Luigi Pulci
MORGANTE
 
CANTARE DECIMOQUINTO
Benigna Maestà, Vita superna,
ch'allumi questo e quell'altro emispero,
principio d'ogni cosa santa etterna,
donami grazia che nel giusto impero
a' tuoi pie' santi l'anima discerna,
tanto ch'io riconosca il falso e 'l vero;
e 'nsino al fine il mio debole ingegno
ti priego aiuti, se 'l mio priego è degno.
Fecion consiglio Rinaldo e Balante
che si movessi la gente cristiana
e che s'andassi a trovar l'amostante;
e così confermava Lucïana.
Fu la novella in Persia in poco stante
che ne veniva gran turba pagana;
e l'amostante ancor non sapea scorto
che gente fussi, e che Vergante è morto.
Partîrsi dunque centoventimila
di gente valorosa e fiera e magna,
per quel che l'aütor nostro compila,
con que' che Lucïana avea di Spagna;
né creder ch'egli andassino alla fila:
coprieno i monti, il piano e la campagna,
tanto che sono in Persia capitati
e presso alla città tutti accampati.
Rinaldo, che dì e notte non soggiorna
per rïavere il suo cugin perfetto,
poi ch'attendata fu la gente adorna,
all'amostante mandò Ricciardetto,
dicendo: - A lui va' presto, e qui ritorna
con la risposta, e conchiudi in effetto
ch'a corpo a corpo oppur campal battaglia
sùbito fuor ne venghi alla schermaglia. -
E Ricciardetto andò come e' gl'impose
e fece all'amostante la 'mbasciata.
Il qual molto superbo a lui rispose
che non sa chi si sia questa brigata
e molta maraviglia ha di tal cose;
che la Corona sua, sempre onorata,
combatter non è usa mai in Levante
con qualche vile arcaìto o amirante:
che truovi uom simigliante a sua Corona,
e poi verrà di fuor, comunche e' vuole,
a corpo a corpo a provar sua persona;
ma di campal battaglia assai si duole
sanza giusta cagion lecita o buona;
e poi soggiunse ancor queste parole:
- Se tu non fussi messaggier mandato,
colle mie man so ch'io t'arei impiccato.
Non lascio per amor, ma per vergogna.
A quel che t'ha mandato fa' risposta:
domandal s'egli è desto oppur se sogna;
ché molto pazza fu la sua proposta.
Né d'aspettar qui altro ti bisogna:
questo ti basti, e vattene a tua posta. -
Ma Ricciardetto non fu pazïente,
e così disse disdegnosamente:
Se conoscessi ben chi a te mi manda,
nol chiameresti arcaìto per certo,
e pazza non terresti sua domanda;
ma si conosce il tuo vil core aperto.
Sappi che, s' tu se' re da questa banda,
quand'io t'avessi pur molto sofferto,
o amostante vil, superbo e sciocco,
il mio signore acquistato ha il Murrocco,
e di Carrara e d'Arma è coronato
e molti altri reami tiene al mondo;
e non sarebbe Marte biasimato
combatter con tal uom sì rubicondo. -
L'amostante, veggendol furïato,
rispose: - In altro modo ti rispondo:
ritorna al tuo signor che ti mandòe
e di' ch'un gran baron gli manderòe. -
Ricciardetto tornò nel campo tosto,
e disse come il fatto era seguìto
e quel che l'amostante gli ha risposto.
Lasciàn costor posarsi un poco al lito,
ché 'l messo ha fatto quel che gli fu imposto;
torniamo all'amostante sbigottito,
che non sapea che farsi e sta sospeso
e di tal caso avea nel cor gran peso.
Veggendol così afflitto, Chiarïella
diceva: - Io ci conosco un buon rimedio.
Tu sai che 'l miglior uom che monti in sella
si dice ch'è Orlando; ond'io più a tedio
non ti terrò, - dicea la damigella
- poi che tu se' condotto a questo assedio:
sappi che quel che tu tieni in prigione
il conte Orlando è, figliuol di Mellone;
e credo che farà sol per mio amore
ciò ch'io vorrò, ché così m'ha promesso
più e più volte, ch'io gli ho fatto onore
sempre dal dì che in carcere fu messo. -
Sùbito crebbe all'amostante il core,
e disse: - Può Macon far che sia desso?
Troppo mi piace tu l'abbi onorato,
ché 'l Ciel per nostro ben l'ha riservato.
Ma vo' che mi prometta ritornarsi,
finita la battaglia, poi in prigione,
ché 'l gran Soldan potre' meco adirarsi,
ché sai ch'io il presi a sua contemplazione;
e qualche modo poi potre' trovarsi
per questo mezzo alla sua salvazione. -
E Chiarïella a Orlando n'andò presto
e d'ogni cosa gli chiosava il testo.
Se tu volessi per mio amore, Orlando,
combatter con costui che vuol battaglia,
questo servigio io lo verrò scultando
nel cor per sempre, se Macon mi vaglia:
io te ne priego, io mi ti raccomando.
Un destrier ti darò coperto a maglia. -
Rispose Orlando: - Sia quel che ti piace:
meglio è morir che stare in contumace.
Ah! - disse Chiarïella - è questo quello
ch'io t'ho promesso mille volte e mille?
Tu m'hai passato il cor con un coltello.
Io verrò, dico, queste porte aprille
come a te fia in piacer, signor mio bello;
ma sol per ricoprir molte faville,
Carlo aspettavo che di qua passassi,
acciò che più sicuro il fatto andassi.
Non ti curar prometter ritornarti
nella prigion, poi che 'l mio padre vuole,
ch'io verrò, per Macone, a liberarti,
prima che molti dì s'asconda il sole.
Io vo' il destrieri e l'armi apparecchiarti. -
Così furon finite le parole,
e di prigione Orlando liberato,
e innanzi all'amostante appresentato.
L'amostante l'abbraccia umilemente,
e quanto può del suo fallir si scusa;
e se gli ha fatto oltraggio, che si pente,
e 'l gran Soldan di ciò ne 'ncolpa e accusa;
e che per far la pace il fe' vilmente,
come per suo miglior talvolta s'usa,
e lecito operare era ogni ingegno
e tradimento, per salvar sé e 'l regno.
Orlando, come savio, fu contento,
e disse: - Per amor della tua figlia
farò sol quel che ti fia in piacimento,
ché così Chiarïella mi consiglia;
ché so che sanza lei morivo a stento,
e ch'io sia vivo mi par maraviglia. -
Armossi tutto innanzi al re pagano,
e Chiarïella l'armò di sua mano.
Come fu armato, saltò in sul destrieri,
e Chiarïella gli fe' compagnia,
armata, con trecento cavalieri;
così dall'amostante si partia,
verso dell'oste pigliava il sentieri.
Come Rinaldo apparir lo vedia,
che stava attento, armato, al padiglione,
subitamente montava in arcione.
E Lucïana anche lui aveva armato
e datogli il destrier che gli donòe
a Siragozza, e poi l'ha accompagnato,
e molti cavalier seco menòe:
adunque il giuoco è molto pareggiato!
E così inverso Orlando se n'andòe
Rinaldo, e salutò cortesemente,
e la risposta fu similemente.
Ma l'uno e l'altro quanto può s'ingegna
non essere alla voce conosciuto,
acciò ch'al suo disegno ognun pervegna.
Dicea Rinaldo dopo il suo saluto:
- Io credo, cavalier, ch'al campo vegna
per far coll'arme in man quel ch'è dovuto:
piglia del campo, ognun mostri sua forza. -
E volson l'uno a poggia e l'altro a orza.
Orlando volse con tanta destrezza
nel dipartirsi al suo caval la briglia,
che non si vide mai tal gentilezza;
e Lucïana affisava le ciglia:
parvegli un atto di molta prodezza;
ma Chiarïella con seco bisbiglia:
«Questo è pur quel che 'l mondo grida certo
nell'arme tanto valoroso e sperto».
Rivoltava il destrier Rinaldo prima;
comincia al modo usato a furïare.
Orlando che sia vòlto anco si stima,
sùbito indrieto lo venne a trovare.
Ma non potre' qui dir prosa né rima
qual sia il valor ch'ognun usa mostrare:
s'Anibal parea l'un, l'altro è Marcello;
se l'un volava, e l'altro era un uccello.
E' si vedea sol polvere e faville:
non credo ch'a veder fussi più degno
alla città famosa Ettorre e Achille:
ognun di grande ardir mostrava segno.
Ma che bisogna far tante postille,
o dar per fede a chi nol crede il pegno?
Non son costor de' paladin di Francia
e' miglior cavalier che portin lancia?
Le lance si spezzorno parimente
sopra gli scudi, e' destrier via passorno
come fólgore va molto fervente.
Poi colle spade a ferirsi tornorno;
or quivi s'accostò tutta la gente,
quivi la zuffa insieme rappiccorno.
Era venuto a vedere il gigante
con Lucïana, chiamato Corante
e stava in piè come un pilastro saldo
a veder di costor la gran tempesta.
E Lucïana avea messa a Rinaldo
indosso una leggiadra sopravvesta;
Orlando, ch'era insuperbito e caldo,
con Durlindana avea stampata questa;
e Lucïana si doleva a morte,
dicendo: «Mai non vidi uom tanto forte».
Egli eran l'uno e l'altro sì infiammati,
Rinaldo e 'l conte Orlando, che l'un l'altro
non iscorgea, tanto erano infiammati!
Né si vedea vantaggio all'uno o l'altro;
ferivansi co' brandi sì infiammati
che nel colpirsi dicea l'uno all'altro:
- Aiùtati da questo, can malfusso! -
e detto questo, si sentiva il busso.
Rinaldo dètte un colpo al conte Orlando
sopra il cimier, che gli fece sentire
Frusberta, che ne venne giù fischiando:
non ebbe alla sua vita un tal martìre,
e 'nsino in su la groppa vien piegando,
e disse: «O Dio, non mi lasciar morire!
Aiutami tu, Virgin benedetta!»;
e 'l me' che può nell'armi si rassetta.
E trasse con tanta ira Durlindana
al prenze, che lo giunse in su l'elmetto,
il qual sonò che parve una campana
e con fatica alla percossa ha retto;
ed ogni cosa vide Lucïana,
tanto ch'ell'ebbe del colpo sospetto,
ché 'nsino al collo del destrier piegossi
Rinaldo, tal ch'a gran pena rizzossi.
Non n'arebbe però voluti tre,
ch'uscito sare' fuor del seminato;
pur si rïebbe, e ritornava in sé.
Il brando a' crini il cavallo ha trovato,
sì che due parte del collo gli fe',
e 'nsieme con Rinaldo è rovinato.
Gridò Rinaldo al conte: - Traditore!
Tu l'uccidesti per viltà di core. -
Rispose: - Traditore - Orlando - o vile
non fu' mai reputato alla mia vita,
ma sempre, in verità, baron gentile.
Or se mi venne la mazza fallita,
e' me ne 'ncresce, e però parlo umìle.
Ma innanzi che da me facci partita
io ti farò disdir quel che tu hai detto! -
e poi saltò del suo caval di netto.
E cominciorno più aspra battaglia
che si vedessi mai tra due baroni:
lo scudo in pezzi l'uno all'altro taglia;
non cavalier parieno, anzi dragoni;
e benché e' regga la piastra e la maglia,
pe' colpi spesso cadean ginocchioni;
e l'uno e l'altro soffiava e sbuffava
come un leone o altra fera brava.
Dànnosi punte, dànnosi fendenti,
dànnosi stramazzon, dànno rovesci;
fannosi batter drento all'elmo i denti,
frugano in modo da sbucare i pesci,
alcuna volta, co' brandi taglienti,
acciò che meglio il disegno rïesci:
raddoppia il colpo l'uno a l'altro e piomba,
e l'aria e 'l cielo e la terra rimbomba.
Rinaldo un tratto Frusberta disserra
per dare al conte Orlando in su la testa:
Orlando si scostò, donde il brando erra,
e cadde in basso con grande tempesta,
che si ficcò più d'un braccio sotterra:
pensa se fatto gli arebbe la festa
e se fu grande il furore e la rabbia,
ch'appena par che la spada rïabbia!
Orlando allor se gli scagliava addosso,
e grida: - Or potre' io, come tu vedi,
tagliarti con la spada insino all'osso,
poi che tu hai confitto il brando a' piedi;
ma basta che tu intenda sol ch'io posso,
ch'io non son traditor come tu credi. -
Disse Rinaldo: - Ogni ragione hai tue,
e che sia traditor mai dirò piùe. -
Era già sera, e 'l sol verso la Spagna
nell'occeàn tuffava i suoi crin d'oro;
e Chiarïella graziosa e magna
benignamente parlava a costoro:
- Perché e' si fa già bruna ogni campagna,
ponete fine a sì fatto martoro;
e per mio amor così vo' che si segua:
che venti dì facciate insieme triegua. -
E l'uno e l'altro rimase contento.
Diceva Chiarïella: - Al mio parere,
non vidi mai più a due tanto ardimento,
né mai più penso a' miei giorni vedere:
io triemo tutta, quando io mi rammento
de' colpi fatti e del vostro potere;
e perché tanta virtù si conservi,
ho chiesto triegua e vo' ch'ognun l'osservi. -
Rinaldo si tornò col suo Balante
al padiglione, e la sua Lucïana
gli trasse l'arme ch'avea messe avante.
Orlando torna alla città pagana,
e Chiarïella disse all'amostante
che gli pareva oltre ogni cosa umana
quel ch'avea fatto in sua presenzia Orlando,
dicendo: - Quanto so tel raccomando. -
Orlando volle in prigion ritornarsi,
e rende Durlindana e l'armadura
e sta con Chiarïella a ragionarsi.
Or ritorniamo al campo alla pianura.
Corante l'altro giorno fece armarsi,
dicendo: - Io intendo provar mia ventura. -
Ed accostossi alle mura alla terra,
e mandò a dir che cercava di guerra.
Aveva cinquecento scelti quello
de' miglior ch'egli avessi nel suo campo;
era montato in su 'n un suo morello
nato d'alfana, e menava gran vampo,
chiamando l'amostante e tristo e fello,
dicendo: - Contra me non arai scampo,
né triegua o pace o patti, né concordia,
ch'uom non se' degno di misericordia. -
Erano usciti già certi pagani
della città col gigante alla mischia,
ma tutti gli straziava come cani:
a qual le spalle, a chi il capo cincischia,
colpi menando sì aspri e villani
che per paura nessun più s'arrischia
a dieci braccia accostarsi alla mazza;
e bisognava, con sì fatta razza.
Chiarïella sentì che 'l saracino
a molti il capo ha schiacciato come uova
e fa fuggire il suo popol meschino;
sùbito Orlando alla prigion ritruova,
e dice: - A questa volta, paladino,
aiutami, poi ch'altro non mi giova:
sappi ch'egli è comparito un gigante
ch'ammazza ognun che se gli para avante.
A te ricorro come mio refugio,
che non mi lasci in questi casi stremi:
e' debbe avere un poco il cervel bugio,
ch'ognun minaccia, e 'l Ciel non par che temi.
E' ti convien soccorrer sanza indugio,
ché tutto il nostro popol par che triemi,
e per paura ognun tornato è drento,
ché del bastone hanno avuto spavento.
E' n'ha già bastonati centinaia,
e trita lor le carni, i nervi e l'ossa. -
Rispose Orlando: - Sempre ove a te paia
la mia persona, Chiarïella, è mossa;
e so che, se m'aspetta a la callaia,
vedrai che la tua gente fia riscossa. -
Fecesi l'arme trovare e 'l cavallo,
e Chiarïella sua sol vuole armallo;
e fece armare alquanti cavalieri.
Orlando disse volea poca gente:
che lasci col gigante a lui i pensieri.
Armossi Chiarïella incontanente
e con Orlando montava a destrieri,
anzi sù vi saltò molto attamente;
e 'l suo fratel, ch'era ardito e gagliardo,
n'andò con lei, che avea nome Copardo.
Era il gigante alla porta aspettare;
vide costoro e innanzi si facea.
Ma Chiarïella, che 'l vide accostare:
- Io vo' con esso provarmi, - dicea
- se questa grazia, Orlando, mi vuoi fare. -
Orlando ch'è contento rispondea.
Allor la dama va inverso il pagano,
che se n'avvide e prese un'aste in mano.
Abbassa la sua lancia Chiarïella,
e poi nel petto al gigante la spezza;
ma non si mosse punto della sella
per sua gran forza e per la sua grandezza;
e giunse nello scudo la donzella
con l'aste dura e con molta fierezza,
e fecela cader fuor dell'arcione,
che molto spiacque al figliuol di Millone.
Corante la volea pigliar pel braccio
e come il lupo portarnela via.
Diceva Orlando: - Non gli dare impaccio:
se tu la tocchi, per la fede mia,
per mezzo il petto la spada ti caccio!
Oltre, gaglioffo pien di codardia!
Della tua gran viltà, per Dio, m'incresce
ed è ben ver ch'ogni trista erba cresce.
Non ti vergogni tu donna sì degna
volerne via portar, can peccatore,
che in tutte quelle parte ove il sol regna
non è donzella degna di più onore?
Né vo' che 'l suo cader tuo pregio tegna,
ché fu difetto del suo corridore. -
Disse il gigante: - Per Macon, ch'io sono
contento, e per prigione a te la dono. -
Orlando disse: - Tu mi pari or saggio,
che quel che non puoi vender, vuoi don farne.
Se tu vedessi costei nel visaggio,
diresti: «Cibo non è da beccarne
un uom sì rozzo, rustico e selvaggio»;
ch'io so che' denti tuoi non son da starne.-
Allor Copardo addosso a quel si getta
per far della sorella sua vendetta;
e l'uno e l'altro una lancia pigliava,
e di concordia insieme si sfidaro;
ma alfin Copardo in terra si trovava,
e restò prigionier sanza riparo;
per che Corante a Orlando parlava:
- Che costui sia prigion tu intendi chiaro. -
Così, per non opporsi alla ragione,
Copardo n'andò preso al padiglione.
Disse il gigante: - Ed anco la donzella
è mio prigion, ma non la vo' contendere,
però ch'io la gittai pur della sella;
e s'io volessi, io te la farei rendere;
che tu dicesti ch'io ti donai quella
per questo, ch'io non la potevo vendere. -
Orlando disse: - Sia come si vuole,
con l'arme arai costei, non con parole. -
Disse il gigante: - Disfidato sia,
da poi che tu m'hai tolto la mia preda,
poi mi minacci e dimmi villania
e credi per viltà te la conceda:
io t'ho donato per mia cortesia
questa donzella, e par che nol creda. -
Orlando al suo caval la briglia volse,
ed una arcata o più del campo tolse;
poi ritornava per dargli la mancia;
e 'l saracin con la lancia s'abbassa;
ma 'l conte Orlando gli pose alla pancia,
e 'l petto e 'l cuore e le reni gli passa:
due braccia o più rïusciva la lancia,
e parve allor rovinassi una massa,
perché Corante abbandonava il freno
e dètte un vecchio colpo in sul terreno.
Rinaldo al padiglione aveva detto,
quando Copardo prigion fu menato,
che andassi tra le squadre a suo diletto,
ché gl'increscea di tenerlo legato;
e giurato gli avea per Macometto,
se dal gigante non è liberato,
rappresentarsi a ogni suo volere;
e va pel campo veggendo le schiere.
In questo tempo la novella viene
come Corante caduto era morto,
e che passato è il ferro per le schiene.
Ebbe di questo Rinaldo sconforto,
e volle chi l'uccise intender bene,
giurando vendicar sì fatto torto;
e minacciava e' facea gran tagliata
comunche e' fusse la triegua spirata.
Copardo già pel campo aveva inteso
come questo era d'Orlando cugino;
però veggendo Rinaldo sì acceso,
rispose: - A me perdona, paladino:
per quel ch'i' ho da tua gente compreso,
la pace si farà con poco vino;
io t'ho a dir cose che ti piaceranno,
e fia silenzio posto a tanto affanno.
Sappi che quel c'ha combattuto teco
è 'l conte Orlando, che preso dimora;
ed a tua posta il menerò qui meco,
per quello Iddio che la mia gente adora. -
Rinaldo, il dì che combatté con seco,
di sua gran forza era ammirato ancora,
e cominciossi tosto a ricordare
ch'altri ch'Orlando nol poteva fare.
E se non fusse la sorella mia, -
dicea Copardo - che s'è innamorata
della sua fama e di sua gagliardia,
sarebbe or la sua vita annichilata,
perché il mio padre non lo conoscìa.
Ma poi che vide la terra assediata,
gli dètte Chiarïella per rimedio
di liberarlo per levar l'assedio;
ma per paura lo tien del Soldano
e non gli dà di partirsi licenzia.
Ma or tu se' qui con armata mano:
io ti darò la città in tua potenzia,
tanto m'incresce di tal caso strano
d'un uom sì degno e di tanta eccellenzia;
la mia sorella tanto amor gli porta
ch'a tradimento darenti una porta.-
Rinaldo, ch'avea già legato il core
per gran dolcezza, abbracciava Copardo,
e disse: - Io sento già tanto fervore
del mio cugin, che tutto nel petto ardo.
So che tu parli con perfetto amore,
se bene alle parole tue riguardo;
e Chiarïlla, per la fede mia,
si loderà della sua cortesia.
A mio parer, ritorna alla cittate
e di' con Chiarïella questo fatto.
Quando fia tempo poi me n'avvisate,
ch'io so che rïuscir ci debbe il tratto;
ch'io mi confido nella tua bontate
sanza far teco altra convegna o patto. -
E dèttegli il cavallo e l'armi sue,
e presto al padre suo dinanzi fue.
L'amostante dicea: - Chi t'ha mandato? -
Copardo disse: - Da me son fuggito. -
Rispose l'amostante: - Tu hai fallato! -
poi disse: - Forse è pur miglior partito,
che non t'avessi un giorno là impiccato. -
Copardo a Chiarïella sua n'è ito,
ed ogni cosa ragionorno insieme,
e la fanciulla d'allegrezza geme.
Erasi Orlando tornato in prigione
quel dì che al campo avea morto Corante.
La damigella fe' conclusïone
di tradir la sua patria e l'amostante,
e rinnegar con questo anco Macone:
or vedi questo amor quanto è costante!
Lasciò Copardo, e vassene a Orlando,
che si vivea all'usato sospirando,
e disse: - Che diresti tu, barone,
se fussi il tuo Rinaldo qua venuto
per liberarti e trarti di prigione,
e se tu avessi con lui combattuto
e mortogli già sotto il suo roncione,
acciò che non ti possi dare aiuto?
Non sarebbe ragion tu confessassi
essere ingrato, a chi ne domandassi?
Or oltre, io ti vo' dir presto ogni cosa
e darti una novella che fia buona,
ch'io veggo la tua vita assai dogliosa:
sappi che 'l tuo Rinaldo ci è in persona
per trarti di prigion sì tenebrosa,
come colui che 'l grande amore sprona:
per questo all'amostante ha mosso guerra,
e per tuo amor si combatte la terra.
Copardo è ritornato e detto questo.
E perch'io t'ho donato il mio amor tutto,
l'anima e 'l cuore e s'altro ci è di resto,
m'accordo che 'l mio padre sia distrutto
e dare al tuo cugin la città presto,
acciò che del mio amor tu vegga il frutto,
ch'io non ti pasca più di foglie e fiori,
e che tu esca omai di carcer fuori. -
Orlando, quando intese Chiarïella,
rispose: - Io credo tu fussi mandata
il primo dì dal Ciel una angiolella
ch'a la prigion mi ti fusti mostrata;
e se' sempre poi stata la mia stella
e la mia calamita a te voltata.
Qual merito, qual fato vuol ch'io sia
in grazia tanto a Chiarïella mia?
Io ti dono le chiavi in sempiterno
della mia vita, e tien' tu il core e l'alma:
io vo' che 'l nostro amor si facci etterno.
Tu se' colei che l'ulivo e la palma
m'arrechi, e che mi cavi dello inferno
e la tempesta mia converti in calma. -
E non poté più oltre Orlando dire,
tanta dolcezza gli parea sentire.
Chiarïella a Copardo ritornava,
ed ordinò che la notte seguente
Rinaldo venga, ed Orlando cavava
di fuor della prigion segretamente;
ed a Rinaldo un messaggio mandava
e scrisse che venissi arditamente;
e soggiugnea queste parole appresso:
«Giunta la letter, sia impiccato il messo».
Rinaldo, ch'a questa opera era attento,
aveva in punto già le genti armate;
la lettera ubbidiva a compimento:
al messo sue vivande ebbe ordinate
e fecegli de' calci dare al vento;
poi se n'andò alla porta alla cittate:
quivi trovava insieme armati in sella
Copardo con Orlando e Chiarïella.
Preso la porta, levorno il romore:
- A sacco, a sacco! Alla morte, alla morte!
E muoia l'amostante traditore
e' suoi seguaci e tutta la sua corte! -
Il popol si destò tutto a furore:
vide i nimici già drento alle porte,
e chi fuggiva, e chi per arme è corso,
chi si nasconde, e chi chiama soccorso.
L'amostante si desta spaventato,
e sente tanta gente e tante grida;
sùbito alcun de' servi ha domandato:
- Che vuol dir questo, che 'l popolo strida? -
e 'l me' che può si lieva e fussi armato,
e corre come cieco sanza guida,
e non sapea lui stessi ove e' si vada,
ch'avea smarrita e la mente e la strada.
Pur s'avvïava ove e' sentia gran zuffa,
e riscontrossi appunto in Ulivieri,
ch'era nel mezzo di questa baruffa,
e della spada gli dètte al cimieri,
tanto che 'l colpo ne lieva la muffa;
ma non poté piegarlo in sul destrieri.
Ulivier lo conobbe incontanente,
e trasse della spada un gran fendente.
Aveva un cappelletto di cuoio cotto
l'amostante la notte in testa messo;
ma Ulivier lo passava di sotto,
e 'l capo e 'l collo al saracino ha fesso,
e fecelo d'arcion giù dare il botto.
La gente si fuggì, che gli era appresso,
piena di doglia e terrore e sconforto,
sì come avvien quando il signore è morto.
Rinaldo avea veduto cader quello:
- Benedetto ti sia - gridò - la mano,
ch'a quel canaccio partisti il cervello!
Tu se' pur de' baron di Carlo Mano. -
Or qui comincia avvïarsi il macello.
Era venuto un gigante pagano
che si chiamava il feroce Grandono,
e gettasi tra questi in abbandono.
Ulivier riscontrò, quel maladetto,
e trasselo per forza da cavallo,
però ch'al colpo suo non ebbe retto;
poi si gittava in mezzo a questo ballo,
e perché il popol molto è insieme stretto,
colpo non mena che giugnessi in fallo,
e spesso dava anche a' suoi di gran botte,
ché d'error pieno è il furore e la notte.
E mentre che 'l gigante pur combatte,
vi sopraggiunse a caso Lucïana;
ma quel Grandon, come a costei s'abbatte,
gli dètte una percossa assai villana,
però che le picchiate sue son matte,
e finalmente in terra giù la spiana;
e non sentia mai più né gel né caldo,
se non che corse a quel furor Rinaldo;
e ripose a caval questa e 'l marchese,
e domandò chi l'aveva abbattuto.
Disse Ulivieri: - In terra mi distese
un gran gigante, e poi non l'ho veduto. -
Mentre che sono in sì fatte contese,
Orlando a Ricciardetto s'è abbattuto;
e perché e' nol conobbe nella stretta,
lui e 'l caval d'un colpo in terra getta.
E poi trovò Terigi suo scudiere
e sopra l'elmo gli appiccava il brando,
per modo ch'e' rovina del destriere,
benché l'elmetto non venga spezzando.
Quando Terigi si vide cadere,
dicea fra sé: «Dove se' tu, Orlando?
Ché s' tu ci fussi, io non sarei cascato,
e pur cadendo, io sarei vendicato».
Orlando il riconobbe alle parole:
dismontò presto e chiesegli perdono,
dicendo: - Del tuo caso assai mi duole.
Ma che tu monti in sella sarà buono.
Così sempre la notte avvenir suole. -
Diceva Orlando: - Or gli altri dove sono?
Aresti tu veduto Ricciardetto
o Ulivier? ch'io ho di lor sospetto. -
Disse Terigi: - Ulivier vidi dianzi,
che cacciava una turba di pagani;
ma Ricciardetto è in terra qui dinanzi,
e stato sarai tu colle tue mani.
Credo che poco di vita gli avanzi:
morto l'aranno questi cani alani. -
Orlando guarda, e Ricciardetto vede
che si difende con la spada a piede;
e grida: - Ah, Ricciardetto, hai tu paura?
Orlando è teco, tu non puoi perire,
ché sai ch'io ho fatata la ventura.
Quel che t'ha fatto della sella uscire
è stato un gran tuo amico, o tua sciagura. -
Quando Ricciardo sentì così dire,
disse: - Per certo io mi maravigliai,
ché con un colpo io e 'l caval cascai;
e dissi fra me stesso: «Ècci pagano,
il qual dovessi aver tanto valore?» -
Allora Orlando strigne il brando in mano
e gettasi là in mezzo del furore,
e grida: - Ah, traditor popol villano,
con un soletto acquistar credi onore?
Addrieto, saracin, canaglia, porci,
che Ricciardetto mio credete tòrci. -
E Ricciardetto in sul caval rimonta,
e di Rinaldo cercan per la terra,
tanto ch'Orlando e Rinaldo s'affronta,
e cominciorno a rinforzar la guerra.
E Chiarïella i suoi peccati sconta,
ché spesse volte si truova a gran serra,
e con fatica ha salvata la vita,
ché da Copardo e gli altri era smarrita.
Combatteron costor tutta la notte;
ma i terrazzani alfin domandon patti,
ch'avén le membra faticate e rotte
e dubitavan non esser disfatti.
Era tra lor delle persone dotte:
poson giù l'arme con questi contratti:
che la città sia lor liberamente,
salvando tutta la roba e la gente.
Era apparito in orïente il giorno,
e Chiarïella a Rinaldo ne viene,
e sì diceva: - Cavaliere adorno,
le cose veggo omai che vanno bene. -
E tutti insieme al gran palazzo andorno:
Rinaldo per la man Copardo tiene
e molte cose con esso favella;
Orlando sempre allato ha Chiarïella.
Vennevi il popol tutto la mattina
a visitar costor come signori.
Rinaldo parla con molta dottrina:
- O Chiarïella, quanto m'innamori!
Di questa terra vo' che sia reina
pe' benefìci e' servigi e gli onori,
per non parer per nessun modo ingrato;
e 'l tuo Copardo re sia coronato. -
E fe' dell'amostante ritrovare
il corpo, e poi gli dètte sepultura,
e tutta la città fece ordinare.
Orlando d'ogni cosa gli diè cura,
e sta con Chiarïella a motteggiare;
quando cavalca insin fuor delle mura,
ed ogni dì se ne vanno a sollazzo:
Rinaldo governava nel palazzo.
Or ci convien lasciar costoro un poco.
Il Soldan si tornava a Bambillona,
fatta la pace e messo Orlando in loco
che pensò che lasciassi la persona;
sentì come era acceso un altro foco
e come egli era morta la Corona
dell'amostante e presa la sua terra,
e cominciava a dubitar di guerra.
Indrieto verso Persia ritornava
col campo tutto per miglior partito,
e presso a poche leghe s'accampava,
e 'ntese meglio il caso come era ito.
Un suo messaggio alla città mandava,
e duolsi l'amostante sia perito,
ma che comunche la cosa si sia,
che s'appartiene a lui la signoria.
E se Rinaldo la terra non lascia,
che s'apparecchi di difender quella;
se non che gli darà di molta ambascia;
e troppo biasimava Chiarïella,
che come meretrice, anzi bagascia
d'Orlando, il tradimento avea fatto ella;
ed era un barbassor molto stimato
colui che imbasciadore avea mandato.
Giunse al palazzo, ove ciascun dimora,
il barbassoro, e spose la 'mbasciata:
- Quel Macometto che per noi s'adora
distrugga questa gente battezata;
e 'l mio signor, ch'è nel campo di fuora,
e la sua figlia, c'ha l'arme incantata,
famosa e forte, che si chiama Antea,
salvi e mantenga, - in tal modo dicea
e guardi e salvi ciascun saracino,
e spezialmente que' del gran Soldano;
e viva Trevicante ed Apollino,
e sia distrutto ogni fedel cristiano,
e sopra tutti Orlando paladino
e 'l superbo signor di Montalbano,
Astolfo col Danese ed Ulivieri
e Carlo e Francia e tutti i cavalieri. -
Rinaldo non poté più tanto orgoglio
sofferir del pagan bestiale e matto,
che par che gli abbi trovati tra 'l loglio;
disse a Orlando: - Io vo' fare un bel tratto,
ch'io so punire i pazzi, quand'io voglio:
vedrén come a saltar costui fia adatto,
o come egli abbi la persona destra. -
E 'n piazza lo gittò d'una finestra.
La novella al Soldan n'andò di volo;
donde il Soldan si duol molto aspramente,
e minacciava apparecchiar lo stuolo
e la città assediar con la sua gente.
Veggendol la sua figlia in tanto duolo,
diceva: - La ragion ti reco a mente,
che non dovea però il tuo barbassoro
parlar, come si dice, in concestoro:
per quel ch'io intendo, e' disse cose strane.
Se vuoi che la 'mbasciata da tua parte
udita sia dalle gente cristiane,
non ti bisogna altro messaggio o carte:
lascia andar me, che con parole umane
dirò con miglior modo e miglior arte;
e so ch'io tornerò con la risposta. -
Donde il Soldan rispose: - Va' a tua posta. -
Questa fanciulla udito avea per fama
Rinaldo nominar molto in Soria,
e perché le virtù molto quella ama,
s'innamorò della sua gagliardia.
Or s'alcun vuol saper come si chiama,
quantunque il barbassor detto l'avia,
replicheren ch'ell'avea nome Antea;
e tutte sue bellezze eran di dea.
E' parevon di Danne i suoi crin d'oro;
ella pareva Venere nel volto;
gli occhi stelle eran dell'etterno coro;
del naso avea a Giunon l'essemplo tolto,
la bocca e' denti d'un celeste avoro,
e 'l mento tondo e fesso e ben raccolto;
la bianca gola e l'una e l'altra spalla
si crederia che tolto avessi a Palla;
e svelte e destre e spedite le braccia
aveva, e lunga e candida la mana,
da potere sbarrar ben l'arco a caccia,
tanto che in questo somiglia Dïana.
Dunque ogni cosa par che si confaccia,
dunque non era questa donna umana:
nel petto larga è quanto vuol misura;
Proserpina parea nella cintura;
e Deiopeia pareva ne' fianchi,
da portare il turcasso e le quadrelle;
mostrava solo i pie' piccoli e bianchi.
Pensa che l'altre parte anch'eran belle,
tanto che nulla cosa a costei manchi:
a questo modo fatte son le stelle;
e vadinsi le ninfe a ripor tutte,
ché certo allato a questa sarien brutte.
Avea certi atti dolci e certi risi,
certi soavi e leggiadri costumi
da fare spalancar sei paradisi
e correr sù pe' monti all'erta i fiumi,
da fare innamorar cento Narcisi,
non che Gioseppe per lei si consumi;
parea ne' passi e l'abito Rachele;
le sue parole eran zucchero e mèle.
Era tutta cortese, era gentile,
onesta, savia, pura e vergognosa,
nelle promesse sue sempre virile,
alcuna volta un poco disdegnosa
con un atto magnalmo e signorile,
ch'era di sangue e di cor generosa:
eron tante virtù raccolte in lei
che più non è nel mondo o fra gli dèi.
Sapeva tutte l'arti liberali;
portava spesso il falcon pellegrino;
feriva a caccia lïoni e cinghiali;
quando cavalca un pulito ronzino
(e correr nol facea, ma mettere ali),
da ogni man lo volgeva latino,
e nel voltar, chi vedeva da parte
are' giurato poi che fussi Marte.
Questo cavallo al Soldan fu mandato,
che gliel mandò l'arcaìto mansore
di Barberia, e in Arabia era nato,
né mai si vide il più bel corridore;
e 'l padre a questa l'aveva donato,
però che molto l'aveva nel core;
tra fàlago e sdonnino era il mantello,
né vedrà mai Soria simile a quello.
Egli avea tutte le fattezze pronte
di buon caval, come udirete appresso,
perché nato non sia di Chiaramonte:
piccola testa, e in bocca molto fesso,
un occhio vivo, una rosetta in fronte,
larghe le nari, e 'l labbro arriccia spesso;
corto l'orecchio, e lungo e forte il collo;
leggier sì, ch'a la man non dava un crollo.
Ma una cosa nol faceva brutto,
ch'egli era largo tre palmi nel petto,
corto di schiena e ben quartato tutto,
grosse le gambe e d'ogni cosa netto,
corte le giunte, e 'l piè largo, alto, asciutto,
e molto lieto e grato nello aspetto;
serra la coda ed annitrisce e raspa,
sempre le zampe palleggiava e innaspa.
Il primo dì ch'Antea volle provallo,
fe' cose in Bambillona in su la piazza
che fur troppo mirabil sanza fallo.
Quand'ella vide così buona razza
e le virtù del possente cavallo,
vennegli voglia portar la corazza,
e da quel tempo cominciò armarsi
e in giostre e 'n torniamenti a sprimentarsi.
Poi cominciò in battaglia andare armata
come Camilla o la Pentessilea;
e la sua armadura era incantata,
che nessun ferro tagliar ne potea;
era in Domasco suta lavorata,
fornita d'oro, e più che 'l sol lucea;
e quanti cavalier giostran con quella,
tanti gittati avea fuor della sella.
Eran venuti di tutto Levante,
di Persia, di Fenicia e dello Egitto,
ed alcun cavalier famoso errante:
ognuno aveva abbattuto e sconfitto;
nessun baron più gli veniva avante,
che con la lancia non lo facci al gitto;
e 'nsino al ciel la fama risonava,
e Bambillona e 'l Soldan l'adorava.
E maraviglia non è che l'adori,
ch'ogni suo effetto pareva divino,
al tutto dello uman costume fuori;
massime là quel popol saracino,
ch'era già avvezzo a mille antichi errori,
come si legge di Belo e di Nino:
donde e' credevon certo che costei
fussi nata del seme degli iddèi.
E' si potre' mill'altre cose ancora
delle virtù di questa donna dire;
ma perché e' fugge il tempo e così l'ora,
la nostra storia ci convien seguire;
e se talvolta un bel canto innamora,
pure alfin piace nuove cose udire:
così diren nel bel cantar seguente,
acciò che a tutti consoli la mente.
 
 
 
 

Il Crepuscolo degli Dèi