24/10/01 - Verona - Bellorio: «Allearsi col vento»
27/10/01 - Verona - Rete Lilliput
27-28/10/01 - Verona - Cinema ed educazione interculturale
27/10/01 - Verona - Settimana della letteratura dominicana/1
29/10/01 - San Pietro in Cariano (VR) - Settimana della letteratura dominicana/2
29/10/01 - Verona - Chiesa e globalizzazione
Il Segretariato attività ecumeniche di Verona organizza un incontro sul tema «Unità delle chiese e globalizzazione». Relatore: don Mario Aldighieri (pastorale migranti - Cremona). L'incontro si terrà presso la sala convegni Cariverona, via Garibaldi 2, con inizio alle ore 20,45.
30/10/01 - Colognola ai Colli (VR) - Incontro sulla globalizzazione
30/10/01 - Verona - Settimana della letteratura dominicana/3
Ore 10.30. Ángela Hernández Núñez e Rafael García Romero incontrano gli studenti dell’Istituto Tecnico “Marco Polo” di Verona. Ore 12.30: conferenza stampa alla Libreria Rinascita, Corso Porta Borsari, 32 (per informazioni: tel. 045 594611) per il lancio della collana “Alfabeti”, con l’editore Pierluigi Perosini e gli autori Ángela Hernández Núñez e Rafael García Romero.
13/11/01 - Colognola ai Colli (VR) - Incontro sul commercio equo e solidale
19/11/01 - Verona - Contro la violenza
Il Segretariato attività ecumeniche di Verona organizza un incontro sul tema «Un decennio contro la violenza». Relatore: don Letizia Tommasone (pastora valdese - Verona). L'incontro si terrà presso la sala convegni Cariverona, via Garibaldi 2, con inizio alle ore 20,45.
dal 23 al 30/11/01 - Verona - XXI Rassegna Cinema Africano
10/12/01 - Verona - Spiritualità ebraica
Il Segretariato attività ecumeniche di Verona organizza un incontro sul tema «I doni della spiritualità ebraica». Relatore: Amos Luzzato (presidente comunità ebraiche - Venezia). L'incontro si terrà presso la sala convegni Cariverona, via Garibaldi 2, con inizio alle ore 20,45.
in primo piano
Sognavo l’Africa fin dalla tenera età, da quando, forse, per la prima volta vidi un africano, o quando per la prima volta sentii parlare un missionario, appena tornato. Il desiderio di posare i miei piedi sulla terra africana ha sempre invaso i miei pensieri. Per mille motivi ho rimandato il viaggio, a tal punto, da far crescere in me la convinzione, che tutto ciò sarebbe rimasto solo il mio sogno. Un sogno però, che ho fatto maturare nel segreto del mio cuore, attraverso letture, testimonianze, incontri, conoscenze, relazioni, preghiere… Tutto ciò fino a quando un amico mi disse: “Federica…tu devi andare in Africa”. A quel punto, aprii gli occhi e capii che il mio sogno non poteva rimanere più tale. Capii finalmente che esso era nato con me ed era un dono di Dio. Non è stato facile…tutto sembrava dirmi di starmene a casa, ma io, un po’ testarda, continuai a cercare, fino a quando una telefonata mi annunciò: “Vai in Rwanda!”. Rwanda... Quel poco che sapevo del Paese delle Mille Colline (soprannome che deriva dalla sua geografia) era relativo al genocidio del 1994, che aveva visto la morte di circa 800.000 persone, spesso a colpi di machete. Qualche attimo e accettai. Partii il 10 Luglio con altre sei persone, che, come me, volevano che i propri occhi vedessero che la vita non è solo quella, che comodamente ci è data di vivere qui, nel nostro ricco occidente. Il viaggio faceva parte delle esperienze brevi (3 settimane), che il Centro Missionario Diocesano di Verona organizza ogni anno. Fummo ospitati in una missione a Muhura, un villaggio situato a circa m 2000 di altitudine. Lì c’è un centro sanitario, un centro nutrizionale e una maternità. Il tutto è estremamente semplice, ma dopo qualche giorno, ci si rende conto di quanto sia prezioso. La strada che ho percorso per arrivarci, mi è servita in tutti i sensi, per farmi entrare nella vita africana. Due ore di macchina in strada sterrata, quasi impraticabile in alcuni tratti, ma che svelava il cuore dell’Africa vera. Quella che ogni giorno deve lottare per sopravvivere; quella che umilmente non si abbatte, non si scoraggia di fronte alle incomprensioni e ai km da percorrere per reperire l’acqua; quella che sa sorridere al sole che sorge, a un fiore che sboccia, alla pioggia che cade, anche se questa causerà la distruzione della casa; quella che sa accogliere il vecchio e il bambino senza calcolare ciò che comporterà; quella che accoglie Dio nel cuore e lo dona nei gesti quotidiani. La mia giornata la trascorrevo al centro, con i malati e i bambini, con gli amici rwandesi che in ogni momento mi facevano sentire una di loro. “Tu ormai sei una musungu (bianca) rwandese”. Questa è stata la più bella frase che le mie orecchie hanno udito, perché così mi sentivo, a tal punto che ho rinviato, per quel che è stato possibile, il mio rientro in Italia. Mi sentivo una loro sorella, e ogni giorno risuonava in me la frase evangelica “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”(MT 12,50). L’Africa ti mette in gioco, in discussione, ti scuote, ti tormenta, ti cattura…perché in ogni sguardo che incontri vedi che Dio ti ama e ama la vita di ogni uomo. E’ un mistero…come dice Alex Zanotelli “ è un mistero che consiste nel condividere le esistenze distrutte dei poveri, nell’accostare la morte da mattina a sera, perché proprio in questi istanti dolorosi avviene l’incontro con la vita: i poveri affermano incessantemente la loro voglia di danzare la vita, di credere che, nonostante tutto, la vita vince”. Questa è la convinzione che ho portato a casa, ed è la convinzione che accompagna ogni mio passo. Ritornare in Italia è stato sicuramente difficile. Come accettare le contraddizioni del nostro occidente? No, non è possibile! Come accettare le assurdità che ogni giorno lo sguardo scorge e le mani sfiorano? No, non è possibile! Come accettare l’orrore della violenza per la violenza? No, non è possibile! Come accettare l’indifferenza di chi non si chiede mai il perché? No, non è possibile ! Ora sono qui…in Italia…ma porto in me un sogno: Il mio ritorno in Africa.Tornerò la prossima estate. Inizierò un progetto estivo per i bambini del villaggio. Nel frattempo con un gruppo di ragazzi dai 14 anni in su, Gli amici di Muhura, produciamo oggetti con le perline. Questa attività ci permette di raccogliere fondi e di sensibilizzare quanti incontriamo. Il mio sogno, ora, sta diventando il nostro!!! (Federica fede.hygge@tin.it )
MASSMEDIA e TAM TAM vari
INFORMAZIONI, RIFLESSIONI & OPINIONI
Omelia preclusa alle donne nel Duomo di Milano. Nella Giornata
missionaria mondiale, che si terrà domenica 21 ottobre, le suore incaricate di
preparare l’animazione della liturgia non potranno intervenire “né prima, né
durante, né dopo l’omelia”. Per questa, inoltre, dovranno “farsi rappresentare
da un confratello missionario”. È quanto si sono sentite rispondere le religiose
in occasione dei preparativi della giornata, la cui organizzazione ogni anno è
affidata a un ordine diverso. La motivazione risulterebbe essere che in Duomo
non si accettano donne con tali compiti. Le religiose, appartenenti a un ordine
missionario, hanno risposto mettendo al corrente dell’accaduto il cardinale
Carlo Maria Martini. (L’intervento di suore o di missionarie laiche, durante
l’omelia della giornata missionaria mondiale e in altre occasioni, è previsto e
non è inusuale).
(S.M. 17/10/01, fonte: www.femmis.org)
In Duomo solo voci d'uomo / 2
“Credo nell’obbedienza alla Chiesa che è madre
(anche se si esprime spesso con voce maschile) e con le mie consorelle saremo
presenti in Duomo, parleranno per noi le testimonianze scritte sui libri e
riviste, noi staremo in silenzio, con una sofferenza in più nel cuore che
sicuramente ci accomuna ancor di più alla sorte di tante e tanti esclusi/e ed
emarginate/e che abbiamo avuto la fortuna di conoscere nelle Chiese di
missione.” E’ la sintesi di una lettera che una missionaria ha scritto al
Cardinal Martini, dopo aver ricevuto un secco no da parte dei responsabili del
Duomo, alla possibilità di dare una testimonianza missionaria e di esortare i
fedeli ad un impegno missionario proprio di ogni battezzato. Semplicemente un
veto a prendere la parola. Che ci spetta, non solo per normale avvicendamento di
Istituti, ma soprattutto per diritto evangelico: “Andate e ammaestrate le
genti”(vedi news: Duomo di Milano, vietata l’omelia al femminile). Bambini troppo impegnati: basta
corsi, meglio la Tv. Di VERA SCHIAVAZZI Almeno 45 minuti di totale relax
dopo ogni attività, e soprattutto dopo la scuola. Tre quarti d’ora per non fare
nulla che non sia dormire, guardare il soffitto, magari perfino la Tv, purché
non ci siano obblighi. E’ il primo di
una nuova serie di “comandamenti”, che arriva dalla Francia, a proposito del
modo migliore per organizzare il tempo libero dei bambini, evitando di farlo
assomigliare all’agenda di un ministro e cercando al tempo stesso di stimolare
le loro intenzioni. Lo hanno scritto due psicologi, Francois Testu e Roger
Fontaine (allievi di Francoise Dolto) nel loro ultimo libro “Il bambino e i suoi
ritmi” che, uscito da poche settimane, fa discutere esperti e genitori e
rivaluta persino gli esecrati cartoni televisivi come disimpegno tra un corso e
l’altro. Dopo vent’anni di crescita continua delle attività extrascolastiche (si
passa dalle 40 alle 48 ore settimanali impegnate tra scuola e corsi vari a mano
a mano che l’età cresce, senza neppure considerare bambini e ragazzi che
praticano uno sport a livello agonistico), sembra arrivato il momento dello
“sboom”, o almeno quello di un’attenta riflessione critica. Ma se è vero che le attività praticate al di fuori
della scuola non devono in nessun caso essere più di due, quali sono le età
migliori per cominciare? E quali gli abbinamenti consigliati? Musica, scultura e
pittura fanno parte di una grande famiglia che può essere abbinata a uno sport:
nuoto, espressione corporea e preparazione alla danza si possono iniziare fin
dai 5-6 anni, mentre per la pratica regolare di sci, tennis, equitazione, basket
e scherma sarebbe meglio attendere che il bambino abbia 8 anni. Tra i tre e i
sei, volendo, si può iniziare con l’alfabetizzazione musicale (cori, ritmica,
semplici esercizi da fare in gruppo per non più di 30-40 minuti una o due volte
la settimana) e col nuoto (anche in questo caso, l’acquaticità non deve durare
più di mezz’ora alla volta, e le ultime tendenze prevedono che i bambini
scendano nella vasca a piccoli gruppi insieme all’istruttore, senza la presenza
di mamma o papà). Alle elementari, la
formula del tempo pieno prevede già almeno una attività sportiva (nuoto e basket
le più gettonate), l’alfabetizzazione per una o due lingue straniere e quella
informatica. Fare altre cose una volta usciti dalla scuola è sensato soltanto se
è il bambino a chiederlo. E’ il caso di chi sta imparando a suonare uno
strumento (occorrono almeno tre ore alla settimana tra lezioni ed esercizi a
casa), di chi vuole dipingere (un’ora e mezza la settimana è sufficiente) o di
chi vuole provare uno sport che non è previsto a scuola. Altra regola d’oro: imporre a se stessi,
all’associazione o alla scuola scelta e ai propri bambini almeno due lezioni di
prova. Se un’attività non piace, meglio saperlo subito, ma se si decide per il
sì è giusto impegnarsi a farla tutto l’anno. Il weekend dovrebbe restare libero, per dormire fino
a tardi, leggere, stare all’aria aperta, condividere tempo tra adulti e bambini,
frequentare amici piccoli e grandi. A conti fatti, una famiglia con due bambini
potrà spendere per le attività extrascolastiche tra un milione e mezzo e due
milioni e mezzo di lire, “attrezzature” escluse. Ne vale la pena? Sì, se le ore
in più servono a divertirsi, a crescere seguendo le proprie passioni vere
(imparare il pianoforte è difficile, per capire se è il caso di insistere
bisogna conoscere a fondo quel singolo bambino), a scaricare energie fisiche.
No, avvertono Testu e Fontaine, se è un modo di riempire il tempo e parcheggiare
bambini e ragazzi: in questo caso, meglio la baby sitter, i vicini di casa e la
Tv. (segnalazione di Luciana Bertinato) Riceviamo e pubblichiamo. «La più
temuta e sbagliata risposta al terrorismo è precipitata. Gli Stati Uniti
d’America con i loro alleati stanno colpendo l’Afghanistan. Oggi la guerra è
cominciata. All’orrore del terrorismo si somma un altro orrore. Alle incolpevoli
vite umane stroncate dai terroristi si possono aggiungere in queste ore vittime
ugualmente incolpevoli di un’altra parte del mondo. Due torti non fanno una
ragione. Da oggi il destino dell’umanità si è fatto più incerto e più oscuro.
Ogni persona in ogni parte del mondo è a rischio e può essere colpita. L’unica
cosa certa è che il terrorismo non ne esce indebolito. Gli organismi e il
diritto internazionali e la volontà dei popoli sono le vittime politiche di
questa scelta. L’Europa è di fronte ad un bivio. Se si accoda alla scelta
americana nega la sua stessa esistenza. Il suo futuro, oggi più che mai, dipende
dalla sua capacità di opporre il diritto internazionale al terrorismo e alla
guerra e la scelta della pace per avviare una politica di cooperazione fra il
Nord e il Sud del Mondo. In un momento così drammatico per l’umanità chiediamo
al popolo italiano di far sentire la sua voce per fermare la guerra; chiediamo a
tutte le donne e a tutti gli uomini di buona volontà di qualunque cultura e
religione di far sentire la loro voce; chiediamo ai lavoratori di pronunciarsi
contro gli avvenimenti di queste terribili ore; ci appelliamo a tutte le Chiese
perché le religioni non diventino ragione di conflitto, ma di tolleranza e di
dialogo. Ci appelliamo al movimento antiglobalizzazione perché diventi il centro
di un più ampio fronte di lotta per la pace e contro la guerra e il terrorismo.
Chiediamo a tutte le donne e agli uomini del partito della Rifondazione
comunista in queste ore drammatiche di mobilitarsi, di diventare protagonisti
unitari per la costruzione di un grande movimento pacifista». Fausto
Bertinotti La nostra Marcia per la
Pace Dichiarazione del Coordinamento
Nazionale Comunità di Accoglienza, che raggruppa, nel solo Veneto,1872 persone
accolte in strutture residenziali e 4863 in quelle semiresidenziali nei settori
della tossicodipendenza, minori in difficoltà, carcere, alcoolismo, disagio
psichico, immigrati, senza fissa dimora, prostituzione.
Convinti che solo l’azione
non–violenta possa rappresentare una credibile risposta a tanta rabbia ed
ingiustizia, scegliamo di partecipare e coinvolgerci nella costruzione di
alleanze con tutte le persone impegnate a “sostituire la cultura della competizione
selvaggia con quella della cooperazione, la cultura della guerra con la cultura
della pace, l’esclusione con l’accoglienza, l’individualismo con la solidarietà,
la separazione con la condivisione, l’arricchimento con la ridistribuzione, la
sicurezza nazionale armata con la sicurezza comune”. Crediamo che queste parole e questi
obiettivi - così espressi in occasione della Marcia per la Pace Perugia Assisi
del 26 settembre 1999 - siano più che mai attuali ed urgenti. Per questo motivo scegliamo di essere
presenti – come Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza – in occasione
della Marcia per la Pace 2001 che si svolgerà il 14 ottobre in Umbria
organizzata dalla Tavola della Pace di Perugia e dal Coordinamento Nazionale
degli Enti Locali per la Pace. La
marcia vedrà sfilare, lungo un tragitto di 23 km, persone provenienti da tutte
le regioni italiane e dall’estero: vuole rappresentare il momento conclusivo
della 4° Assemblea dell’ONU dei Popoli, la tre giorni dedicata al tema “La
globalizzazione dal basso. Il ruolo
della società civile mondiale e dell’Europa.” Facciamo dunque nostri gli obiettivi con cui
i promotori della 4° Assemblea dell’Onu dei Popoli e della Marcia per la Pace
del 14 ottobre 2001 intendono dare seguito agli impegni assunti a New York dal
Millennium Forum e contribuire alla preparazione del 2° Forum Sociale Mondiale
di Porto Alegre (Brasile, gennaio 2002): 1. promuovere la globalizzazione dei diritti umani,
della democrazia e della solidarietà, sollecitando un cambiamento delle priorità
della politica e dell’uso delle risorse; 2. contribuire alla costruzione e al rafforzamento della società civile
mondiale, della sua capacità di proposta e azione comune per la pace,
un’economia di giustizia e la democrazia internazionale; 3. contribuire alla
costruzione di un’Europa aperta e
solidale, strumento di pace, giustizia e democrazia nel mondo. 4. promuovere la
costruzione di una rete europea
delle organizzazioni e istituzioni locali che operano per la pace; 5. promuovere
la costruzione di un “network per la
globalizzazione dal basso” e di un “Forum permanente della Società Civile
Mondiale”; 6. costruire una coalizione internazionale in vista della Conferenza
dell’Onu “Financing for Development”
(Finanza per lo
Sviluppo) (Messico, marzo 2002); 7. rilanciare le proposte della società civile
mondiale, in vista della conferenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio
(Qatar, novembre 2001); 8. sollecitare l’intervento dell’Europa e dell’Onu a
favore della pace in Medio Oriente,
nei Balcani, in Africa, in Colombia, in Turchia, …; 9. promuovere una campagna (e una
coalizione) internazionale per il rafforzamento e la democratizzazione dell’Onu; 10.
promuovere una campagna (e una coalizione) internazionale contro il progetto di
scudo spaziale americano, per il disarmo e la prevenzione dei conflitti.
La nostra storia è – da sempre – coerente con questi contenuti. L’attenzione al territorio ed
all’accoglienza – da cui siamo caratterizzati – hanno senso solo se sanno
diventare progetto anche politico e se riescono a costruire – con la denuncia –
una cultura della giustizia radicata in concrete pratiche (locali e
globali). Nel momento in cui il
C.N.C.A. si avvicina alla scadenza del suo ventennale, ci sembra doveroso
riaffermare la nostra ferma intenzione di proseguire sui sentieri della
non-violenza, della giustizia globale e dello sviluppo sostenibile. Oggi siamo
spaventati da quanto ci circonda.
Dopo l’11 settembre e dopo Genova gli scenari sono cambiati in modo
irrevocabile. Anche a noi sarà
chiesto di confrontarci con questi cambiamenti e di creare meccanismi perché la
fedeltà alla nostra storia non diventi rigidità che ci impoverisce in sola
nostalgia. Mentre la guerra – perché questo è il suo nome – prosegue il suo
assurdo progetto di distruzione, noi vogliamo respingere con fermezza, chiarezza
e determinazione ogni tentazione di
vendetta, di rivincita, di rappresaglia e di odio ormai incontrollabile o
insuperabile. Nuovi lutti e nuove tragedie non si prevengono con lo strumento
della guerra. Mai. Logiche di guerra impugnate in nome di una giustizia militare
non “ricordano” le vittime e nemmeno preparano riconciliazione. E’ illuminante, da questo punto di vista,
la lettera che i genitori di Greg, un ragazzo morto in una delle Torri, hanno
scritto al “loro” presidente: “Caro Presidente George W. Bush, nostro
figlio Greg è una delle vittime dell’attacco al World Trade Center di martedì 11
settembre. In questi ultimi giorni
abbiamo letto la Sua risposta circa la risoluzione con la quale il Congresso Le
dà pieni poteri per rispondere all’attacco terroristico. La Sua decisione di rispondere a questo
attacco non ci fa sentire meglio rispetto alla morte di nostro figlio. Ci fa sentire peggio. Ci fa sentire come se il nostro governo
stesse usando la memoria di nostro figlio per giustificare il fatto di causare
dolore ad altri figli e genitori di altri Paesi. Non è la prima volta che una persona
della Sua posizione ha avuto pieni poteri per poi rammaricarsene. Non è tempo di gesti vani per farci
sentire meglio. Non è tempo di
agire come dei prepotenti. La
sproniamo a pensare come il nostro governo possa trovare soluzioni pacifiche e
razionali al terrorismo, soluzioni che non ci facciano cadere al livello
disumano dei terroristi”. Se
non vogliamo che il sacrificio di quanti sono morti in quel drammatico 11
settembre diventi inutile, dobbiamo ri-costruire - in loro memoria e tutti
insieme – nuove torri: di sviluppo internazionale, di giustizia globale e di
pace duratura perché fondata su criteri di sviluppo sostenibile ed equamente
ripartito. Ma non ci vogliamo nemmeno rassegnare al fatto che condannare la
guerra possa essere inteso come “complicità” con le logiche criminali di un
terrorismo che in nessun modo può essere giustificato. Significa non usare gli
attentati terroristici come tappeto per nascondere quelle omissioni e quelle
colpe che hanno visto divaricarsi le forbici tra un Nord sempre più ricco e un
Sud sempre più privo di cure sanitarie, di acqua, di cibo, di scuole e di
politiche in grado di contrastare quei tristi fenomeni di schiavitù e di
emigrazione disperata che siamo ormai abituati a conoscere. Due ultime
considerazioni. La prima. Non siamo
in presenza di uno scontro tra Occidente (giudeo-cristiano) e Oriente
(islamico). Nessuno, nemmeno per un istante, può ridurre la complessa cultura e
sapienza della religione islamica ai frammenti dell’integralismo o, peggio
ancora, del terrorismo. Entrare in questa prospettiva coincide con il negare
l’evidenza ed individuare nel pluralismo religioso un pretesto per nascondere
meccanismi economici e finanziari che alimentano con ben altre logiche i tanti
conflitti che conosciamo e che si sono consumati sotto i nostri occhi. La vera
guerra da contrastare è la guerra dell’ingiustizia alimentata dall’assenza di
politiche capaci di fronteggiare queste emergenze. La seconda. Televisioni e media ci
propongono, quotidianamente, immagini altamente emotive di morte, di distruzione
e di violenza. Non possiamo, però, restare prigionieri di cronache drammatiche
trasformate in spettacolo. Dobbiamo
fare in modo che anche le immagini facciano un passo indietro perché la tragedia
non diventi un “teatro” che entra nelle case alimentando ulteriori paure,
rancori e divisioni già difficili da sanare. Giustizia e pace non possono
restare sepolte sotto immagini altamente emotive che bloccano il procedere della
nonviolenza. Fare in modo che alle immagini seguano le Parole della Politica e
della nonviolenza, è la grande responsabilità che ci dobbiamo assumere, insieme,
nessuno escluso. (Sergio Pighi) LA GUERRA CHE VERRA' Ognuno di noi, in questi giorni, in
queste settimane, ha avuto modo di vedere, ascoltare, leggere,
riflettere.
Spesso ci siamo trovati forse storditi, forse “soli” con le nostre riflessioni,
con la sensazione di impotente solitudine di fronte al vorticoso e caotico
precipitare degli avvenimenti, soli con l’esigenza di capire, comunicare e far
pesare le nostre convinzioni… ma i centri delle decisioni e del potere sembrano
collocarsi a livelli troppo lontani, fuori portata… E tuttavia, proprio nel
momento in cui la situazione sembra diventare troppo complessa, proprio allora
va recuperata l’essenzialità dei concetti del nostro sentire, il significato
elementare delle parole. Guerra è guerra, nonostante il goffo tentativo di
travestirne e nasconderne il significato con sinonimi e aggettivi di vario
genere. E alla semplicità terribile di questa parola noi contrapponiamo la
parola pace, volontariamente e coscientemente ignorando i fiumi di
argomentazioni storiche, socio- economiche, politiche… certamente importanti,
utili e necessarie ma soltanto se non cancellano la consapevolezza della cruda
realtà: guerra è guerra. E a chi lavora
nella scuola, a chi ha il compito primario di formare i giovani alla conoscenza,
al confronto… il compito di formare “l’uomo e il cittadino”, chiediamo di aprire
spazi all’analisi, al dibattito, al confronto. Nella propria classe, durante le
lezioni, nel proprio intervento pedagogico quotidiano. Chiediamo di far
diventare la scuola, la classe, luogo e momento di ascolto disponibile e
rispettoso di vissuti, di pensieri, di storie diverse. Qualcuno forse pensa che
la scuola di altro si debba occupare, che il dibattito e il confronto su quanto
sta avvenendo appartenga “al mondo della politica”, dei professionisti della
politica, e che sia quindi estraneo ai compiti primari del lavoro di chi
insegna: sta avanzando in modo dilagante il tentativo di espropriare la scuola
del compito fondamentale della formazione. E cosa dovremmo dire noi insegnanti
alle giovani generazioni che chiedono di capire, di confrontarsi su quanto sta
avvenendo? Dovremmo rispondere che questo non è compito della scuola? Che
compito fondamentale sono… le tre “i”: impresa, internet, inglese? La cruda,
tragica realtà di quanto sta avvenendo in questi giorni rivela la vacuità, la
strumentale pericolosità di questi slogan che sovvertono concettualmente la
natura stessa della scuola così come è definita nella nostra costituzione.
Saremo in grado di opporre cultura aperta alle differenze e concreta pratica
pedagogica a questa deviante tendenza?
(La Segreteria CGIL scuola – Verona)
LA MIA MARCIA La Marcia
per la Pace è stata per me un'esperienza ricchissima. Agli amici che conoscono
le vicende sono felice di far sapere che mi è stato dato, fra l'altro, di poter
scambiare un attimo di pace e solidarietà con Mao Valpiana, impegnato fra i
200.000 a distribuire un libretto su Aldo Capitini (fondatore nel 1961 della
Marcia). Per costruire la pace, venirsi incontro, rompere le incomprensioni e le
ruvidità, a volte basta solo uno sguardo gioioso, una stretta di mano, un
abbraccio, camminare insieme, scoprire la gioia di essersi messi in discussione,
di aver chiesto ed ascoltato ed aver trovato la risposta di Dio Padre. Il nostro
io, la nostra logica e razionalità, che spesso ci allontana invece di
avvicinarci, si sbriciola di fronte alla legge dell'amore e dello spirito. Siamo
nati per essere fratelli che tendono alla ricerca dell'unità. L'incomprensione e
la divisione comunque ci feriscono e ci indeboliscono. Per cercare l'unione si
paga un leggero prezzo momentaneo, la paga poi è grande ed è per la vita. Lo
Spirito ci viene in aiuto dandoci la forza necessaria nella pratica del perdono
e del reciproco sostegno. E' questa la nostra vera, unica e vittoriosa gioia.
Concludo con parole che non sono mie e le rimetto a voi. Come essere autentici
portatori di verità e di bene tra le tante umane espressioni dei nostri
tempi? Troppo altruismo distoglie i sacerdoti dalla preghiera.
Ordinando dieci nuovi diaconi, ieri pomeriggio nella cattedrale di in San
Pietro, il cardinale Giacomo Biffi li ha esortati a non lasciarsi
"ingannare da un attivismo altruistico che non dia più spazio alla
preghiera e alla contemplazione della verità salvifica". Se è
indiscutibile che il compito di ogni ministro di Dio ha due facce inseparabili,
cioè l'"attenzione al disegno della Redenzione" e la "dedizione
fattiva ai fratelli
La Comunità dei
frati minori di San Bernardino,
L'associazione "La Fraternità" di Verona, La Ronda della Carità invitano tutti gli interessati a: Proposta formativa per
gruppi e volontari che si occupano di persone
senza tetto. Gli incontri si terranno
di venerdì dalle ore 18.00 alle 19.30 presso: sala conferenze del
convento di San Bernardino in via A. Provolo 28 ; cappella San Francesco
della chiesa di San Bernardino
l'ascolto della parola di Dio . Con il seguente
programma: Data Relatore Argomento 02/11/2001 Sergio
Pighi Le regole della
convivenza 16/11/2001 Frati di San
Bernardino Ascolto della parola
di Dio 30/11/2001 Maurizio
Zanon Il lavoro in gruppo
(ore 19.00 - 20.30) 18/01/2002 Jeanne Piere
Piessou La condizione dello
straniero irregolare 08/02/2002 Renzo
Fior L’accoglienza 15/03/2002 Frati di San
Bernardino Ascolto della parola
di Dio 05/04/2002 Valeria
Marchesini La situazione dei SFD
e le risposte dei veronesi 19/04/2002 Frà Federico
Righetti La carità
evangelica LA NINNA
NANNA DE LA GUERRA Ninna
nanna, nanna ninna, er
pupetto vò la zinna dormi,
dormi, cocco bello,sennò chiamo Farfarello
Farfarello
e Gujermone che se
mette a pecorone, Gujermone
e Ceccopeppe che se
regge co’ le zeppe, co’ le
zeppe d’un impero mezzo
giallo e mezzo nero. Ninna
nanna, pija sonno chè se
dormi nun vedrai tante
infamie e tanti guai che
succedono ner monno fra le
spade e li fucili de li
popoli civili. Ninna
nanna, tu non senti li
sospiri e li lamenti de la
gente che se scanna per un
matto che commanna; che se
scanna e che s’ammazza a
vantaggio de la razza o a
vantaggio d’una fede per un
Dio che nun se vede, ma che
serve da riparo ar
Sovrano macellaro. Chè quer
covo d’assassini che
c’insanguina la terra sa
benone che la guerra è un
gran giro de quatrini che
prepara le risorse pe’ li
ladri de le Borse. Fa la
ninna, cocco bello, finchè
dura sto macello: fa la
ninna, chè domani
rivedremo li sovrani che se
scambiano la stima boni
amichi come prima. So’
cuggini e fra parenti nun se
fanno comprimenti: torneranno
più cordiali li
rapporti personali. E
riuniti fra de loro senza
l’ombra d’un rimorso, ce
faranno un ber discorso su la
Pace e sul Lavoro pe’ quer
popolo cojone
risparmiato dar cannone!
E’ vero
che la miglior predica è il silenzio. Ma un conto è saper tacere a tempo
opportuno, altro è essere costrette a star zitte proprio nel giorno eccezionale
dell’annuncio, della parola.
In tutto il mondo la Chiesa cattolica nel mese
di ottobre celebra la giornata missionaria mondiale dandole una speciale
connotazione: lasciando che la classica omelia venga sostituita da riflessioni
missionarie, frutto di esperienze vissute. La parola viene perciò lasciata
“agli addetti del mestiere”, siano essi missionari sacerdoti, laici e anche
suore.
Nel Duomo di Milano quest’anno, 2001, c’è stato un distinguo.
Siete suore (quindi donne), niente annuncio. Cercatevi supplenti, rigorosamente
maschi.
Continuando la sua riflessione la missionaria si chiede: “La nostra
vocazione ci abilita solo all’annuncio ai lontani, oppure devo pensare che la
donna non è degna di educare alla fede?”
Abituate a denunciare oltre che a
convivere con le discriminazioni che si consumano nei paesi del sud del mondo
all’indirizzo delle donne, ci riempie di tristezza ma anche di preoccupazione
dover assistere, pure a queste latitudini, a gesti così anacronistici.
Infinitesimali, ma sintomi di un latente riflusso storico.(ecappa - fonte: www.femmis.org)
Sono
persone che sfuggono alla miseria
Mi riferisco alla lettera del signor
Lucio Cipolla di Casaleone (L’Arena, 26 settembre), nella quale egli sente la
necessità di manifestare, per correttezza d’informazione, il proprio pensiero
sugli immigrati marocchini, tunisini, rumeni, albanesi, slavi, per definirli
come portatori di delinquenza, sfruttatori della prostituzione, spacciatori di
droga, ladri e rapinatori. In primo luogo ritengo che i delinquenti non si
debbano classificare per nazionalità. I delinquenti sono delinquenti e basta e
come tali vanno puniti e sanzionati. La delinquenza è un problema d’ordine
pubblico e l’equazione immigrazione uguale delinquenza mi sembra un’affermazione
non accettabile. Sarebbe poi interessante sapere se i nostri concittadini che
«frequentano» le prostitute straniere sulle strade non si siano mai posti il
problema circa la loro nazionalità, preferendo le «nostrane» piuttosto che le
immigrate.Ritengo poi importante riflettere un po’ di più sulla storia del
Novecento. A leggere il bel libro di Alessandro Anderloni «Il prete dei
castagnari» dedicato alla vita di don Alberto Benedetti, il prete salvègo di
Ceredo, si scopre, ad esempio, che dal 1876 al 1901 partirono dall’Italia poco
meno di 3 milioni di nostri connazionali, i quali se si aggiungono gli emigrati
temporanei - parenti o familiari di coloro che erano già partiti - diventano 5
milioni! Solo dal Veneto partirono per le Americhe 2 milioni di persone. Dalla
provincia di Verona più di 80 mila uomini. Dalla Lessinia si è continuato a
partire fin dopo la Seconda guerra mondiale e per tutti gli anni Cinquanta. La
rivista di geopolitica Limes, qualche anno fa, ha stimato che la popolazione di
origine italiana nel mondo è intorno ai 60 milioni, comprendendo le persone
discendenti dagli emigrati italiani! Ma come erano trattati questi nostri
antenati? Don Alberto Benedetti scrive di essere rimasto veramente impressionato
di quello che gli disse suo padre emigrato in California nel 1914: «Là in
America gli italiani in quei decenni erano trattati peggio dei negri!». A vedere
poi il film-documentario di Gianni Amelio «Poveri noi» sull’emigrazione
italiana, si ha una conferma di come gli italiani non fossero ben accettati nei
paesi in cui emigravano. Il commento fuori campo al film recita: «Un lavoratore
su 3 è straniero perché gli svizzeri non vogliono fare più certi lavori
(minatori, domestici, sguatteri, manovali, sporchi, pericolosi, notturni».
Quando gli svizzeri si svegliano ed escono di casa avvolti nelle loro flanelle
con giacca e cravatta, commentano: «Questi italiani arrivano con il coltello»;
«sono fannulloni e incapaci»; «l’italiano non spende il denaro che guadagna»;
«io li farei andare vi tutti». Commenti non dissimili da quelli odierni di tanti
italiani nei confronti degli immigrati extracomunitari. È incredibile quindi
costatare come le società ricche (o arricchite) reagiscano sempre allo stesso
modo di fronte al fenomeno dell’immigrazione! Minaccia per l’umanità
Gli amici Monaci Benedettini ci aiutano a ricordare:S.Teresa
d'Avila.Come Marta e Maria.
Mentre il titolo della verginità è comune a tante
gloriose sante della chiesa, quello di dottore è stato conferito per la prima
volta alla santa di oggi. Ha meritato questo particolare riconoscimento in virtù
della sua sapienza umana e spirituale: una donna saggia, coraggiosamente e
costantemente proiettata alla ricerca della perfezione, un'anima mistica che
gode di profonda intimità con Cristo, una donna forte che con i suoi scritti e
le sue opere rivela doni eccezionali dello Spirito, una santa, particolarmente
illuminata che la rendono non solo riformatrice del suo ordine religioso, ma
maestra per tutta la chiesa. Il Vangelo di oggi vuol parlare di Lei
identificandola con Marta e Maria, le due sorelle di Lazzaro, amiche del Cristo,
che in modi diversi, ma con grande intensità di amore lo accolgono nella loro
casa e l'una gli presta i migliori servizi e l'altra l 'ascolta, prostrata ai
suoi piedi. Teresa D'Avila adempie nella sua vita ai due compiti, con mirabile
armonia, alternando preghiera ed azione, ma tutto orientando a Dio e alla sua
gloria. S. Paolo nella sua lettera ai Romani, ricorda che è indispensabile
l'azione dello Spirito in noi per diventare autenticamente operatori di verità e
di bene. Egli dice che lo Spirito viene in noi in aiuto alla nostra debolezza,
facendoci scoprire e sperimentare la forza di quel dono e il travaglio della
nostra natura umana per assecondarlo sempre in pienezza. (Giovanni
Zampini)
Poco dopo aver mostrato le prove del taglio illegale
di mogano, la scorsa settimana, Paulo Adario, responsabile della campagna di
Greenpeace per l'Amazzonia ha ricevuto serie minacce di morte. Greenpeace, ieri,
a Roma, come in tutte le capitali europee, ha consegnato agli ambasciatori
brasiliani una lettera in cui si chiede al governo brasiliano garanzie sulla
sicurezza di Paulo Adario e di tutti gli attivisti in Brasile e l'adozione di
misure immediate in seguito alla denuncia presentata da Greenpeace al
procuratore federale brasiliano, sulle operazioni di taglio illegale di mogano
rubato nella riserva degli indios Kayapo, in Para' (fonte:
Greenpeace)
Per questo Chiama l'Africa va rilanciata. E alla grande!
Intanto sta andando avanti, con l'aiuto e la collaborazione della Provincia
di Parma e della Regione Emilia Romagna, il Progetto di Mario Ghiretti che
realizzerà un evento particolare sull'Africa da proporre alle scuole medie
superiori. Il progetto è già a buon punto e speriamo nel giro di qualche mese di
avere pronto questo evento che sperimenteremo innanzitutto nelle scuole di Parma
e dell'Emilia Romagna, ma che poi sarà esportabile dappertutto. Come ricorderete
nella scorsa assemblea era stato deciso di portare la quota di adesione a Chiama
l'Africa da £. 500.000 a 1.000.000. Questo per tentare di mettere insieme quel
tot necessario alla sopravvivenza della segreteria. Sappiamo bene che anche
questa decisione non è sufficiente e che, quindi, è necessario rilanciare
l'adesione a Chiama l'Africa sia da parte di gruppi e associazioni, sia -
e questa è la novità - da parte di singole persone. Lanceremo nelle
prossime settimane una campagna di adesione individuale con lo slogan : «Chiama
l'Africa. Ci sto anch'io» chiedendo ai singoli di "tesserarsi" versando una
somma minima di £. 50.000 annue. Questa proposta può venire incontro anche a
quei gruppi e associazioni che fanno fatica a raggiungere la somma di 1 milione
per l'adesione. Basta trovare dieci adesioni individuali e il mezzo milione in
più è già raggiunto. Naturalmente al momento del lancio della campagna di
adesione vorremmo che tutti i gruppi che fanno riferimento in qualche modo alla
nostra campagna si impegnassero a raccogliere il maggior numero di aderenti
possibile. Per quanto riguarda il programma di lavoro, ci pare vada rilanciato
l'impegno contro le guerre dimenticate, i bambini soldato e le armi leggere. Su
questo rilanceremo al più presto in Parlamento. Cercheremo di rifare la mostra
sulle guerre dimenticate, che ha bisogno di essere rivista, per avere uno
strumento idoneo per questa campagna. Continua nel frattempo l'impegno per il
Congo dopo il viaggio a Butembo. Si sta preparando una seconda missione per il
febbraio del 2002, questa volta a Kishangani mentre nel prossimo mese di
dicembre dovrebbe aver luogo un grande momento di incontro sul tema dei diritti
umani in Africa al quale parteciperanno personalità sia europee che africane.
Per ora abbiamo la presenza certa di Joseph Ki-Zerbo, Ignacio Ramonet (direttore
di Le Monde Diplomatique), di Mario Agostinelli, Francuccio Gesualdi, e di
altri. Appena avremo la certezza della sede, vi faremo avere il programma.
Comunque tenetevi liberi dal 7 al 10 dicembre p.v. Ricordiamo che è sempre a
disposizione il sito della campagna (www.chiamafrica.it) sia per le ultime
informazioni, sia per pubblicizzare le varie iniziative che avvengono sul
territorio. Mandate tutto in segreteria (info@chiamafrica.it - fax: 0659600533) e
da qui le rilanceremo sul sito. Rilanceremo anche il foglio di collegamento, ma
questa volta «per questioni di tempo e di denaro» lo faremo quasi
esclusivamente per via informatica. Sono nel frattempo in programma incontri con
diverse associazioni, prime fra tutte i sindacati, ma anche ad esempio l'UISP
(associazione di promozione dello sport) per fare insieme nel prossimo anno
diverse iniziative sul territorio. É importante che nel 2002 si trovi una
giornata (una sorta di Africa day) in cui tutte le associazioni e tutti i gruppi
di riferimento di Chiama l'Africa facciano in quel giorno iniziative sul
territorio. Ma di questo come delle proposte precedenti, avremo modo di
discutere nella prossima assemblea, che si terrà nel mese di novembre e che
proprio perché vuole essere un'assemblea di rilancio, sarà particolarmente
importante. Nessuno dovrà mancare. Quando, alcuni anni fa, ci siamo lanciati in
questa avventura, non avremmo immaginato tutto quello che dietro ad essa è nato.
L'Africa, un po' alla volta, ha assunto una nuova fisionomia e l'interesse nei
suoi confronti è andato aumentando. In molte città nascono iniziative che si
richiamano a Chiama l'Africa, anche senza nessun rapporto diretto con la
segreteria centrale. E ciò è particolarmente significativo perché manifesta
quanto la campagna, pur con i suoi mezzi limitati, abbia fatto cultura. Oggi
siamo ad una svolta che chiede un supplemento di impegno e, diciamo così, una
sorta di colpo di reni per far fronte a questa nuova situazione. É vero che
siamo limitati. É vero che abbiamo pochi mezzi. Ma non possiamo tirarci
indietro. Comincia il bello. Buon lavoro. (Eugenio Melandri)
Vincenzo
Andraous è nato a Catania il 28-10-1954,
una figlia Yelenia che definisce la sua rivincita più grande, detenuto
nel carcere di Pavia, ristretto da ventotto anni e condannato all’ergastolo
“FINE PENA MAI”.
Da qualche tempo usufruisce di permessi premio e di lavoro esterno semilibertà
svolgendo attività di Tutor presso la Comunità “Casa Del Giovane “di Pavia.
E’impegnato in attività sociali e culturali con scuole, parrocchie, associazioni
e movimenti culturali. E’titolare di alcune rubriche mensili su riviste e
giornali, ha conseguito circa 80 premi letterari, pubblicando libri di poesia,
di saggistica sul carcere e la devianza, nonché la propria autobiografia. Ha
pubblicato: “Non mi inganno” edito da Ibiskos di Empoli; “Per una Principessa in
jeans” edito da Ibiskos di
Empoli; “Samarcanda” edito da
Cultura 2000 di Siracusa; “Avrei voluto sedurre la luna“ edito da Vicolo del
Pavone di Piacenza; “Carcere è società” edito da Vicolo del Pavone di Piacenza;
“Autobiografia di un assassino-dal buio alla rinascita” edito da Liberal di
Firenze; “Oltre il carcere” edito dal Centro Stampa della “Casa del Giovane” di
Pavia. “Oltre il carcere” è un libro che tenta di camminare sull’esperienza
dell’autore, senza per questo rimanere prigioniero della presunzione di
insegnare nulla a nessuno.Ci sono pagine che raccontano quanto avviene e spesso
non avviene all’interno del perimetro carcerario. Atteggiamenti e gesti che
vorrebbero provocare in ognuno un cambiamento per raggiungere secondo le proprie
capacità quella necessaria consapevolezza per rimediare alle ferite inferte alla
vita. Avamposti della memoria per i più giovani, sui rischi della trasgressione,
nell’affidarsi ai valori estremi delle passioni estreme, votate
all’annientamento. C’è il progetto di un percorso comunitario che può diventare
stile di vita al servizio degli altri, apprendendo l’arte dell’ascolto e della
promozione umana, attraverso l’impiego del sapere e del sentire, per una
rielaborazione delle proprie esperienze
vissute.
Ergastolo
"I
ricordi sono un plotone di esecuzione in linea di tiro”. Ergastolo, "fine pena
mai", il dazio da pagare per il male fatto agli altri, una pena che affligge,
punisce e separa dalla collettività. Una pena che sancisce la fine di un tempo
che non passa mai, un tempo che non esiste. Che non ti assolve. Ergastolo,
secoli di dolore racchiusi in anni a venire già chiusi e conclusi in se stessi,
anni di introspezione, parossismo di un'esistenza che non c'é più, oltre le
tante e troppe parole dette in fretta proprio per non dire nulla. Ergastolo;
sbarre appese alla memoria per ricordare; 30 anni di carcere scontato non sono
un'astrazione né una combine della mente, decenni su decenni di ferro
sbattuto sui rimorsi che lasciano un segno, un'apnea che restringe i polmoni e
costringe l'uomo a straripare in universi sconosciuti.
Ora dopo ora, un mondo fatto di domani che non ci sono, una negazione che rinvia
alla morte di ogni umanità, creatività e fantasia. Vorrei esser capace di
esprimere ciò che ho dentro, ciò che mi porto dentro, nella ricerca di una
dimensione che non possa coincidere solamente con la fisicità della
segregazione, o con un modello culturale basato sull'esclusione e su una
condanna che diviene alterazione del tempo e dello spazio, persino dei
sentimenti. In questo mio " fine pena mai", di tante altre storie blindate e
anonime, vissute in maniera drammatica, giorno dopo giorno, momento dopo
momento, il passato ricompone la sua trama e passato – presente - futuro, sono
lì, ben allineati nell’attimo fuggente e immobile, senza domani. Sono in carcere
da 28 anni e la scena su questo palcoscenico sotterraneo di carne e sangue, di
palpiti e slanci in avanti, repressi, é lo specchio di un qualcosa a cui nessuno
intende guardare. In
questa imposizione di un tempo vuoto, lontano, sconosciuto, definito tempo
perché convenzionalmente fa comodo così. Per mio conto e, un gradino al di sotto
di chiunque altro, ho ritrovato brandelli di me stesso scomparsi, e come nelle
foreste pluviali intagliano gli alberi per raccogliere in un secchio la gomma,
io non faccio altro che raccogliere nelle mie pagine i miei tagli. Nonostante il
carcere e questa pena che scorre circolarmente - in un inseguimento a ritroso ed
eterno - imprimo alle mie orme il senso di una capacità di partecipazione, di
accoglienza, in un sentire che sento stare in noi, perché é autentico e non
perché si é disperati. Per sfuggire gli attimi in cui ci si sente estranei tra
tanti, alienati a tal punto da non capire più nulla, da non sentire più niente,
da non riconoscere chi siamo e chi ci sta intorno, divenendo corpi morti. A
volte una cella, uno spazio chiuso fa strani effetti, ti riduce, restringe e
limita, ti spegne. Ma a fronte di questa morte annunciata, della galera cosi
com'é, c'é questo sorprendente incontro con gli altri che ci attende, c'é lo
stupore di ritrovarsi al cospetto dell'universo interiore che é in noi, il quale
ci conduce sul sottile confine che delimita la scelta di rinnovarsi, di
cambiare, ricorrendo alle proprie forze segrete, alle proprie energie
spirituali, per tentare di essere un uomo libero nonostante le catene ai polsi.
L'ergastolo che sto scontando da tanti secoli é dentro di me, lo riconosco, é un
mio compagno di viaggio, é la parte oscura di me, e con le mani in avanti per tentare un
allungo oltre la razionalità della mia colpa, divenuta un macigno che pesa sulla
coscienza, intravedo sequenze che mi scorrono sulla pelle, incidendo a sangue
ciò che sono stato, ciò che é stato. Ciò che oggi sono. Ho avuto tempo e silenzi
assordanti per pensare ai miei fantasmi, alle mie tante morti tutte in fila per
tre. Sono rimasto a lungo piegato su questa morte civile, osservando il
perimetro che mi circonda come a una macchia incolore, una specie di schema
freddo e sintetico: colpa – pena - punizione. Uno spazio essenziale, spogliato
di ogni riferimento, ove l'anima urla davvero, persino quando rischia di non
esser udita, perché soffocata dalle sue stesse grida, imprecazioni, dal suo
stesso sanguinare. Guardo all'ergastolo che mi porto addosso, al suo interno non
esiste principio né fine, né prima né dopo, cioè alcun tempo. Né sopra né sotto,
cioè alcun spazio. Una dimensione di assoluto e di niente, di vuoto e di pieno,
di peccato e di disgregante follia. Eppure esiste una linea di confine alla
ragione, é questa cella con arredi spogli, poveri, insignificanti, ma a ben
guardare, nel lungo tempo a camminare in ginocchio, divengono segni importanti,
per accorciare la distanza tra questa morte tramandata e la speranza
dell'avvenire che mi cresce dentro.
Questa condanna, così oscura, tetra, dura a tal punto da rasentare
l'incubo, fino a farti ammuffire più del tetto-cratere di questa prigione,
incontro e ritrovo un'umanità che infine vive. In questa cella dapprima
sconosciuta e nemica, ho capito che essa mi appartiene ancor più della mia colpa
che non arretra. Questo cubismo astratto, che ho trasformato in un percorso
corporale e spirituale, questo recinto - lontananza siderale dall'essere - ho
imparato ad accettarlo come mio intorno, a colorarlo con il lavoro, la poesia,
la mediazione, i rapporti umani finalmente sbocciati, mantenuti e cresciuti. Ho
scavato con le dita rotte, mi sono inerpicato sulla salita, sino a fare
diventare questo "ergastolo" un tempio, ove recuperare non solo nel trascendente
della fede, che ogni individuo professa, ma fors’anche e soprattutto su ciò che
in ciascuno incombe: la responsabilità di "ritrovare e ricostruire se
stesso". Ci sono momenti in cui il
panico mi assale, mi paralizza, mi terrorizza, nel rendermi conto di come io
abbia fatto diventare la condanna delle condanne un "mito", nel tentativo di
modificare questa dimensione disumanizzante in un luogo ancor aperto ad
alternative di conoscenza e mutamento interiore. A volte la follia, la perdita
di memoria, é una scelta individuale per non vedere, per non sentire; lo so bene
io. Ecco che allora aprire gli occhi e saperli poi abbassare, consapevole delle
mie stanchezze e lentezze, diviene un gesto, un comportamento e azione che
superano di gran lunga lo spauracchio di quel “mito” costruito a mia misura.
Sono
passato per tante notti insonni, chiedendomi quando sarebbe giunto il momento di
" esistere" a fronte dei chiavistelli. Ossessionato dalla tragedia che mi
incombe, dalle Antigoni che non mi appartengono, ho vagato per campi minati,
aggrovigliato nel filo spinato, facendomi male, in una sofferenza per lo più
amministrata, imposta e comunque mai partecipata. Mai vicina a un dolore
"vissuto in due". Appoggiandomi ai lampi di vita incendiati e dispersi ho
camminato ancora, per capire che importante "non é esserci" ma ciò che si é, ciò
che sono e devo essere, per reinventarmi una vita, un’occasione per riparare in
qualche modo a ciò che é stato.
Alle mie spalle danzano gli anni vissuti con i pugni chiusi, tento di
fuoriuscire e sospingermi avanti, al di là della gabbia che mi circonda, per
testimoniare la differenza
dell'uomo di oggi dall'uomo della condanna, dall’uomo della pena, proprio perché
in questo presente la sola libertà che conosco presuppone verità per i miei errori e amore per gli
altri. Ergastolo io lo sto scontando, nei miei nuovi impegni e nelle mie nuove
responsabilità; sebbene sottovoce mi convinco che occorre affidarsi a una pena
che sia solo un tragitto di vita, e non una mera sopravvivenza; una sofferenza
fine a se stessa. Una pena che parta dalla dignità della persona, dalle sue
capacità e risorse che, nel rispetto di una doverosa esigenza di giustizia della
vittima, ricerca e scopre nuove occasioni di riscatto e
riparazione.
«Progetto Sorriso»
è l'iniziativa di cooperazione con il Ser.Co.Ba di San Salvador avviata un
anno fa a San Bonifacio (VR). Obiettivo: fornire aiuti materiali alle
popolazioni terremotate del Salvador e, in particolare, finanziare la fornitura
di materiale sanitario (multivitaminici) e per l'igiene personale. Per
INFORMAZIONI: progettosorriso@infinito.it . Per
versare il proprio contributo ricordiamo che è possibile utilizzare il
conto corrente postale di "Progetto Sorriso - El Salvador": ccp
numero 21008305 - intestato a: Amedeo Tosi - Chiara Terlizzi. Indirizzo:
località Praissola 74/b - 37047 San Bonifacio (Verona) - Causale del versamento:
"Progetto Sorriso". Progetto Sorriso invierà tempestivamente quanto
raccolto al gruppo di appoggio "Italia-Cuscatlan" di Turbigo (Milano),
incaricato per le operazioni bancarie.
altrePAROLE Non è la prima guerra. Prima ci sono state altre guerre.Alla
fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la
povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente
ugualmente (Bertolt
Brecht)
«... Generale, l'uomo fa di tutto. Può volare e può uccidere. Ma ha un difetto: può pensare» (Bertolt Brecht)
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