato. Ha deciso di fare da sola, al
più con l'aiuto dell'Inghilterra. Pensa di potere e di dovere farcela da sola,
senza impacci, senza remore. La Nato avrà, sempre di più, un valore politico
diplomatico. In quel tipo di Nato la Russia potrebbe anche essere ammessa.
Entrarvi, per Putin, equivarrebbe a una soddisfazione simbolica. Anche questo ha
capito.
L'unica cosa, non da poco, che Putin ha ottenuto in Europa, è
stata una tregua dell'offensiva americana contro la Bielorussia di Lukashenko.
Washington aveva - ed ha - come obiettivo di rovesciare il presidente
bielorusso. Ma dovrà ora dilazionare questo obiettivo per non creare altri
problemi con Mosca. Minsk può aspettare. Il "modello Belgrado", della
sovversione finanziata dall'esterno, delle minacce-promesse in cambio del
rovesciamento del leader nazionale di turno, usato con successo contro
Milosevic, per ora non si ripeterà.
La completa divergenza c'è stata soltanto
in materia di "scudo stellare". Qui Bush non poteva concedere nulla. La
filosofia "unilaterale" di Cheney, Rumsfeld, Rice non ammette deroghe, con o
senza il terrorismo internazionale. L'America è l'unica superpotenza rimasta.
Come tale non si sente più tenuta a negoziare con chicchessia. Al
massimo, quando lo riterrà opportuno, potrà comunicare agli altri le sue
decisioni sovrane. A questo si deve solo aggiungere che lo "scudo stellare"
(cioé la militarizzazione dello spazio) diventa ora essenziale per il dominio
globale del pianeta. E che i 100 miliardi di dollari necessari per realizzarlo
saranno anche un utile strumento "keynesiano" per rimettere in moto la
disastrata new economy.
Come ha
scritto il Financial Times pochi giorni dopo la tragedia delle Twin
Towers, "tutti ormai dobbiamo essere di nuovo keynesiani". Anche a questo
proposito Vladimir Putin non ha alzato la voce quando da Washington gli è stato
comunicato, con i regolamentari sei mesi di anticipo, che gli Stati uniti si
apprestavano a uscire dal trattato. Ha fatto rispondere dal suo ministro della
difesa, laconicamente, che la Russia comincerà a installare sui suoi missili
Topol non più una, ma dieci testate nucleari. La Duma ha annunciato che la messa
in esecuzione degl'impegni del trattato Start-2 sarà sospesa e, nel frattempo,
la Russia ha varato il sommergibile nucleare Ghepard: una nuova generazione
capace di gareggiare con il meglio della tecnologia americana.
Detto in
termini più concisi, è cominciata una nuova corsa al riarmo mondiale. Perché è
del tutto evidente che la Cina sta accelerando il proprio sviluppo
tecnologico-militare, poiché sa di essere stata già eletta a nemico
principale quando l'attuale "clash of civilizations" contro il mondo
islamico sarà terminato. Dov'è la "Grande Alleanza" contro il terrorismo
internazionale, che fu sbandierata all'inizio della guerra, per giustificare la
sua "inevitabilità" e la sua "legittimità"? Semplicemente non c'è mai
stata.
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SOLIDARIETA'
Uno dei problemi più gravi del governo Berlusconi
e' sicuramente quello del mancato rinnovo delle scorte a tutela dei magistrati
impegnati in inchieste contro il crimine organizzato, da Milano alla Sicilia.
Alcuni di loro sono stati fotografati da giornalisti mentre affrontava il
traffico cittadino privi di scorta. E' una situazione non più tollerabile da un
paese che si dice civile e della quale riteniamo si debba far carico la società
tutta, addossandosi le responsabilità relative alla spesa delle rispettive
scorte. E' un invito questo che rivolgiamo a tutti gli
italiani che hanno a cuore il problema di garantire sicurezza ai magistrati e ai
così detti "testimoni di giustizia" che rischiano la vita per noi e della cui
incolumità siamo moralmente responsabili. Dovesse mai venire aggredito o ucciso
uno dei magistrati, e non sarebbe il primo, come la metteremmo con la nostra
coscienza di persone oneste? Abbiamo bisogno di adesioni
effettive e non di parole di solidarieta'. Versiamo
quindi, uno, dieci, cento, mille euro, sul "Fondo
straordinario di sostegno" presso la Banca popolare etica, sede di
Padova, Piazzetta Forzate n. 2, c/c n. 511511, Abi 5018, Cab 12100. Questo conto sarà messo a disposizione anche del capo dello stato,
massima autorità del Consiglio superiore della magistratura. Garanti dell'utilizzo del Fondo: Franca Rame, Dario Fo, Antonino
Caponnetto, Milly Bossi Moratti, Luigi Ciotti, Alfredo Galasso, Rita
Borsellino. Impegniamoci profondamente con il massimo
delle nostre forze per questa giusta causa. Una copia di
tale appello verrà inviata al Presidente della Repubblica ed ai Prefetti delle
città interessate. Si attendono adesioni mediante e-mail
all'indirizzo: info@antoninocaponnetto.it o via
fax: 0552342713.
Legge 20 luglio 2000, n. 211
1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2.
1. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinchè simili eventi non possano mai più accadere.
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MASSMEDIA e TAM TAM vari
INFORMAZIONI, RIFLESSIONI & OPINIONI
La signora Franca Ciampi, che ha criticato la
televisione “deficiente” ed
esortato i giovani a leggere, ha aperto una serie di riflessioni sul rapporto
fra libri e televisione. E’ chiaro che la televisione ,
in mano a persone senza scrupoli e senza fini culturali e morali, ha eliminato
il libro come pericoloso concorrente culturale, ignorandolo. Chi legge pensa,
immagina, crea, si dà ritmi personali di godimento spirituale. La TV incanta, suggestiona, corre con ritmi così veloci che non permette la riflessione critica,
rende passivi, inerti sul piano creativo. C’è quindi chi
considera libri e televisione incompatibili come linguaggi.
Altri pensano che la televisione potrebbe, fra le tante merci che pubblicizza,
inserire anche i libri. Ecco alcune proposte: a) introdurre
nei vari giochi , quiz che si riferiscono ai titoli o ai personaggi di libri. b)
tavole rotonde in cui esperti, autori, editori parlano dei libri come si fa per
i film discutendone con attrici e
registi o con i campioni sportivi rievocando i loro goal. c) valutare le
trasmissioni sui libri con
l’auditel, eliminando quindi
quelle che non raggiungono un sufficiente indice di ascolto. Con questa mentalità si potrà ottenere qualche superficiale curiosità
sui libri più venduti, ma non si trasmetterà la passione per la lettura, che
dovrebbe essere l’obiettivo fondamentale a cui si riferiva la signora
Ciampi. Il libro infatti non è una merce qualsiasi da
pubblicizzare, è invece un mezzo che nutre
e sviluppa il pensiero, suscita sentimenti, libera il senso critico. Non
è con i quiz o le chiacchierate nei salotti che possiamo formare il lettore, ma
con la conoscenza dei testi. La TV, se vuole, può farlo, se accetta la lettura nei suoi programmi,
come dovrebbe fare una società veramente libera e civile. La
soluzione è semplice come l’uovo di Colombo: la passione per la lettura deve
iniziare dai bambini, con il modo più naturale: bravi lettori, che sanno usare
la nostra bella lingua così
armoniosa rispettando virgole e punti, pause e toni di voce adeguati (il
contrario della lingua televisiva, frettolosa e senza espressione), leggono ogni
giorno una pagina da un bel libro:
una favola, una poesia, una leggenda o altro tratto dal patrimonio culturale di
tutto il mondo. Durata: cinque-sette minuti, come “Il fatto di Biagi”, ma tutti
i giorni, in orari adatti e prefissati. Voi che possedete o
gestite le televisioni siate generosi, donate ai bambini e anche a noi, il godimento di
cinque minuti di arte narrativa per gustare la nostra lingua ora umiliata dai
commentatori dei telegiornali. Se la vostra avarizia non ve lo permette, ci
uniremo noi utenti per creare un fondo che ci permetta di comperare uno spazio
pubblicitario di cinque minuti per donare a tutti i bambini un breve spazio per
la conoscenza del mondo fantastico che la letteratura ho prodotto nella
millenaria evoluzione
culturale. Ma sarebbe per voi, che vi esprimete per spot e
non leggete più libri, una vergogna
perché con la TV “deficiente” create una nuova forma di
analfabetismo.
Da
Vespa a Costanzo il regime nasce in tv
Berlusconi si vanta di essere
l'ideologo di questa fabbrica del consenso e della demagogia spettacolo
di
GIORGIO BOCCA (la Repubblica, 21 dicembre 2001)
Cos'è il regime?
E' il controllo dell'economia attraverso l'informazione da cui discendono il
controllo della politica, della giustizia, dello spettacolo, dello sport, di
tutto. Nei giorni scorsi abbiamo assistito a due celebrazioni di regime: il
lancio di un libro di Bruno Vespa e il ventennale del Maurizio Costanzo Show.
Qual è uno dei segni rivelatori di un regime? La mancanza di ritegno,
l'ostentazione pretoriana del privilegio, da Roma di Tigellino, da cronaca
tacitiana. I massimi dirigenti della televisione non si accorgono che è un
privilegio quello accordato a Bruno Vespa di presentare un suo libro in tutti i
programmi a più alto ascolto, per una somma di minuti pubblicitari valutabili in
miliardi di lire di pubblico denaro? Non se ne accorge il dottor Zaccaria che
passa per un uomo della Margherita, cioè dell'opposizione? Non si accorgono i
Fassino, i Bertinotti accorsi alla presentazione di Vespa o alla celebrazione
del Maurizio Costanzo Show che stanno partecipando a una celebrazione del regime
che nasce? Il regime nasce sotto la regia berlusconiana che è l'essenza della
furbizia commerciale: corteggiare per cooptare, porgere la mano all'avversario
per metterlo, consenziente in ginocchio. A Massimo D'Alema, a Fassino a Veltroni
al buonismo Ds non è bastata la sconfitta elettorale e la consegna del governo a
Berlusconi, continuano a dire che bisogna cercare l'accordo con i vincitori. Il
regime chiama regime, il servilismo di regime diventa regola, si allarga,
celebra i suoi trionfi. Il qualunquismo plebeo di Alberto Sordi che sembrava
destinato all'oblio torna alla ribalta, viene ripresentato in televisione in
coppia con Giulio Andreotti: i campioni dell'Italia baciapile, furbastra, dei
medici della mutua, dei borghesi piccoli piccoli, di quelli che avevano paura, e
lo ripetono, che i cosacchi arrivassero ad abbeverarsi nelle santiere di San
Pietro. Presentati come modelli di saggezza civica. E citano anche la signora
Ciampi che per Sordi stravede. Non lo sanno i Fassino, i Bertinotti, i D'Alema e
altri personaggi della sinistra fantasma che Vespa è uno che ha tirato la
campagna elettorale del centrodestra, che ha organizzato la mattanza di Di
Pietro convocando tutti i ladroni di Tangentopoli? Non lo sanno che il salotto
di Costanzo è il salotto del regime? Lo sanno benissimo ed è proprio perché lo
sanno che ci accorrono. Ci chiediamo spesso il perché per un vizio
illuministico, quando lo sappiamo benissimo questo perché. Perché i domatori
della televisione, i signori dei talk show sono i rappresentanti e in parte i
gestori del nuovo potere.
Berlusconi si è vantato, alla celebrazione di
Costanzo, di esserne il suo ideologo, di averlo quasi inventato lui il Costanzo
Show, la fabbrica del consenso, della demagogia spettacolo, del volemose bene
condito con qualche barzelletta. La forza di Berlusconi è la sua autenticità,
lui ai convegni dei potenti del mondo prende per un braccio Bush o Chirac e gli
racconta una barzelletta. E così che ha messo assieme un impero
dell'informazione ed è arrivato al potere, come dirgli che ha sbagliato? Ma sono
i suoi avversari, è questa sinistra di ricotta che lo imita, lo blandisce e
curva la schiena a nuove bastonate. La storia italiana è piena di questi perché,
quella della sinistra in particolare. Perché ogni giorno cala le brache? Perché
ogni giorno cade nelle trappole dell'avversario? Perché sta al gioco sin troppo
evidente del regime che monta? Perché il regime è la nostra normalità, perché
nei secoli ci siamo abituati a riverire il potere disprezzandolo, perché
l'essere opposizione, l'essere minoranza lo viviamo come una vergogna, come un
insulto alla nostra furbizia, arte dei servi. Guardare oggi la società italiana
è come star sulla riva di un fiume quando arriva l'alluvione: gli argini
resistono per qualche ora poi cade un albero, si stacca una pietra, rovina giù
un blocco di terra, ti rendi conto che tutto è pronto per dissolversi, per
sparire nella fiumana. L'irresistibilità del regime! Anche perché questo è un
paese clericale educato alle unanimità clericali, pronto a sentire puzza di
eresia di fronte a ogni minoranza, pronto ai «blocchi», quello liberale dei
tempi giolittiani e poi il fascista del ventennio, e poi gli immobili
schieramenti contrapposti della guerra fredda e ora la marea azzurra. Convinti
che fuori dal regime non c'è salvezza, non c'è lavoro, non c'è modo di mantenere
la famiglia, di aspirare a una carriera, a una elezione, a una direzione. Chi
non è per il regime si accorge che il regime monta, e che lui sta diventando
agli occhi dei concittadini un «uomo nero», uno che è meglio non frequentare,
non citare. E neppure la sinistra resiste a questa emarginazione progressiva, si
convince che andare a Porta a Porta o/a una delle altre fabbriche del regime sia
un modo per resistergli mentre è il modo di farsi assorbire, digerire,
corrompere. L'immagine non è tutto nella modernità? Chi non si fa vedere non è
come morto? Chi non ha audience non è un fantasma destinato all'oblio? Può
darsi, ma quando si perde si salvi almeno la dignità.
Cosa Nostra sempre più "nostra"
Intervista a Leoluca Orlando di Francesco Silvestri (Narcomafie)
Docente universitario , fondatore della "Rete", intelligenza inquieta e paradossale, Leoluca Orlando ha vissuto come sindaco di Palermo gli anni bui delle stragi di mafia e poi, da protagonista, quelli della "primavera di Palermo". Stagione certo straordinaria, di grande impegno civile e morale, forse un po’ mitizzata, certo passata. Perché chi oggi si mette a parlare di mafia rischia di incontrare sguardi annoiati o quell’ascolto rassegnato e paziente riservato a chi rincorre fantasmi privati, a chi torna ossessivamente sullo stesso argomento.
Onorevole Orlando, perché accade questo, perché oggi è sempre più difficile parlare di mafia? Io ho sempre sostenuto che esistono due modelli di mafia. Un modello che vorrei tanto chiamare americano, ma purtroppo devo chiamare "siculo-americano". È il modello della mafia monogenerazionale — dove il capomafia lavora perché il figlio faccia non il mafioso ma l’avvocato, il magistrato, il medico, come prova il fatto che le cinque famiglie mafiose di New York hanno nomi siculo-americani ma nessuna di queste ha come capo uno che abbia quel cognome. E un modello che possiamo chiamare "siciliano-siciliano": il figlio del boss mafioso fa il boss e non c’è una grande mobilità nei ruoli dei capi mafia. Ecco, questo modello, cui si è ispirata la mafia corleonese, è stato sostanzialmente sconfitto: ha giocato fino in fondo le sue carte con le stragi di Falcone e Borsellino e con gli attentati a Firenze, Roma e Milano e poi, nel ’93, ha chiuso la sua parabola. E questo certamente perché c’è stata una reazione delle persone oneste e delle istituzioni, ma anche perché c’è stata una reazione della mafia siculo-americana che aveva aiutato Buscetta. Non è un caso che Buscetta fosse un siculo-americano e non un corleonese.
Lei dice che Cosa Nostra americana ha spinto per un cambiamento della mafia siciliana? Certo, perché il comportamento di questi "selvaggi" rovinava il mercato, rovinava l’immagine. La mafia siculo-americana era collegata al nostro traffico di droga, al nostro traffico di armi, aveva gli stessi interessi della mafia che stava in Sicilia. È chiaro che un mafioso americano poteva fare in modo che il figlio diventasse un politico o un avvocato a condizione che la mafia non creasse allarme sociale. E in America la mafia non creava allarme sociale, di regola non uccideva magistrati, poliziotti e politici. Ma quando Cosa Nostra cominciò a uccidere e a fare stragi in Italia, per non rischiare di essere identificata con quel tipo di mafia la mafia siculo-americana studiò il modo di eliminarla.
Veramente questo non è mai venuto fuori dal punto di vista processuale… Ma guardiamo l’origine dei pentiti... Il vero primo duro colpo ai corleonesi, in chiave collaborativa, venne dai mafiosi siculo-americani — per intenderci dai gruppi che si riconoscevano in Bontade, Inzerillo, Badalamenti. I figli di Bontade, piuttosto che di Inzerillo, frequentavano le scuole migliori di Palermo: era un’operazione di riciclaggio rispetto al passato mafioso della famiglia. Con il ’93, con l’assassinio di padre Puglisi e l’arresto di Riina, la strategia stragista viene di fatto abbandonata. E a quel punto qualcuno dice che la mafia non c’è più. In realtà stiamo tornando ad un modello che è quello pre-corleonese, ovviamente adeguato ai nuovi tempi.
E in cosa consiste questo adeguamento? Bisogna rendersi conto che il panorama è cambiato: non soltanto per i colpi dati alla mafia, o perché ormai lo stragismo non era più utile rispetto agli interessi internazionali della mafia, ma anche per il fatto che progressivamente cala l’importanza della droga negli interessi di Cosa Nostra. Quindici anni fa era il business più significativo, oggi di droga non se ne parla quasi più: è sempre un affare molto importante, però il gruppo criminale che controlla il traffico di droga negli Stati Uniti d’America non sembra essere più quello siciliano o colombiano, ma quello messicano. C’è in parte uno spostamento di potere, in parte un cambiamento di interessi del potere. La mafia che controllava il traffico di stupefacenti controlla a mio avviso altri affari e lascia ai messicani il compito di occuparsi della droga, che è diventata un business considerato minore di fronte ad altri affari.
Che genere di affari? C’è il riciclaggio del denaro sporco, che richiede intelligence e preparazione tecnica. Ci sono le ecomafie. C’è il filone che riguarda l’utilizzo di risorse finanziarie legate ad interventi non collegati a guerre, cioè i grandi flussi finanziari che sostengono i paesi in via di sviluppo.
Sta parlando del meccanismo della globalizzazione? Qual è l’elemento di novità nell’economia mondiale? È che per la prima volta non c’è più la coincidenza tra il luogo della produzione e il luogo del comando. Quel modello è finito. Il luogo del comando può essere indifferentemente la "finanziarizzazione" o la telematizzazione. Se poi le due cose coincidono, si ha il massimo risultato: questo vale per l’economia legale, perché non dobbiamo pensare che valga anche per l’economia illegale? La mia opinione è che si stia operando un passaggio indolore dalla mafia corleonese a quella siculo-americana. Furono 48, credo, i familiari di Buscetta uccisi dai corleonesi mentre Buscetta parlava. Oggi noi abbiamo 1100 pentiti, ma da anni nessuno dei loro parenti viene non dico ucciso ma nemmeno schiaffeggiato!
E questo cosa sta a significare? Che in questa operazione c’è una regia. E la regia è l’eliminazione di tutte le tossine della mafia corleonese, perché questo potrà consentire a soggetti in giacca e cravatta, che parlano le lingue e che fanno affari, di comandare. Il passaggio dalla mafia vecchia alla nuova mafia nuova non è però ancora concluso: pur nell’attuale predominio del modello siculo-americano, permangono soggetti mafiosi di stampo corleonese.
Ma il tradizionale controllo del territorio che fine farà? La mafia continua ancora a controllarlo in due modi, uno antico e uno moderno. Quello antico è il controllo fisico, ma accanto a questo c’è anche il controllo immateriale, cioè finanziario. Immaginiamo che la mafia abbia una mano, un cuore e un cervello: noi finora abbiamo dato un colpo fortissimo alla mano, l’aspetto militare, abbiamo fortemente ridotto le funzioni cerebrali — non si può più parlare di egemonia culturale della mafia, di capacità della mafia di entrare nella testa della gente — ma al cuore, alla finanza, abbiamo fatto appena il solletico.
L’esistenza di un cuore finanziario della mafia è un grave pericolo per la democrazia… Peggiore delle stragi... Se noi continuiamo a inseguire una mafia che non c’è più, il boss — che sa che quella mafia non c’è più — ci guarda e si mette a ridere. È vero che la nostra strategia ha costretto la mafia a cambiare tattica, quindi da quel punto di vista abbiamo vinto, Palermo ha smesso di essere una città con 240 morti ammazzati all’anno. Ma l’assenza di omicidi significa anche che la mafia continua attraverso le reti finanziare a condizionare la comunità, perché ha scoperto che il controllo immateriale di una realtà è molto più efficace di un controllo materiale.
Però la mafia esiste e vive ancora nel territorio… Certo, e il fatto che i mafiosi non si uccidano più tra di loro è segno che c’è un’intesa. Oggi non c’è una guerra di mafia. Ma ho la sensazione che se ne potrebbe scatenare una nuova.
A Palermo o in generale? In Sicilia.
Lo storico Nicola Tranfaglia parla di una nuova convivenza con la mafia. Lei pensa che in futuro sarà più difficile isolare la mafia? Convivere con chi fa affari è molto più facile che con chi fa stragi. Lo puoi fare anche senza accorgertene. È un problema culturale ed è per questo motivo ho creato una Fondazione (The Sicilian Renaissance Institute, ndr.) che gira per il mondo partendo dall’esperienza di Palermo. Il tema di fondo è: riusciamo a inserire nell’agenda internazionale il rapporto fra democrazia e legalità? Siamo capaci di fare entrare nell’agenda delle Nazioni Unite il tema che non vi può essere democrazia senza pace e legalità? La pace non la si deve affidare solo ai soldati e la legalità solo ai poliziotti. Ho scoperto nella nostra esperienza i tratti di un progetto che può essere utile anche fuori dalla realtà siciliana, con riferimento a temi che non sono soltanto la mafia.
Ma c’è una teoria forte della legalità? Esiste un’idea di governo partendo da questi temi? C’è la legalità, la cultura della legalità e l’economia della legalità. Che differenza c’è tra legalità e cultura della legalità? Parlavo tempo fa con un mio amico straniero, un imprenditore, che mi diceva che pagare le tasse era per lui un diritto. Lì ho capito che differenza c’è tra legalità e cultura della legalità. La legalità è l’idea che pagare le tasse è un dovere, la cultura della legalità è l’idea che pagare le tasse è un diritto. Lui mi diceva: "Se io non pago regolarmente le tasse nessuno crederà ai miei progetti, se poi il mio interlocutore economico pensa che accanto al bilancio ufficiale io ne abbia anche uno ufficioso e falso, avrà sempre il dubbio che ne abbia un terzo, un quarto, un quinto". La legalità deve quindi diventare cultura della legalità, la cultura della legalità deve diventare economia della legalità, perché se la gente non si convince che rispettando la legge si fanno pure gli affari prima o poi farà la rapina. E questo vale anche per la pace, per l’ambiente... Noi per la prima volta a Palermo abbiamo organizzato contro la mafia la riapertura di un teatro. Mi si dirà: cosa c’entra? C’entra perché l’affermazione della democrazia è come un carro con due ruote: una ruota è quella della repressione, la ruota della magistratura e delle forze dell’ordine, l’altra è quella della promozione sociale, culturale ed economica. Se una ruota si ferma, il carro non va avanti. Se hai soltanto la repressione, il carro gira su se stesso e la gente si convince che si stava meglio quando si stava peggio. Se hai soltanto la promozione culturale, rischi di organizzare un concerto in onore dei boss mafiosi. La magia della primavera di Palermo consisteva nel fatto che riuscivamo a fare andare le due ruote alla stessa velocità.
Vorrei leggerle questa affermazione dello storico Salvatore Lupo: "Non è vero che l’opinione pubblica sostiene la mafia, nemmeno adesso che in Sicilia si è espressa con un voto così clamoroso, l’opinione pubblica non ritiene piuttosto che la discriminante mafia-antimafia sia così importante da farla schierare su questo problema". Io sono assolutamente d’accordo con Salvatore Lupo e considero questa la nuova vera insidia della mafia. Il problema è appunto che la mafia è presente con procedure, meccanismi e tecniche che non sono più terroristici, ma finanziari e culturali. Perciò l’affermazione di Lupo fotografa una realtà indubitabile nel comune sentire della gente: il tema della lotta alla mafia non è più prioritario perché la mia vicina di casa non legge più le notizie di morti ammazzati e quindi si preoccupa piuttosto della disoccupazione, della mancanza d’acqua, del traffico.
E la politica deve adeguarsi a questo dato di fatto? Certo che no. La politica deve cambiare il suo modo di combattere la mafia: non più frontalmente, come faceva prima, ma prendendone il posto. Nei confronti della mafia stragista era facile dire di essere contro Riina, Brusca, Bagarella, e anche la massaia era contro. Oggi non basta essere contro la mafia, perché se tu continui a dire che sei contro la mafia e non riesci a prenderne il posto — e quest’affermazione mi ha creato molte incomprensioni — non riuscirai mai a sconfiggerla. Oggi il posto della mafia non è più nelle montagne o nei quartieri di periferia, ma nei centri finanziari e culturali. Se noi vogliamo veramente combattere la mafia dobbiamo evitare che la mafia che ha smesso di sparare si confonda con noi. E allora il tema diventa far esistere l’altra ruota del carro. In passato abbiamo avuto una società civile che tifava e un apparato repressivo che colpiva. Ma oggi come ci si fa a entusiasmare per la lotta contro i mafiosi finanziari? La gente non si mobilita. La mafia antica, quella che sparava, era più pericolosa ma anche più facile da combattere; la mafia nuova è meno pericolosa, ma più difficile da combattere. E allora bisogna elaborare una strategia finanziaria e culturale.
Però il politico deve dare risposte ai bisogni della gente. Anche alla massaia che dieci anni fa tifava per i magistrati… Io ho fatto una campagna elettorale nella quale ho mostrato il volto di una Sicilia adeguata ai tempi. Ho fatto la scelta di chi dice: io vi presento quello che penso debba essere la Sicilia, e ho preso oltre 300mila voti in più rispetto alla coalizione che mi sosteneva. Detto questo, noi dobbiamo insistere nel portare avanti un modello culturale alternativo. Io lavoro perché ci sia in Sicilia un’egemonia culturale della legalità. Perché diversamente l’egemonia culturale sarà quella della mafia...
In Sicilia chi sono gli alleati di Leoluca Orlando in questo progetto? Sono quelle 300mila persone fuori dal mio schieramento politico.
E i partiti della coalizione? Ci sono anche loro, certo. Ma il fatto che io abbia avuto questo risultato è un aspetto nuovo. Per la prima volta 300mila siciliani hanno appoggiato un progetto difforme dalle loro appartenenze politiche. Allora questo sta a significare che c’è in atto un processo di fondazione di una nuova cultura della legalità, che non può più essere quella costruita sul tifo da stadio. L’ho vissuta quella stagione, ma c’è un tempo per ogni cosa. Se tornassi indietro rifarei esattamente quello che ho fatto, ma se oggi faccio quello che facevo dieci anni fa la gente mi prendebbe in giro.
È una strategia che riesce realmente a passare in Sicilia? Non bisogna cercare scorciatoie, non bisogna avere fretta. È un cammino in cui ci vuole pazienza. Il tema della lotta alla mafia e all’illegalità è sottoposto a un processo severo di revisione dei modelli di riferimento culturali, perché altrimenti rischia di essere una collezione di alcune straordinarie testimonianze individuali. Ma queste testimonianze, se non si collegano ad una elaborazione culturale che si faccia teoria e progetto, restano isolate.
Quest’estate il ministro delle Infrastrutture Lunardi ha detto cose inquietanti sul rapporto tra economia e legalità… Guardi che noi dobbiamo ringraziare il ministro Lunardi perché la sua affermazione ha provocato una reazione culturale. Ha posto un tema vero. Lunardi ha detto in sostanza che ci sono nel nostro Paese persone che considerano normale che si conviva con la mafia. Non sono mafiosi — non vorrei essere frainteso — non sono neppure complici della mafia, ma alla fine si girano dall’altra parte. Allora il punto è: vogliamo consegnare queste persone alla mafia? Oppure dobbiamo cercare di convincerle che non è possibile convivere con la mafia, che non è conveniente? Perché se oggi passa l’idea della convivenza con la mafia, tutti gli operatori economici di alcune regioni del nostro Paese, e la Sicilia fra queste, si vedranno costretti ad iscriversi ad una cosca mafiosa. E se sbagliano cosca perdono l’affare e la vita. E allora bisogna dire che il tema della convivenza con la mafia è inaccettabile non soltanto eticamente ma anche economicamente, perché la convivenza con la mafia non conviene. Se cerchiamo di convincere le persone che convivere con la mafia è soltanto peccato, allora la gente dice: faccio peccato, ma intanto faccio l’affare! Bisogna invece far capire che con la mafia non si fanno affari. Fare uno sforzo in questo senso però non è facile, perché chi lo fa sembra quasi che voglia rinunciare al passato.
Difatti tutto questo sembra più che altro frutto d’iniziative individuali. Non sembra esserci ancora un soggetto politico che se ne faccia portatore... Io sono fierissimo degli anni vissuti a Palermo. Abbiamo dimostrato che è possibile contrastare la barbarie e l’inciviltà della mafia senza diventare barbari e incivili, senza la pena di morte, senza la legge dell’occhio per occhio dente per dente, senza applicare meccanismi d’intolleranza, senza portare all’altare della dea sicurezza i valori in cui crediamo. Però mi rendo conto che un messaggio di questo genere viene recepito molto più facilmente all’estero che in Italia, dove, nonostante i miei sforzi, vengo identificato in uno schieramento politico. Non è un caso che in America le cose che vado facendo sono sostenute dai democratici come dai repubblicani. Perché là viene percepita non l’apparteneneza politica ma l’impianto culturale. Con la mia Fondazione sto cercando di trasformare un’esperienza politica non in un’altra esperienza politica, ma in un progetto. Siamo nella fase in cui si sta costruendo un nuovo modello di cultura della legalità, cercando di coniugare il rapporto fra democrazia e legalità col terzo millennio. Negli ultimi anni del secondo millennio il rapporto fra democrazia e legalità era prevalentemente repressivo, fece eccezione la primavera di Palermo che affiancò alla repressione la proposta culturale. Quell’esperienza oggi è un modello per andare avanti.
E, in questo discorso, che fine fa il concetto di società civile? La società civile in passato era costituita sostanzialmente da soggetti organizzati. Oggi o la società civile diventa un modo di sentire — con e oltre i soggetti organizzati — o altrimenti si perde, perché la mafia, dal momento in cui ha deciso di abbandonare la strategia stragista, ha scelto di diventare società "civile" diffusa. O noi riusciamo a trasformare queste cose in un comune sentire oppure tutto diventa difficile. Non è un caso che il luogo strategico di questa battaglia sia la scuola. La scuola è un’organizzazione non organizzata. È l’elemento di maggiore speranza e confronto. Noi abbiamo decine di migliaia di persone che oggi non hanno memoria, neanche delle stragi dei primi anni Novanta. Se noi vogliamo onorare la memoria delle persone che sono morte in una fase terribile della nostra storia, dobbiamo riuscire a coniugare al terzo millennio gli stessi loro valori.
Cosa bisogna fare allora: testimoniare? La testimonianza è fondamentale: maledetto il popolo che non ha testimoni, maledetto il popolo che ha bisogno di eroi. La testimonianza però non deve essere l’unico modo. Noi dobbiamo insistere, dobbiamo essere capaci di essere noi, e non i mafiosi, egemoni nei processi finanziari. Noi, e non i mafiosi, egemoni nei processi culturali.
E chi è questo noi collettivo? Tutti quelli che ci stanno.
ETTORE MASINA: UNA LETTERA AGLI AMICI
Chiedo scusa a chi non e' - o non vuole dirsi - cristiano se questa lettera e' indirizzata alle mie sorelle e ai miei fratelli nella fede: ma credo che anche loro, le altre mie sorelle e gli altri miei fratelli certamente non meno amati, possano condividere certi dolori, rimorsi e speranze. Forse dovremmo scrivere cosi': "Nell'anno primo dell'impero del Giustiziere Infinito, mentre il popolo afghano piangeva i suoi bambini uccisi o mutilati in nome della vendetta per i crimini orrendi del terrorista bin Laden; e il popolo palestinese veniva massacrato dall'esercito del terrorista Sharon che pensava di poter spegnere nel sangue degli innocenti il fanatismo suicida dei disperati; e il popolo argentino mostrava con il proprio sangue le glorie del neoliberismo globalizzatore; mentre l'Italia era governata da un miliardario che riduceva le tasse ai ricchi e i servizi sociali ai poveri, sotto il sommo pontefice Karol Woytjla, i cui solenni insegnamenti di pace venivano strangolati dai suoi stessi collaboratori, la Parola di Dio scese sui cristiani e li interrogo': "Che dite di tutto questo?". Parafrasi blasfema del vangelo di Luca? Forse che non dobbiamo porre accanto alla Bibbia i nostri giornali? Il nostro Dio sta rinserrato nella vaghezza di cieli lontanissimi o invece perpetuamente si incarna nella storia dei poveri, delle vittime, degli oppressi? Quando, dopo avere venerato il Risorto, i primi evangelisti decisero di parlare della sua nascita, leggenda o realta', non ebbero dubbi: Colui che aveva ripreso vita nella oscura Valle dei Morti ed era stato giustiziato fuori dalle mura della Citta' non poteva che essere nato in una grotta, non essendoci posto per lui fra la gente "che conta". Non aveva, nella pienezza della sua maturita', proclamato che un giorno saremo giudicati per cio' che avremo fatto o non avremo fatto ai poveri, poiche' e' a lui che lo avremo o non lo avremo fatto? E che stiamo facendo ai poveri? Il Natale-Luna Park che ci circonda ha previsto elemosine e panettoni per i clochards e i senza-meta che si aggirano fra noi. Ma i popoli-esuberi, insignificanti nelle statistiche dei prodotti-interni-lordi, l'immensa umanita' che va perdendo sembianze umane nella stretta della miseria, occupano davvero nei nostri pensieri, anche in questa cosiddetta "festa della bonta'", altro spazio che quello degli incubi di una possibile disperata violenza da reprimere con guerre preventive? Essere poveri e' diventato, davanti ai nostri occhi di benestanti, un reato, un segno di sovversivismo. Temo che non ci rendiamo conto che la nostra spietatezza non ha effetti soltanto sui miseri. Cambia anche noi, in peggio. Come un corpo deforme rivestito da un abito ormai logoro, in questa fine d'anno la societa' in cui viviamo svela ripugnanti nudita'. Sotto la civilta' di cui ci proclamiamo orgogliosi, rosseggiano le piaghe di un profondo nichilismo morale. Eleganti vetrine propagandano "Oh, my dog!", un profumo per cani. "Costa caro ma ne vendiamo molto" mi dice una commessa. Tra le luci del paganesimo natalizio intere strade sono contornate da grandi cartelloni sui quali si distendono donne nude, dal corpo florido e dal volto ottuso: "Vestiti, svergognata!" e' lo slogan che compare su queste immagini, tratte da qualche libro sui postriboli. (Ma certo! Noi non siamo barbari come i talebani, niente burqa per le nostre donne!). Al TG1 serale il solito giornalista con le stellette annunzia con voce trionfale che i marinai italiani sono passati sotto comando americano, mentre, a immagine e somiglianza del suo collega di Washington, il ministro Martino sembra non gia' metterci in guardia ma assicurarci (si': assicurarci!) che "i nostri ragazzi" corrono gravi rischi. Soltanto aneddoti? O spie di vetro che crepitano in fessure che si ingrandiscono e minacciano la stabilita' della casa in cui viviamo? Cambiano le monete di cui ci serviremo nel 2002 ma non le orrende, blasfeme, delinquenziali spese militari per un esercito di mercenari costretti dalla disoccupazione al mestiere delle armi. Gli imputati VIP saliti al potere stravolgono le leggi che li riguardano e insultano i giudici. Mentre riportano l'Italia al rango di lumicino dell'Europa, svendono alla CIA e al Pentagono la nostra sovranita' nazionale ma la invocano per tutelarsi dalle leggi che l'Europa va dandosi e dalle quali sentono minacciata la loro arrogante impunita'. Eppure questo desolante panorama italiano e' una specie di fiorito paravento se lo si paragona allo svolgersi di eventi ben piu' terribili. L'Africa sembra una immensa zattera della "Medusa", galleggia su un oceano di disperazione, alla mortalita' infantile si aggiunge la lunga agonia di una generazione di giovani colpiti dall'AIDS. Guerre infami sponsorizzate dalle multinazionali del petrolio, delle armi, dei diamanti travolgono interi popoli, straziano l'infanzia di decine di migliaia di ragazzini trasformati in feroci guerrieri. Ma non v'e' ormai continente in cui "l'imperialismo internazionale del danaro" (cito un'espressione usata da tre papi) non generi milioni di morti precoci. Quando i G7 o 8 si incontrano, quando il WTO celebra i suoi raduni, a me sembra di rivivere uno dei peggiori momenti della mia vita: ero appena arrivato a Bombay, stavo mangiando in un famoso ristorate, mi accorsi che al di la' di un vetro un gruppetto di miserabili guardava estaticamente i miei bocconi: niente e' cambiato, da allora: o e' mutato in peggio, le grandi Carte dell'ONU, che parlano di eguaglianza fra i popoli, di liberta' dal bisogno, sembrano ormai reperti d'antiquariato. Il Natale di questo 2001 piuttosto che il volo degli angeli sembra richiamare il precipitare delle persone impazzite dalle Due Torri e invece del placido sonno del bambino Gesu' la manina senza vita che spunta dai cingoli dei carri armati israeliani a Betlemme. Qualcuno ha proposto che durante la messa della notte di Natale non si canti il "Gloria", troppo triste e' il contesto planetario. E' una proposta scandalosa contro lo scandalo del silenzio e dell'inerzia di tante comunita' cristiane davanti all'agonia di interi popoli, ai sistemi di violenza che generano disperazione in nome del Mercato, cioe' del potere dei ricchi. Forse questa proposta ha una sua dolorosa validita' perche' potrebbe mostrare a molti che quando la religione diventa un fatto intimista, soltanto consolatorio, individuale o familistico, senza connessione alcuna con il dolore che serra il nostro pianeta, si trasforma in un conformismo che non ha niente a che vedere con i profeti e con Gesu' di Nazareth. E pero' io credo che il Gloria che noi cantiamo o recitiamo ogni domenica non sia un illusorio grido di gioia perche' nel mondo tutto andrebbe bene. Al contrario, il nostro Gloria e' soltanto un grido di fede: poiche' noi lo rivolgiamo a un Messia rifiutato sin da piccino, a un salvatore immolato in nome della ragion di Stato, al fondatore di una Chiesa che spesso sa leggere di lui soltanto qualche precetto da galateo e non un messaggio radicale di giustizia e di amore. E' in questo lacerante contrasto fra la potenza di Dio e l'apparente vittoria del male che noi siamo costretti a prendere posizione, a scoprire che siamo le mani di Lui, e che Egli ha scelto di agire soltanto per nostro mezzo: il nostro glorificarLo e' dunque un riconoscerci strumenti di una Creazione che continua, di un mondo che va incessantemente modificato; e il Bambino che veneriamo e' un figlio che ci e' donato: generati dall'amore, dobbiamo noi stessi generare speranze. La Chiesa ha continuato a cantare il suo Gloria, nella infedelta' che spesso la contraddistingue, nei tanti secoli bui della storia della Terra: in mezzo a terribili persecuzioni, durante guerre spietate, in anni in cui ogni valore sembrava disperso e un'ignoranza greve e profonda sembrava l'unica forza della storia: lasciar cadere il Gloria in un silenzio luttuoso a me sembrerebbe piuttosto un cedimento alla mentalita' pagana dei rapporti di forza: cantare gloria al Piccolo e al Debole e all'Inerme, nel gelo di una storia tenebrosa significa attendere con incerta certezza, con speranza strappata testardamente, ora dopo ora, alla disperazione, che si compiano le profezie: "Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo saltera' come un cervo e gridera' di gioia la lingua del muto".
Poveri e senza fissa dimora: quanto ancora da comprendere e da costruire!
Ho letto alcuni documenti pubblicati dalla Comunità di Sant'Egidio alla pagina http://www.santegidio.org/it/solidarieta/ senzadimora/index.htm Ne ho stampati alcuni e mi piacerebbe poterne parlare con voi. La nostra maggior ricchezza su questa terra viene da loro: dai più poveri ed esclusi. Siamo chiamati a confrontarci con i fratelli poveri di tutto il mondo. Alcuni di loro sono presenti nelle nostre città per testimoniare l'ingiustizia e la violenza umana che li ha colpiti. L'uomo debole ed indifeso oppresso dall'uomo bramoso di potere e ricchezze terrene. Gesù è nato nella stessa fragilità ed ha testimoniato il Regno e la Potenza di Dio. Dobbiamo aprire gli occhi. Sono loro che portano la luce nel mondo e noi siamo chiamati alla loro mensa. Riflettiamo. E' per mezzo di loro che saremo salvati o giudicati. Ricordiamo che il povero è anche e soprattutto nelle nostre famiglie. E' vostro figlio che ha bisogno di voi, è vostra moglie che ha bisogno di essere compresa, è vostro marito che ha bisogno di sentirsi amato, siamo noi che abbiamo bisogno di Dio. Non date mai nulla per scontato. Ogni giorno rinnova gioie e dolori. Siamo sempre pronti a raccogliere e a condividere, a riflettere e cambiare, a pregare per ricevere. (Giovanni Zampini giovanni66@libero.it )
L'INDUSTRIA DELLA MORTE: DROGHE, ARMI, ORGANI UMANI
Il traffico di droghe
Il traffico internazionale di sostanze stupefacenti negli ultimi anni ha visto il moltiplicarsi delle sostanze classificate come psicoattive e abitualmente denominate droghe (ai derivati della cannabis, agli oppiacei e alla cocaina si sono aggiunte varie droghe sintetiche, tra cui la piu' diffusa e' l'ecstasy), il proliferare di gruppi criminali dediti alla produzione e alla commercializzazione, la diffusione del consumo. Le zone tradizionali di produzione sono: per l'oppio il Triangolo d'oro (Birmania, Laos, Thailandia) e la Mezzaluna d'oro (Afghanistan, Iran, Pakistan); per la foglia di coca: Bolivia, Colombia, Peru', Ecuador; per la marijuana: Messico, Colombia, Giamaica; per l'hashish: Libano, Pakistan, Afghanistan, Marocco. Negli ultimi anni coltivazioni di coca e di papavero da oppio sono state installate in nuove aree del mondo, per esempio la coca nella Repubblica democratica del Congo e il papavero in Kenya. Secondo il World Drug Report dell'Undcp (Programma antidroga delle Nazioni Unite) del gennaio 2001, la produzione di cocaina sarebbe diminuita del 20%, mentre sarebbe stabile quella di oppio, invertendo il precedente andamento di crescita, e la produzione di derivati dalla cannabis sarebbe di circa 30.000 tonnellate all'anno. Il traffico invece si sarebbe globalizzato, pero' i dati sui sequestri dimostrerebbero che molti paesi hanno cominciato ad affrontare seriamente il problema. Sempre secondo il rapporto dell'Undcp negli ultimi anni '90 i consumatori di droghe sono stati circa 180 milioni: 144 milioni di cannabis, 29 milioni di stimolanti tipo amfetamine (Ats), 14 milioni di cocaina, 9 milioni di eroina. Negli USA si sarebbe registrata una diminuzione del 40% del consumo complessivo di droghe, del 70% per la cocaina, in seguito all'incremento degli investimenti per la riduzione della domanda. Questi dati vengono contestati da organismi e studiosi che considerano il rapporto falsato da una volonta' apologetica del lavoro svolto dall"Undcp: nel rapporto non si parla delle droghe sintetiche, della criminalita' organizzata e del riciclaggio e i dati sarebbero stati manipolati. Quel che e' certo e' che le campagne di eradicazione hanno portato a una diminuzione della produzione di coca in Bolivia e Peru', compensata dall'incremento in Colombia (da 44.700 ettari del 1994 si e' passati a 122.500 ettari nel 1999) dove fino a dieci anni fa non c'erano coltivazioni di oppio mentre oggi si producono piu' di 100 tonnellate: il paese e' diventato il quarto produttore mondiale e il primo fornitore di eroina per gli Stati Uniti. C'e' stata una diminuzione della produzione di oppio in Pakistan ma un aumento in Afghanistan. In Pakistan e' aumentato il consumo di eroina: i tossicodipendenti sarebbero circa un milione e mezzo, piu' dell'intero mercato europeo e statunitense. Nel caso delle droghe naturali i profitti piu' rilevanti vanno ai paesi consumatori, con uno scarto tra il prezzo delle materie prime e del prodotto finito e distribuito in piccole dosi tra 1000 e 2500 per cento. Le stime dei proventi oscillano tra i 300 e gli 800 miliardi di dollari l'anno, tra droghe naturali e sintetiche. Piu' contenuta la valutazione del Gafi (Gruppo d'azione finanziaria internazionale): 122 miliardi di dollari. Il proibizionismo introdotto nel 1914 negli Stati Uniti si e' imposto a livello internazionale con la stipula di convenzioni, la piu' recente e' quella di Vienna del 1988. Si parla di una vera e propria "guerra alla droga" con la presidenza di Ronald Reagan e l'avvio delle campagne di eradicazione delle piante da droga realizzate attraverso l'intervento militare, particolarmente pesante in America Latina. Recentemente, con uno stanziamento del Congresso Usa di 1.374 milioni di dollari, e' stato varato il Plan Colombia, un programma di fumigazioni delle coltivazioni di coca e di sostegno alla politica del presidente colombiano Andres Pastrana, che comporta l'intervento militare diretto degli Stati Uniti non solo sul territorio colombiano, dove da molti anni operano gruppi guerriglieri, ma in un'area piu' vasta.
Droghe e armi
La droga e' stata la ragione per lo scatenamento di conflitti armati, come le guerre dell'oppio tra Inghilterra e Cina (la prima dal 1839 al 1842, la seconda dal 1856 al 1858), o ha funzionato come moneta per il finanziamento dei conflitti, come nel Sud-est asiatico, in Afghanistan, in America centrale (i contras antisandinisti in Nicaragua), con un ruolo di primo piano dei servizi segreti, in particolare della Cia, e piu' recentemente in America latina e nei Balcani, e il traffico di droghe spesso e' collegato con quello delle armi e da qualche tempo con quello di materiali nucleari. Gia' negli anni '70 e '80 l'inchiesta del giudice Carlo Palermo aveva portato alla luce un fitto intreccio di traffici di armi e droga che vedeva al centro esponenti di organizzazioni criminali (mafia siciliana, turco-siriana, altri trafficanti), compagnie di trasporti, imprese, la loggia massonica P2, servizi segreti, da quello bulgaro alla Cia, e riforniva di armi (dai carri armati agli elicotteri, alle bombe atomiche) vari paesi. Negli ultimi anni, in seguito al crollo dei paesi socialisti, con lo smantellamento degli arsenali, e in coincidenza con i conflitti nell'area dei Balcani, il traffico di armi si e' intensificato e ha visto affermarsi il ruolo delle mafie dell'Est. Nell'aprile del 2001 la Dia (Direzione investigativa antimafia) di Torino ha tratto in arresto il petroliere ucraino Alexander Zhukov, il cosiddetto "re dei missili", e sequestrato duemila tonnellate di armi. Il traffico era gestito da uomini dell'ex Kgb e dalla "Brigata del Sole", un potente clan della mafia russa, e ha alimentato nei primi anni '90 il conflitto serbo-croato. Parte del ricavato del traffico sarebbe confluito nella Trade Concept, una societa' di Jersey (Gran Bretagna) definita dagli investigatori "il motore finanziario di un'enorme holding impegnata nel commercio internazionale di petrolio greggio e derivati", di cui Zhukov e' socio. Il traffico illegale di armi e' solo una parte di un piu' vasto fenomeno: la produzione e il commercio di armamenti che si intensificano all'interno del quadro attuale delle relazioni internazionali. Le proposte di riconversione dell'industria bellica si scontrano con questa realta'. Nel luglio del 2001 le Nazioni Unite hanno presentato un rapporto sulle armi leggere, adatte a usi sia civili che militari: senza contare quelle in possesso clandestino, ci sono in circolazione circa 550 milioni di armi da fuoco, 305 milioni in possesso di privati. Il commercio legale avrebbe un volume d'affari di circa 4 miliardi di dollari l'anno, per quello illegale si parla di un miliardo. I principali paesi produttori sono Stati Uniti, Cina e Russia. In Italia alcune associazioni e organizzazioni non governative hanno promosso una campagna sulle armi leggere, chiedendo la moratoria delle vendite ai paesi africani, in cui le armi vengono usate nelle guerre in corso, e la campagna "Banche armate", contro le banche che finanziano operazioni legate al commercio internazionale di armamenti.
Il traffico di organi
Tra i caratteri piu' disumani della globalizzazione e' la mercificazione degli esseri umani, con lo sfruttamento del lavoro a costo zero o irrisorio e la riduzione dei corpi a prodotti usa e getta e a banca di organi. Uomini, donne, vecchi e bambini vengono tratti in schiavitu' per essere utilizzati per i lavori piu' faticosi o per essere avviati alla prostituzione. I "nuovi schiavi" sarebbero secondo alcune fonti 27 milioni, ma altre fonti parlano di non meno di 200 milioni. Secondo l'Ilo (Organizzazione internazionale per il lavoro) i bambini che lavorano in condizioni disumane sarebbero 250 milioni. Il giro d'affari della prostituzione non sarebbe inferiore a quello delle droghe. Anche se le prove giudiziarie sono ancora inadeguate, il traffico di organi umani sarebbe in pieno sviluppo ed e' in gran parte sotto il controllo di organizzazioni criminali, che pero' non potrebbero agire senza la collaborazione di medici specialisti e di strutture ospedaliere. I casi di cui si parla sono svariati: dall'immigrato che paga il costo del viaggio con l'espianto di un organo ad adulti e bambini fatti sparire, ai caduti nelle guerre in corso (per esempio, durante la guerra in Cecenia ci sarebbero stati reparti speciali che prelevavano organi dai corpi dei soldati caduti in combattimento), ai condannati a morte in Cina. Negli anni '80 e '90 al centro del traffico d'organi era l'India dov'era possibile comprare organi legalmente; secondo una recente inchiesta il mercato illegale degli organi negli ultimi anni avrebbe come centrale la Turchia. Almeno duecento "donatori" di reni sarebbero venuti dalla Moldavia, un paese poverissimo dove non ci sono soldi per pagare l'elettricita' nelle strade e dove opera una "mafia internazionale degli organi umani". A chi si sottopone all'espianto vanno 6 milioni in lire italiane, mentre il chirurgo che pratica i trapianti illegali chiede da 200 milioni a mezzo miliardo, per un giro d'affari di 2 miliardi al mese. (Umberto Santino)
Ci rendiamo conto con sconcerto che siamo in guerra ma lo
dobbiamo dire a bassa voce. Una situazione kafkiana con un apparato militare
rivolto per ora contro l'Afghanistan, fra i più poderosi mai messi in campo
dall'occidente dalla II guerra mondiale ad oggi, un apparato che siamo costretti
però a definire un'"operazione di polizia internazionale", pena l'accusa di
essere tacciati di antiamericanismo, se non addirittura di essere conniventi con
i terroristi.
Siamo obbligati, infatti, a snidare e annientare rapidamente il
terrorismo, un tumore maligno frutto per ora di movimenti fondamentalisti
islamici e capace di essere più spettacolare e apocalittico di un film con Bruce
Willis o di un romanzo di Tom Clancy, ma siamo palesemente incapaci di farlo.
Perché per troppo tempo, fino a ieri, noi, l'occidente "indiscutibile" e che
vanterebbe un primato ideologico, religioso e morale sulle altre civiltà, ha
impudicamente trescato col terrorismo, e non solo quello di radice islamica. Una
scelta ambigua e ipocrita: gli Stati uniti, ma non solo loro, si sono dati da
fare in prima persona, cosa che li rende ora, ironia della storia, inadeguati
moralmente, strategicamente, tecnologicamente ad affrontare con qualche
sicurezza di successo, il drammatico problema.
Chi, in un altro 11 settembre,
quello del 1973, ha organizzato direttamente (come hanno confermato i documenti
declassificati della Cia) il colpo di stato in Cile contro il governo di
Salvador Allende democraticamente eletto dai cittadini? Chi ha accettato e
favorito la politica dell'apartehid in Sudafrica? Chi ha ideato e stimolato
l'"operazione condor" in Argentina, Uruguay, Cile, Paraguay, Brasile, per
annichilire l'opposizione progressista in quei paesi senza avvertire alcun
scrupolo, se in quella strategia veniva usata per la prima volta la infame
pratica di massa di far sparire migliaia di persone? Chi ha accettato che in
Indonesia venissero eliminati cinquecentomila presunti fautori del comunismo?
Chi, solo due anni fa, è stato indicato da un rapporto dell'Onu come complice
del genocidio delle popolazioni maya in Guatemala, avvenuto negli anni ottanta e
fino all'inizio degli anni novanta? Chi ha sempre impedito all'Onu di condannare
il Guatemala per violazione dei diritti umani, anche dopo che i rapporti della
chiesa cattolica e delle Nazioni Unite hanno documentato ogni efferatezza come
30.000 desaparecidos, 627 massacri, 400 villaggi scomparsi dalla carta
geografica, 3.000 cimiteri clandestini e hanno segnalato che uno dei generali
genocidi, Rios Montt, impudicamente è ora il presidente del parlamento?
Chi
ancora recentemente ha varato il "Plan Colombia", una strategia di presunta
lotta ai narcotrafficanti colombiani, che la stessa comunità europea ha respinto
perché "chiaramente suggerito da finalità militari"? Chi sta tentando di mettere
in atto un "Plan Africa" che annienterebbe per sempre ogni speranza di ripresa
economica e sociale del continente più povero e martoriato del pianeta? Chi non
ha avuto la voglia o la forza di aiutare a risolvere il conflitto infinito fra
Israele e Palestina, lasciando ultimamente mano libera al generale Sharon, che
il tribunale dell'Aja potrebbe presto inquisire per crimini contro
l'umanità?
Chi, insomma, negli ultimi trent'anni ha fatto prevalere questa
immagine degli Stati uniti, rispetto a quella generosa, democratica e
libertaria, patrimonio della storia moderna del mondo fino alla fine della II
guerra mondiale, non sa ora cosa fare, se non come fanno i bambini, buttare
all'aria tutto?
Perché purtroppo chi ha trescato e tenuto in piedi i peggiori
criminali della politica moderna, in America Latina come in Africa, come in
Asia, coinvolgendo anche l'Europa, non ha previsto che la storia un giorno
potesse produrre un orrore infinito, ideato proprio da alcuni di coloro che,
fino al giorno prima, erano stati creati, istruiti e usati per le strategie più
imbarazzanti. Primo fra tutti Saddam Hussein, scelto per annientare l'Iran di
Komeiny che poteva diventare destabilizzante nel grande mercato del petrolio e
dell'energia; e poi Osama bin Laden e i talebani, studenti coranici formati e
istruiti in Pakistan, per sloggiare l'Unione sovietica dall'Afghanistan, terra
per sua sfortuna strategica allora come ora per il passaggio verso l'Oceano
Indiano dei gasdotti e degli oleodotti dalle repubbliche musulmane ex sovietiche
(Turkmenistan, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan etc.).
Bush padre, ex capo
della Cia, sul finire degli anni '70, si precipitò a Parigi su un aereo privato
di un fratello di bin Laden, l'antico compagno d'affari Salem, per trattare con
una delegazione di mullah iraniani moderati la possibilità di ritardare il
rilascio di alcuni diplomatici nordamericani, ostaggio del regime dell'ayatollah
Komeiny. Era una trappola per far perdere le elezioni al democratico Jimmy
Carter e farle vincere al repubblicano Ronald Reagan di cui Bush senior sarebbe
diventato vicepresidente. Reagan vinse le elezioni, mentre Salem bin Laden come
Amiram Nir, agente del Mossad, anch'egli protagonista dell'incontro di Parigi,
sarebbero morti in due diversi incidenti aerei, il primo in Texas e il secondo
in Messico.
Evidentemente incominciò in quella stagione un legame indecente
fra le multinazionali dell'energia di cui George Bush senior era il portavoce e
certi ambienti del mondo del petrolio arabo, in particolare quello saudita, che
sicuramente ha avuto la sua influenza successivamente nell'evolversi della
politica Usa verso paesi come Kuwait, Iraq, Iran e Afghanistan. E' stato
rivelato per esempio che, non solo i militari genocidi del Guatemala e di Haiti
o i contras in Nicaragua, ma anche l'operazione Iran-Contra e successivamente il
sostegno alla guerriglia antisovietica in Afghanistan, furono sovvenzionate
dalla Cia attraverso il riciclaggio del denaro del narcotraffico con la
connivenza di istituti di credito come la Bank of Commerce and Credit
International (Bcci) nel cui consiglio di amministrazione c'era non solo Salem,
fratello di Osama bin Laden, ma anche Bin Mafouz, banchiere della famiglia reale
saudita, sposato con una sorella dei bin Laden.
Un'inchiesta di Time
Magazine del 1991 rivelò per esempio che "poiché gli Usa volevano fornire ai
ribelli mujaheddin in Afganistan missili Stinger e altro materiale militare per
combattere l'Armata Rossa, c'era bisogno della piena collaborazione del
Pakistan. Così, dalla metà degli anni '80 il distaccamento della Cia a Islamabad
divenne una delle sedi più grandi e operative dei servizi segreti nordamericani.
"Se lo scandalo Bcci ha creato un così forte imbarazzo per gli Usa tanto che
indagini dirette non sono mai state condotte, è dovuto al fatto che gli Usa
avevano dato un tacito via libera ai trafficanti di eroina in Pakistan",
dichiarò un agente della Cia. Il "denaro sporco" riciclato attraverso il sistema
bancario - magari attraverso una compagnia anonima di copertura - diventava così
"denaro nascosto", usato per finanziare movimenti di guerriglia come i contras
del Nicaragua e i mujaheddin afgani.
Un tale scenario, aggravato ben presto
dalla guerra del Golfo - una guerra bocciata perfino dal papa e dichiarata solo
per assicurarsi il controllo del petrolio arabo nei prossimi decenni - avrebbe
dovuto suggerire una maggiore accortezza in un'area di mondo dove la solidarietà
dei paesi arabi moderati era stata ottenuta, allora, a sorpresa, con non poca
fatica, per vari motivi: religiosi, strategici, culturali. Invece, non si è dato
peso nemmeno a segnali inquietanti che arrivavano da tempo e proprio dai settori
integralisti come quello dei talebani, gli studenti coranici allevati in
Pakistan e catapultati nella tragedia dell'Afghanistan per contribuire a
cacciare i sovietici. (...)
L'impressione è che in un mondo dove i consigli
d'amministrazione delle multinazionali, specie quelle dell'energia e delle armi,
dettano le linee programmatiche ai governi occidentali, (attualmente avari di
statisti o anche solo di politici di sicura personalità) gli Stati uniti e gli
alleati si siano improvvisamente trovati di fronte a mostri creati proprio dalla
loro politica estera e dalla loro ingordigia economica. Come ha detto Ignacio
Ramonet, direttore de Le Monde Diplomatique: "Ora, come Frankenstein,
questi paesi che si credevano poderosi sono aggrediti dalla creatura che hanno
generato". Insomma, come sostengono molti intellettuali degli Stati uniti
(Chomsky, Bellow, Miller, Ramsey Clark, Wayne Smith) che non si possono tacciare
certo di essere antiamericani, è chiaro che la politica estera di Washington non
è stata e non è innocente. Questo non assolve certo il criminale attentato alle
Torri Gemelle e al Pentagono ma, per chi vuole capire e non essere ubriacato di
propaganda in favore della guerra, spiega perché la storia moderna l'11
settembre del 2001 si è trasformata in un incubo.
OCCORRE DIFENDERE L'ORDINAMENTO DEMOCRATICO
di Nando dalla Chiesa (l'Unità, 7 gennaio 2001)
La proposta l'ho lanciata la scorsa estate con il senatore Battisti, appena apparve chiaro il senso della legge sulle rogatorie. Allora essa venne giudicata una provocazione intellettuale o (secondo il Cossiga-pensiero) "una cretinata di cui vergognarsi". La rilancio oggi con ancora più convinzione di fronte a quello che sta accadendo: stabilire per legge l'impunità penale per i reati fin qui commessi da Silvio Berlusconi e da dieci persone scelte a suo insindacabile giudizio. La ragione? E' spiegata nel testo del disegno di legge firmato da una ventina di senatori, tra cui l'ex presidente del Senato Nicola Mancino: impedire che, per salvare se stesso e i suoi amici, il capo del governo faccia leggi che aiutano migliaia di criminali, distrugga l'ordinamento giudiziario, faccia carne da macello dei fondamentali principi dello Stato di diritto, devasti il senso delle istituzioni del Paese. Certo, accettare quell'impunità di gruppo è un pugno nello stomaco per quanti nel Paese si sono battuti per la legalità, e anche per qualche memoria a cui in molti teniamo moralmente e affettivamente. Ma lo scenario è sotto gli occhi di tutti. Per questa maggioranza non vi sono ostacoli etici, istituzionali, politici, culturali di sorta. Avere vinto le elezioni la legittima a tutto, proprio a tutto, senza alcun limite. Ora, per di più, stanno emergendo due implicazioni della "anomalia italiana" che la scorsa estate non erano chiare o così chiare come oggi. La prima è quella dello specialissimo rapporto tra la Lega e Berlusconi. La Lega ha in mano il ministero al quale il Berlusconi-imputato tiene di più: quello della Giustizia. E Berlusconi ha bisogno che in quel Ministero, o meglio in quella corte dei miracoli che esso è diventato, si eseguano al cento per cento tutte le sue direttive e richieste. In cambio è disposto a dare qualsiasi cosa. E così il governo sta sposando una dopo l'altra le pretese della Lega, ossia del partito più piccolo della coalizione, facendone il proprio perno culturale e ideologico. Grazie ai guai del capo del governo, abbiamo insomma "il governo del 3 per cento". Una follia in sé, in una democrazia, che ne comporta altre a cascata: l'antieuropeismo, la distruzione dell'unità del Paese (scuola, polizia), la lacerazione di una storia costituzionale. Come niente fosse. La seconda implicazione è che in questo Paese a non avere scrupoli sono però in molti. Scrupoli a partecipare in qualsiasi modo al banchetto del vincitore, intendo. In questi giorni i più attenti hanno colto o ricevuto i segnali di come stia organizzando il fiancheggiamento della strategia eversiva del governo. Per consentire a Berlusconi di realizzare il suo piano di impunità totale si stanno muovendo in molti. In parlamento, come è "ovvio", ma anche nella magistratura (occorre trasferire il processo, no?), tra i grands commis di Stato, nella stampa. Un esercito di servi è in movimento per contribuire alla riuscita del piano e per avere poi la giusta ricompensa: ai vertici delle strutture, degli apparati, delle reti. Pretese tanto più alte quanto più bassi sono e saranno i servizi resi. A questo punto, piuttosto che avere domani -per soprammercato- un tripudio di servi mediocri ai vertici delle istituzioni, viene davvero spontaneo dire: "Cavaliere, l'impunità gliela diamo noi; e senza chiedere niente in cambio", così, giusto per non cumulare le vergogne. Non è bello, ma si chiama principio di "riduzione del danno": consigliabile nel momento in cui i numeri del parlamento sono usati per schiacciare avversario e valori, le televisioni sono nelle mani degli imputati e il Paese è in balia di se stesso, nell'assenza effettuale ( al di là delle intenzioni) di qualcuno che impedisca questo disfacimento in nome della Costituzione. E però.... E però questa è l'ultima risorsa. Prima di arrivarci è giusto fare il tentativo che ancora non è stato fatto: coinvolgere il Paese. In proposito sarà bene ricordare una verità elementare, che la propaganda martellante della maggioranza ha oscurato. E cioè che questa maggioranza governa legittimamente il Paese per avere vinto le elezioni; ma che in quelle elezioni la maggioranza degli italiani, purtroppo divisa, non ha votato per questo governo. Il quale dunque rappresenta una minoranza degli italiani, una parte dei quali, fra l'altro, mai avrebbe immaginato quanto sta accadendo. Occorre insomma fare appello alla maggioranza del Paese non tanto perché questo governo (legittimo) cada, ma perché non distrugga, un colpo dopo l'altro, l'ordinamento democratico. Una grande manifestazione nazionale sulla giustizia promossa dall'Ulivo, meglio ancora se da tutto il centro-sinistra. Questo occorre. Di questo da tempo si parla e parliamo, incontrando -come dire?- un atteggiamento molto prudente e "problematico". Ma proprio questo, certo non di meno, chiede il popolo dell'Ulivo, stanco di essere indotto a pensare che la democrazia si difenda a colpi di comunicati stampa. Verso quel popolo abbiamo un preciso dovere di rappresentanza. Ed è questa la ragione per cui un gruppo di parlamentari ha deciso di assumersi la responsabilità e il rischio (di successo o di insuccesso) di una tale manifestazione. Da farsi in una piazza di Roma entro febbraio, dopo un mese di mobilitazione in tutta Italia con l'appoggio e le adesioni di chi vorrà. Con un comitato promotore formato anche da intellettuali ed esponenti di associazioni. Una manifestazione che sappia sintonizzarsi con le iniziative promosse dalla società civile (si pensi, ad esempio, a quella di Micromega) ma che abbia una sua autonomia e densità politica. Capace di andare oltre il ricordo di Tangentopoli e di stare totalmente dentro la contemporaneità dello scontro politico-istituzionale, su un terreno purtroppo più ampio e ultimativo. Una manifestazione ricca di sue parole d'ordine, di una sua proposta di riforma della giustizia. A disposizione dei leader dell'Ulivo se decideranno alla fine che questa sia una scelta buona e giusta e necessaria per il futuro del Paese. Se la risposta sarà l'indifferenza, allora, ma solo allora, arrendiamoci ai numeri, ai dati di fatto e limitiamo il danno. Affinché la devastazione non sia totale e resti, pur nell'umiliazione, una parvenza di senso delle istituzioni. (Articolo segnalato da Michele Turazza)
Preghiera... pensando a Kandahar
Questo messaggio è una preghiera. Pochi decidono per tutti, in questo mondo. Gli altri tacciono e subiscono. Siamo tutti uguali, il sangue scorre rosso, il dolore si esprime in grida e lacrime. Per tutti.
Io sono nata a Kandahar 22 anni fa, sono stata in Italia per quasi tutta l'infanzia e di questo non smetterò mai di ringraziare mio padre che ha voluto che io vedessi un mondo diverso di pace, poi sono tornata in Afghanistan, dove c'era tutta la mia gente. Ho conosciuto gli italiani, sono come noi. Ho amato la capacità degli italiani di capire, di non giudicare, di commuoversi. Così a questo popolo che ho amato invio la mia preghiera. In Italia c'è la mafia che si è diffusa come un cancro in tutto il mondo, facendo male e tanto. Sono felice che nessuno per questo abbia mai pensato di bombardare l'Italia, di darla da governare a stranieri, di riempirla di bombe, mine e pianto. Sono felice perché la mafia non avrebbe perso mentre gli italiani avrebbero visto i loro sogni trasformarsi in orrore e incubi. Ero a Kandahar quando sono cominciati i bombardamenti occidentali. Ero là con il mio bimbo e il mio giovane uomo. E così il mio giovane uomo è andato a combattere. Non volontario, non terrorista. E' partito perché i giovani ragazzi vengono arruolati dagli eserciti in tutto il mondo quando c'è guerra. Aveva 20 anni e se n'è andato senza guardare il suo bimbo che piangeva. Forse immaginava che non l'avrebbe visto più, non voleva ricordarlo in lacrime. Cadevano le bombe l'ultima volta che l'ho visto vivo, il rumore era assordante e la gente gridava e correva in cerca di rifugi che non ci sono. Così non so se ha sentito il mio saluto. L'ho accompagnato per alcuni metri lungo la strada e per una volta ho gioito di indossare il burqa. Non ha visto lacrime ed erano tante, ha portato il mio ricordo mentre gli dicevo che nessuna bomba e nessun nemico può uccidere chi è protetto da un amore grande, come il mio per lui. Ma l'amore in Afghanistan ha perso da tempo. E il mondo è piccolo e se l'amore perde, perde per tutti. La notte ho stretto forte il mio bimbo che non dormiva più. Chiedeva perché ma io non so che rispondergli. Non si può dire a un bimbo che il mondo odia il terrorismo che significa uccidere gli innocenti e così, per risposta, bombarda noi. Tutto quello che quella notte, quella dopo e quelle prima gli dicevo era "mamma è qui con te, non piangere, mamma è qui con te". E ora vorrei morire perché in una di quelle notti da incubo la casa è esplosa su noi abbracciati. E che ha potuto fare mamma per il suo bimbo? Gli avevo promesso protezione, la bomba è caduta e lui nel terrore mi ha guardata come a ricordarmi la promessa. Non ha urlato, questo lo ricordo. Io l'ho fatto ed era un grido animale che mi risuona nelle orecchie in ogni istante, sono saltata sul corpo del mio piccolo come un'aquila sulla preda. Sentivo del sangue scivolarmi lungo le gambe e tra il dolore e l'angoscia non capivo di chi fosse, continuavo a p regare Dio che fosse il mio, a implorarlo che fosse il mio. Non lo era. Come vorrei spiegare a tutte le mamme... ma le mamme, lo so, non hanno bisogno di altre spiegazioni. Alzi gli occhi al cielo e vorresti solo morire, perché tutto il resto non importa, perché non c'è niente che può consolarti, perché la morte è nulla per una madre quando ha suo figlio che grida tra le braccia. Ho chiesto a Dio di mandare un'altra bomba a uccidermi, sentivo di non farcela. Invece stavo già correndo, cercando aiuto, tra le bombe e le fiamme e altre mamme con fagottini sanguinanti tra le braccia. Il mio bimbo vivrà senza le gambe, urla tutto il giorno, si lamenta tutta notte. Ho affidato la mia lettera a un'amica che è corsa via per salvare i suoi, io da qui non posso scappare, il mio bambino è steso in un letto. Aspettiamo la fine, le bombe continuano a cadere e io spesso chiedo ad una di colpirci per non vedere il resto, per non dover dire a lui che gli ho dato una vita senza futuro, per non doverg li dire che lo aspetta solo il dolore. Spero che ci colpisca e ci porti via insieme, in un posto nel quale io possa proteggerlo, solo questo sarebbe il mio Paradiso. Ho affidato così la lettera un'amica che è scappata in Europa. E' per gli italiani, popolo che ho amato e nel quale credo ancora. Non credo che nessuna delle belle persone che ho incontrato lì da voi avrebbe voluto pagare con le sue tasse la bomba che ha tolto le gambe e la speranza a mio figlio. Eppure quella bomba l'avete pagata voi, tutti voi, togliendo i soldi alle pensioni dei vostri vecchi o i soldi per i vostri malati e dandoli invece per colpire i nostri bimbi. Se favorire involontariamente chi uccide innocenti è terrorismo allora gli italiani sono terroristi? Non lo sono, come non lo sono io. Siamo le vittime di questa guerra. Non cestinate la mia preghiera, voglio immaginare che esiste una speranza, che chi non ha soldi o interessi possa dire non uccideteci più. Non cestinate la mia speranza. Penso che magari se ci stringiamo tutti potrebbe non succedere più e altri bimbi come il mio correranno ancora, con le loro gambe, davanti ai loro genitori orgogliosi. Vi prego mandate a tutti questa mia. Spedite a tutti la mia storia, che almeno a qualcun altro possa servire, ho in mente questa lettera mentre sto vicino a mio figlio aspettando. Quando cadrà Kandahar pensate anche a noi. (FONTE: FORUM "LA STAMPA")
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Vincenzo Andraous è nato a Catania il 28-10-1954, una figlia Yelenia che definisce la sua rivincita più grande, detenuto nel carcere di Pavia, ristretto da ventinove anni e condannato all’ergastolo “FINE PENA MAI”. Da otto anni usufruisce di permessi premio e lavoro esterno in art.21, da due anni e mezzo è in regime di semilibertà svolgendo attività di tutor-educatore presso la Comunità “Casa del Giovane “di Pavia. Per dieci anni è stato uno degli animatori del Collettivo Verde del carcere di Voghera, impegnato in attività sociali e culturali con le televisioni pubbliche e private, con Enti, Scuole, Parrocchie, Università, Associazioni e Movimenti culturali di tutta la penisola, Circa venti le collaborazioni a tesi di laurea in psicologia e sociologia; E’titolare di alcune rubriche mensili su riviste e giornali, laici e cattolici; altresì su alcuni periodici on line di informazione e letteratura laica, e su periodici cattolici di vescovadi italiani; ha conseguito circa 80 premi letterari; ha pubblicato sette libri di poesia, di saggistica sul carcere e la devianza, nonché la propria autobiografia; “Non mi inganno” edito da Ibiskos di Empoli; “Per una Principessa in jeans” edito da Ibiskos di Empoli; “Samarcanda” edito da Cultura 2000 di Siracusa; “Avrei voluto sedurre la luna“ edito da Vicolo del Pavone di Piacenza; “Carcere è società” edito da Vicolo del Pavone di Piacenza; “Autobiografia di un assassino-dal buio alla rinascita” edito da Liberal di Firenze; “Oltre il carcere” edito dal Centro Stampa della “Casa del Giovane” di Pavia.
RICOSTRUIRE L'UOMO DAL DI DENTROIl carcere con i suoi molteplici
contorcimenti, forse è addirittura irrapresentabile se non lo si tocca con mano. Eppure mi
piacerebbe significare un tragitto diverso, un cammino, sì, difficile, ma più
vicino al reale.
L'immagine che si ha di una prigione è
uno schema freddo e sintetico. Uno spazio essenziale, spogliato di ogni
riferimento, ove l'anima urla davvero, e potrebbe non esser udita, perché
soffocata dalle sue stesse grida, dall"imprecare, sanguinare,
chiedere. Uno
spazio ove al suo interno non esiste principio né fine, né prima né dopo, alcun
tempo. Né sopra né sotto, alcun spazio. Una dimensione di assoluto e di niente,
di vuoto e di pieno. Un
movimento presente, passato, futuro; un punto di contatto, di aggregazione, di
disgregante follia. Linee e arredi spogli, poveri,
insignificanti, ma a ben guardare, nel lungo tempo, divengono segni importanti;
presenza viva nonostante tutto. In questa prigione così oscura, tetra e dura, a
tal punto da divenire un incubo, fino a farti ammuffire più del suo
tetto-cratere corroso dal tempo: esiste un'umanità che sopravvive e infine chiede di vivere. Questa cella, questo recinto
stretto, questo carcere a distanza siderale dall'essere, difficilmente si impara
ad accettarlo come intorno, a colorarlo con il lavoro, la poesia, il teatro, la
meditazione, i rapporti umani finalmente nati, mantenuti e
custoditi. Eppure si
cresce sino a farlo diventare un tempio ove tentare di recuperare non solo
attraverso la fede che un individuo professa, ma fors’anche e
soprattutto da ciò che in ciascuno incombe; la responsabilità di "
ritrovare e ricostruire se stesso". Ci sono momenti in cui il panico
assale, paralizza, terrorizza, e non ci rendiamo conto di come abbiamo fatto
diventare queste quattro mura; "un mito", tentando di modificare questa
dimensione disumanizzante in un luogo aperto ad alternative di conoscenza e
di mutamento interiore.
A volte
persino la perdita di memoria é una
scelta individuale per non vedere né sentire, ecco che allora aprire gli occhi e
saperli poi abbassare, consapevoli dei bisogni, dei desideri e delle
aspettative, diventa un gesto, un comportamento ed un’azione che superano di
gran lunga lo spauracchio di quel mito costruito troppo spesso a nostra misura. Spesso chiediamo quando giungerà il
tempo per "ritenere di essere" a fronte dei chiavistelli e degli scarponi
chiodati, vagando per campi minati, aggrovigliati nel filo spinato facendoci
ancora più male, in una sofferenza per lo più amministrata e comunque mai
consapevole. Appoggiandoci ai lampi di vita
dispersi e incendiati, comprendiamo che importante "non é esserci " ma capire
"ciò che si é", ciò che siamo e dobbiamo essere "per reinventare la nostra
vita”. Forse ciò
è possibile recuperando un atteggiamento più attivo e propositivo anche dentro
un carcere, con la capacità di riconoscere le proprie potenzialità, i propri
interessi, per poi tradurli in un progetto di auto-realizzazione, senza per
questo arenarci a fronte di situazioni che solo apparentemente paiono troppo
destrutturate; per cui le viviamo sovente come potenzialmente
negative. Credo sia il
tempo di assumerci in prima persona le nostre responsabilità con il coraggio
delle nostre azioni. Perché non esprimere la propria opinione, ma anche non
averla, significa non avere consapevolezza delle proprie esigenze, non farsi
portatori di un proprio progetto di vita personale. Allora rifuggire il nuovo, senza
scommettersi, non impegnarsi insieme con gli altri, Operatori Penitenziari e la
Società civile, non esponendosi in prima persona per la propria crescita personale e
professionale: equivale a non vivere pienamente questa vita che ci precede e
osserva, trasfigurando la quotidianità, trascendendo l'umanità stessa.
Così restituendoci
almeno in parte alla nostra dignità di uomini.
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Progetto Sorriso El Salvador
«Progetto Sorriso» è l'iniziativa di cooperazione con il Ser.Co.Ba di San Salvador avviata un anno fa a San Bonifacio (VR). Obiettivo: fornire aiuti materiali alle popolazioni terremotate del Salvador e, in particolare, finanziare la fornitura di materiale sanitario (multivitaminici) e per l'igiene personale. Per INFORMAZIONI: progettosorriso@infinito.it . Per versare il proprio contributo ricordiamo che è possibile utilizzare il conto corrente postale di "Progetto Sorriso - El Salvador": ccp numero 21008305 - intestato a: Amedeo Tosi - Chiara Terlizzi. Indirizzo: località Praissola 74/b - 37047 San Bonifacio (Verona) - Causale del versamento: "Progetto Sorriso". Progetto Sorriso invierà tempestivamente quanto raccolto al gruppo di appoggio "Italia-Cuscatlan" di Turbigo (Milano), incaricato per le operazioni bancarie.
Pensieri @ltri
Il 2001 è un anno che
ricorderemo sicuramente per i due grandi eventi: il G8 di Genova e l’11
settembre delle due torri di New York. E conseguente guerra in Afganistan. E
cosa possiamo fare noi? Vengono alla mente alcuni gesti o alcune rinunce. Ivan
Illich invita a sottrarsi. Cioè: non far niente, oziare, rallentare le velocità,
camminare a piedi, fare pagliai, soffermarsi di meno davanti alla televisione,
non comprare azioni in borsa, scrivere lettere a mano con carta, pennino,
cannetta e inchiostro, coltivare un orto, giocare e perder tempo, barattarsi le
cose o regalarle quando non servono più, salvare semi, seminarli e poi
scambiarli, non programmare, poetare in lingua locale, disegnare, leggere un
libro. Ne consiglio uno bellissimo di Christoph Baker dal titolo “Ozio, lentezza
e nostalgia”. Ma c’è anche Wendell Berry che ha scritto “Con i piedi per
terra”. Wendell, fra l’altro, consiglia così: fate la spesa vicino a casa,
comprate in un negozio piuttosto che in un ipermercato, non comprate niente di
cui non abbiate bisogno, fate tutto quello che potete da soli, se non potete
farlo da soli, vedete se un vicino può farlo per voi, comprate prodotti
alimentari coltivati nella zona, coltivate qualcosa per il vostro consumo
personale, andate in vacanza vicino a casa vostra. Riusciremo davvero a
sottrarci? Che bello se tutto quello che avevamo messo in piedi – in pompa
magna- a Genova avesse avuto come contraltare una città vuota, senza abitanti né
manifestanti! Ma la ricordate la storia de “I vestiti nuovi
dell’imperatore” e del bambino che ingenuamente disse: “Ma il re è nudo!!”? E’
l’unica maniera per unire tutti: i semplici, i poveri e i diseredati della
terra, l’indio sudamericano e il contadino romagnolo. Buon 2002, ricco di tanti
attesi…imprevisti. (Gianfranco Zavalloni)
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