Le manifestazioni di Genova sono state represse nel sangue. Un morto, 600 feriti, molti dei quali gravi, oltre 200 arrestati tra i manifestanti, 90 feriti tra le forze dell’ordine, 100 miliardi di danni stimati alla città. Genova si è rivelata una trappola, nonostante le rassicurazioni del Governo: uno schieramento imponente di polizia che non ha fermato i manifestanti violenti (i cosidetti Black Block o Tute Nere, su cui molto ci sarebbe da discutere); ma ha assalito con cariche, lacrimogeni, idranti e pestaggi agghiaccianti i manifestanti pacifici. Donne, vecchi e anche disabili sono stati dispersi in maniera brutale, moltissimi traumatizzati. Come è stato possibile che con migliaia di uomini delle forze dell’ordine poche centinaia di manifestanti siano riuscite a scorazzare per ben due giorni e mettere a ferro e fuoco una città? Ancora più inquietante è l’irruzione della polizia in assetto antisommossa nella sede del Genoa Social Forum e in un dormitorio di fortuna allestito in una scuola concessa dal comune. La polizia ha distrutto i computer sequestrando tutti i dati raccolti dal pool di avvocati del Genoa Social Forum stesso, contenenti anche le denunce di molti manifestanti riguardo alle prevaricazioni portate dalle forze dell’ordine. Il massacro della gente che dormiva è già stato ampiamente documentato: basti ricordare le terribili immagini di giovani ancora dentro il sacco a pelo che venivano trasportati sanguinanti sulle ambulanze. l Verona Social Forum, organismo di coordinamento tra varie associazioni di Verona, condanna ogni forma di violenza in quanto contraria alla libera convivenza e al rispetto dei diritti della persona. Sottolinea, inoltre, che l’informazione non ha tenuto conto delle motivazioni che hanno spinto trecentomila persone, come te, a scendere in piazza il 21 Luglio. Mostrando solo le immagini delle violenze i media hanno tentato di cancellare quasi completamente le proposte di cambiamento e di alternativa a questa economia che strozza e sfrutta ogni giorno centinaia di milioni di persone.NOI PENSIAMO CHE UN MONDO DIVERSO E MIGLIORE SIA DAVVERO POSSIBILE E TI INVITIAMO A COSTRUIRLO CON NOI. (Rete Lilliput Verona e Coordinamento laico antirazzista Cesar K)
Questo è il primo messaggio che riesco a scrivere dopo una settimana. Credo che sia perciò necessario anche scusarmi con voi. L’eccezionale "concentrazione" di eventi di questa settimana genovese ha di fatto reso evidente la nostra insufficiente organizzazione nella gestione di eventi come questo. La mancanza d’informazioni dirette è solo un aspetto di questa questione che credo faremo bene a porci per il futuro. La Rete Lilliput è stata indiscutibilmente protagonista all’interno del Genoa Social Forum e dele sue iniziative tanto che la maggior parte di noi è stata "risucchiata" dalle necessità organizzative urgenti. Il sottoscritto è stato letteralmente sommerso dall’esigenza di coordinare i lavori del Public Forum che, sia detto per inciso, è stato un pezzo importantissimo della mobilitazione contro il G8 e che è stato possibile soprattutto grazie all’impegno assoluto della Rete (non avendo però a disposizione neppure un computer nella struttura messa a disposizione è stato però impossibile render conto in diretta di questo lavoro, cercherò di farvi un resoconto complessivo entro un paio di giorni). Tutte le persone del nodo lillipuziano genovese hanno lavorato al massimo per le mobilitazioni di questa settimana (penso a Stefano Lenzi "perno" dell’ufficio stampa ad Alberto Zoratti e Chiara Malagoli impegnati nelle continue riunioni sull’organizzazione delle mobilitazioni comuni del Genoa Social Forum ed in quelle specifiche dei lillipuziani e dei gruppi d’affinità per le azioni dirette nonviolente a tutti i lillipuziani genovesi sommersi dalle necessità organizzative del Forum e delle manifestazioni, a Valerio impegnato a tenere il minimo di contatti indispensabili per le manifestazioni). Mi consolo solo il fatto che l’abbondante cronaca uscita in queste settimane sui giornali abbia riflesso, tutto sommato, abbastanza fedelmente quello che stava accadendo a Genova. E’ però sicuro che anche nel corso delle mobilitazioni di piazza è emersa una nostra difficoltà ad organizzarsi, a far circolare le informazioni, a prendere decisioni in tempo rapido. E’ questo un aspetto da tenere sicuramente in considerazione per il futuro. Abbiamo bisogno di una maggiore organizzazione della rete, di migliori canali di comunicazione, di dedicare più energie e competenze al lavoro interno di discussione, decisione e collegamento.
La"violenza"
Dopo una lunghissima e difficile discussione tra le varie componenti del Genoa Social Forum su come fosse possibile manifestare a Genova in maniera determinata ma senza violenza gli ultimi due giorni delle mobilitazioni genovesi sono invece stati segnati dalle violenze degli altri. Per chi ha vissuto direttamente le giornate del 20 e del 21 non ci possono infatti essere dubbi che la terribile violenza scatenatesi a Genova è stata subita dal GSF, anzi ha avuto come principale obiettivo proprio la distruzione delle mobilitazioni che in questi mesi avevamo messo in piedi. Su questo non possono esserci dubbi. Ho ancora negli occhi il fumo dei lacrimogeni e l’immagine dei tanti lillipuziani caricati dalla polizia a Piazza Manin (dove tutti assieme avevamo costruito la nostra "piazza tematica") mentre a mani alzate eravamo quasi riusciti ad impedire ai black block d’invadere la nostra zona. Risultato della giornata una carica ed un bel po’ di manganellate ai lillipuziani, un difficilissimo rientro al luogo d’incontro a Piazzale Kennedy, mentre i black continuavano a far ciò che volevano in città. Come non ricordare ancora il lungo spezzone del corteo del 21 caricato pesantemente dalla polizia sulla salita di fronte al mare mentre lo spezzone più consistente della Rete aveva appena fatto in tempo a deviare in fretta e furia fra il fumo dei lacrimogeni o l’incredibile scena da "deportazione cilena" a cui ho assistito sabato sera mentre un centinaio di poliziotti e carabinieri impedivano l’accesso alla scuola di fronte all’ufficio stampa del Genoa Social Forum dal quale continuavano ad uscire persone selvaggiamente picchiate e caricate in fretta e furia sulle ambulanze? E’ importante ricordare che né nel giorno del 20, né nella difficilissima giornata del 21 la violenza è scaturita dalle manifestazioni organizzate dal Genoa Social Forum. Ma certo rimane il problema politico vero: al di là delle provocazioni ed infiltrazioni della polizia, della sicura presenza all’interno del blocco nero di pezzi dei movimenti fascisti, come è possibile difendersi dalla violenza gratuita di chi crede che la propria protesta si esprima semplicemente nel devastare ogni cosa e che, fatalmente, considera chi organizza una protesta politica contro la globalizzazione come il proprio vero nemico, senza dover per questo abbandonare la piazza e le mobilitazioni di massa per colpa di qualche migliaio di persone organizzate scientificamente nel distruggere tutto? E’ indiscutibile che la grande partecipazione di massa al corteo del 21 (nonostante le terribili violenze culminate nella morte di una persona il giorno prima) esprime, oltre all’adesione ideale all’idea di una diversa globalizzazione, la voglia di "riprendersi le piazze" di un movimento forse strutturalmente debole e scarsamente organizzato ma ricco d’ideali politici e di voglia di partecipare. E’ perciò un compito assolutamente necessario trovare le forme possibili per esprimere questa voglia di "contare" senza incorrere nella violenza di venerdì e sabato scorso.E’ sicuramente un problema nostro (i lillipuziani non possono essere ridotti al silenzio) ma anche di tante altre realtà del Genoa Social Forum che in questi anni hanno pensato di poter "organizzare" ed "indirizzare" una certa dose di violenza all’interno delle proprie forme di mobilitazione (penso ad esempio all’universo dei centri sociali e dei cobas).Penso che rivendicando radicalmente il diritto di manifestare e di violare certi divieti a Genova durante il vertice abbiamo condotto assieme una grande operazione politica i cui risultati in questi mesi si sono visti. Ma l’impermeabilità di istituzioni internazionali come il G8 (avete notato la scelta del paesino sperduto in Canada per il prossimo vertice G8 che fa il paio con il Quatar del WTO?) rende indispensabile continuare a pensare ad una strategia di mobilitazioni di piazza che però non possono più essere realizzate al costo delle violenze subite e dei rischi ancora maggiori che abbiamo corso sabato. Fra l’abbandono del "conflitto" di piazza e l’eccessiva ostentazione di una "violenza controllata" (ma che controllare realmente è sempre più impossibile) deve esistere un’altra alternativa ed è un preciso compito politico necessario saperla trovare. Si tratta in un certo senso di reinventare una strategia nonviolenta che non sia né "rassegnazione", né semplice rifiuto della violenza come scelta individuale ma sappia comunque organizzare le persone per resistere alla violenza strutturale di questa globalizzazione. Che ne direste di dare finalmente avvio a quel percorso di ricerca sulla nonviolenza che a Marina di Massa intuimmo come necessario ma a cui non abbiamo mai dato corso se non come discussione teorica? Mi sembra invece che la mobilitazione di Genova segni concretamente la necessità "pratica" d’individuare un nuovo percorso fattibile.
Il Genoa Social Forum
Credo che potremmo scrivere a lungo sul paradosso per cui una struttura evidentemente debolissima dal punto di vista organizzativo e con notevoli differenze al proprio interno come il Genoa Social Forum sia riuscita ad innescare un dibattito politico così forte ed importante come quello in cui abbiamo assistito in queste settimane a proposito del G8.
Restano per me alcuni dati di fatto essenziali:
Da ultimo un saluto a tutti i lillipuziani che hanno partecipato alle manifestazioni genovesi ed un abbraccio particolare (senza nessuna retorica) a tutti quelli che sono stati coinvolti nelle cariche della polizia pagando con la paura o con le ferite il prezzo di una democrazia sempre più difficile.Un ringraziamento particolare anche a tutti gli amici genovesi per l’incredibile mole di lavoro svolto. Fabio Lucchesi (Rete Lilliput)
Stefano Agnoletto (GSF)
Cari amici, allora io ero a Genova. Io ho visto. Non date
retta ai giornali ed ai telegiornali. E' stata una cosa pazzesca, un massacro.
E' difficile raccontare cio' che e' avventuto tra venerdi' e sabato. Per farlo
mi aiuto con quello che ho visto io e quello che hanno visto altri carissimi
amici presenti a Genova. Vi prego di avere la pazienza di leggere e' veramente
la cronaca di un incubo che difficilmente sentirete sui grandi mass
media.
1.Io arrivo Giovedi' a Genova dopo la festosa
manifestazionedei migranti, 50.000 persone. Ci sono i campi di raccolta, siamo
tantissimi. Migliaia di persone assolutamente pacifiche, un clima meraviglioso
(vi ricordate i campi scout?) si discuteva si cantava si stava bene
insieme. Scout e militanti, volontari e professionisti e venerdi' mattina
iniziamo le piazze tematiche in una citta' blindata:le varie associazioni si
troveranno sparse nella citta' per fare un assedio festoso con danze,
performance e slogan alla famosa linea rossa. A questo punto sul lungo mare
arriva il famoso blak blok, alcuni di loro vengono visti parlare con la polizia,
altri direttamente escono dalle loro fila.Parlano soprattutto tedesco.
Iniziano a sfasciare tutto. Polizia e carabinieri stanno fermi. I Black block
cercano di infilarsi nel corteo dei lavoratori aderenti ai COBAS e altri
sindacati, di cui picchiano uno dei leader, vengono respinti a fatica. Poi
i black blok puntano sulla prima piazza tematica (centri sociali), piombano
armati fino ai denti. La polizia li insegue, i manifestanti si trovano attaccati
prima dai black e poi dalla polizia che a quel punto inzia le cariche
violentissime. I Black se ne vanno e piombano sulla piazza dove c'era la rete di
Lilliput (commercio equo, gruppi cattolici di base, Mani Tese..ecc.). La gente
facendo resistenza pacifica cerca di allontanarli. La polizia insegue:
carica la piazza. La gente alza le mani grida pace! Volano lacrimogeni
manganellate. Ci sono feriti. I Black se ne vanno e continuano a distruggere la
città... 300-400 del Black Bloc vagano per Genova, chi li guida conosce
perfetttamente la citta': il loro percorso di distruzione punta a raggiungere
tutte le piazze tematiche dove ci sono le iniziative del movimento.. E'
impressionante. Si muovono militarmente, si infiltrano, i capi gridano ordini,
gli altri agiscono. E a ruota arrivano polizia e carabinieri. Intanto nella
piazza tematica dove c'e' l'ARCI e l'Associazione Attac ecc.: tutto va bene, nel
primo pomeriggio si decide di andarsene dal confine con la linea rossa fino ad
allora assediata con canti, scenette, ecc. La gente sfolla verso Piazza Dante,
la polizia improvvisamente lancia lacrimogeni alle spalle,. Fuggi fuggi
generale. Gli ospedali si riempiono di feriti. Molti pero' non vanno a farsi
medicare in ospedale: la polizia ferma tutti quelli che ci arrivano. E' sera. La
gente e' sconvolta, molti inziano a essere presi dalla rabbia. Dei black
improvvisamente non si ha piu' notizia. Alla cittadella dove c'e' il
ritrovo del Genoa Social Forum saremo diecimila.E' arrivata la notizia della
morte del ragazzo.
C'e' paura, i racconti di pestaggi violentissimi si
moltiplicano. Ragazzi e suore che piangono. C'e' un sacco di gente ferita. Un
anziano che piange con una benda in testa, è un pensionato metalmeccanico. C'e'
Don Gallo della Comunita' di San Benedetto. C'e' la mamma leader delle Madri di
Plaza de Mayo in Argentina, quelle che da anni cercano notizie dei loro figli
desaparecidos: dice che e' sconvolta per quello che ha visto con i suoi occhi,
gli ricordano troppo l'Argentina della dittatura: non pensava fosse possibile in
Italia. Intervengono mio fratello, Luca Casarini delle tute bianche e Bertinotti
(l'unico politico che ha avuto il coraggio di correre ) calmano tutti: ragazzi
non uscite in piccoli gruppi, non accettate la sfida della violenza. Si decide
che la risposta sara' la grande manifestazione del giorno dopo, saremo in
tantissimi, pacificamente contro tutte le provocazioni e le violenze di black
block e forze dell'ordine. Il senatore Malabarba racconta che e' stato in
questura. Ha trovato strani personaggi vestiti da manifestanti, parlano tedesco
ed altre lingue straniere. Confabulano con la polizia e poi escono dalla
questura. Scoppia improvvisamente un incendio in una banca vicino alla
cittadella. Gli elicotteri ci sono sopra: per piu' di 40 minuti non arriva ne'
pompieri ne' niente. Di notte uno dei campi dove siamo a dormire, il Carlini,
viene circondato dalla polizia. Entrate a perquisire, fate quello che volete. La
gente piange: implorano di non essere ancora caricati. La polizia entra: nel
campo non trova niente.
2. Sabato: la grande manifestazione, siamo
veramente una moltitudine. Il corteo parte, ci sono mille colori. Gente di tutto
il mondo. Tutte le associazioni, il volontariato, i contadini, i metalmeccanici,
i curdi, ....ecc. Canti, danze, mille bandiere. Piazzale Kennedy. Non ci
sono scontri. Non c'e' niente. Sbucano i black Block La polizia improvvisamente,
senza alcun motivo, spacca in due l'enorme manifestazione. . Si scatena la
guerra. Cariche dovunque, manganellate. Sono impazziti. La polizia carica i
metalmeccanici della FIOM, i giovani di Rifondazione. Iniziano inseguimenti per
tutta Genova. Chi rimane solo è inseguito, picchiato. Decine di persone
testimoniano di inseguimenti e pestaggi solo perche' riconosciuti come
manifestanti. E' picchiato dalla polizia un giornalista del Sunday Times (sul
numero di oggi racconta la sua avventura...) In un punto tranquillo della
manifestazione, sul lungomare, improvvisamente da un tetto vengono sparati
lacrimogeni che creano panico. Usano gas irritanti, producono dermatiti, non
fanno respirare. I Black Bloc? compaiono e scompaiono, nessuno li ferma.
Attaccano un ragazzo di Rifondazione. Gli spaccano la bandiera e lo picchiano.
Attaccano a pietrate i portavoce del Genoa Social Forum. Spaccano vetrine ed
incendiano. Sono armati fino ai denti: ma come ci sono arrivati nella Genova
blindatissima? La testa della grande manifestazione è tranquilla, il Genoa
Social Forum fa l'appello di defluire con calma, di non girare da soli per la
citta'. Veniamo indirizzati verso Marassi dove ci sono i pulman di quelli
arrivati la mattina. Siamo fermi li'. Non si puo' andare avanti: a piazzale
Kennedy e' guerra. Siamo in tanti fermi, seduti per terra. Improvvisamente
partono i lacrimogeni. Fuggi fuggi generale. Si cerca di tornare verso la
cittadella del Genoa Social Forum: passano camionette della polizia da dove
urlano: vi ammazzeremo tutti! La seconda parte del corteo non arriverà mai
alla piazza dove era prevista la conclusione. Tutte le persone vengono caricate
indistintamente sul lungo mare. Chi riesce scappa nei vicoli verso la collina,
dove si scatena una vera e propria caccia all'uomo. Sabato notte, la
manifestazione era ormai finita da alcune ore, la polizia irrompe nella Sede
stampa del Genoa Social Forum. Picchiano tutti con una violenza impressionante.
In particolare sono interessati alla documentazione (testimonianze, video,
foto...ecc.) che raccontano quello avvenuto tra venerdi' e sabato: sono molti
attenti a distruggere tutto. Vengono distrutti tutti i PC e tutto il materiale
che trovano, viene arrestato l'avvocato che coordina il gruppo di avvocati
presenti a Genova. Viene distrutto o portato via anche tutto il materiale che
gli avvocati avevano raccolto per difendere le persone arrestate. Adesso non si
sa piu' neanche quante sono e quali sono le accuse. Durante la perquisizione,
fatta senza alcun mandato, a parlamentari, avvocati, giornalisti e medici e'
impedito di entrare. Le famose armi comparse oggi in conferenza stampa ieri non
si erano viste....rimangono i feriti e gli arrestati. Del black blok non si sa
piu' niente.
Vi assicuro, due giorni da incubo: black block e forze
dell'ordine hanno fatto un massacro e volevano farlo. Poliziotti e
carabinieri erano stati montati in modo pazzesco, fin da venerdi' mattina
urlavano e insultavano.. Gli hanno veramente lavato il cervello. E poi oggi a
sentire televisioni e leggere giornali: Dio mio sembra proprio un regime:
dove hanno scritto la verita' che tutti noi che eravamo li' abbiamo visto?
Divento poi matto a pensare che alcuni potranno ancora pensare: "voi
contestatori, dite le solite cazzate..." Non fatevi imbrogliare, abbiate il
coraggio di mettere in discussione i vostri convincimenti sulle meravigliose
forze dell'ordine italiane e sugli apparati democratici del nostro
Stato.
A Genova veramente e' avvenuto qualcosa di pazzesco.
Hanno
inaugurato il nuovo governo....
Un'altra piccola cosa: sul giovane ammazzato.
La sapete la prima versione della questura prima che comparissero i video?
ammazzato da un sasso lanciato da altri manifestanti.. Se pensate che molta
della documentazione raccolta da testimoni e' stata distrutta dopo l'irruzione
alla sede del Genoa Social Forum di questa notte....ci rimangono le "sicure"
versioni delle forze dell'ordine...
Meditate e per favore fate girare,
stampate, parlate, c'e' bisogno di raccontare la verita'. A vostri amici,
parenti, colleghi di lavoro. Vi prego non voltatevi dall'altra parte. Grazie
(Stefano Agnoletto)
PS:Mio fratello e' distrutto, mi ha detto: è pazzesco,
sembra di essere nell' America Latina negli anni 70. Forse neanche lui aveva
capito fino in fondo con chi aveva a che fare e che governo e responsabili
delle forze dell'ordine potessero arrivare a tanto.
Andrea e Marina (Verona)
"Io e mia moglie siamo andati sabato 21 lug. a Genova. Ci siamo sentiti la sera prima con dei nostri amici preoccupati dai fatti accaduti. Eravano indecisi se partire o meno. Alla fine siamo partiti. Sapevamo che potevamo rischiare e putroppo alla fine abbiamo rischiato. Ci siamo trovati in mezzo ai lacrimogeni più di una volta senza volerlo. Sottolineo senza volerlo perché eravamo nel corteo dei manifestanti con la Rete Lilliput di Verona. Purtroppo tra di noi abbiamo visto persone dei gruppi più estremisti attrezzate allo scontro e soprattutto lasciate libere di attrezzarsi. Gli scontri sono stati inevitabili molto probabilmente voluti anche da chi stava dall'altra parte a difendere il diritto dei governanti a riunirsi ma non il diritto di manifestare di chi pacificamente voleva dire la sua. I manifestanti pacifici si sono trovati di fatto ad essere messi in mezzo senza alcuna tutela. In quei momenti c'erano solo due fazioni contrapposte in uno stato di guerriglia mentre i "grandi" tranquillamente si scambiavano convenevoli raggiungendo accordi per lo più di facciata seduti nelle loro poltrone. Credo che ognuno di noi non lo rifarebbe. Essere lì a rischiare di prenderle solo perchè si faceva parte del gruppo dei manifestanti é stato avvilente. I messaggi che maggiormente sono passati per lo più li conosciamo tutti. Le frasi che senti dalla gente sono del tipo sono tutti violenti, anarchici, che non hanno voglia di lavorare... Dei contenuti invece se ne è parlato poco. Ed è invece lì la grande sfida e il percorso che dobbiamo fare tutti noi pur con i nostri limiti e condizionamenti. Non basta secondo me fare slogan e manifestazioni sebbene importanti. Lo stesso essere non violenti richiederebbe un approfondimento (non violenza é anche verbale). Forse comunque al di là di tutto è iniziato un cammino di persone sempre più numerose che hanno un credo comune e che iniziano ad esporsi. La scena più bella che ho visto quasi a simbolo di speranza é l'immagine di un bambino piccolo che in braccio probabilmente alla sua baby-sitter da un palazzo di Genova salutava il gruppo dei manifestanti i quali tutti a loro volta entusiasti e inteneriti ricambiavano il saluto. Quel bambino forse ci guardava pieno di fiducia e di speranza ... "
Ormezzano
Voleva soltanto filmare le manifestazioni. E' stato
arrestato e pestato a sangue. Contro di lui, soltanto un verbale-fotocopia.
Dice di aver perso i suoi ideali, io li ho ritrovati. Un minuto dopo
essere uscito dal carcere di Pavia, liberato da un magistrato genovese
che non ha creduto all'atto di accusa stilato in fotocopia per
tanti, resistenza e lesione a pubblico ufficiale durante la
contestazione al G8, e che non ha neppure convalidato l'arresto,
mio figlio ha disobbedito a me ed a sua madre. Gli avevo chiesto di farmi
vedere tutte le ferite coperte dagli abiti, mi ha detto di no, dovevo
"accontentarmi" dello scempio visibilissimo sul viso, otto punti
al sopracciglio, un occhio circondato dal viola dell'ecchimosi e
invaso dal sangue, il labbro rotto, e della visione della schiena,
piagata dalle manganellate e dai colpi calati col calcio del fucile. Oh,
si vedevano anche i segni delle manette che gli erano state strette
troppo fortemente ai polsi, ma dire manette è un errore, il termine
tecnico è un altro che lui sa e io no, sono specie di ceppi che segnano
la carne. I pantaloni scendevano perchè la cintura non c'era
più, era stata sfilata di brutto all'ingresso in cella, rompendo tutti
i passanti, e si vedeva qualcosa delle mutande piene di sangue. Però
lui non ci ha lasciato vedere tutto, non voleva farci del
male con quello "spettacolo". Erano le 19 di lunedì. Settantacinque
ore prima mio figlio, che ha 26 anni ed è creatura gentile, tenera,
prudente sino ad essere paurosetta, massima esplosione di esuberanza
fisica il tifo urlato e cantato per il suo e mio Toro, aveva compiuto
il grave errore di partire con amici da una località di mare in
provincia di Savona per andare a Genova e filmare - lui che studia
anche giornalismo televisivo a Torino e mette insieme
documentari assortiti - qualcosa del Genoa
Social Forum, della contestazione contro il G8. Filmare e
basta, cercando immagini di protesta corale e coreografica,
filmare accanto a un gruppo di vecchie signore che vendevano
magliette-ricordo. Una carica dura delle forze dell'ordine, è la zona dove
è stato appena ucciso quel ragazzo, le signore alzano le mani, i suoi
amici scappano, lui non può perchè cercando di allontanarsi si
inciampa, cade, resta in ginocchio, a mani alzate. Gli piombano
addosso, quelli delle forze dell'ordine, e gli spaccano la
telecamera e la faccia, gli tatuano la schiena, gli martoriano
tutto il corpo. Tanti vedono, nessuno può intervenire. Se lo disputano come
ricettacolo di colpi poliziotti e carabinieri: ad un certo punto lui
si trova con una mano nella manetta di un agente, l'altra nella
manetta di un carabiniere. Implora una scelta, mica possono
squartarlo. Se lo aggiudicano i carabinieri, che lo portano via, gli dicono
che un loro commilitone è stato ucciso, in una caserma, questo sarà lo
spunto per altri pestaggi, stavolta specialmente con calci. C'è anche il
passaggio in un ospedale per una medicazione, fra medici
sbalorditi, indignati. Poi - ormai è notte - via su un torpedone verso il
carcere di Pavia, la cella di isolamento: la richiesta di poter
orinare prima del viaggio viene respinta con un pugno sul viso ferito e
invito al fachirismo o al farsela addosso, comunque unica violenza fisica
da parte della polizia penitenziaria. Poi la prigione, senza ora
d'aria, con poco cibo e l'acqua calda del rubinetto. Passa tutto
il sabato, passa tutta la domenica. Tocca agli infermieri del carcere
inorridire per le ferite da medicare. Al lunedì mattina la decisione del
magistrato, sollecitato da un bravo avvocato che sa smontare le accuse
inventate sul verbale in fotocopia, come quella di detenere uno scudo
in plastica, vistoso e imbarazzante, ancorchè strumento di difesa, non di
offesa, ma inesistente, inventato. Fra la decisione del magistrato e
la scarcerazione passano sei ore per le cosiddette
pratiche burocratiche. Sei ore di vita libera tolte ad un ragazzo
pienamente scagionato. Sei ore di attesa per noi nel forno davanti al
carcere. E' uscito senza la telecamera ed uno zainetto, spariti. Gli hanno
ridato il telefonino, lo aveva in tasca, è stato distrutto dalle manganellate.
Ho saputo venerdì nella notte, da una telefonata dei carabinieri, che era
in arresto e "stava benissimo". Non mi hannno detto altro. Mi sono
precipitato a Genova, comunque. Era l'alba di sabato, telefonando ai
carabinieri ho saputo che ero stato stupido a mettermi in
viaggio, chissà dove era mia figlio, Mi hanno detto comunque di un
avvocato di ufficio, nome e cognome: ma al telefono c'era soltanto una
voce meccanica. Ho trovato aiuti da giornalisti amici, ho trovato un bravo
avvocato, la procura di Genova era aperta e collaborativa, ho saputo
del trasferimento a Pavia. Ho goduto della posizione di giornalista per
rintracciare qualche informazione, molta solidarietà. Ed anche per essere
allenato a come avrei visto mio figlio: colleghi esperti mi hanno detto, sì, di
prepararmi a vederlo conciato male. Ma nonostante tutto da venerdì notte alla
fine della giornata di lunedì ho vissuto una situazione da "Missing",
il film americano sulla tragedia del Cile ma anche sull'angoscia che ti
prende quando sai poco o nulla di una persona cara portata via, nella mio
angosciata particolare esperienza di immaginarti il figlio con le sue
ferite, per anestetizzarti all'impatto (non servirà a nulla, sarà
comunque una cosa tremenda).
Un bravo magistrato ha interrogato,
eseguito riscontri, ascoltato testimonianze, e non ha creduto alle accuse a mio
figlio elencate in un verbale che pareva proprio prestampato, eguale per tanti,
ha creduto al racconto dolente ed angosciato di un ragazzo nonostante tutto
più stupito che indignato, più sereno che dolente. Nella giornata passata
fuori dal carcere di Pavia ho parlato con tantissimi parenti e amici di
altri di quei provvisori desaparecidos. Ho visto uscire dal carcere
altri ragazzi coperti di ferite. Ho potuto anche pensare che a mio figlio è
andata bene, non è stato colpito alla pancia, ha avuto un avvocato solerte, ha
trovato i suoi genitori fuori dal carcere ad aspettarlo, nei limiti del
possibile confortarlo. Una parlamentare che ha visitato il carcere ha
parlato a noi in attesa di ragazzi feriti, distrutti, piangenti,
brutalizzati direttamente dai colpi presi, indirettamente dalla situazione
kafkiana dell'isolamento. Lui mi ha detto che le visite di parlamentari e
consiglieri regionali sono state un balsamo comunque, per quel poter
parlare serenamente di qualcosa con qualcuno, senza prendere colpi e ricevere
insulti (una bella - cioè orribile - antologia, quella delle aggressioni verbali
in pratica continue, l'ha messa per iscritto quando in carcere ha avuto una
penna e qualche foglio, c'è davvero tutto per umiliare uno che patisce anche le
parole). Ho provato a chiedermi, da democratico assoluto, disperato, se proprio
non è possibile ad un cittadino filmare della sua Italia, oltre che i monumenti
e i tramonti e le feste di famiglia, anche una manifestazione di protesta senza
dover essere brutalizzato, ridotto ad un manichino sanguinolento, sfregiato sul
viso per sempre, da forze dell'ordine violente con i deboli e impotenti di
fronte ai veri violenti, visibilissimi, colpibilissimi, le tute nere, nella
fattispecie di Genova. Cercherò di saperlo per vie legali, confido nella legge.
Mio figlio mi ha detto - spero perchè ferito ed umiliato, non perchè
definitivamente portato ad una scelta - che rinuncia agli ideali. Ma non ci
credo. E comunque ha rifornito di ideali me.
Tiziana Valpiana (deputata)
Ho partecipato assieme a 300.000 persone, a migliaia di iscritti a Rifondazione Comunista, all'intero gruppo parlamentare e alla direzione del partito alle manifestazioni di Genova contro il G8 e oggi, the day after, piena di dolore e di rabbia come cittadina che non si adatta a pensare che poche persone si arroghino il diritto di decidere i destini del mondo, come mamma di una figlia dell'età di Carlo, come parlamentare che vede con preoccupazione il proprio Paese scivolare su una china autoritaria voglio testimoniare quanto ho visto e vissuto in queste giornate 'cilene' e aggiungere, come farò in Parlamento quando il Ministro dell'Interno Scajola verrà a riferire (e non deve dimenticare che parlamentari comunisti, verdi e Ds erano tra la folla e non accetteranno giustificazioni a posteriori ai comportamenti violenti e irresponsabili delle forze dell'ordine), la denuncia personale delle violazioni dei più elementari diritti e delle regole della convivenza civile cui ho assistito in prima persona. Raggiungo i cortei attraverso quartieri periferici devastati: macchine rovesciate, cassonetti di traverso nelle strade, negozi bruciati… Ma che succede? Da mesi il GSF ha dichiarato pubblicamente che i suoi manifestanti non compiranno alcun atto di violenza e che rispetteranno la città e le persone, le forze dell'ordine hanno schierato mezzi e uomini senza precedenti, i controlli sono e sono stati ferrei, la polizia è ovunque. Di fronte a Piazzale Kennedy assisto, spaventata, a uno di questi assalti: il gruppetto è piccolissimo, la violenza devastante, tutto in pochi minuti viene distrutto e bruciato, senza alcun intervento. Solo quando mi sto allontanando per l'impossibilità di respirare per il troppo fumo nero, arriva un'autopompa dei vigili del fuoco, lasciando ai ragazzi dai volti coperti tutto il tempo di andarsene indisturbati. Come hanno fatto questi black blockers a eludere i controlli alle frontiere, come possono continuare a distruggere indisturbati tutto ciò che incontrano? Sono contestatori radicali, provocatori, 'complici' o strumenti di chi vuole distruggere la voce del movimento contro la globalizzazione? A poco a poco la risposta, purtroppo, mi si rende evidente. La violenza gratuita di frange armate estranee al GSF e stranamente lasciate entrare nel nostro Paese, libere di scorrazzare e devastare delegittimano tutto il movimento e danno il pretesto per intervenire più brutalmente che mai nei confronti di tutti, senza fare distinzioni di sorta e intorbidire, stravolgere, manipolare, nascondere le idee, le ragioni, i messaggi e le proposte del movimento davanti all'opinione pubblica. Hanno lasciato spazio a una spirale di violenza per delegittimare l'intero movimento pacifista, per cancellare una straordinaria mobilitazione nonviolenta. L'epilogo tragico, la città messa a ferro e fuoco, la caccia al manifestante nei vicoli e sul lungomare sono frutto dell'incapacità e dell'improvvisazione o risultati cercati con metodo? Anch'io, come tutti i presenti a Genova, posso testimoniare che in alcune occasioni le forze dell'ordine (potremo ancora chiamarle così?) hanno lasciato agire indisturbati i violenti o, addirittura, non hanno minimamente cercato di impedire che si infiltrassero nei cortei per poter poi usare lacrimogeni e violenza alla cieca, travolgendo persone volontariamente inermi, con le mani alzate o seduti a terra. E' un caso o un calcolo che nella jeep da cui sono partiti i colpi che hanno assassinato Carlo vi fossero militari di leva giovanissimi e inesperti, anziché professionisti in grado di affrontare situazioni d'emergenza? Di fronte allo sbandamento per una violenza superiore a quanto mai ci saremmo aspettati, l'assemblea tragica seguita all'assassinio di Carlo riesce, nonostante tutto, ad arginare la inefficace ma comprensibile tentazione di alcuni di 'rispondere' e a confermare per sabato una grande manifestazione assolutamente pacifica. Gli avvocati del GSF contattano i parlamentari: molti sono stati i fermati, è stato loro impedito di incontrare gli avvocati e bisognerebbe capire che fine hanno fatto. In una decina ci rechiamo dal questore con un elenco di 'desaparecidos' per chiederne notizie. Anche qui restiamo completamente spiazzati da un atteggiamento del tutto inedito: il questore ci fa rispondere che non ci riceve. Decidiamo di restare perché abbiamo il diritto, come rappresentanti del popolo, di essere ascoltati, ma solo dopo un'ora di anticamera mi viene l'idea di telefonare al Ministro dell'interno per denunciare questo rifiuto. "Ci penso subito io" e, dopo pochissimi minuti, ecco apparire il questore disponibile all'incontro, assieme al vice capo della polizia Andreassi, tesi e imbarazzati per la figuraccia rimediata, ma anche per non essere in grado di darci notizie certe sui nomi dei fermati, per non saper riconoscere da dove vengano i bossoli che abbiamo raccolto per terra, per dover ammettere di non essere stati in grado di fermare i -secondo loro- 3000 black block presenti in città che hanno dato vita a centinaia di focolai. L'incontro si conclude con promesse per l'indomani: la strategia sarà modificata e tutto filerà liscio perché è chiaro anche a loro che la stragrande maggioranza dei manifestanti è pacifica e che il diritto a manifestare va comunque tutelato. La manifestazione sabato mattina è imponente: le 300.000 presenze ci rassicurano, ma, appena partito il corteo, al lancio di un sasso da un'altura fuori dal percorso, la polizia risponde con il lancio di un lacrimogeno che si ferma ai nostri piedi, nelle prime fila dei responsabili del GSF, dei parlamentari, del servizio d'ordine. Non è un buon auspicio, ma il corteo parte, forte della determinazione di tutti a manifestare in pace. Di polizia neanche l'ombra, eppure in migliaia di manifestazioni di dimensioni estremamente più ridotte siamo abituati a sentirci 'scortati' da chi un po' ci controlla e un po' ci protegge. Dopo una giornata tragica come quella di ieri, invece, niente: nessun cordone a gestire una massa così imponente, per impedire che si infiltrino elementi estranei di disturbo, per proteggere da possibili incursioni laterali… Decidiamo di sfilare velocemente per dare spazio alle migliaia e migliaia di persone che premono, siamo veramente ansiosi di arrivare alla meta, di sapere che tutto è filato liscio. Ma le notizie che ci giungono sono di continue interruzioni del corteo, di irruzioni, di assalti delle forze dell'ordine contro la manifestazione per l'ingresso di elementi estranei e incappucciati che la polizia stessa aveva spinto inseguendoli verso il corteo. Fumogeni, lacrimogeni, idranti, manganelli, inseguimenti: senza un perché, senza un motivo scatenante. Solo violenza cieca e devastante. Siamo ormai in Corso Torino, verso la fine del percorso, quando ci troviamo di fronte gruppi di incappucciati armati di mazze e bocce di ferro e, subito dopo, il cavalcavia della ferrovia sotto il quale dovremo infilarci, al di là uno spiegamento di poliziotti in assetto di guerra. Non ci sentiamo di imbottigliare lì dentro centinaia di migliaia di persone per non cadere nella trappola di scontri con i violenti che fornirebbero l'alibi a interventi per ristabilire 'l'ordine'. Decidiamo di sederci a terra e non proseguire fino a che non avremo garanzie che il corteo possa procedere indisturbato oltre quell'imbuto (ma chi ha pensato il percorso?) Ebe Bonafini, leader della Madri argentine di Piazza di Maggio, José Bové, don Vitaliano della Sala, Vittorio Agnoletto, il sindaco di Porto Alegre e tutti i parlamentari presenti nella prima fila del corteo si siedono a terra, imitati dalle file successive, ma sappiamo di non poter restare per molto, considerata la moltitudine che preme alle nostre spalle. Così chiamo il numero della Digos che il questore ci aveva lasciato la sera prima per le emergenze. La risposta è agghiacciante: se non potete proseguire disperdetevi, quasi fosse semplice disperdere 300.000 persone, volatilizzarle. Insistiamo per un incontro, la risposta è disarmante: "non sono pratico di Genova (la perfetta efficienza delle forze dell'ordine era stata più volte garantita dal Governo in Parlamento!), se volete parlarmi venite voi". A un momento di smarrimento (c'è o ci fa? Per quale motivo vogliono il disordine?) segue immediatamente la necessità di dare uno sbocco al corteo che preme e in 5 parlamentari più il portavoce Agnoletto ci avviamo, attraversando con tranquillità almeno apparente lo sbarramento dei black block armati, dentro il tunnel alla fine del quale finalmente parliamo con un responsabile che riusciamo a convincere a spostare macchine e uomini alla testa del corteo per garantirne il proseguimento. Macchine e blindati arrivano 'sgommando' e con fare 'rambesco' si pongono alla nostra testa: è inevitabile che dal corteo partano al loro indirizzo grida 'assassini' e non solo per Carlo, ma per tutto un comportamento incomprensibile che lascia ai responsabili del corteo compiti di ordine pubblico che spetterebbero alla polizia che, intanto, fomenta e profitta del disordine per colpire violentemente alla cieca chi capita. Così nell'ultimo mezzo chilometro abbiamo finalmente chi ci apre la strada come avrebbe dovuto fare fin dal mattino. Ma i problemi non sono finiti: la piazza dove termina la manifestazione è assolutamente insufficiente ad accogliere tutti i partecipanti: ma chi l'ha scelta sapeva in anticipo che alcuni spezzoni non sarebbero mai arrivati perché ricacciati indietro e fatti fuggire dalla furia cieca di poliziotti ed elicotteri utilizzati per disperderli? Il tesserino di parlamentare mi consente l'ingresso nella "zona rossa" e decido di rendermi conto di cosa succede anche lì: per potersi riunire, scavalcando le istituzioni internazionali competenti e legittimate, gli 8 capi dei governi dei paesi più ricchi e potenti del pianeta hanno dovuto desertificare una città, militarizzarla, impedire fisicamente alle persone di esistere, blindandosi dietro a grate di ferro e containers che rendono spettrale l'ambiente, facendosi proteggere da decine di migliaia di poliziotti forniti di autoblindo, armati e in tenuta antisommossa. Sanno di non avere alcuna legittimità dal punto di vista delle regole della democrazia rappresentativa, sanno che le loro politiche di rapina e di morte stanno conducendo la terra sul ciglio di una catastrofe climatica, che fame, siccità, povertà, guerre e conflitti, malattie (curabili se il profitto delle imprese farmaceutiche non fosse più importante di una vita umana) sono conseguenze dirette e sempre più drammatiche delle loro decisioni. Sempre di più sentono il fiato dei popoli sul collo e hanno paura, perché non bastano soldi, armamenti, media e potere politico per poter continuare a dettare indisturbati gli indirizzi all'intero pianeta. Il re è nudo: lo percepisco non solo dal silenzio surreale e dall'odore acre di paura che si respira nella zona rossa, ma addirittura dai patetici limoni finti attaccati alle piante davanti a Palazzo Ducale, dalle facciate di cartapesta volute dal nostro Presidente del consiglio per nascondere a se e agli altri il mondo reale. E quando il mondo irrompe sulla loro scena, quando la presenza massiccia di giovani, di uomini e di donne consapevoli, quando la crescita esponenziale di un movimento determinato a far valere i diritti di molti contro i privilegi di pochi sottrae loro legittimità simbolica denunciando che altro non sono se non un club privato di ricchi-potenti che con mezzi economici, con la miseria, lo sfruttamento, la schiavitù, il ricatto del lavoro nero porta avanti solo i propri interessi contro quelli dei popoli, non hanno esitato anche qui -anche in quello che avrebbero voluto come "salotto buono" per mostrare i loro volti generosi- a usare direttamente e in modo pochissimo elegante quella violenza che quotidianamente esercitano in ogni luogo del pianeta. (Tiziana Valpiana - deputata)
SANGUE, SANGUE DAPPERTUTTO
di Nando dalla Chiesa
Prima doverosa premessa (oggettiva): a Genova le forze dell'ordine hanno dovuto fronteggiare uno degli episodi piu' violenti e prolungati di guerriglia urbana dell'intero dopoguerra. Ragionarne dopo è compito sempre piu' facile che affrontare gli eventi nel loro svolgimento. Solidarieta', dunque, a chi si è esposto per due giorni ad attacchi fisici durissimi e sistematici. Seconda doverosa premessa (soggettiva): il Genoa social forum avrebbe dovuto tracciare con piu' decisione le proprie distanze dai gruppi violenti gia' due mesi fa. Chi è passato per la tragica lezione degli anni settanta sa che non sono possibili le mezze misure di fronte ai comportamenti sovversivi sulla piazza (i celebri "compagni che sbagliano"). Alla fine paga sempre chi sta dalla parte dei piu' deboli. Detto questo, e non per formalita' ma per convinzione, va aggiunto che quello che è accaduto durante la perquisizione notturna nella sede del Genoa social forum e soprattutto nell'istituto "Pertini" dove erano ospitate decine di manifestanti, tra i quali si sospetta anche dei black bloc, è stato di una gravita' intollerabile. Ho visto di persona che cosa è accaduto in quella scuola durante la perquisizione. Ne sono rimasto gelato, sconvolto. Per la violenza in se' e per il pensiero che uomini in divisa, tutori della legge, rappresentanti di uno Stato democratico e liberale, abbiano potuto compiere un tale scempio. Le tivu' l'hanno gia' mostrato, ma senza rendere ragione sufficiente dello spettacolo. Macchie, laghi di sangue rappreso dappertutto, sui pavimenti. Poi chiazze e strisce lungo lo zoccolo delle pareti, tracce silenziose (a venti ore di distanza) del pestaggio di chi sta dormendo a terra o (meno probabile, viste le testimonianze) a terra è comunque costretto. Ma anche strisce di sangue sulle pareti all'altezza degli occhi, come se la testa di altri fosse stata schiacciata e trascinata, gia' sanguinante, contro la parete, anche giu' per le scale, come dimostrano le strisce in diagonale lungo le scalinate. Sangue a terra, al primo, al secondo e al terzo piano. Ciocche di capelli per terra, non si puo' sapere se maschili o femminili. Un dente, perfino, con la sua lunga radice, vicino a una pozza rossobruna. Porte divelte a calci, vetri infranti, e altro sangue ancora lì vicino alle finestre sfondate. Come se un gruppo umano fosse stato oggetto, piu' che di una perquisizione, di una spedizione punitiva. L'orrore che ho provato, per chi ha subito la violenza, per il prestigio delle divise, per quello che puo' succedere oggi nel nostro Paese, mi ha fatto associare le immagini a quelle di "Garage Olimpo", il film sulle atrocita' commesse nell'Argentina dei desaparecidos. Anche quelle commesse e giustificate perché "con i terroristi non si puo' scherzare". Qui cercavano dei black bloc, viene spiegato. Giusto. Magari li avessero cercati quando, giovedì scorso, il professor Eugenio Massolo, non anonimo cittadino ma assessore provinciale al Patrimonio, aveva avvertito il Capo di gabinetto della prefettura che in via Maggio i black bloc stavano accumulando mazze e altre armi improprie. Era andato qualcuno a vedere. Poi avevano concluso che l'intervento era ''tecnicamente inopportuno". Hanno mercato i black bloc così, dopo i disastri, facendo un disastro umano e giuridico che spiega le diffidenze dell'Europa civile per governi come il nostro. Dicono che bisogna capire le nostre forze dell'ordine, che dopo due giornate di tensione questo ci può stare. No, non ci puo' stare. Avere combattuto una guerriglia durissima per due giorni non autorizza nulla di simile. Autorizza permessi premio, riconoscimenti professionali, indennizzi economici una tantum. Non autorizza la liberazione dei peggiori istinti del saccheggio o della vendetta, come era consentito dai capitani di ventura ai propri mercenari dopo le battaglie. In altra sede si stabilira' se vi sono state benevolenze o timidezze indebite verso una parte dei violenti di Genova e se vi sono state provocazioni e di che tipo. Ma una cosa e' chiara (in accordo, lo ribadisco, con le due premesse iniziali): sono stati commessi molti abusi verso cittadini inermi, mentre cittadini sospettati di devastazione sono stati, piu' che legittimamente indagati e perquisiti, pestati in massa. E inoltre diversi avvocati sono stati insultati (uno addirittura si e' visto piantare un lancialacrimogeni in faccia, e' stato minacciato e colpito con un calcio) mentre alcuni di loro non hanno potuto verificare i verbali di perquisizione dei propri assistiti. Fino alla perquisizione di sabato notte. Con le autorita' di polizia che al telefono garantivano al sindaco Pericu che tutto stava avvenendo sotto la direzione della magistratura mentre della magistratura sul posto non c'era ombra. Anzi. La procura genovese alle ore 21,30 di domenica, nonostante il pieno di immagini televisive, ancora non aveva disposto né rilievi né sopralluoghi. Il sangue era lì dappertutto ma nessuno (per troppo imbarazzo?) aveva sentito il dovere di mandare a vedere. L'Italia, sia chiaro, non puo' essere il Bengodi dei facinorosi. Ma non è nemmeno il Sudamerica. Bisogna che lo capisca chi ha guidato quell'operazione notturna con un senso di impunita' tale da non temere la presenza, sul posto, di giornalisti avvocati e perfino di un gruppo di parlamentari. Ma di questo clima di impunita' (che è tutto e assolutamente politico) deve rispondere anzitutto il ministro Scajola. Che deve rispondere anche di un'altra colpa, gravissima e ugualmente politica. Quello di avere consentito che divise che sono il simbolo dello Stato e che nei decenni hanno conquistato una loro credibilita' grazie al sacrificio di una moltitudine di uomini conosciuti o meno conosciuti - caduti contro la criminalita' urbana, contro la mafia, contro il terrorismo - siano state infangate per una notte da chi ha agito sotto la piena copertura dei propri superiori. Il prestigio delle divise, lo si ricordi (e va ovviamente ricordato a un ministro dell'Interno assai piu' che a un sovversivo) è un patrimonio incalcolabile di ogni Stato democratico. In Italia non c'e' posto per Garage Olimpo. E chi lo ha pensato, o ha permesso che altri lo pensassero, deve pagare.
BLITZ ALLA SCUOLA DIAZ
Sabato 21 luglio, serata: dopo il secondo giorni di folli scontri che hanno
devastato Genova ritorno in via Cesare Battisti alla sede del GSF, sconsolato,
consegno le immagini video raccolte nelle ore precedenti. (...)Ad un certo punto
un urlo: La polizia!. Mi affaccio alla finestra del secondo piano, decine di
poliziotti stanno facendo irruzione nel cortile, qualcuno tira un cassonetto
posacenere dalla finestra per ostacolare il loro intervento. I poliziotti
gridano, sembrano furie impazzite, sono urla di guerra, brandiscono manganelli,
indossano il casco, qualcuno ha scudi e armi in mano. E' un incubo, non posso
crederci: che si fa?. Sono solo nell'aula. Non ho nulla da nascondere, ma so per
certo che questo non basterà ad arrestare la loro furia. Esco nel corridoio. Per
fortuna c'è altra gente rimasta sul mio piano. Siamo una trentina scarsa.
Raduniamo tutte le cattedre e i banchi contro la porta vetrata del piano per
cercare di barricarci: servirà a poco, ma ci dà il tempo di organizzarci. La
radio dei manifestanti del GSF, radio GAP, non ha smobilitato e continua a
lavorare da questo piano. E'l'unico media insieme a Carta, Manifesto e Indymedia
(al piano superiore) ad essere rimasto attivo. Non solo, la radio sta
trasmettendo ancora in diretta. Tutti negli studi della radio! Ci rifugiamo lì.
L'età dei presenti è bassa, tutti sotto i trent'anni. Alcune ragazze piangono
per la paura e per lo shock. Aspettiamo solo l'ingresso dei poliziotti, è
questione di attimi. Nessuno ha nulla da nascondere, la radio prosegue la
diretta, gli ascoltatori vengono informati in tempo reale di quel che sta
accadendo, questo ci infonde speranza. Do uno sguardo dalla finestra dell'aula
dove sono stati allestiti gli studi di radio GAP, dà INCUBO SUDAMERICANO.
Eccoli, entrano, stanno per alzare i manganelli, sono già in 5 dentro l'ULa. Si
fermano, vedono la radio: e'una diretta, quello che ci farete sarà raccontato a
migliaia di ascoltatori in diretta. Si bloccano: non vi faremo niente, stiamo
solo controllando. Dateci i vostri documenti. La nostra risposta è decisa,
niente documenti, niente schedati, niente segnalazioni. Qual è il vostro
mandato, questo è un luogo pubblico, regolarmente concesso dal Comune di Genova
al GSF, non abbiamo nulla da nascondere. Si incunea nell'aula una troupe
televisiva di France 3, ormai siamo salvi, lo sappiamo. La nostra attenzione
precipita quindi ancora fuori, alla finestra, affacciati per osservare quel che
sta succedendo per strada e nella scuola di fronte. e' un incubo. Ma dove siamo?
La scena, militari in azione, pestaggi gratuiti, forse dovrei definirli
linciaggi veri e propri, tutto mi rimanda al film Missing, questo è il Cile anno
1972, dittatura Pinochet, è un film, non può essere vero. Intanto sento
distintamente le urla disperate dei ragazzi selvaggiamente inseguiti, assaliti
fino allo scempio, provenire dalla scuola Diaz;, sento vetri infranti, rumori
violenti ed indistinti. Sento le urla dei militari che si incoraggiano e si
eccitano durante l'impresa: decine di ragazzi armati che pestano altrettanti
ragazzi indifesi e disarmati, molti dei quali nel sonno. Nel loro caso non
esiste la Legittima difesa perché solo chi è armato di pistola può difendersi
legittimamente e ammazzare qualcun altro. E' questo che ci vogliono dimostrare?
Arrivano le prime ambulanze, portano via i primi ragazzi stesi, con la testa
sanguinante, il volto coperto di sangue, i vestiti macchiati di rosso, la testa
fasciata. Alla fine sono più di 50 i ragazzi che vedrò dalla finestra essere
trasportati stesi fuori dalla scuola. Intanto i militari formano un cordone di
scudi davanti all'ingresso della scuola, non fanno entrare nessuno. Sono passati
15 minuti, non si sentono più rumori, ormai il massacro è avvenuto. Ad un certo
punto escono infermieri che tengono una coperta, dentro c'è qualcosa di molto
pesante. E' un ragazzo. Il panico si diffonde: E'morto! Le grida di sgomento
echeggiano per la via. Non è morto, lo portano via dentro una coperta perché si
suppone una frattura alle vertebre o al torace: Ma come li hanno picchiati quei
bastradi?. Poco dopo un'altra identica scena, molti di loro sono privi di sensi.
Nel frattempo arrivano le telecamere di tutte le televisioni, la stampa solo ora
è presente in maniera massiccia. Arrivano i parlamentari avvisati per telefono,
Agnoletto discute con il capo della Polizia, rilascia le prime dichiarazioni
alla stampa. I poliziotti ora sono fuori dalla scuola, il loro lavoro l'hanno
compiuto, indisturbati, impuniti. Ora cercano di mantenere l'ordine.
UNO
SPETTACOLO ORRIBILE
Alla fine se ne vanno. Sono passate quasi due ore dalla
loro irruzione. Intanto sono sceso per strada anche io. La prima cosa che faccio
istintivamente è entrare nella scuola, ormai deserta. Sono tra i primi ad
entrare. Lo spettacolo è orribile: devastazione ovunque, macchie di sangue,
copiose, fresche, in molteplici punti. Sono sconvolto. Sui muri le impronte
delle mani insanguinate, probabilmente sono stati perquisiti contro il muro
nonostante perdessero sangue e fossero feriti. Per le scale in un angolo ci sono
macchie di sangue sul muro all'altezza di 50 cm da terra. La scena mi si compone
nella mente: il ragazzo accucciato, con la testa tra le mani in mezzo alle
ginocchia, le spalle nell'angolo, colpito a ripetizione dai manganelli, usati a
rovescio dalla parte del manico, poi colpito a gionocchiate, a colpi di scarponi
sul torace, più poliziotti che infieriscono su di lui finché lo lasciano in una
pozza di sangue. Bastardi! Su un muro della scalinata c'è una strisciata di
sangue lunga 4 metri, ad un'altezza dagli scalini di circa 2m-2m e ½. Significa
che qualcuno è stato sbattuto e strisciato contro un muro e infine scaraventato
per le scale: uno scempio. Fotografi e cameramen riprendono ciò che trovano,
siamo tutti sconvolti, qualche ragazzo piange sconsolato e disperato, qui dentro
aveva amici. Alle 4 del mattino raggiungo l'ospedale San Martino di Genova dove
sono stati trasportati molti dei ragazzi che dormivano nella scuola Armando
Diaz, ho il pass di giornalista accreditato per il G8, non devo aver paura.
Davanti al Pronto Soccorso mi ferma una collega: Non entrare, ieri tutti i
giornalisti che c'hanno provato sono finiti appesi ad un muro. E poi, vista
l'aria che tira, non ci mettono niente a farti sparire. I primari dell'ospedale
sono praticamente sequestrati, nessuno rilascia dichiarazioni, il personale
medico ausiliare è omertoso, ma più che altro ha una fifa bestiale. Si discute
quiNon entrare, ieri tutti i giornalisti che c'hanno provato sono finiti appesi
ad un muro. E poi, vista l'aria che tira, non ci mettono niente a farti sparire.
I primari dell'ospedale sono praticamente sequestrati, nessuno rilascia
dichiarazioni, il personale medico ausiliare è omertoso, ma più che altro ha una
fifa bestiale. C'è anche Ricky Tognazzi, le sue impressioni sono le stesse che
abbiamo avuto tutti assistendo a quanto avvenuto in via Cesare Battisti: è roba
da Stato sudamericano. Il classico colpo di coda: dopo tre giorni in cui hanno
favorito di fatto gli incidenti, e dopo che il G8 di fatto è stato oscurato,
hanno voluto dare una lezione a modo loro. (...) I tempi che si prospettano
davanti sono duri, compagni, anzi: durissimi. (Michelangelo, radio Onda
d'Urto)
BOTTE DA ORBI
Alfonso De Munno, 26 anni, fotografo freelance di Roma. Capelli castano chiaro lunghi, occhi blu. Ha un piede fratturato, una costola incrinata. Il viso tumefatto, il corpo pieno di lividi. Il suo racconto è lucido e concitato. "Mi portano a Bolzaneto verso le 16.30 di sabato. Sono già stato pestato a sangue dalla guardia di finanza mentre scatto alcune foto dei black bloc. Arrivo alla caserma in camionetta, assieme a una ventina di fermati. Ho le mani legate, lacci neri di plastica, molto stretti. Il benvenuto: ci lanciano fuori dal pullman e iniziano manganellate e insulti. "Perché non provi a chiamare Bertinotti o il tuo amico Manu Chao?". La colonna sonora dell'orrore è una cantilena, i celerini la sanno a memoria. Adesso anch'io l'ho imparata, purtroppo: "un due tre, viva Pinochet, quattro cinque sei, a morte gli ebrei, sette otto nove, il negretto non commuove". Finisco nell'ultimo stanzone della caserma. Mi tocca una nuova dose di calci e pugni. Rimango a terra, non posso più alzarmi: ho il piede fratturato, la costola dolorante. Vedo uno spettacolo dell'orrore: una ragazza svedese viene portata via per i capelli, i celerini spengono le sigarette sulle mani di un francese. Un ragazzo si fa la pipì addosso per la paura o perché non ce la fa più. Nessuno di noi si può muovere. Un agente corpulento entra nella stanza e inizia a massacrare un ragazzo perché "l'ho visto in piazza che mi insultava". Pochi minuti dopo passa un carabiniere che raccomanda ad altri due: "Quelli della celere è meglio non farli entrare". Ma il peggio inizia quando arriva la polizia penitenziaria: non ho mai visto tanta violenza in vita mia. Si infilano i guanti neri imbottiti e per un'ora non smettono di menare. Continuo a sognare un tizio che viene sbattuto contro il muro e lascia sulla parete un rigagnolo di sangue. Finalmente, verso le 4 di mattina partiamo per il carcere di Alessandria. Ancora qualche botta. Poi la pace, se di pace dopo l'inferno si può parlare". Alfonso è stato rilasciato lunedì sera. E' assistito dall'avvocato Simonetta Crisci. Adesso è a casa sua, non riesce a dormire, oggi andrà in ospedale. Né in caserm, né a Bolzaneto ha potuto avere un referto medico. Sporgerà denuncia per gravi lesioni volontarie. "Voglio un processo per ciò che è successo a Bolzaneto dice . Deve essere qualcosa di esemplare, di cui parlerà tutta l'Europa". Gli sono stati "sequestrati" i dodici rullini che aveva scattato prima del "lager". Ma i ricordi sono impressi nelle sue cellule, ormai. Dice: "Saprei riconoscere tra mille i miei torturatori". (Anais Ginori, 26 luglio 2001)
Roberta
Scendo dal Parco a Punta Vanzo e sento la conferenza stampa. Finalmente so le cose e sono scioccata. Finita la conferenza sto per andare via. E c'è uno zoppicante con la testa e la mano rotta che mi chiede se voglio delle coperte. Gli dico no grazie sono già troppo carica io e mi faccio raccontare perché è fasciato. E in stato confusionale e non riesce a trovare il numero dell'avvocato, perché aveva un foglio della Questura che diceva che il giorno dopo deve ripresentarsi in questura e ha paura di riprenderle. Questo è quello che mi ha detto: "Venerdì sono andato al pronto soccorso spontaneamente perché avevo la testa spaccata, dai manganelli (ho visto la sua maglietta tutta sporca di sangue n.d.r.). Sono venuto da solo a Genova. Era meglio se andavo a vedere il concerto di Vasco Rossi. Mi sono trovato per sbaglio in prima linea. Avevo in mano una carota e un albero di gomma piuma mi hanno rincorso e me le hanno date. Appena ricucito in testa hanno preso la barella quelli della polizia politica e mi hanno portato nel bunker. Lì c'era anche una ragazzina greca alta così (un metro e mezzo) che piangeva come una neonata, era ricoperta di sangue e loro continuavano a bastonare. A me mi hanno fatto fare il corridoio: una fila di poliziotti da una parte e una fila dall'altra e io dovevo passare in mezzo mentre questi tiravano calci e pacche sulla schiena, e dappertutto. Poi uno mi ha pestato il piede e mi ha detto cammibastardo! Ho provato a camminare e lui ha pestato ancora di più mi ha rotto il dito. Poi un altro mi ha preso la mano e tirando due dita per parte me l'ha aperta. Ho sentito un dolore atroce poi più niente: ho guardato la mano ed era tutta brandelli di carne." Voleva passare la notte a Genova, nel sacco a pelo e all'aperto perché non aveva più soldi per tornare a casa (i poliziotti si sono presi tutto, telefono, L. 400.000 ecc... a parte le borse). L'ho convinto a venire a Nervi con me, e in un posto nascosto abbiamo montato la tenda. Prima di andare a dormire siamo andati a prendere un gelato, siamo andati a vedere l'ex stazione di S. Ilario quella di Boccadirosa - De André. Appena parlavamo di quello che era accaduto a Genova, ci accorgevamo di avere poliziotti in borghese che ci seguivano, e non capivamo da dove erano sbucati. Scappo via da Genova. Non ne posso più. Spero che questa sia mia paranoia e che finisca presto perché non ho fatto niente, e faccio l'impiegata comunale per una Giunta di Forza Italia. Amo il mio lavoro e credo di farlo bene. Voglio bene al mio capo che è dello stesso partito di Berlusconi. Io adesso ho paura. (Roberta)APPELLO IN FAVORE DI VITTORIO AGNOLETTO
sulla VICENDA della CONSULTA NAZIONALE TOSSICODIPENDENZE
25 luglio 2001 - Il Ministro del Welfare Roberto Maroni ha annunciato che intende revocare al dott. Vittorio Agnoletto la nomina a membro della Consulta del Ministero per le politiche delle tossicodipendenze (composta da 70 esperti che offrono gratuitamente la loro consulenza), di cui il dott. Vittorio Agnoletto fa parte dal 1993. Tale decisione costituirebbe non solo una perdita di competenza e professionalità all’interno della Consulta, ma minerebbe la capacità della stessa, espressa sino ad oggi, di rappresentare la pluralità delle posizioni rispetto ad un tema così controverso e complesso quale quello delle tossicodipendenze. Vogliamo ricordare che la partecipazione a questa Consulta, così come per tutte le commissioni scientifiche, è fondata sulla competenza professionale e il curriculum scientifico dei singoli membri e non certo sull’identità di opinione politica con l’esecutivo momentaneamente al governo. Siamo convinti che tale criterio debba essere sempre salvaguardato.
Le prime firme
Francesco Maisto – Membro della Consulta Nazionale per le Tossicodipendenze e Magistrato; Leopoldo Grosso – Membro della Consulta Nazionale per le Tossicodipendenze e Gruppo Abele; Luigi Agostini – Membro della Consulta Nazionale per le Tossicodipendenze e CGIL Nazionale; Clara Baldassarre – Membro della Consulta Nazionale per le Tossicodipendenze; Franco Chirco – Membro della Consulta Nazionale per le Tossicodipendenze; Achille Saletti – Membro della Consulta Nazionale per le Tossicodipendenze e Presidente Saman; Marisa Gualzetti – Asat, Sondrio; Donatella Aiello – Associazione GAMMA, Sondrio; Dr. Antonio Clavenna - Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri", Milano; Andrea Morniroli - Cooperativa Dedalus, Napoli; Sergio D’Angelo – Presidente Consorzio Gesco, Vicepresidente Regionale Lega Coop, Campania; Rubens Curia - già membro della Presidenza della Commissione Nazionale AIDS e Malattie Infettive Emergenti; Roberto Nardini - Gruppo S.I.M.S., Pietrasanta (Lucca); Stefano Costa (Portavoce dei Verdi di Milano); Christiana Soccini e Vincenzo Ferri - Centro Studi Arcadia, Desenzano sul Garda (Brescia); Dr.ssa Maria Gigliola Toniollo - CGIL Nazionale - Ufficio Nuovi Diritti; Pia Covre e Carla Corso – Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, Pordenone; Don Mario Vatta – Comunità di San Martino al Campo, Trieste; Fabio Omero – Coordinatore Unità di Strada Sert Trieste e Consigliere Comunale DS; Fulvio Camerini - Senatore; Tutti i lavoratori e le lavoratrici del progetto regionale di RDD, Drop In Project 57 – Bologna; Sergio Lo Giudice - Presidente nazionale Arcigay; Egizio Bosio Savigliano, Nunzia Guerra, Olivia Fagnoni, Lucio Gamberini , Dora Scala, Gianna Milano, Antonio Maisto, Paola Maisto, Anna Conforti
PER ADESIONI: fuoriluogo@fuoriluogo.it
Le adesioni si raccolgono
anche sul sito www.fuoriluogo.it
L
E' finita così (per ora) l'odissea di
16 famiglie di sinti italiani, di cui molti nati e residenti a Verona, che erano
stati sgomberati una settimana fa con un'ordinanza del comune da un'area vicina
allo stadio Bentegodi.
Una settimana in cui la comunità era salita alla
ribalta delle cronache cittadine perché madri e figli, accampati dopo lo
sgombero in un parcheggio della circonvallazione cittadina senza acqua, luce e
gas, avevano fatto il bagno nella fontana della centralissima Piazza Bra. Un
modo di dare visibilità alla loro condizione che aveva trovato subito
solidarietà: l'editore Giorgio Bertani, capogruppo dei Verdi nella
circoscrizione del centro, aveva mosso mari e monti, prefetti e vescovi per
risolvere la situazione. Era intervenuto persino Marcello Pigozzi della Liga
Veneta, non si sa se per ragioni politiche o umanitarie. Il vescovo l'altroieri
era andato a far visita alle famiglie accampate nel parcheggio. 55 persone, di
cui 32 minori (15 tra gli 0 e i 6 anni) sotto un sole implacabile e senza un
posto dove andare, nonostante la residenza nel comune: "Non hanno nessun
diritto, - ha detto il nazional alleato Fabio Gamba, assessore alla sicurezza,
alla deputata di Rifondazione Tiziana Valpiana che lo interpellava sullo
sgombero, ricordandogli le Carte dei diritti - c'è un'ordinanza comunale e
l'area dello stadio ci serve per le feste".
Infatti, implacabili come il sole
e come Gamba, i vigili municipali guidati dal maggiore Giuseppe Ferrero
coadiuvato dal tenente Sterzi, si sono presentati nel parcheggio con uomini e
carri attrezzo per la rimozione dei veicoli. Hanno sollevato di peso Giorgio
Bertani, sdraiato davanti ai camper dei sinti per impedirne la partenza, l'hanno
caricato malamente in auto provocandogli contusioni multiple (10 giorni di
prognosi), hanno letteralmente aggredito le donne coi bambini in braccio
(quattro contuse tra le donne, due tra i bambini) per spostarle e far partire i
camper, il tutto davanti agli occhi di carabinieri, poliziotti e digossini,
incerti se intervenire o meno (per difendere i sinti, da quello che si capiva
dalle espressioni allibite). Il raid, che probabilmente costerà qualche denuncia
ai ferrei tutori dell'ordine (o del disordine, ci pare di poter dire), è stato
denunciato nel pomeriggio in consiglio comunale da Giorgio Bragaja di
Rifondazione, giunto immediatamente al parcheggio della vergogna con altri
consiglieri dell'opposizione. E ora, la sindaca forzista Michela Sironi si
indignerà di nuovo se qualche incauto operatore dei media definirà Verona (o
almeno la sua giunta comunale) profondamente razzista? Chiedetelo ai trenta
bambini che vivono da oggi sulla tangenziale.
M
Tehmina
è riuscita a portare Fakhra in Italia ed è accanto a lei mentre insieme -
Tehmina traduce Fakhra dall'urdu - ci raccontano una terribile storia che le ha
indissolubilmente unite anche nella lotta per il riscatto delle donne
pakistane.
Fakhra, nata e cresciuta in un quartiere lumpen di Karachi, dove
la principale attività è la prostituzione, ha cominciato a fare la ballerina a
dieci anni. A quindici è nato suo figlio. "Vivevamo in sette in due stanze in un
edificio noto con il nome fantasioso di 'uccello dalle mille storie'. Avevo
diciotto anni quando ho incontrato Bilal, ex deputato e figlio dell'ex
governatore del Punjab, che voleva sposarmi. Anche se mia madre mi diceva di non
farlo perché era un uomo ricco, arrogante e pericoloso per la povera gente come
noi, io l'ho sposato. Ero felice, avevo ottenuto quella rispettabilità che non
avevo mai avuto. Dopo che con il matrimonio ero diventata legalmente una sua
proprietà, Bilal mi faceva controllare da una guardia del corpo ed era violento.
Dopo un anno sono tornata dalla mia famiglia". Ripercorrere questa storia è una
sofferenza, forse per dissimulare Fakhra continua a muovere la mano
sinistra.
Si rendeva conto che l'aspettava una vendetta, quindi dopo quattro
giorni è andata dalla polizia per denunciare d'aver abbandonato il marito e di
temere ritorsioni. "La mattina dopo, racconta, stavo ancora dormendo con mio
figlio accanto, quando Bilal ha fatto irruzione nella stanza con due gorilla,
uno era armato. Mi ha svegliata e, ancora prima che mi rendessi conto di quanto
stava succedendo, mi ha afferrata per i capelli e mi ha buttato sul viso una
bottiglia di acido mentre il bambino fuggiva urlando". Sul suo corpo e
soprattutto sul viso le ferite bruciano ancora.
Ha passato quattro mesi
nell'ospedale di Karachi: "Ero in una lunga corsia piena di donne bruciate, chi
con l'acido chi con il kerosene, dai mariti sospettosi o dai pretendenti
rifiutati, stavamo in due per letto, poche riuscivano a sopravvivere". Dopo
alcuni interventi di chirurgia plastica per ricotruirle almeno la pelle del viso
e del collo, nulla da fare per l'ochio perso, il naso di cui resta una vaga
sembianza, le orecchie semidistrutte... è stata rimandata a casa. In ospedale,
dicevano i medici, rischiava solo nuove infezioni. Il paradosso: tra tanta
indigenza e sofferenza arrivavano i mazzi di fiori inviati da Bilal a
Fakhra!
Tornata a casa il cognato non voleva saperne di lei e l'ha relegata
in un angolo della cucina, con divieto di entrare nelle altre stanze, la madre
(eroinomane) era l'unica persona che l'accudiva, il figlio per i primi due mesi
si è rifiutato di vederla. "Volevo morire, continua Fakhra. Così quando Bilal ha
chiamato per dire che voleva occuparsi di me, ci ho creduto e ho accettato di
tornare con lui. Sono stati sei mesi di tortura: ha ricominciato a picchiarmi e
a violentarmi sostenendo che ora solo lui poteva volermi". Finché Bilal ha
deciso di trasferirsi a Lahore, dove si trova la fattoria del padre, ma la
famiglia non accettava la presenza di Fakhra così ridotta.
A questo punto
Bilal ha chiamato Tehmina Durrani per chiederle di convincere il padre Mustafa
Khar, ad accettare Fakhra in casa. Tehmina che contro Mustafa, il famoso "feudal
lord" della sua autobiografia, aveva già combattuto le sue battaglie non voleva
immischiarsi nella faccenda, "ma alla fine ho accettato di vedere Fakhra, e dopo
averla vista: non era più nulla, era solo la forza dell'anima che aveva dentro,
ho pensato, racconta Tehmina, che dovevo fare qualcosa per lei e ho chiesto a
Mustafa di accettarla per spirito umanitario".
Fakhra era ancora nella sua
casa quando Tehmina è partita per venire in Italia a ritirare un premio della
Sant'Angelica. Un'occasione, e quale migliore di una casa di cosmetici per
trovare un aiuto per Fakhra? La soddisfazione di Tehmina - per la risposta
positiva - si scontrava con la paranoia di Bilal che nel suo delirio si possesso
non solo aveva ridotto in quello stato Fakhra, ma continuava a seviziarla e si
opponeva a qualsiasi cura. "Vuoi cambiare faccia? Questa è la faccia che ti
meriti", diceva. Quando Tehmina Durrani è tornata a Lahore, Fakhra era sparita.
Era stata portata alla fattoria, dove veniva reclusa e sottoposta a ogni tipo di
violenze. Finalmente la ragazza riusciva ad inviare un messaggio con richiesta
di aiuto a Tehmina attraverso un inserviente della fattoria Khar,
particolarmente coraggioso. L'unica speranza della povera donna era legata alla
scrittrice. "Le ho risposto - ricorda Tehmina - di non perdere la speranza",
avrei trovato il modo per liberarla.
Non era facile. Occorreva un escamotage:
mandare le figlie - Mustafa è il padre dei quattro figli, due maschi e due
femmine, di Tehmina - a trovare il padre alla fattoria, cercare di vedere Fakhra
e sostenere che doveva assolutamente essere visitata da un medico, cosa peraltro
vera: l'unico occhio era particolarmente sofferente dopo che il marito le aveva
buttato in faccia un piatto di curry bollente. L'escamotage funzionava e con
altri sotterfugi la scrittrice riusciva a tenere lontana Fakhra dalla fattoria,
il problema era ora quello di ottenere i documenti per portare in Italia la
ragazza che non aveva nemmeno una carta di identità. Bilal si opponeva al
fornire i documenti alla moglie e aveva anche cercato di rapire il figlio di lei
per ricattarla. Ma era stato preceduto da Tehmina che, avvertito il pericolo,
aveva recuperato il figlio a Karachi per portarlo a Lahore. Tutti i tentativi di
ottenere i documenti per Fakhra e il figlio attraverso il governatore e il
ministero degli interni fallivano, anche perché, sostenevano, vi sono i mezzi
per curarla in Pakistan e non si può sporcare il nome del paese portandola
all'estero. Falliti tutti i tentativi, "dopo tre settimane, racconta Tehmina, ho
convocato una conferenza stampa con Fakhra e il suo bambino per far conoscere il
caso all'opinione pubblica: perché mai una ragazza che non ha avuto nessuna
opportunità nella vita, nessun lavoro, nessuna giustizia - è stata bruciata dal
marito che gira libero - dovrebbe sacrificarsi per il Pakistan?"
A quel punto
è intervenuto il presidente in persona, il generale Musharraf, che ha fornito i
documenti. Fakhra e il figlio sono così partiti per l'Italia con Tehmina
Durrani, mentre a Lahore Bilal continua a minacciare di morte la scrittrice e
suoi figli. Minacce a cui non può essere estraneo il padre, sostiene
Tehmina.
Fakhra è esausta, da quando è stata ricoverata non riesce a dormire,
per ora le stanno facendo tutti gli esami, ma già si parla di numerosi
interventi, oltre una trentina nel corso di tre anni. Un percorso lungo e
difficile. Ma Fakhra è pronta ad affrontarlo: ha ritrovato la speranza, vuole,
deve sperare, e non solo per se stessa. Vuole lottare per una nuova vita certa
che potrà giocare un ruolo per tutte le vittime sfigurate dall'acido, contro la
prostituzione del suo quartiere di Karachi, "un pozzo dal quale non si riesce ad
uscire". La ragazza ricorda: "quando io sono stata bruciata con l'acido, le
donne del mio quartiere si sono sentite più deboli perché tutti gli uomini hanno
cominciato a minacciarle: avete visto?, anche a voi succederà lo stesso. Ma
quando il mio caso è stato ripreso dalla stampa, si sono sentite un po' più
forti. Ora siamo noi a minacciare gli uomini che ci terrorizzano".
Una delle
battaglie da intraprendere, spiega Tehmina Durrani, è quella contro chi vende e
acquista acido. Occorre imporre una licenza, come per chi compra un fucile,
anche l'acido è un'arma. E occorrono punizioni esemplari per chi non rispetta
queste regole.
Che cosa si può fare? Tehmina vuole realizzare un progetto:
costruire in Pakistan una casa per proteggere le vittime (di cui non si conosce
nemmeno il numero), dare loro assistenza medica e psicologica, un luogo per
sopravvivere e stabilire contatti con i paesi - Italia, Francia, etc. - dove è
possibile realizzare interventi che le rendano più accettabili, innanzitutto a
se stesse. Inoltre occorre un impegno dei paesi occidentali per la formazione
dei medici di Pakistan, India e Bangladesh, i paesi interessati da questa
tremenda piaga. Una promessa di impegno in questo senso è venuta dal sindaco di
Roma Veltroni che ha incontrato Fakhra e Tehmina.
G9 il
futuro.
CRISTO non ricordo il nome di quel docente
universitario della sapienza di Roma che disse in una trasmissione televisiva
che comunque le centrali nucleari erano sicure, che da quando le hanno costruite
si sono sempre dimostrate sicure, piu' sicure di qualsiasi altro mezzo inventato
dall' essere maschile per emettere energia... perche' noi donne ne abbiamo altra
..di energia ..mai cosi' nociva e sprecata sempre per pulire casa e la tv del
berlusca.
Vestiva di giallo, camicia gialla, giacchetta chiara cravatta
gialla - e occhiali sfumati in giallo... mi sono detta, senza pensarci troppo -
strana la scelta del colore strano lui strana la sua sfumatura allegra - e
infatti non mi sbagliai era ed e' un uomo triste - docente dell'universita' di
Roma in ingegneria..qualcuno mi aiuti non ricordo il nome e la cosa mi fa
imbestialire tanto...ma come ci si puo' farci insegnare da certi imbecilli ?
cosa saranno le generazioni future ? - quale alternative per il rispetto
del mondo andiamo a cercare ? -
Ero molto piu' piccola quando successe il
caso dello scoppio della centrale nucleare in russia - molto piu' piccola - ma
non dimentico la faccia di mio nonno che guardava in alto dall'orto.. Guardava
le nuvole .. Dicendomi che non vedeva tracce di quella nera fatta di polvere che
poteva uccidere le persone. Poi ascoltavo la radio, il suo, quello di legno con
le manovelle grosse - cercavo di ascoltare tutti i radiogiornali - nonno non
aveva la tv - ...eravamo in italia, in un paese tutto americano - ma la nuvola
non sembrava rispettare confini - e ad un tratto proprio dalla russia, la
nuvoletta fetente, sembrava dirigersi verso il nostro stivaletto..
Cernobyl voleva unirci tutti.
Oggi sappiamo che morirono solo 90 persone,
come dice il nostro professorone - una cosa banale se si pensa all'energia
prodotta da una centrale nucleare per scaldare corpi e accendere luci - una cosa
talmente banale, che lui stesso non dice che ancora nascono bambini malformati
in russia e molti continuano a morire di leucemia per quella piccola
stramaledetta centrale nucleare.. Chissa' se il nostro professorone con la sua
cravatta gialla sarebbe mai salito sull'aereo che ando' a bloccare la nuvoletta
innocente ? quei due piloti e altre persone sono decedute, non ne ricordiamo il
nome, non sappiamo chi erano...pero' possiamo pensare che oggi ci attende un
futuro peggiore. anche se ci hanno salvato la vita.
Abbiamo mille modi di
fare energia alternativa - utilizzare il vento - le correnti d'acqua - fiumi
cascate - addirittura riprodurle artificialmente - abbiamo le onde del mare - la
luce del sole con i panelli solari - per i motori abbiamo l'idrogeno - il gas -
potremmo mettere anche dei microcip e ciop sulle chiappe dei maschi e quando
fanno l'amore - su e giu' - producono energia...almeno quella. da ficcare tutti
insieme nel cervello dei potenti. quando anche le donne cambieranno stile di
accoppiamento, invece di stare sdraiate come un lenzuolo, anche a loro metteremo
dei microcip sul seno, ma e' la mentalita' che deve modificarsi, da quella
sessuale al rispetto della vita. ed e' questo che a Genova non accadrà.
E
allora siamo tutti a contestare, non vorrei che questo incontro si limitasse ad
un - io c'ero - ma non ci faccio. Siamo tutti a Genova come la finale di roma
parma - poi cosa facciamo ? - torniamo a casa ?. ci ricorderemo dell'incontro
delle bombe fatte per terrorizzare - delle spranghe della linea gialla e quella
rossa - dei forum e delle discussioni - mentre bush comincera' a far crescere le
sue altre 40 centrali nucleari da ucciderci tutta l'america ?.. non ha
rispettato i patti - i patti sono patti - ma come si puo' con quella faccia fare
accordi? I ricchi sono al sicuro - hanno i loro bunker contro l'atomica - magari
la tirano sulla testa di qualcuno ma loro sono tranquilli -. E allora questa
notte ho sognato una Genova deserta - atri 8 capi di stato e che si
incontravano sotto le fogne - in un grande tubo di metallo -
1 - oggi
sono definitivamente scomparse le tartarughe marine - i pesci non esistono piu
da tempo - abbiamo un cavallo solo e maschio senza cioe' la possibilita' di
fecondarlo artificialmente per permetterne la riproduzione...ma lo stallone e la
sua idea c'e'..e' come noi americani.
2 - le piante sono tutte secche
c'e' solo una foglia verde avvistata in giamaica cosa sara' ? - abbiamo deserto
al polo nord - i ghiacciai a causa dell'inquinamento prodotto si sono sciolti
tutti definitivamente non c'e' piu' nulla da mettere nei drink - la temperatura
e' aumentata l'ossigeno scarseggia anche nelle nostre riserve...possiamo
inventarlo ma abbiamo ucciso tutti gli scienziati perche' non volevano
riinventare il capitalismo...per i cadaveri c'e' peste e colera fuori ma non
abbiamo nessuno che prenda un virus
3 - un mare di petrolio -
oggi non c'e' piu' nessuno in grado di guidare una macchina a 70 gradi all'ombra
- tutti coloro che utilizzavano aria condizionata non ci sono piu' non hanno
capito che non bastava proteggersi dal caldo era altro che bisognava
migliorare.. Comunque per non disperdere energia abbiamo eliminato la
pubblicita' del pinguino ..
4 - nel nostro bunker mia moglie sta
per partorire - ora pero' vorrei da voi un consiglio su quale futuro adottare
per mio figlio ..anche se so che non potete darmi una risposta precisa..
Vi prego di aiutarmi. lo facciamo diventare un calciatore ?
5 - quegli
stronzi che hanno voluto fare la rivoluzione - mio nonno lo aveva detto -
guardate che dopo il capitalismo non c'e' nulla .. Voi dovete capire che la
globalizzazzione e' un'altra delle nostre stronzate per permettervi di non
crepare immediatamente. noi capitalisti siamo finiti.. Finiti capito ?... non
abbiamo nulla da darvi o riconvertiamo immediatamente la nostra energia - oppure
ci adattiamo alla globalizzazione.. Comunque morirete in tanti lo stesso. noi
no. ora ci dobbiamo difendere dal vostro attacco. non hanno voluto ascoltare - e
cosi'.. Ci sono rimaste solo due bombe atomiche non sappiamo a chi tirarle..
Abbiamo pero' oltre 100 aranci grandi come persone tutti transgenici quelli
inventati per gli idioti del passato - sono ancora freschi - alcuni anni di
succhi sono ancora disponibili..non deteriorano mai.
6 - non ho nulla da
dire - solo che i rifiuti prodotti sono tutti nel deserto proprio in quel punto
scoperto da quell'imbecille giornalista italiana - naturalmente
continuiamo a nascondere le prove. non si sa. in un futuro... comunque ci
scarichiamo ancora e non abbiamo nessun africano da corrompere anche se sono gli
unici che possono girare tranquillamente a queste temperature .. A chi lo
raccontano ?
7 - secondo le mie analisi - non so per quanto ancora
possiamo sopravvivere - siamo rimasti in otto con le relative parentele - ma
siamo bloccati in questa enorme fogna che ci siamo costruiti - certo fuori non
possiamo andare ...la merda che abbiamo prodotto ci potrebbe uccidere - non c'e'
aria non c'e' luce - non c'e' piu' cibo.. Alberi piante animali. ci sono ancora
qualche- pelle nera - in circolazione - ..ma non possiamo dire che
siamo finiti..che il capitalismo e' finito, quindi io direi di organizzare la
prossima riunione..
8 - mi arriva ancora qualche email .. Non capisco da
dove..il testo e' vecchio tanto. dice .....- se dopo Genova non si formeranno
gruppi di organizzazione per l'ambiente in tutto il mondo - se la cultura del
rispetto non superera' di molto la sottocultura dell'individualismo e
dell'egoismo - se questo G8 - sara' una gran cagnara oggi ...e domani tutti i
vacanza nelle nostre macchinine con il bollino blu' - a comprare
ombrelloni cremine gioielli diamanti pellicce e cappotti di peli di
cane...allora abbiamo perso - definitivamente...invito tutti all'organizzazione
futura progettuale - alla comunicazione - e alla veglia pratica del mondo.
(Luana)
ACCORDO RAGGIUNTO SUL CLIMA:
ORA INIZIA IL DURO LAVORO
Bonn, 23 Luglio 2001 -
La comunita' internazionale ha finalmente mosso un secondo passo per combattere
il riscaldamento globale, trovando un accordo sulle regole necessarie per
attuare il Protocollo di Kyoto. Greenpeace ha rivolto un ulteriore appello a
tutti i paesi coinvolti, in particolare a Giappone, Russia, Unione Europea,
Canada, Australia, Nuova Zelanda affinche' ratifichino in via prioritaria il
Protocollo. In particolare, Greenpeace si rivolge al Giappone affinche' onori il
Protocollo di Kyoto e si impegni definitivamente alla sua ratifica sulle nuove
basi dell'accordo di Bonn, anche senza gli Stati Uniti.
Benche' l'accordo
contenga diversi aspetti problematici Greenpeace ritiene essenziale che entri in
vigore al più presto e non oltre il Summit Rio+10 che si terra' a Johannesburg,
in Sud Africa, a settembre 2002. L'architettura legale del Protocollo, che
formalmente impone ai Paesi aderenti la riduzione delle emissioni dei gas
responsabili dell'effetto serra, e' un gradino essenziale nell'avvio di
un'azione globale per ridurre le emissioni dei gas serra. L'Unione Europea ed i
paesi in via di sviluppo hanno svolto un ruolo di leadership nel salvare i
negoziati di Bonn dal fallimento perpetrata dal Giappone dal Canada e
dall'Australia. Molte parti dell'accordo sono state indebolite grazie agli
sforzi di questi Paesi."Se ci si domanda se questa versione annacquata del
Protocollo possa essere veramente efficace, bisogna anche chiedersi chi e' stato
a combatterlo più violentemente" ha dichiarato Bill Hare direttore politico
della campagna clima per Greenpeace "La risposta e' l'OPEC, l'industria del
petrolio e le sue associate, e naturalmente gli Stati Uniti. Questa volta il
loro tentativo di far fuori il Protocollo di Kyoto e' fallito, ma ci e' mancato
poco che riuscissero a centrare il loro obiettivo, e la versione di compromesso
e' più debole di quella approvata a Kyoto". L'energia nucleare non rientra nel
Protocollo di Kyoto. Il suo finanziamento non e' previsto nelle sezioni
del protocollo che riguardano il Clean Development Mechanism o il Joint
Implementation. I tentativi dell'industria nucleare di sfruttare il
problema dei cambiamenti climatici non ha portato a molto -un altro chiodo
conficcato nella bara dell'industria nucleare. Greenpeace ha richiesto che
adesso i Paesi non abusino delle scappatoie messe a disposizione
dall'accordo di Bonn. L'organizzazione lavorera' attivamente per evitare
che i governi usino le scappatoie quali "l'aria calda" o i "pozzi di
assorbimento" invece di ridurre le emissioni dei gas serra attraverso
interventi nazionali. (Fonte: Greenpeace www.greenpeace.it )
1 - Il mercato
apprezza l’impresa etica
di Francesco
Pacifico
|
Investimenti per la tutela dell’ambiente, progetti per la salute dei lavoratori, finanziamenti finalizzati al benessere sociale: nella comunicazione finanziaria e nei sistemi di reporting cresce l’importanza delle attività "etiche" delle imprese. E in Italia e all’estero decollano le iniziative. È della scorsa settimana a Londra la presentazione del Ftse4Good: otto indici inglesi per il mercato azionario, divisi per aree geografiche e operativi dal prossimo 31 luglio, nei quali vengono "quotate" (basandosi sulla qualità e sulla quantità) le performance sociali di aziende di tutte il mondo, che per farne parte devono soddisfare rigidi requisiti come stabilità ambientale, rapporti con gli investitori e appoggio dei diritti umani. Paletti inderogabili ai quali non si adeguano le industrie impegnate nella costruzione di armi o nella manifattura del tabacco, ma non Intesa, Unicredito (inserito addirittura nell'indice Global 100), San Paolo Imi e Assicurazioni Generali. Strumenti indispensabili visto che le dichiarazioni dell'amministratore delegato di Ftse international, Mark Makepeace: «I fondi a livello mondiale investono sempre di più in quelle società che definiscono responsabili socialmente». Senza dimenticare che questo indice londinese era stato preceduto da uno analogo, ideato nel 1999 dalla Dow Jones: il Dow Jones Global Sustainability Group index. Proprio le richieste degli investitori come di istituzioni internazionali quali l'Onu e l'Ue, spingono sempre di più le aziende a presentare bilanci "etici", sociali o ambientali, che progressivamente si stanno accorpando, vista la comunanza degli argomenti, nei bilanci della sostenibilità, come previsto dal modello "Global reporting initiative". Senza dimenticare poi che in un futuro non molto prossimo — la Shell prevede cinque anni — indicatori finanziari e etici potrebbero fondersi in un unico consuntivo. Anche l'Italia sembra muoversi, anche se lentamente, verso questa direzione se nel 2000 40 aziende hanno presentato un bilancio sociale, 150 uno ambientale, e quasi una decina (come Telecom, Unicredit, Falck e Agip) sulla sostenibilità. Proprio la nascita di questo reporting ha spinto gli organizzatori dell'Oscar di Bilancio e della Comunicazione finanziaria (promosso da Ferpi con la cooperazione, tra gli altri, di Sodalitas, la Fondazione Enrico Mattei, l'Ania e il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti) a premiare per l'edizione 2001 (oltre ai migliori consuntivi civilistici, ambientali e sociali), anche quello della Sostenibilità. La giuria (composta tra altri da Sodalitas e Fondazione Mattei) per decretare i vincitori userà gli stessi criteri per i tre tipi di bilanci etici, valutando tra gli altri la capacità di comunicare i valori come quella di coinvolgere gli stakeholders, i sistemi di governance e gestione per assicurare il rispetto degli impegni, la trasparenza e la completezza, la verifica di revisori terzi. Le richieste di partecipazione vanno inviate (allegando documentazione sul l'esercizio fiscale 2000 e sugli strumenti di comunicazione entro il 30 settembre) via e-mail a oscardibilancio@ferpi.it o in versione cartacea a Segreteria del premio "Oscar di bilancio", via Larga 13, 20122 Milano. 2 - L'Agip nel
Niger
"Non volevano che venissi a dire a un pubblico italiano cosa fa l'Agip dalle mie parti, nel delta del Niger". Intervista a Oronto Douglas MARINA FORTI - INVIATA A GENOVA Oronto Douglas, nigeriano, di
professione avvocato, dice che la lezione è stata nuova e amara: "Ho
imparato che non avere in tasca un bel pacchetto di soldi è un reato
punibile con l'immediata espulsione". Si riferisce a quando martedì è
stato trattenuto per ore dalla polizia di frontiera all'aeroporto di
Amsterdam: proveniente da Lagos, Nigeria, era diretto a Genova dove è
ospite del Public Forum. Interrogato (dove va, perché, a fare cosa), in
mancanza di una qualsiasi irregolarità nel suo visto per l'Italia gli è
stato contestato che non aveva in tasca abbastanza denaro per sostentarsi.
Ordinarie angherie di frontiera verso un cittadino di un paese africano?
Non solo. "So benissimo che i soldi erano una scusa. Volevano impedire che
venissi a dire a un pubblico italiano cosa succede dalle mie parti, nel
delta del Niger, e cosa ci fa l'Agip". E' cambiato qualcosa dopo l'esecuzione di Ken Saro Wiwa? Assolutamente no. L'impiccagione di Ken Saro Wiwa è stata la manifestazione di una mostruosa ingiustizia, quella perpetrata dalla Shell nella regione Ogoni e quella dello stato nigeriano. Ma la violenza non si è fermata. Considera che il generale Olugsegun Obasanjo è arrivato al potere nel maggio del 1999, dopo elezioni dette democratiche. E che una delle sue prime mosse, il 20 novembre dello stesso anno, è stato mandare 4.000 soldati dell'esercito contro la comunità Ogi, seimila persone, lasciando villaggi devastati: in quel solo episodio sono state uccise 2.000 persone, secondo l'organizzazione Human Rights Watch di Londra. Nelle regioni petrolifere del delta del Niger continua la violenza contro le persone e quella ambientale; continuano la militarizzazione e l'oppressione. Può dare un'idea di cosa significa inquinamento, nel delta del Niger? Secondo il rapporto sulla Nigeria pubblicato dalla Cia quest'anno nel delta è stato disperso l'equivalente di 10 volte il carico perso dalla petroliera Exxon Valdez in Alaska. E' un inquinamento di dimensioni monumentali, dispersioni dovute a sistematici guasti e incidenti ai pozzi e alle condutture. Lo so, le aziende petrolifere dicono che sono sabotaggi, ma la realtà è una criminale noncuranza da parte di chi opera in Africa - in Europa o negli Usa non si permetterebbero inosservanze del genere. Parlano tanto di fermare l'immigrazione o di "alleviare la povertà". Ma permettendo che continui un simile inquinamento stanno creando e condonando la povertà. Ogni società umana dipende dall'agricoltura, ma qui stanno devastando i principi della sopravvivenza: l'acqua - e nel delta del Niger i corsi d'acqua sono stati uccisi, mio padre era pescatore ma non c'è più nulla da pescare - e la terra per coltivare. Poi hanno imposto una censura sistematica, soppresso la libera espressione, represso ogni protesta. Aurora Donoso, del gruppo ecuadoriano Accion Ecologica, dice che bisogna chiedere la moratoria delle attività petrolifere mondiali: smettere di scavare nuovi pozzi. Lei è d'accordo? Sì, per tre ragioni. La prima è che abbiamo bisogno di proteggere gli ecosistemi fragili, di frontiera, perché sono l'unica sicurezza di poter bilanciare le distruzioni avvenute altrove: una foresta vergine ricca di biodiversità è una preziosa riserva a cui attingere se resta intatta. La seconda ragione riguarda sia il Sud che il Nord: è il cambiamento del clima. Stiamo già bruciando abbastanza petrolio e gas e inviando fin troppo carbonio nell'atmosfera. Infine, dobbiamo cominciare a parlare del futuro: la questione del debito ecologico e sociale deve diventare coscienza comune delle nuove generazioni in Europa e in America. Verrà il momento in cui il Nord dovrà risarcire questo debito: perché non cominciare subito? 3 - Nel nome del petrolio E' stata nominata più
volte, l'Agip. L'azienda petrolifera italiana è stata citata a proposito
della Nigeria e dell'Ecuador. Organizzazioni ambientaliste e movimenti per
i diritti umani in entrambi i paesi le attribuiscono pesanti
responsabilità sia nella distruzione ambientale, sia per pratiche ben poco
democratiche verso la popolazione che ha la ventura di vivere nelle sue
zone d'operazione. Non è l'unica azienda petrolifera a cui si possano
muovere addebiti simili, ma ci interessa perché è roba di casa nostra.
Ecuador Accion Ecologica, gruppo qui rappresentato da Aurora
Donoso, ha spiegato al Public Forum genovese come l'Agip sia nel consorzio
europeo che ha deforestato oltre mille ettari di foresta amazzonica
tropicale già solo nella fase di esplorazione per un nuovo progetto
petrolifero nel sud del suo paese, scaricando rifiuti tossici nei fiumi e
nei suoli e costruendo un oleodotto di 136 chilometri che traversa zone di
foresta ancora intatta, riserve ecologiche e zone coltivate; e tutto
questo senza consultare le popolazioni locali. "Oggi l'Agip è coinvolta in
un nuovo progetto, un nuovo oleodotto per il greggio pesante, che
traverserà il paese da est a ovest, dall'Amazzonia alla costa del
Pacifico, per 500 chilometri". Le popolazioni indigene e gli ambientalisti
avversano il progetto sia perché aprirà alla devastazione altre zone di
foresta vergine, ma anche perché spingerà ad aumentare la produzione
petrolifera. La stessa Agip è sotto accusa in Nigeria. Nel paese africano
l'Agip partecipa al più grande progetto attualmente in sviluppo,
l'impianto Bonny Island Lng per la liquefazione del gas naturale (costa
3,8 miliardi di dollari ed è nel Rivers State, nel delta del Niger). Il
progetto è stato finanziato nel '95, subito dopo l'esecuzione di Ken Saro
Wiwa e altri attivisti, tra le critiche delle organizzazioni per i diritti
umani. Dal Rivers State giungono continue notizie di uccisioni e sequestri
di persone: a mantenere l'ordine e soffocare le proteste sono mobilitati
polizia ed esercito. L'Agip è stata accusata di aver in diverse occasioni
fornito i mezzi con cui militari e paramilitari vanno a "riportare
l'ordine", operazioni che si saldano con morti e villaggi incendiati. Ne
avevamo già sentito parlare, ora Oronto Douglas conferma e rincara. Del
resto, dice, "un documentario prodotto dalla Rai mostra tutto questo".
Già, un documentario di Silvestro Montanaro (andrà in onda il 29 luglio in
C'era una volta, Rai3). L'autore conferma: "L'Agip è accusata di
violare le norme sull'impatto ambientale, mantenere rapporti ambigui con
la polizia e i militari nigeriani, fomentare i conflitti tra le comunità
locali. Ma mostreremo anche che là nel delta a Port Harcour, un milione di
abitanti, capitale mondiale dell'energia, la sera gli abitanti devono
accendere le
candele". |
Lunedi' 9 luglio sono andato alla festa di Radio Sherwood a Padova ad
ascoltare Toni Negri e Massimo Cacciari. "Dal Fordismo alla
Globalizzazione" ricordando Luciano Ferrari Bravo, una discussione
sui suoi ultimi scritti. Martedi' 10 sono stato a Trento ad ascoltare
Svetlana Broz, che presentava il suo libro (non ancora tradotto in
italiano) dal titolo "Uomini giusti in tempi malvagi".
Mercoledi' 11
luglio ho ascoltato Paolo Crepet che parlava del suo ultimo libro: "Non
siamo capaci di ascoltarli", sul difficile dialogo tra generazioni diverse.
Parte Prima
Non mi sarei mai aspettato di incontrare Marta a Padova. E' stato piacevole
rivederla. All'improvviso. E non aver il tempo di realizzare che era lei. Non
aver il tempo di elaborare quello che stava accadendo. Vederla e immediatamente
toccarla. E poi ridere. Allegramente. E realizzare che era li'. Davanti a me.
Che mi guardava e sorrideva anche lei.
"Devi uscire a Padova Ovest e poi
seguire le indicazioni per lo Stadio Euganeo" cosi' mi aveva detto, al telefono,
una ragazza che lavora a Radio Sherwood. Sono uscito a Padova Ovest e ho seguito
le Indicazioni per lo Stadio Euganeo. Ho parcheggiato nell'ampio parcheggio
esterno. Ho chiuso la macchina e sono entrato nel recinto che delimitava il
Festival. Qualche bancarella. Alcuni stand dove mangiare. Non c'era molta gente.
Ma i giornalisti erano gia' al lavoro. Intorno a Massimo Cacciari due
giornalisti e un cameramen. E poco piu' in la', sotto un tendone bianco, dove
era allestita una mostra di dipinti, Toni Negri. L'ho visto di spalle. Ho
intuito che era lui dal fatto che fosse circondato da cameramen e giornalisti.
Dai capelli bianchi della nuca e dalla corporatura. Solida e robusta.
Mi sono
avvicinato. E l'ho visto. Era proprio lui. L'immagine della sua faccia
corrispondeva alle tracce e ai punti di riferimento grafici che avevo del suo
volto. Braccia conserte. A casa. Parlava. Alle sue spalle un grande dipinto. Non
ricordo esattamente l'immagine del dipinto. Ricordo un fiore, uno sfondo nero.
La miseria umana e la poverta' subita. La violenza. La paura. La speranza anche.
La speranza che non ci sia piu' nessuno che debba subire ancora.
Toni Negri
parlava. E ad un certo punto i suoi occhi e la sua voce non sono piu' riusciti a
soffocare emozioni profonde che aspettavano solo d'uscire, di rivelarsi.
Qualcuno dei giornalisti aveva riproposto, di nuovo, qualche domanda sul G8,
sulla globalizzazione. E l'emozione, braccia conserte, era esplosa nella sua
voce e nel suo sguardo. Parlava e la sua forza, il suo impegno, la sofferenza
anche, il desiderio di cambiamento, l'incapacita' di abdicare alla liberta',
l'intransigenza, tutto questo ( e altro), contemporaneamente, rompeva e
scardinava il consueto, devastava lo stereotipo del politico imperturbabile,
riportava prepotentemente nella politica il sentire e l'emozione.
Poi
qualcuno l'ha sottratto ai giornalisti e ai cameramen. E Toni Negri, con tutto
il gruppo dei relatori, si e' seduto attorno ad un grande tavolo. Mentre
giornalisti, cameramen, fotografi si sono sparpagliati qua' e la'. Qualcuno, a
debita distanza, seduto. Qualche altro fermo in piedi. In attesa, tutti, della
prossima occasione.
Non so quanti anni abbia. Non lo so' proprio. Non
gliel'ho chiesto. Non sto parlando di Toni Negri. So' l'eta' di Negri. La stampa
riportava che compira' 68 anni in agosto. Parlo di Marta. Non so' quanti anni
abbia. Non lo so' proprio. Provo anche a chiedermelo. Potrebbe averne 26, 27. Ma
non ne sono sicuro.
Non ho ricordi precisi del mio incontro con Marta. Solo
piccoli frammenti di quello che e' succeso. Un bacio quando ci siamo salutati.
La gioia di averla incontrata.
Cosa abbiamo fatto? Di cosa abbiamo
parlato?
Cosa stava facendo nel momento in cui l'ho vista?
Non
lo ricordo. Per quanti sforzi faccia non ricordo esattamente dove eravamo.
Ricordo solo di averla sfiorata sul fianco e di aver poi visto i suoi grandi
occhi. Ricordo la mia sorpresa. L'incredulita' di vederla li'. Una grande gioia.
Mista ad una consistente incertezza. Sul da farsi. Sulle mie emozioni.
Non
so' quasi niente di Marta. E forse e' proprio questo che mi attrae. Apprezzo il
suo carattere aperto. La sua sensibilita' che si intravvede chiaramente. La sua
capacita' di sorprendermi. Come quando dimostra di conoscere persone che non
conosco. E che giocano un ruolo ben definito all'interno di connessioni
antagoniste e di movimenti interconnessi. Ricordo Beatrice, la sua amica. Parlo
con entrambe. Ho un gran bisogno di parlare. Di raccontarmi. Cerco di non
esagerare. Si parla della serata. Di Toni Negri. Di Massimo Cacciari. Marta mi
dice che avrebbe voluto parlare con Toni Negri. Chi non avrebbe voluto farlo? Le
dico che quando sono arrivato Negri parlava con i giornalisti. Si dispiace di
essere arrivata tardi.
Ma andiamo con ordine.
Ho incontrato Marta al
termine dell'incontro. Subito dopo che Massimo Cacciari aveva concluso la
serata. E Toni Negri era salito velocemente in un'automobile pronta per
accompagnarlo in questura a firmare per una liberta' ancora non completamente
matura.
Andiamo con ordine.
Ho lasciato i relatori intenti a leggere il
menu, seduti al tavolo del ristorante. Pronti per ordinare. Cosa ho fatto poi?
Mi sono informato su dove si teneva l'incontro. E qualcuno mi ha detto che
l'incontro si sarebbe tenuto nel grande palco allestito al centro della festa.
Lo stavano ancora preparando. Stavano sistemando le luci. C'era gia', sul palco,
una lunga serie di sedie allineate. Pronte. Sono ritornato sui miei passi e sono
entrato in uno stand-libreria. C'erano tutti (oltre ad altri che non conosco),
tutti i libri di cui ho sentito parlare. Di cui ho letto le recensioni. Tutto
quel piccolo universo culturale stampato che gravita intorno ai movimenti
anti-globalizzazione. Territorio che confina con le tematiche della
comunicazione virtuale. Con il consumo intelligente. Con il subcomandante
Marcos. C'era anche un piccolo scatolone. I libri all'interno dello scatolone
erano scontati del 50%. All'interno un libro di Howard Rheingold. Titolo: La
realta' virtuale. Lo prendo im mano. Lo tocco. Lo apro. Cerco la data di
pubblicazione:1992.
Passo poi a guardare i libri non scontati.
Disposti, allineati con ordine sopra tavoli bianchi.
Ricordo tre copie
di No Logo. Brillanti. Ricordo di non aver resistito alla tentazione di toccare
il libro. Di aprirlo. Sul retro, se non ricordo male, una fotografia
dell'autrice. Naomi Klein.
L'unico libro che avrei voluto acquistare era un
libro sulla Macedonia. "Gli altri Balcani". Associazionismo, media indipendenti
e intellettuali nei paesi balcanici. Me lo aveva segnalato, quello stesso
giorno, alla mattina, al telefono, Paola. Dell'Osservatorio sui Balcani.
Responsabile referenti nei Balcani. L'ho preso in mano. E ho riflettuto sul
fatto che, invece di essere a Padova, avrei potuto essere a Skopje, capitale
della Macedonia. Ho riflettuto sul fatto che avevo quasi organizzato tutto per
andare in Macedonia. Per andare a vedere quanto stava e sta accadendo. Per
aiutare, in qualche modo, il difficile processo di pace di quel paese.
Poi i
relatori, arrivano. A gruppetti. Ultime interviste prima di entrare nell'arena
per i giornalisti ritardatari. Poi tutti sul palco. Tutti trovano posto, su
sedie di plastica verdi, omogenee. Tanta altra gente, seduta o in piedi,
intorno, aspetta. Comicia gia' ad essere scuro. Si provano i microfoni. Poi
inizia a parlare Giuseppe Caccia.
Non ricordo cosa ha detto Caccia.
Ricordo chiaramente il suo tono di voce. Ricordo di aver percepito una tensione
nella sua voce, ma non era emozione. L'emozione era presente in piccole dosi,
quasi sempre sotto controllo. La tensione e un parlare veloce, energico e
intenso, assumevano un ritmo serrato. In un rincorrersi veloce di frasi, di
definizioni, che si perdevano velocemente tra la gente che ascoltava. Il
discorso e' passato velocemente. Non e' stato breve. Ma e' stato continuo, senza
interruzioni, senza sbalzi. Senza scarti. E dopo un breve intervento del
rappresentante degli studenti della Facolta' di Scienze Politiche di Padova ha
parlato Massimo Cacciari.
E si e' entrati di prepotenza al centro del
dibattito. La figura di Luciano Ferrari Bravo e il suo lavoro intellettuale
hanno cominciato a definirsi nei contorni e ad assumere caratteristiche e
connotazioni precise. Iniziavo a intravvedere un territorio e iniziavo ad avere
la possibilita' di orientarmi e di collocare Luciano Ferrari Bravo all'interno
di un contesto. Non conoscevo quest'autore. Mi ero imbattuto sicuramente in
qualche suo scritto. Ma per me, lunedi' sera, Luciano Ferrari Bravo era un
eminente sconosciuto e il titolo del suo libro "Dal Fordismo alla
Globalizzazione" aveva contribuito a rendermelo indifferente, invece che
alimentare la mia curiosita'. Tutti, oggi, parlano di postfordismo. Tutti, e
ancor di piu', parlano, oggi, di globalizzazione. Era il motivo per cui avevo
deciso di non andare all'incontro.
Cacciari ha parlato a lungo. Con
competenza. Senza emozione. Ma con consapevolezza. Con la lungimiranza di un
uomo navigato, esperto del mare della filosofia. Con l'occhio di chi sa'
riconoscere percorsi fasulli da innovazioni autentiche. Di chi sa' orientarsi
compiutamente nel territorio del lavoro intellettuale universitario. Un po'
disilluso. Un po' staccato. Elegante. Impeccabile come sempre in un completo dal
colore intenso ma inusuale. Mi ha dato l'impressione di esser diventato piu'
riflessivo e di aver compreso l'importanza delle sfumature, soprattutto quelle
umane.
Mi ha sorpreso la sua capacita' di selezionare alcuni percorsi
di Luciano Ferrari Bravo, percorsi che sento vicini. Mi ha sorpreso la
descrizione di Cacciari di un tessuto reticolare. L'importanza di porre
l'attenzione alle peculiarita' di ogni nodo della rete. Perche' ogni nodo della
rete assume connotazioni, valenze, prospettive diverse. Perche' ogni nodo ha
capacita' strutturali e funzionali diverse. Potenzialita' diverse. E'
fondamentalmente diverso. Mi e' piaciuta la rappresentazione di questo tessuto
reticolare. Dove non si e' in presenza di una rete astratta. Ma di un tessuto
concreto. Vitale. Connesso. Cacciari ha poi portato l'attenzione
sull'interpretazione di federalismo di Luciano Ferrari Bravo. Un federalismo che
si trasforma completamente e assume solida vitalita' perche' viene ridefinito e
collocato in un contesto nuovo. Quello della nuova realta', disomogenea e
impermeabile alle vecchie categorie e agli stereotipi univeristari. Il
federalismo assume allora una sua peculiarita', la discussione sul federalismo
assume motivo d'essere. Dentro un contesto vitale dove si dissocia dalla figura
dello stato e da definizioni giuridiche collaudate, per assumere una
connotazione positiva, propositiva e antagonista. Un mettere al centro quello
che usualmente e' marginale, tutti quei movimenti, quelle realta' vitali che
sono invece la forza reale del tessuto sociale e politico. Un tocco da maestro.
La dimostrazione dell'abile capacita' di Luciano di trasformare, sovvertire e
rendere antagonisti stereotipi altrimenti estremamente pericolosi.
Il
microfono poi passa nelle mani di Negri. E l'emozione sgorga subito prepotente.
La sua passione, la sua intransigenza salgono subito in superficie.
Violentemente. Prepotentemente. Alimentate da una inesauribile energia
sotterranea, supportate da una vita intera di pensieri e azioni. Di scontri e di
passioni.
Negri non ha potuto fare a meno di ripercorrere dall'inizio il
percorso di Luciano Ferrari Bravo. Partendo dai suoi primi scritti.
"La
sua azione intellettuale è un modello di analisi marxista radicata nella lotta
degli uomini, dalle teorie sull'imperialimo alla critica dello Stato nazione.
Luciano ha intuito il declino del keynesismo circondato dal silenzio impotente
del movimento operaio. Da lì siamo partiti per costruire una nuova teoria
sovversiva, di resistenza allo Stato globale, di antagonismo non subalterno al
dominio capitalistico sul mondo".
Ma l'attenzione di Negri si posa fin da
subito su considerazioni metodologiche. Sul metodo di lavoro di Luciano. Negri
ce ne parla. Ce lo descrive. Luciano raccoglie piu' informazioni possibili, le
inserisce e le accumula pesantemente all'inizio del lavoro. Sembra voler
riempire la discussione di possibilita' e percorsi gia' delineati. E poi dopo
averci sommersi, dopo averci spiazzato, dopo averci completamente confusi,
inizia un lavoro attento e preciso di analisi e di ricollocazione e
ridefinizione di tutti gli elementi in gioco. Con una intensita', con una
volonta', con un metodo puntuale e sempre verificato. La figura e le
caretteristiche intellettuali di Luciano Ferrari Bravo continuano cosi' a
definirsi sempre con maggior precisione. Ma ancor maggiormente si definisce e si
manifesta il carattere di Negri. La sua forza emotiva, il suo materialismo
congenito, la sua perentoria binarieta', il suo manicheismo strutturale. Un
dualismo emotivo che impera e travolge. Che svela la realta' e che si configura
come l'unica possibilita' che abbiamo per trasformare la materia stessa. L'unica
possibilita' per accedere al sapere, e l'unica via per trasformare il
reale.
L'emozione incontenibile, la passione, l'indipendenza di Negri non
possono non far breccia. Attraversano e infrangono fragorosamente quello spazio
asettico e impersonale che tutti noi cerchiamo di assegnare alla politica e alle
relazioni sociali. Elimina improvvisamnete ogni possibile scusa. Ci colloca
inesorabilmente di fronte alle nostre responsabilita'. Alle necessita'
inderogabili degli altri. Alle emozioni che la politica ha sotterrato lontano e
che cerca di clonare virtualmente. L'intervento di Negri non lascia spazio a
possibilita' di fuga. Ci accerchia. Non ci da' tregua. Ci impone un confronto
diretto. Ci presenta l'intensita' della presenza umana. Intrisa di carne e di
emozioni. Come ignorare questo messaggio? Come fare a nascondere quel territorio
inerte, lontano, nascosto che rappresenta il nostro impegno sociale e politico?
Come e dove nasconderci ancora? Come non ripartire? Non riprovare? Come non
permettersi un'altra possibilita'?Da portare avanti con passione e con metodo.
Con tenacia e con ostinazione. Con consapevolezza e amore.
Cosa aggiungere a
questo mio racconto? Mancano ancora molti particolari di quanto e' successo.
Qualche altra persona che ho incontrato. Qualche altro libro che ho sfogliato.
Non posso non raccontare che al termine del primo giro di interventi l'incontro
e' stato chiuso da una replica di Toni Negri e da un ultimo intervento d Massimo
Cacciari. In una chiusura emblematica. Forte. Aperta. Dove le posizioni dei due
relatori si distanziavano e prendevano inesorabilmente delle connotazioni e
delle posizioni diverse. L'incontro si chiudeva con un piccolo accenno di
confronto, di discussione. Si chiudeva nel momento in cui iniziava la
possibilita' di un dialogo. Che rimaneva appena abbozzato, appena accennato.
Infantile. Prendeva le forme di una contrapposizione. Di una diversita' di
opinioni. Rimandando fortemente ad una necessaria e inevitabile indipendenza e
autonomia delle posizioni di ciascuno. A questo punto ho incontrato Marta. E
quando se ne e' andata, con i suoi amici, sono rimasto al festival a
gironzolare. In fondo, sulla destra, su un grande schermo proiettavano un
film.
Parte Seconda
Martedi', nel tardo pomeriggio, sono partito per Trento. Mi sono fermato a
fare benzina prima di entrare in autostrada. Tra un sorpasso e un altro, in un
momento di tranquillita', mi e' venuta la tentazione di verificare quando
scadeva l'assicurazione. Ricordavo chiaramente che il bollo scadeva in agosto,
ed ero convinto che anche l'assicurazione scadesse nello stesso periodo. Prendo
il tagliando e mi accorgo con grande sorpresa, che l'assicurazione e' scaduta il
6 luglio 2001. Panico. Che fare? Tornare? Decido di continuare. E poi di tornare
per la strada normale. Arrivo a Trento. Parcheggio prima possibile. Lontano dal
centro e da possibili controlli della Polizia. Chiedo informazioni su come
arrivare in Piazza Dante. Percorro un sottopassaggio. E sbuco davanti alla
stazione. Piazza Dante e' proprio li'. E il Palazzo della Regione e' a poche
centinaia di metri. Quando entro nel Palazzo e salgo al secondo piano mi accorgo
di essere uno dei primi ad essere arrivato. Mi siedo. E aspetto.
La giornata
di martedi' e' passata velocemente. Pensando a Marta. A quella complicita' che
mi pareva di aver letto nei suoi occhi. A quella completa solidarieta' nei
momenti di dialogo. Al suo sorriso. Alle sue parole. Alle sue espressioni. A
quanto ci eravamo detti. A quel bacio finale. Un bacio formale. Staccato. Senza
un abbraccio. Ma denso di rispetto. Caldo. Intenso.
Con la voglia e la
tentazione di telefonarle. Di sentirla. Per verificare. Per confrontare
sentimenti ed emozioni. Con la speranza di rivederla presto.
Ma cosa avrei
detto a Marta se mi avesse chiesto cosa faccio. Di cosa mi occupo. Come mi
guadagno da vivere. Faccio fatica a parlarne anche con me stesso.
Cosa
fai? Di cosa ti occupi? Come ti guadagni da vivere?
E' piu' d'un anno
che non lavoro. Che ho deciso di resistere. Che ho deciso di contrastare per
quanto e' possibile un collocamento che considero estraneo. Insoddisfacente.
Inaccettabile. E' piu' d'un anno che, con intensita', con coraggio, cerco
percorsi alternativi. Difficili da raccontare. Difficili da
comprendere.
Cosa faccio? Di cosa mi occupo? Come mi guadagno da
vivere? Scrivo. Mi occupo di informazione. Sto cercando di mettere in
discussione alcune modalita' consolidate di produzione e di consumo
dell'Informazione stessa.
In un piccolo, quotidiano, movimento di resistenza,
di coraggio, di costante tensione con l'ambiente che mi circonda e che si
premura di presentarmi dei parametri e dei modelli che non riesco a
incarnare.
Nel frattempo la sala dell'Incontro ha iniziato a popolarsi. Una
quarantina di persone. Niente in confronto con le duemila che il Manifesto
stimava esser intervenute a Padova all'incontro con Toni Negri. Un piccolo
pubblico.
Prima di entrare nella sala mi decido a parlare con il
ragazzo e la ragazza che avevano allineato una serie di piccole pubblicazioni su
cui campeggiava il logo dell'Ics (Consorzio Italiano di Solidarieta'). "E' tempo
di pace", questo il titolo del libretto. Mi presento. Mi riconoscono. Entrambi.
La ragazza si presenta. E' Paola. Ci siamo sentiti al telefono il giorno prima.
Lunedi'. Le avevo chiesto informazioni sulle iniziative e sui progetti
attualmente in corso in Macedonia. Mi aveva detto, gentilmente, di contattare
l'Ics. Avevo allora telefonato all'Ics. E sorpresa delle sorprese, mi ero
sentito chiedere, cortesemente, di ritelefonare dopo il G8.
Come? Non
ci posso credere. Chiedo informazioni su progetti in corso in Macedonia e una
segretaria, cortese, dopo aver parlato con qualcuno, mi chiede di ritelefonare
dopo il G8? Se non fosse successo non ci crederei. Non mi sono arrabbiato nel
momento in cui mi e' stato chiesto di ritelefonare. E forse ho sbagliato. Sono
rimasto troppo colpito dalla singolarita' della risposta. Dal suo valore
simbolico. Sono rimasto stordito. Paola allora mi aveva chiesto di mandarle una
mail. Assicurandomi che avrebbe fatto il possibile per darmi una risposta. Se
riuscivo a pazientare qualche giorno.
Entriamo insieme nella sala rosa.
L'aria condizionata si sente appena appena. E l'incontro inizia. Con la
presentazione cortese e ospitale di Passerini. Consigliere regionale e
responsabile del Forum per la Pace di Trento. Passerini introduce Svetlana Broz
e la sua interprete. Svetlana Broz e' una nipote di Tito. Medico cardiologo, ha
vissuto le trasformazioni della Jugoslavia da un punto di vista privilegiato.
Soprattutto per la sua scelta coraggiosa di prodigarsi, prima, ad aiutare la
popolazione e per la decisione, poi, di scrivere un libro che parlasse non delle
atrocita' e della miseria umana ma ricercasse, con uno scarto improvviso,
orgoglioso e coraggioso, ricercasse gli uomini giusti che erano vissuti in quei
tempi malvagi. Dando prova di un coraggio e di una generosa
profondita'.
Svetlana Broz inizia a parlare, tradotta non senza difficolta. E
ci racconta come e' nata l'idea del libro. Come abbia scritto quel libro. Con
quali difficolta'. Quanto inusuale sembrasse la sua idea. E quanto, allo stesso
tempo, fosse necessaria. Svetlana Broz, a tratti, sorride. Ha uno sguardo
apparentemente forte. Sicuro. Solido. Ma inaspettatamente, nella sua voce,
trapelano momenti di intensa emozione. Si intravede, sotto quello sguardo
orgoglioso, un universo emozionale delicato e profondamento ferito. Una vita
difficile. Momenti di grande difficolta', episodi di incontro con una sofferenza
umana violenta. Paralizzante. Devastante. L'esperienza del campo di
concentramento. Esperienza non diretta, ma forse proprio per questo ancora piu'
scardinante e incomprensibile.
Seguo, da un po' di tempo, percorsi e
traiettorie che a tratti sembrano lontani e inconciliabili, a tratti si
avvicinano fino a sfiorarsi e sembrano sovrapporsi fino a costruire un unico e
intenso flusso di azioni ed emozioni. Altre volte, invece, questi percorsi si
svolgono parallelamente. Mantenedo una equidistanza che sembrerebbe impossibile.
Geometrica. Sono fondamentalmente due percorsi. Il primo. L'originario. Parte
dall'Informazione. Da una ricerca attenta e una riflessione inconsueta e
spregiudicata sul ruolo dell'Informazione. Sul ruolo e sul consumo
dell'Informazione. L'altra traiettoria si occupa della Macedonia. E si innesta
sulla prima, anzi parte, nasce dalla prima e poi diventa indipendente. E a
tratti si ricongiunge con le riflessioni sull'Informazione, arrichisce quella
tematica di nuovi stimoli oppure ne ricava nutrimento. Ho scritto vari articoli
sull'Informazione. Ho contattato varie realta'. Per verificare sul campo
l'attendibilita' di alcune mie considerazioni. Per saggiare la bonta' delle
stesse. Soprattutto per comprenderne l'aderenza alla realta'. La consistenza. La
non virtualita'. Parlare di Informazione potrebbe sembrare un discorso astratto.
Virtuale. Filosofico. Lontano e inconsistente. Ma non lo e'. Ci confrontiamo
quotidianamente con l'informazione. La consumiamo. La produciamo. In un universo
materiale, economico e sociale dove l'informazione gioca un ruolo importante.
Centrale. Ma spesso dimenticata. Nascosta. Difficile da raggiungere. Perche' e'
essenzialmente una componente determinante. Coinvolgente. Potenzialmente
antagonista e sovversiva. Come dire? Una zona rossa. Un luogo impenetrabile.
Dove pochi hanno il permesso di entrare. Fare Informazione vuol dire impegno
concreto. Capacita' di confronto diretto con quanto accade. Vuol dire scegliere
di cosa occuparsi, scegliere cosa leggere. Scegliere cosa fare. Come agire. Cosa
chiedere. Cosa dare. In una correlazione cosi' semplice ma cosi' profondamente
determinante. Dalle riflessioni sull'Informazione e' partita ad un certo punto
l'attenzione per quanto accade in Macedonia. La Macedonia, un piccolo stato,
nato dallo smenbramento della ex-Jugoslavia, sta vivendo da alcuni mesi una
situazione di gravi tensioni interne. Dove tutti i presupposti, tutti i segnali,
tutte le indicazioni, segnalano una situazione pericolosa, ancora sotto
controllo, che potrebbe pero' sfociare in una devastante guerra civile.
I
contati , le trame che lentamente sono andato tessendo, iniziano a interagire e
a dimostrare una loro concreta utilita'. I dialoghi instaurati. La continua
proposizione di tematiche legate all'Informazione. Le domande che mi sono state
rivolte. L'attenzione che qualcuno mi ha dedicato. La tensione che
l'Informazione di per se' determina. Tutte queste, e altre componenti, si
ricompongono a tratti fino a formare un disegno, una struttura, un framework,
che permettera' di pensare e costruire esperienze e progetti innovativi.
A
Padova ne ho parlato brevemente con Giuseppe Caccia. E ne ho parlato anche con
una responsabile di Radio Sherwood. Non ricordo il suo nome. Me ne scuso. Mi ha
guardato. Incerta. Indecisa su come classificarmi. Ma solo per un attimo. Poi,
il mio abbigliamento e il mio lessico, l'hanno indotta a collocarmi
inesorabilmente in un territorio lontano. Straniero. Emarginato. Non indossavo
la divisa che si aspettava. Una divisa antagonista, che le avrebbe permesso di
riconoscermi senza la fatica di guardarmi negli occhi.
Eppure l'Informazione
per una Radio dovrebbe essere motivo continuo di confronto. Di analisi. Di
riflessione. Di attenzione. Di verifica. Di osservazione. Luogo privilegiato per
un'informazione aperta. Aperta lato utente. Un'informazione attiva.
Un'Informazione che non sia chiusa. Che non informi solo e perentoriamnete su
quanto e' gia' accaduto. Come un bollettino di guerra che si limita ad elencare
i caduti. L'informazione dovrebbe produrre aperture. Emozioni. Possibilita' di
riflessione. Stimoli al confronto. I proclami di Luca Casarini cosi' presenti e
centrali nell'informazione di Radio Sherwood rappresentano un'informazione
chiusa. Un proclama. Un bollettino. Hanno un senso sovversivo nella stampa
tradizionale, commerciale. Ma proprio non hanno un senso sulla stampa e
sull'Informazione alternativa. Rappresentano qualcosa di chiuso. Profondamente
inutile. Una Informazione che diventa rassicurante, come l'intrattenimento. E il
consumismo.
Seguo con attenzione quanto Svetlana Broz e l'interprete ci
raccontano. Il perche' di quel libro. Le difficolta' nello scriverlo. La
difficolta nel far capire agli altri l'importanza del lavoro. Il progetto della
costruzione di un Giardino dei Giusti. Dove si piantera' un albero per ogni
Giusto. L'interprete a tratti si fa' aiutare da Paola. Si scusa. Senza addurre
motivi formali della sua difficolta'. Apertamente chiede aiuto quando non riesce
a trovare la parola corretta. Paola aiuta. Ma senza troppa generosita'. Al
termine della presentazione del libro, dopo la lettura di un piccolo brano del
libro, si da' spazio alle domande. E questo spazio di confronto diventa la parte
piu' importante della serata. Apre un momento di confronto. E anche di scontro.
Mi e' rimasto impresso l'intervento intenso, apparentemente controllato, di una
signora che ha vissuto, direttamente, l'epoca della pulizia etnica del regime
del MarescialloTito. Il nonno della Svetlana Broz. Ha ricordato come in quegli
anni le minoranze etniche, quella italiana inclusa, erano state costrette ad
abbanfonare la Jugoslavia. L'istria per l'esattezza. Per andare a vivere
altrove. Le parole pacate, le varie repliche, l'interesse sentito per una
risposta che diventava personale, nascondevano un profondo abisso di
incomprensione, una emozione ancora viva e attiva, una ansia e una rabbia ancora
presenti, dopo tanti anni.
Ho avuto anch'io la possibilita' di fare una
domanda. Veloce. Sulla situazione in Macedonia. Svetlana Broz mi ha fatto capire
quanto sia preoccupata. La Macedonia sembra non aver imparato niente. A
dimostrazione di quanto sia difficile apprendere e imparare, anche quando si e'
circondati da persone che hanno gia' sperimentato percorsi che si sono rivelati
devastanti. La Macedonia e' fino ad ora rimasta esclusa dalla violenza etnica e
nazionalista che ha invece colpito violentemente gli altri stati della
Jugoslavia. Ed ora sembra esser pronta a ripetere gli stessi errori degli stati
vicini. Sembra pronta a percorrere la stessa strada. Svetlana Broz e'
preoccupata. E' convinta che ci siano tutte le premesse per una violenta e
cruenta guerra civile. Quando le chiedo se pensa che un intervento della Nato
possa aiutare la situazione mi dice semplicemente che preferisce dieci giorni di
tregua ad un sol giorno di guerra. E mi ricorda che non e' una politica. E che
non sa' dare una risposta alla mia domanda. Ricorda quanto sia rimasta sorpresa
del fatto di esser andata in Macedonia durante una delle ultime tregue. Ricorda
di aver lasciato la Macedonia tranquilla. Ricorda il suo stupore e la sua
increduliota' nell'apprendere, qualche giorno dopo, dalla televisione come una
gran folla avesse assediato il parlamento macedone, chiedendo eplicitamente la
distrubuzione di armi ai civili.
L'incontro si e' poi chiuso con alcune
domande che hanno improvvisamento affrontato il problema di come vivere dopo
aver sperimentato l'odio e la violenza. Di come affrontare il ricordo. Di come
pensare al futuro, costruire il presente, senza dimenticare e sotterrare il
passato.
In questo, tutto personale, percorso di avvicinamento alla realta e
alla situazione macedone, ho attraversato varie fasi. Come giornalista avevo
deciso che sarei andato in Macedonia. Per vedere direttamente quanto stava
accadendo. Per raccontarlo agli altri. Per sensibilizzare l'opinione pubblica.
Poi ho deciso di non partire. Non so perche'. Me lo chiedo adesso. Per
verificare da dove sia scaturita questa decisione. Perche' non sono andato in
Macedonia? Avevo la possibilita' di farlo. Lontano da dirette incombenze e oneri
familiari. Slegato da immanenti impegni lavorativi. Perche' ho deciso di non
andare? Mi son chiesto se la mia presenza la' fosse importante. Necessaria. E
non son riuscito a darmi una risposta affermativa. Andare solo per fare
informazione mi era sembrato inaccettabile. Avevo gia' contattato una serie di
macedoni. Avevo chiesto aiuto per trovare una sistemazione decorosa ma non
eccessivamente costosa a Skopje. E molti mi avevano risposto, con insolita
sollecitudine, rendendosi disponibili ad aiutarmi. Andare in Macedonia, andarci
per agire concretamente, implicherebbe la scelta di stabilirsi la'. Non di
andare e tornare con una tabella di viaggio preordinata. Con una scadenza
precisa. Andare in Macedonia avrebbe un senso solo nel momento in cui si decide
di impegnarsi concretamente la'. Nella quotidianita'. Nel lavoro. Nella
solidarieta'. Nel confronto e nel dialogo. Un compito molto difficile. E ancora
da venire. Almeno per me.
Ho seguito, seguo tutt'ora, le novita' sulla
situazione macedone. Ed e', ad oggi, l'unica deroga che mi permetto alla
decisione che ho preso di sospendere, a tempo indeterminato, il consumo di tutta
l'Informazione commerciale. Ho deciso, ancora tre settimane fa', di eliminare
ogni informazione mediata dell'enterteiment televisivo, dell'enterteiment della
carta stampata e da quello dell'accesso e delle connessioni virtuali. Turn off
the corporate media. Una campagna che sempre di piu' mi sentirei di riproporre e
consigliare. Che pur se limitata nel suo approccio eminentemente negativo, di
rifiuto, puo' servire a ridurre l'assunzione di un'informazione che non ha altra
finalita' se non quella di catturare la nostra attenzione e il nostro tempo
libero. Un'informazione che ha il compito reazionario di controllare, di
nascondere, di allontanarci dai punti vitali della nostra emotivita' e del
nostro impegno. In definitiva dalla vita stessa. Ma torniamo a noi. L'unica
deroga a questa decisione mi permette di seguire sui media commerciali le
informazioni sulla Macedonia.
Ma come aiutare la Macedonia? Che si puo' fare?
Dover ammettere che siamo troppo piccoli, insignificanti, per contribuire ad uno
sviluppo pacifico di quella convivenza statuale mi sembra una risposta troppo
semplicistica. Mi sembra troppo comodo. E allora? Non ho trovato altra soluzione
che quella di attivare resistenze e sensibilita', emozioni locali, quotidiane,
per testimoniare una solidarieta' a chi subisce la' una situazione di disagio,
di sconfitta e di violenza. Non ho trovato altra soluzione che attivare
attenzione, mail, possibilita' di incontri informali per discutere, intrecciare
trame e tessere contatti. Si puo' fare altro? Spero di scoprirlo al piu'
presto.
Prima di uscire dalla sala rosa saluto Paola. La guardo. Si vede
chiaramente che e' stanca. Le raccomando di riposarsi. Di prendersi del tempo
per se stessa. Paola. Alta. Occhi profondi. Uno sguardo e una vitalita'
attiva.
Non lascia spazio a possibili contatti emotivi. Non sembra
averne il tempo. La saluto. Ritorno alla macchina. Decido di ritornare in
autostrada. Con cautela. E' tardi. Non avrebbe senso tornare per la strada
normale. Sarebbe troppo lungo e impegnativo. Il rientro e' tranquillo. Poco
traffico. Arrivo a casa. Ripenso a Paola e a Marta. Provo a confrontarle. Penso
al fatto che non mi sono ancora deciso se telefonare o meno a Marta. Il numero
di cellulare ce l'ho. Decido di telefonarle il giorno dopo. Nel pomeriggio.
Bene.
Parte Terza
Mercoledi' l'ho passato aspettando che arrivasse il pomeriggio. Avevo deciso
di telefonare a Marta. Ho pensato a lungo a cosa le avrei detto. Cosa potevo
dirle? Mi pareva che non fosse importante cosa le avrei detto. Ma come lo avrei
detto. Non erano importanti le parole che sarebbero uscite dalla mia bocca ma la
mia capacita' di trasmetterle una emozione, di farle percepire una apertura di
sentimenti. La voglia di mettermi in discussione. Di sorpassare dei limiti
imposti da regole e consuetudini che smorzano e inaridiscono la nostra
emozionalita' invece di permetterne lo sviluppo e la crescita. Cosa le avrei
detto? Ciao. Tutto bene? Ti disturbo? E poi avrei dovuto chiederle direttamente,
senza nascondermi dietro perifrasi, dietro passaggi intermedi, avrei dovuto
dirle che volevo rivederla. Mi sembrava la cosa piu' corretta da dire. Una frase
chiara. Una scelta. Ma non tanto per dimostrarmi sicuro. Quanto per assumermi
fino in fondo la responsabilita' di quello che dicevo. Di quello che le
chiedevo.
Passo le mie giornate davanti al computer. Leggo. Scrivo. Seguo un
piccolo numero di mailing list, curo il sito di umanamente, controllo le mail e
rispondo quando ce n'e' bisogno. Cosa potrei fare per sovvertire ed emozionare
anche questo settore della mia vita. Come potrei procedere, non per decostruire,
non per un'operazione di reversing, ma per aprire e riattivare comportamenti che
sono diventati inerziali?
Domanda difficile. La tecnologia ci ruba parte
della nostra vita. Si incunea all'interno della nostra mente puntellandosi
ovunque, inserendosi in qualsiasi spazio vuoto. La tecnologia non e' essenziale.
Imparare a convivere con essa e imparare ad usarla intelligentemente e' un
compito arduo e faticoso. Sono riuscito da tempo a smettere di rincorrere le
ultime novita' e le ultime innovazione tecnologiche. Mi rifiuto costantemente di
utilizzare strumenti eccessivi per compiti semplici. Scrivo regolarmente sul
Notepad di Windows. Mi e' piu' che sufficiente. Sono riuscito a neutralizzare
parte della gran quantita' di informazioni e di news che in realta' non sono che
intrattenimento. Cerco di mantenermi sempre attento e vigile. Ma questo nuovo
strumento ha delle potenzialita' notevolissime. Naturalmente anche notevoli
potenzialita' di irretirci in un universo virtuale, senza sbocchi, senza
emozioni, senza forze. Dove l'inerzia mentale si adagia, satura e sazia.
La
tecnologia e' uno strumento che mi permette di comunicare. Mi permette di
comunicare con gli altri. Ma tutte le possibilita' che offre, che farebbero
pensare ad un "aumento" della capacita' comunicativa umana in realta' si
dimostrano inutili. Il faccia a faccia, reale o virtuale, rimane ancora l'unica
possibilita' di comunicare che possiamo permetterci.
La giornata di
mercoledi' passa velocemente. Cosa avrei fatto quella sera? Non lo sapevo
ancora. Dipendeva da quello che mi avrebbe detto Marta. Dipendeva da cosa
decideva. Avrei potuto andare a Bologna. A trovarla. Oppure avremmo potuto
incontrarci in un territorio intermedio. Pensavo a Ferrara. Citta' che conoscevo
per avervi frequentato alcuni anni di Universita'. Oppure avremmo potuto andare
insieme a qualche incontro. E poi esserci fermati a parlare sul tardi. Oppure,
nella peggiore delle ipotesi, potevo decidere di andare a Genova, dove alla
mattina del giorno dopo, avrei potuto partecipare all'incontro su
"Globalizzazione e conflitti" organizzato dalla Biennale delle riviste
culturali. La serata era aperta. Ed era piacevole lasciarla cosi' sospesa. Non
sapere cosa sarebbe successo. Non sapere cosa avrei fatto. Non sapere se avrei
rivisto Marta.
Alle 5 e mezza del pomeriggio decido di telefonarle. La
comunicazione e' disturbata. Si sente a tratti. Nel momento in cui le chiedo se
possiamo vederci la linea cade. Ritelefono. La comunicazione e' ancora
disturbata. Altro tono di voce. Le chiedo quando posso ritelefonare. Sei e
mezza. Esco. In corpo una strana euforia. Gli occhi che brillano. La
consapevolezza di aver superato dei limiti che non esistono ma che sembravano
presenti e attivi. Gioia, paura, inconsapevolezza.
Scendo in garage e
prendo la bicicletta. Mi viene in mente che quella sera avrebbe dovuto esserci
un Incontro con Paolo Crepet. Un incontro che era previsto per il 6 giugno, ma
che era stato poi spostato all' 11 di luglio. Mi ricordo di averlo letto sul
Giornale di Vicenza. Ricordo anche che me ne aveva parlato Rebecca. Occhi dolci.
Ma incerti. Spaventati. Profondi e delicati. Rebecca insegnante di scuola
materna. Lei me ne aveva parlato. Mi era sembrata molto interessata. Interessata
alla presentazione del libro e a Paolo Crepet. Decido di vedere se e' a casa.
Suono il campanello. Una, dua, tre volte. Ma non risponde nessuno. Al parco
giochi sotto casa intravedo sua figlia. Le dico di dire alla mamma che l'avevo
cercata. Vado al supermercato. Per ingannare l'attesa. E anche per comprare
qualcosa da mangiare. A casa non c'e' piu' niente.
Poi ritorno. Sono le sei e
mezza appena passate. Ritelefono. La comunicazione e' ancora disturbata. Chiedo
a Marta nuovamente se possiamo vederci. Marta mi dice di essere impegnata per
tutta la settimana. Sicuramente anche per la prossima. C'e' il G8. Non faccio a
tempo a dirle ciao, grazie, e la conversazione termina. E la gioia di aver
comunque provato si somma alla tristezza di non esser riuscito a far capire il
significato della propria scelta e della telefonata. Non so che fare. Rimango un
po' stordito. In silenzio. Ma solo un attimo. Il tempo di riprendermi e suona il
citofono. E' Rebecca. Vuole sapere perche' la cercavo. Le chiedo se sarebbe
venuta ad ascoltare Paolo Crepet. Mi dice che non si ricordava dell'incontro.
Che non sapeva se ci sarebbe andata. Che avrebbe deciso piu' tardi.
Ritorno
al computer. Mi collego ad Internet. Leggo qualcosa. E mi scopro a pensare che
forse la manifestazione antagonista che si svolgera' a Genova non e' altro che
un bisogno simbolico di aprire tutte le Zone Rosse. Quei territori dove la
violenza controlla la tranquillita' di una vita senza emozione. Quegli spazi
asettici dove la vita scorre ordinata e dove l'economia dei sentimenti, prima
dei beni, riesce a regnare silenziosamente. Ripenso ad alcune proposte che aveva
fatto Leonardo Montecchi. Alla necessita' di mettere in atto delle
spettacolarizzazioni della Zona Rossa. A ritualizzare la lotta per l'apertura di
quegli spazi puliti e ordinati. Soffici e insonorizzati. E proseguendo nella
riflessione mi chiedo se la manifestazione di Genova non sia essa stessa un
rituale per tutte le persone che sono rinchiuse all'interno di zone rosse. Mi
chiedo se anch'io non sia, nella mia quotidianita', all'interno di una zona
rossa. Protteto da frontiere ben controllate. In un territorio dove i poveri,
gli emarginati, gli emigranti non possono accedere. In un ambiente che i media
provvedono accuratamente a insonorizzare. Riempiendoci la vita di news fasulle e
chiuse e di bisogni mediatici indotti. Mi chiedo dunque se l'appuntamento di
Genova non sia gia' di per se' un Rituale. Un rituale per imparare ad aprire
quelle zone rosse dove confiniamo la nostra vita, un rituale per prendere
coraggio e coscienza della nostra situazione. Sempre che invece non sia solo una
ritualizzazione per mascherare, ancora una volta, e inesorabilmente l'esistenza
della vera zona rossa. La sua collocazione principale. Per sviarne lo sguardo e
portare altrove l'attenzione.
Mi faccio una doccia, mangio qualcosa e poi
scendo in garage a prendere la bicicletta. Sono le 21 passate. L'incontro
probabilmente sta per iniziare. Guardo se vedo Rebecca. Al parco giochi non
c'e'. Decido di andare comunque all'incontro. Girando l'angolo di casa la vedo.
Mi fermo e le chiedo cosa fa'. Ha un attimo di incertezza. Leggo chiaramente la
sua voglia di venire. Leggo nei suoi occhi l' interesse, ma anche l'indecisione,
la fatica di rompere anche quel piccolo legame che la lega a rimanere a casa.
Verrebbe sicuramente se insistessi. Ma non mi sento di farlo. Mi dice di andare
pure. Che poi le avrei raccontato.
C'e' un bel po' di gente. Quando arrivo
l'assessore alla cultura sta presentando Paolo Crepet. Mi fermo in fondo alla
piazza, seduto sulla bicicletta. Le sedie sono tutte occupate. E diversa gente
e' in piedi ai lati. Paolo Crepet, questo signore robusto e autorevole prende
con tranquillita' la parola. E inizia a raccontare. Racconta. Con tranquillita'.
Con sicurezza. Parla di regole e di bambini, di punti di riferimento e
dell'emozione. Della creativita' e del lavoro. Racconta. Intrattiene. Ma e' un
intrattenimento che non ha niente a che fare con l'intrattenimento dei media.
Impersonale e lontano. E' un raccontare reale. Concreto. Interpreta con
tranquillita' uno spettacolo dove e' importante il clima, la complicita'
profonda che si instaura tra chi ascolta e il relatore. Uno spettacolo che punta
sulle emozioni che riesce ad innescare piu' che sul contenuto intellettuale.
Paolo Crepet e' un abile giocoliere delle parole. Ha imparato ad utilizzarle per
comunicare. Per aprire non solo la propria mente, il proprio pensiero, ma anche
la sua ricerca continua, la sua voglia di domandare, la convinzione
dell'importanza delle emozioni. Parla del nostro rapporto con i figli. Della
nostra incapacita' di instaurare rapporti sinceri e profondi. Del nostro
arrenderci e nasconderci dietro la televisione, dietro le reazioni dei figli,
dietro difficolta' che sembrano insormontabili. Parla del lavoro, della nostra
profonda incapacita' di non far niente, di dedicarci del tempo, di dedicarci
attenzione. Dei cambiamenti profondi a cui dovremo abituarci, dell'importanza di
preparare a questi cambiamenti i nostri figli. E' una serata piacevole. Dove
qualcuno al centro del Nord Est piu' opulento viene a svelare quanto poco
importante sia il denaro. A dire, con una ovvieta' disarmante, che i soldi non
fanno la felicita'. Che ci sono altre cose. Che il lavoro non e' tutto. Che
dobbiamo permetterci delle possibilita'.
Al termine della presentazione
l'assessore apre uno spazio per le domande. Arriva la prima domanda. EPaolo
Crepet mi ha dato l'impressione di voler esagerarecon abbondanza nel rispondere.
In modo da evitare altri possibili interventi. Il dialogo, lo abbiamo imparato,
non e' una cosa da tutti i giorni. E la capacita' di dialogare, di rompere gli
schemi anche nel momento del faccia a faccia, nel momento piu' significativo
della nostra esistenza, nel momento in cui incontriamo l'altro, non e' una cosa
indolore.
Nel pomeriggio, leggendo alcuni articoli sulla Macedonia, mi
ero imbattuto in un'intervista che Mario Boccia, fotoreporter e giornalista,
aveva fatto a Labina Mitovska. Una giovane attrice macedone, nota soprattutto
per aver girato un film intitolato "Prima della pioggia".
"Non posso
accettare nemmeno lontanamente l'idea che quello che ho visto in Bosnia, quelle
distruzioni così cariche di sofferenza umana, possano accadere anche
qui".
Rifletto su un appello per la Pace in Macedonia che un volontario
dell'Ics mi ha inoltrato. Firmato dalla Tavola della Pace di Perugia. Dove le
richieste formali, le dettagliate e puntuali osservazioni e proposte mi avevano
lasciato perplesso. Mi ritrovo di nuovo al centro del problema. Alla domanda su
cosa fare, su come intervenire.
E mi chiedo. Perche' non rinunciare ad
un intervento militare e pensare e progettare una forza di pace civile? Fatta di
famiglie. Di persone. Che decida di vivere in Macedonia e aiuti, con la sua
esperienza, e con la sua diversita', un difficile processo di pace? Il 15
luglio, era stata indicata come probabile data in cui la forza militare della
Nato, composta da tremila soldati, di cui 450 italiani, avrebbe iniziato la sua
missione in Macedonia. Le trattative, seguite al cessate il fuoco, si sono
dilatate e ad oggi non si prevede, a breve, alcun intervento militare della
Nato. Inutile dire che mi sarebbe piaciuto parlarne con Toni
Negri. Perche' no' anche con Paolo Crepet. Ma sarebbe stato troppo
semplice. E certamente non avrei avuto da loro la risposta che sto
cercando. ( Giorgio Viali - viali@altavista.com )
IL RACCONTASTORIE DELLA TENDA INDIANA
Se avete parenti o amici con bambini che abitano in provincia di Treviso, o
se voi stessi vi trovate da quelle parti Domenica 5 Agosto 2001 esattamente
a MONTEBELLUNA dalle ore 17.00 alle ore 21.00 nel PARCO MANIN di
Corso Mazzini potete incontrare IL RACCONTASTORIE DELLA TENDA INDIANA. Pietro
Tartamella monterà il suo Tepee Indiano nel parco. Gruppi di cinquanta bambini
alla volta entreranno nella Tenda arredata con tappeti e cuscini per ascoltare
storie degli Indiani d'America. Prima di entrare i piccoli ospiti indosseranno
un copricapo indiano fatto con piume di cartoncino colorato, verranno truccati
in viso e, dopo l'ascolto della storia, riceveranno in dono una magica pallina
di argilla; un amuleto che ha il potere di ascoltare e conservare tutti i suoni
e le parole che sente. Da diversi anni Pietro Tartamella nei panni del
"Raccontastorie della Tenda Indiana" gira le piazze d'Italia, dal Piemonte alla
Sicilia, per far conoscere ai bambini e agli adulti che amano ascoltare le
storie, la cultura degli Indiani d'America. (Pietro Tartamella)
Borgata
Madonna della Rovere 4 10020 Riva presso Chieri (TO) tel/fax
011/9468397
P.S. Per un maggiore approfondimento
del lavoro di P.Tartamella come raccontastorie si rimanda all'intervista apparsa
sul libro "Raccontar Storie" di Rita Valentino Merletti, edizioni
Mondadori.
«Progetto Sorriso» è l'iniziativa di cooperazione avviata un anno fa a San Bonifacio. Per INFORMAZIONI: progettosorriso@infinito.it . Per versare il proprio contributo ricordiamo che è possibile utilizzare il conto corrente postale di "Progetto Sorriso - El Salvador": ccp numero 21008305 - intestato a: Amedeo Tosi - Chiara Terlizzi. Indirizzo: località Praissola 74/b - 37047 San Bonifacio (Verona) - Causale del versamento: "Progetto Sorriso". Progetto Sorriso invierà tempestivamente quanto raccolto al gruppo di appoggio "Italia-Cuscatlan" di Turbigo (Milano), incaricato per le operazioni bancarie.