Luigi Pulci
MORGANTE
 
CANTARE DECIMOSECONDO
O fonte di pietà, fonte di grazia,
madre de' peccator, nostra avvocata,
di cui la mente mia mai non si sazia
di dir quanto tu sia nel Ciel beata,
tu redemisti nostra contumazia
dal dì che 'n terra fusti annunzïata:
non mi lasciare, o Virgine di gloria,
tanto ch'i' possi ordinar questa storia.
Troppo sarebbe lungo a dire in rima
di tanta gente appunto le parole;
e d'ogni cosa far non si dèe stima.
Rinaldo il traditor Gan morto vuole;
Carlo di grazia l'avea chiesto prima:
della qual cosa il popol se ne duole.
Pur lo lasciâr con questa condizione,
che mai più in corte non istia il fellone.
Rinaldo mal contento si ritorna
a Montalban con Ricciardetto insieme.
Ma 'l traditor di Gan, che non soggiorna
e sempre inganni della mente preme,
cominciò presto a ritrar fuor le corna:
perché Rinaldo non v'era, non teme;
e Carlo l'ha salvato dalla morte,
ed or cacciare nol sapea di corte.
E cominciò di nuovo a far pensiero
che Carlo gli credessi al modo antico,
per distruggere alfin tutto il suo impero;
e Carlo ritornato è già suo amico,
e ciò ch'è bianco gli pareva nero.
Diceva Gano: - Intendi com'io dico.
Se viver non vuoi sempre con vergogna,
Rinaldo al tutto spegner ti bisogna. -
Carlo diceva: - Alla fine io la lodo,
perché tu vedi ben quel ch'e' m'ha fatto.
Ma non ci veggo ancor la via né 'l modo
e molte cose con meco combatto. -
Diceva il traditor pien d'ogni frodo:
- Io credo satisfarti a questo tratto.
Come scacciato da te me n'andròe
a Montalbano e secreto staròe;
e manderotti lettere poi scritte
che parrà che sien fatte nella Mecche:
dirò che le mie gente sieno afflitte,
e che punite omai sien tante pecche,
e molte altre parole a te diritte:
ch'io vo' tornare a dir salamalecche,
peccavi, Domine, miserere mei
delle mie colpe e de' processi miei.
Tu mosterrai le lettere palese:
Rinaldo crederrà ch'io sia lontano
e ch'io non torni più in questo paese.
Un dì ch'egli esca fuor di Montalbano,
sùbito insieme saremo alle prese,
e so ch'io l'uccidrò con la mia mano;
e come morto fia, sai che 'l tuo regno
sicuro è poi e tu, imperator degno. -
A Carlo piacque alfin questo consiglio
e fece vista Gan da sé scacciare.
Gan dètte presto a' suoi arnesi di piglio:
prima fingeva sé raccomandare;
Carlo mostrava con turbato ciglio
che 'n corte più non lo vuol raccettare,
e che cercando sua ventura vada,
e ritrovassi sùbito la strada.
Partissi il traditor celatamente,
e presso a Montalban fece un agguato;
e scrisse a Carlo come la sua gente
e lui in Pagania era arrivato;
e mostrava pregare umilemente
che perdonar gli debba ogni peccato;
e Carlo avea le lettere mandate
a Montalbano, e molto palesate.
Rinaldo s'era un giorno dipartito
per passar tempo con un suo falcone,
e Ruïnatto con lui era gito
verso Agrismonte, a lor consolazione.
E Ricciardetto un dì ne giva al lito
del fiume, ove nascoso è Ganellone
in una valle ove è certo boschetto
presso a quel fiume, appiè d'un bel poggetto.
E mentre in qua e 'n là s'andava a spasso,
Gan si pensò che Rinaldo quel sia:
uscì del bosco con molto fracasso
ed assaltollo con sua compagnia,
tanto che preso rimaneva al passo.
La notte inverso Parigi ne gìa
e dètte Ricciardetto preso a Carlo,
ed ordinorno presto d'impiccarlo.
Orlando, poi che questo fatto ha inteso,
molto pregato avea lo 'mperadore
che non guardassi d'aver costui preso,
e non gli facci oltraggio o disonore.
Carlo rispose, di grande ira acceso:
- Io vo' impiccarlo come traditore,
perché d'Astolfo impedì la giustizia,
con esso insieme, per la sua nequizia. -
Diceva Orlando: - E' non è ancora spento
il fuoco, Carlo, ch'arder potre' ancora.
Se tu l'uccidi, io non sarò contento;
Rinaldo ne verrà sanza dimora.
Vedi che Gan già fatto ha tradimento,
e sanza lui non puoi vivere un'ora. -
Carlo dicea: - Traditor non fu mai,
e ci c'ha fatto è perché m'ama assai.
E tu te l'hai recato in su le corna,
tu e Rinaldo, perch'egli è fedele
e dì né notte già mai non soggiorna
di spegner chi contro a me fu crudele. -
Partissi Orlando, e, stato un poco, torna,
e disse: - Io giuro alle sante Evangele
che se tu uccidi, Carlo, il mio cugino,
io ti farò della vita tapino. -
E trasse fuor la spada Durlindana
e colla punta una croce fe' in terra,
e 'n su la croce poneva la mana;
e dipartissi ed uscì della terra.
Ma la regina savia Gallerana
pregava insieme col sir d'Inghilterra
e 'l duca Namo, Ulivieri e 'l Danese,
ch'almen la morte gl'indugiassi un mese.
Carlo le forche in sul fiume di Sena
fece ordinare e ciò che fa mestiero.
Gan traditor grande allegrezza mena,
perché e' pensò rïuscissi il pensiero.
Tutta la corte di sdegno era piena.
Rinaldo e Ruïnatto il suo scudiero
intanto a Montalbano era tornato,
e Ricciardetto suo non v'ha trovato;
e scrisse 'Astolfo come il caso stava:
che l'avvisassi e stessi proveduto,
però che molta gente ragunava
per dare a Ricciardetto presto aiuto.
Astolfo d'ogni cosa lo 'nformava,
e come Carlo gli avea conceduto
un mese tempo a mandarlo alla morte;
ma duolsi sol ch'Orlando non è in corte.
Or questo è quel ch'a Rinaldo dolea,
che si fussi partito il conte Orlando,
ché sanza lui di camparlo temea;
pur la sua gente veniva assettando.
E Gallerana, che gliene 'ncrescea,
ogni dì Carlo veniva pregando
che Ricciardetto libero lasciassi,
acciò che Orlando in corte ritornassi;
e non tentassi tanto la fortuna,
e non credessi tanto al conte Gano;
e se mai grazia far gli debbe alcuna,
che Ricciardetto gli dessi in sua mano.
Ma non poteva ancor per cosa ignuna
rimuover dalla 'mpresa Carlo Mano.
Rinaldo pur quel che seguissi aspetta,
e tuttavia la sua brigata assetta.
Era già presso il giorno diputato,
e Smeriglione e Vivian di Maganza
come Carlo avea detto hanno ordinato;
e Ganellone avea tanta arroganza
ch'ognun che priega è da lui minacciato:
lo 'mperador gli avea dato baldanza,
tanto che Namo per nulla non v'era,
e per isdegno n'era ito in Baviera;
e Berlinghieri ed Ottone ed Avino
s'eron partiti, Avolio e Salamone,
e 'l figliuol del Danese, Baldovino,
veggendo a Gano tanta presunzione.
Erminïon, che fu già saracino,
era con Carlo pien d'afflizïone,
e l'amico d'Astolfo, Lïonfante,
famoso e degno e gentile amirante.
Èvvi Morgante con la damigella
Meredïana e col suo concestoro:
ognun di Ricciardetto assai favella
che Carlo a torto gli dava martoro.
Gan da Pontier sua baronia appella,
quando fu tempo, e comandava loro
che Ricciardetto sùbito legassino
e 'n sul fiume di Sena lo 'mpiccassino.
Rinaldo era venuto, come scrisse
Astolfo, e con sua gente stava attento
aspettar che 'l fratel di fuor venisse.
Vide in un tratto gli stendardi al vento
prima che fuor Ricciardetto apparisse,
e Smeriglion che si facea contento
e molto a quel mestier pareva destro,
e 'l buon Vivian, ch'era l'altro maestro.
Non aspettò che come Astolfo venga
fino alle forche, ma tosto si mosse,
acciò ch'alcuno scherno non sostenga,
che nella fronte sputato gli fosse:
verso la porta par che 'l camin tenga;
tra' Maganzesi in un tratto percosse;
e Ricciardetto suo fu sciolto presto,
che come Astolfo al collo avea il capresto.
Or qua or là si scaglia con Baiardo,
e fece cose quel dì con Frusberta
che chi il dicessi fia detto bugiardo.
Ma come e' fu la novella scoperta,
ognun fuggiva. In questo tempo Alardo
Ismeriglion colla zucca scoperta
trovava, e con un colpo che diè a quello,
gli partì il capo e féssegli il cervello.
E poi si volse con molta tempesta
verso Vivian da Pontier ch'era presso,
e colla spada gli diè in su la testa:
l'elmo e la cuffia insino al mento ha fesso.
Rinaldo a Gan terminò far la festa,
e finalmente s'appicca con esso:
e 'n su 'n un braccio un colpo l'ha ferito,
che cadde in terra pel duol tramortito;
e fu portato come morto via.
E Ricciardetto sopra un destrier monta
che Smeriglione abandonato avia,
e colla spada tra costor s'affronta:
e colpi e le gran cose ch'e' facìa,
per non tediar chi legge non si conta.
Carlo era corso già insino alla porta:
vide Rinaldo, e molta gente morta,
e disse fra suo core: «Io ho mal fatto:
ecco di nuovo il popol sollevato»;
e fuor della città si fuggì ratto.
Rinaldo drento in Parigi era entrato,
e grida: - Popolazzo vile e matto,
come hai tu tanto oltraggio comportato?
A sacco, a fuoco, alla morte, a furore! -
e misse tutto Parigi a romore;
e cominciò in un certo borgo il fuoco
appiccare, e rubar botteghe e case,
tanto ch'a' parigin non parea giuoco:
non si facea qui le misure rase.
Così il furor cresceva a poco a poco,
tanto che pochi drento vi rimase,
sentendo - Al fuoco! - gridare e - Alla morte! -
e per paura uscien fuor delle porte.
Non vi rimase un Maganzese solo
che non fuggissi per la via più piana;
e molto pianto si sentiva e duolo.
Ma la reina presto Gallerana
si misse in mezzo di tutto lo stuolo,
e come savia, benigna ed umana,
pregò Rinaldo che fussi contento
che 'l fuoco almen dovessi essere spento.
Rinaldo aveva sentito ogni cosa
ciò che per Ricciardetto fatto aveva
l'alta reina degna e gloriosa:
sùbito un bando per tutto metteva
che, poi che piace alla donna famosa,
ognun si posi; e 'l fuoco si spegneva.
Prese la terra quel giorno a suo agio,
e Gallerana lo menò al palagio.
E fu quel dì Rinaldo incoronato,
ché contraddir non lo poté persona,
e nella sedia di Carlo è posato,
e messogli poi in testa la corona
e d'una vesta reale addobbato;
e di sua forza ognun quivi ragiona,
perché egli aveva quel dì fatte cose
ch'a tutto il popol fur maravigliose.
Gano in Maganza si fece ritorno;
benché portato vi fu come morto
dalle sue gente che l'accompagnorno.
A Gallerana non fu fatto torto;
ognun come a reina gli è d'intorno:
così Rinaldo comandava scorto
che fatto fussi alla reina onore
come se Carlo fussi imperadore.
Vero è ch'un altro che ne scrive dice
che sùbito ne venne Malagigi,
e menava con seco Beatrice,
che di Rinaldo madre era, a Parigi,
perché esser volea lei la 'mperadrice;
ma 'l prenze si ricorda de' servigi,
e vuol che Gallerana sia in effetto,
perché molto aiutato ha Ricciardetto.
Tornò a Parigi Namo e Salamone
e Berlinghier famoso, e Baldovino
ch'era figliuol del sir dello Scaglione;
tornò Gualtieri a corte, tornò Avino,
tornò con gli altri insieme il franco Ottone,
e tutto quanto il popol parigino;
e Maganzesi ognun nettò la soglia,
che non ve ne rimase seme o foglia.
Fecionsi fuochi assai per la cittate,
fecionsi giostre e balli e feste e giuochi;
furon tutte le dame ritrovate
e gli amador, che non ve n'era pochi;
tanti strambotti, romanzi e ballate
che tutti i canterin son fatti rochi;
sentiensi tamburelli e zufoletti,
lïuti ed arpe e cetre ed organetti.
Era Rinaldo molto reputato
e più che fussi mai contento e lieto,
se non ch'Orlando suo non v'ha trovato,
dond'egli avea gran duol nel suo segreto.
Orlando con Terigi è cavalcato
più e più giorni già contra divieto,
e 'nverso Pagania n'andava forte
con intenzion mai più tornare in corte.
E tuttavolta piangea Ricciardetto,
dicendo: «Io so che Carlo l'arà morto,
ond'io n'ho tanto dolor nel mio petto
ch'io non ispero più trovar conforto;
e 'l traditor di Gan per mio dispetto
fia stato il primo a così fatto torto».
E 'l simigliante Terigi dicea,
ché Ricciardetto troppo gli dolea.
Avea già cavalcato più d'un mese,
e finalmente in Persia si trovava;
e come e' fu condotto in quel paese,
sentì che gran battaglie s'ordinava;
e poi ch'un giorno una montagna scese,
una città famosa ivi mirava,
là dove era assediato l'amostante
dal gran Soldano e da un fer gigante.
Aveva una figliuola molto bella
che luce più che stella mattutina
l'amostante, chiamata Chiarïella,
tanta leggiadra, accorta e peregrina
che per amor di lei montato è in sella
il Soldan con sua gente saracina,
per acquistar, se può, sì bella cosa;
e 'l gran gigante non trovava posa,
ch'era detto per nome Marcovaldo,
venuto delle parti di Murrocco,
di gran prodezza e di giudicio saldo;
ma per amor di lei pareva sciocco,
come chi sente l'amoroso caldo:
ché solea dare a tutti scaccorocco,
ma tanto il foco lavorava drento
che per costei perduto ha il sentimento.
Cavalcava una alfana smisurata
di pel morello, e stella aveva in fronte;
sol un difetto avea, ch'era sboccata,
e pel furor gli par piano ogni monte:
arebbe corso tutta una giornata,
tant'eran le sue membra forte e pronte.
Giunse Terigi e 'l figliuol di Mellone
dov'era del gigante il padiglione,
ch'era tutto di cuoio di serpente
con certi Macometti messi ad oro,
con gran carbonchi, se Turpin non mente,
zaffir, balasci, e valeva un tesoro.
Orlando al padiglion poneva mente
dove il gigante faceva dimoro,
e stava tanto fiso a mirar questo
che Marcovaldo s'adirava e presto:
perché e' giucava a scacchi a suo sollazzo,
sì com'egli è de' gran signor costume.
Volsesi, e disse con un suo ragazzo:
- Chi è quel poltonier che tiene il lume?
Cacciatel via, e' debbe essere un pazzo.
Donde è venuto questo strano agrume? -
Fu preso a Vegliantin tosto la briglia,
ch'Orlando al padiglion tenea le ciglia.
Terigi, quando vide il saracino
ch'avea preso la briglia al conte Orlando,
come fedele e servo al paladino
sùbito trasse alla testa col brando,
e quel pagan gittava a capo chino,
che le cervella fuor vennon balzando.
- Ah, - disse Orlando - come bene hai fatto
a gastigar, Terigi, questo matto! -
Marcovaldo colui vide cadere:
maravigliossi, ché non parve appena
che Terigi il toccassi: - Ah, poltoniere! -
gridava forte - matto da catena! -
e poi si volse a un altro scudiere:
- Piglia quel - disse - e drento qua lo mena,
ch'io non intendo sofferir tal torto,
ch'egli abbi in mia presenzia colui morto. -
Allora Orlando prese Durlindana,
ché tempo non gli par di stare a bada,
ed accostossi alla turba pagana:
Terigi s'arrostava colla spada.
Quanti ne giugne, in terra morti spiana,
tal che non v'è più ignun che innanzi vada:
Orlando a chi non era al fuggir destro
facea col brando il segno del maestro.
Maravigliossi tanto il fer gigante
di quel che vide in un momento fare
al conte Orlando a' suoi occhi davante,
che cominciò così seco a parlare:
«E' basterebbe al gran signor d'Angrante,
che in tutto il mondo si fa ricordare,
quel ch'ha fatto costui qui col suo brando».
Della qual cosa molto rise Orlando.
Fate venir - gridò - tosto mie armi,
ch'io ho di questo fatto maraviglia.
Io vo' con questo cavalier provarmi
che tutta quanta mia gente scompiglia:
veggiàn se ardito sarà d'affrontarmi. -
E la sua alfana pigliò per la briglia;
prese una lancia e 'nverso Orlando corse,
ma 'l buon Terigi del fatto s'accorse.
A un pagan di man tolse una lancia,
e disse: - Piglia, piglia tosto, conte!
Le gentilezze son rimase in Francia.
Ecco il gigante che ti viene a fronte,
né per vergogna arrossita ha la guancia
di venirti a trovar, che pare un monte,
tu con la spada e lui con l'aste in resta:
vedi che gente, anzi canaglia è questa! -
Rispose Orlando: - Sia quel ch'esser vuole,
che in ogni modo non lo stimo un fico.
Vero ch'egli è sì grande che mi duole
ch'a pena gli porrò l'aste al bellico,
ma il brando taglia pur come e' si suole:
con esso il tratterò come nimico. -
Terigi stava a diletto a vederlo,
e Vegliantin ne va come uno smerlo.
E poi in un tratto la lancia abbassava
e va inverso il pagan di buona voglia,
e 'n su lo scudo basso lo trovava:
questo passò come fussi una foglia,
e la corazza e lo sbergo passava,
tanto che Marcovaldo ebbe gran doglia;
e ruppe la sua lancia a mezzo il petto
al conte, bestemiando Macometto.
L'alfana, che pel colpo ebbe paura
perché e' gli parve di molta possanza,
era di bocca, com'io dissi, dura:
sùbito fece col morso l'usanza
e cominciò a sgomberar la pianura.
Ma il conte Orlando seguiva la danza:
egli e Terigi i cavalli spronorno
e drieto a Marcovaldo s'avviorno.
Poi che tutto ebbe attraversato il piano,
giunse l'alfana appiè della montagna;
quivi alfin pur la ritenne il pagano,
però che tutta di sudor si bagna.
Orlando grida: - Saracin villano,
ben t'ho seguito per ogni campagna.
Questo è quel dì che ti convien morire:
volgiti indrieto, tu non puoi fuggire. -
Sentendo il saracin così chiamarsi,
volsesi indrieto e trasse il brando fore,
e disse: - Al mondo ignun non può vantarsi
ch'io lo fuggissi per viltà di core.
Ma sappi che' rimedi son sì scarsi
di questa alfana a frenare il furore
quand'ella piglia colla bocca il morso,
che insin dove tu vedi son trascorso.
Ma tu se' qua condotto dove io voglio,
e 'l tuo compagno ch'uccise il mio servo.
S'io son quel Marcovaldo ch'esser soglio,
non lascerò a tagliarti osso né nervo:
a più di sette abbassato ho l'orgoglio;
e sempre col nimico questo osservo,
ch'io non mi curo per la lancia in fallo,
ma con la spada mi serbo ammazzallo. -
Rispose Orlando: - Tu il di' per vergogna,
ché tu rompesti un gambo di finocchio
a gran fatica, e scusa or ti bisogna;
ed io, ch'allato a te paio un ranocchio,
so che col ferro ti grattai la rogna,
e corse il sangue più giù che 'l ginocchio.
Così t'avessi veduto la dama
che Chiarïella per nome si chiama! -
Disse il pagano: - Or donde hai tu saputo
chi tenga del mio cor le chiavi e 'l freno?
Sappi che molte volte m'ha veduto
gittar più cavalier morti al terreno,
e mai però di me non gli è incresciuto;
ma pur per compiacergli nondimeno,
s'io gli credessi dar sollazzo e festa,
di te, poltron, gli manderei la testa. -
Rispose Orlando: - E' fia più bel presente
la tua, gigante, ch'è maggiore assai.
Oltre, veggiam come sarai valente
e quel ch'a Chiarïella manderai. -
E Durlindana alzò subitamente,
dicendo: - Or Macometto chiamerai! -
e diègli un colpo in su la destra spalla,
che 'l fer gigante in qua e 'n là traballa;
e fece lo spallaccio sfavillare,
ma pure al taglio della spada resse.
E 'l saracin si volle vendicare,
e par ch'un gran fendente al conte desse:
Orlando con lo scudo vuol parare;
ma la pesante spada e dura il fésse
e due parte ne fe', se 'l dir non erra,
e l'una delle due balzava in terra.
Orlando per grand'ira l'altra getta
e battélla al gigante nel mostaccio;
poi Durlindana in pugno si rassetta,
e trasse un colpo al saracino al braccio,
che benché l'arme assai fussi perfetta,
parve che fussi di cera o di ghiaccio,
e 'l braccio gli tagliò presso alla mano,
tal che un gran mugghio metteva il pagano;
e la spada e la man vide cadere,
e cadde per dolor giù dell'alfana,
e disse: - Io mi t'arrendo, ch'è dovere,
ch'io veggo ogni speranza in Macon vana.
Per grazia, non per merto, cavaliere,
dimmi se se' della legge cristiana,
poi che tu m'hai così condotto a morte:
ch'io non trovai pagan mai tanto forte. -
Disse Orlando: - Da poi che tu mel chiedi
per grazia, io userò mia cortesia:
io sono Orlando, e questo che tu vedi
è il mio scudier, ch'è meco in compagnia.
Tu se' morto e dannato, s' tu non credi
presto a Colui che nacque di Maria;
battézati a Gesù, credi al Vangelo,
acciò che l'alma tua ne vadi in cielo.
Macometto t'aspetta nello 'nferno
cogli altri matti che van drieto a lui,
dove tu arderai nel foco etterno
giù negli abissi dolorosi e bui. -
Disse il pagan: - Laudato in sempiterno
sia Gesù Cristo e tutti i santi sui!
Io voglio in ogni modo battezarmi
e per tua mano, Orlando, cristian farmi.
E ringrazio il tuo Dio, poi ch'io son morto
per man del più famoso uom che sia al mondo:
s'io mi dolessi, io arei certo il torto.
Battezami per Dio, baron giocondo,
ch'io sento già nel cuor tanto conforto
ch'esser mi par d'ogni peccato mondo. -
Orlando al fiume sùbito correa,
trassesi l'elmo e d'acqua poi l'empiea;
e battezò costui divotamente.
E come morto fu, sentiva un canto,
ed angeli apparîr visibilmente
che l'anima portâr nel regno santo.
E d'aver morto costui fu dolente
e con Terigi faceva gran pianto;
e feciono una fossa addrento e scura,
e dèttono a quel corpo sepultura.
Ma una grazia, prima che morisse,
al conte chiese quel gigante ancora:
che se per caso già mai avvenisse
che parlassi a colei che lo innamora,
che gli dicessi come il fatto gisse,
e come sempre insino all'ultima ora
di Chiarïella e del suo amor costante
si ricordò come fedele amante;
e che per merto di sì degno effetto
dovessi qualche volta venir quella
dove il suo corpo giaceria soletto,
e chiamassi e dicessi: «Chiarïella
ti piange, Marcovaldo poveretto,
qual ti parve nel mondo troppo bella»:
ch'avea speranza, se costei il chiamassi,
che l'anima nel corpo ritornassi,
come fece appiè del gelso moro
Pirramo, quando Tisbe lo chiamòe,
ch'era già presso all'ultimo martoro,
così fare egli. Orlando il confortòe,
dicendo: - Io lo farò, se pria non moro,
ché alla città son certo ch'io n'andròe. -
E così fece a luogo e tempo Orlando,
per venir sempre la sua fé servando.
Terigi aveva veduto andar via
l'anima in ciel con molti angeli santi
sempre cantando dolce melodia:
tutto smarrito par ne' suo' sembianti,
quando e' sentì dir: - Salve, ave, Maria -
con armonia celeste e dolci canti:
disse a Orlando: - Io ho invidia a costui
che come lui da te morto non fui.
Da ora innanzi tra' pagani andiamo,
ch'io non istimo più di stare in vita
pur che per la tua fé, Cristo, moiamo,
poi che quell'alma vidi alla partita. -
Diceva Orlando: - Al campo ritorniamo:
questa novella non vi fia sentita;
non ci dèe riconoscer quella gente,
né di costui non sapranno nïente. -
Così pel mezzo del campo passaro,
che conosciuti non fur da persona;
e 'nverso la città poi se n'andaro,
dov'era l'amostante e sua corona,
e del palazzo real domandaro;
poi inverso quello ognun di loro sprona,
tanto che sono al palazzo arrivati
e innanzi all'amostante appresentati.
A un balcon l'amostante si posa.
Chiarïella, veggendo il conte Orlando,
ch'era più fresca che incarnata rosa,
molto lo squadra e venìa rimirando,
e dice al padre: - S' tu guardi ogni cosa,
quando costor si vennono accostando,
come stava costui sopra l'arcione,
tutti i suoi segni son d'un gran barone.
Così fussi egli Orlando, quel cristiano
c'ha tanta fama, come e' par qui desso:
ché non saria pien di stendardi il piano,
non ci starebbe il campo così appresso,
ché non ci arebbe assediati il Soldano. -
Orlando udiva e ridea fra se stesso.
L'amostante parlò cortesemente:
- Ben sia venuto, cavalier possente;
Macon sia sempre la vostra difesa.
Se voi cercate da me soldo avere,
ché vedete il mio caso quanto pesa,
io vel darò, e più che volentiere.
Costor venuti son qua per mia offesa;
èvvi il Soldan con tutte sue bandiere
venuto qua del corno egizïano,
e cuopre con sue gente il monte e 'l piano;
e raccozzato ha qua tutto il Levante,
e vuol per forza pur questa mia figlia;
e per ventura ci venne un gigante
che dà terrore a tutta mia famiglia:
sopra una alfana ognun si caccia avante
molto sboccata, e corre a sciolta briglia;
e già delle mie gente ha strutte molte;
or va guastando tutte le ricolte. -
Orlando disse: - Il gigante c'hai detto
non temer più che in su l'alfana vada;
non ti farà più danno, ti prometto,
non tornerà in suo regno o in sua contrada:
appiè della montagna al dirimpetto
oggi l'uccisi con questa mia spada;
io te lo dico, re, per tuo conforto,
che quel gigante giace in terra morto. -
Non potea l'amostante creder questo,
e domandava pur per più certezza:
- Di' ch'uccidesti il gigante molesto? -
Poi l'abbracciò per la molta allegrezza,
dicendo: - Poco mi curo del resto. -
La damigella con gran tenerezza
corse abbracciare Orlando incontanente,
ch'a dire il vero non gli spiacque niente;
e men saria dispiaciuto a Rinaldo.
«Dove se' tu, signor di Montalbano?»
diceva Orlando. «Tu staresti saldo
s'ancor più oltre stendessi la mano».
- Dunque tu di' c'hai morto Marcovaldo, -
disse la dama - cavalier sovrano?
Sia benedetto chi t'ingeneròe! -
e mille volte Macon ringraziòe.
Avea già Chiarïella posto amore
al conte Orlando, tanto gli è piaciuto,
e già Cupido la saetta al core.
Or ritorniamo al Soldan, c'ha saputo
che Marcovaldo è della vita fore,
e gran dolor n'avea, come è dovuto,
e 'l viso tutto di lacrime bagna
quando e' guardava inverso la montagna.
Ma chi l'uccise saper non potea:
detto gli fu ch'egli era un vïandante,
e questo verisimil non parea,
sappiendo quanto era fiero il gigante.
E per ventura seco al campo avea
un savio, antico e sottil nigromante,
e disse: - Fa' ch'io sappi per tua arte
chi è colui ch'uccise il nostro Marte. -
Il nigromante allor, per ubbidire,
ch'era maestro di somma dottrina,
sùbito fece per arte apparire
quel che bisogna con sua disciplina:
trovò come un cristiano il fe' morire
che si facea di legge saracina,
e come egli era col grande amostante:
così trovò chi avea morto il gigante.
Quando il Soldano il nigromante udìo,
dolor sì grande non sentì già mai,
e disse: - O Macometto, o pazzo iddio,
a tuo diletto consumato m'hai. -
E scrisse all'amostante il caso rio,
dicendo: «Re di Persia, tu non sai
che quel c'ha morto il gigante pagano
è quel ch'è teco; e sappi ch'è cristiano,
e qualche tradimento farti aspetta.
Da ora innanzi, se questo ti piace,
io vo' di Marcovaldo far vendetta
e far con teco a tuo modo la pace».
La lettera suggella e manda in fretta.
All'amostante il caso assai dispiace,
quando sentì come cristiano è quello,
chiamandol traditor, ribaldo e fello;
e la risposta faceva al Soldano
che vuol far pace e triegua a ogni modo,
purché punito sia questo cristiano:
così la pace si metteva in sodo.
Poi prese Orlando un giorno per la mano
e disse: - Cavalier, sappi ch'i' godo
ch'io ho col gran Soldan la pace fatta,
e partirassi questa gente matta. -
Orlando non pensava tradimento:
disse che molto se ne rallegrava
e di tal pace troppo era contento,
dicendo: - Del tuo caso mi pesava;
or tutto alleggerito il cor mi sento. -
Poi l'amostante pel Soldan mandava;
e lui vi venne, e montò presto in sella,
per vedere anco la fanciulla bella.
Segretamente il trattato ordinaro:
di pigliare il cristian preson partito
quando fia a letto e non arà riparo;
e così fu tra loro stabilito.
Venne la notte, a letto se n'andaro.
Orlando alla sua camera n'è gito,
e disarmossi, e crede esser sicuro:
ma non sapeva del suo mal futuro.
Quando più fiso la notte dormia,
una brigata s'armâr di pagani
ed un di questi la camera apria;
corsongli addosso come lupi o cani.
Orlando a tempo non si risentia
che finalmente gli legâr le mani,
e fu menato sùbito in prigione
sanza ascoltarlo o dirgli la cagione.
E dopo lui Terigi fu menato,
e messi poi nel fondo d'una torre.
Orlando era di questo smemorato:
per quel che fussi non si sapea apporre
che l'amostante l'avessi ingannato;
ma disse: «E' mi vorrà la vita tòrre»,
come nell'altro cantar vi fia detto.
L'angiol di Dio vi tenga pel ciuffetto.
 
 
 

Il Crepuscolo degli Dèi