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ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNOR CAVALIERE FRANCESCO DE' MEDICI PATRIZIO FIORENTINO

L'Umana felicità, Illustrissimo Signor Cavaliere, direbbe il Poeta essere, come l'Araba fenice, che si crede vi sia, ma non si sa dove si ritrovi, tutti la cercano, pochi sono quelli che la conoscono, e credo, che pochissimi sieno quelli, che di possederla si vantino. Mancano i mezzi a taluno per rintracciarla a talun altro manca il merito per conseguirla. Vi è chi non può esser felice per difetto di sua natura, v'è chi non può esserlo, per difetto di volontà, poiché, cercando l'umana felicità tra i vizi, o tra i piaceri scorretti, trova in cambio di essa, le amarezze, i pericoli, le disavventure. Io certamente sono uno di quelli, che lusingar non si possono di possederla, ma ho sempre desiderato conoscerla, e con que' principi di Morale Filosofia, che Dio mi ha impressi nell'animo, sono andato attentamente osservando quelle persone, che mi parevano esser felici, per istabilire, se veramente lo fossero. Per formare un tale giudizio, conosco anch'io, che non bastano le osservazioni, che far si possano sui caratteri delle persone, e né tampoco sulle azioni loro, poiché la vera felicità consiste nella contentezza del cuore, e questo occultandosi per lo più dalla malizia degli Uomini, a pochissimi si vede in fronte, ed è sempre equivoco, e pericoloso il giudicare di essi. Vi sono però certi adorabili temperamenti, che hanno la sincerità per costume, che mostrano a tutti il cuore, e colle parole, e colle azioni loro, e fra questi andava io rintracciando l'Uomo felice, perché se non lo è, merita almeno di esserlo.

Parmi di averlo già ritrovato, e se l'umana felicità, Illustrissimo Signor Cavaliere, non alberga nel vostro seno, io non saprei in qual altra parte del Mondo continuare lo studio di rintracciarla. Non crediate già, ch'io voglia ora formar un Panegirico di quelle lodi, che per gl'infiniti meriti vostri, vi son dovute, o per acquistarmi viepiù la protezione vostra, o per indurvi ad accettare con miglior animo quella Commedia, che umilmente vi raccomando, e vi dedico, e con questo mio riverente foglio ardisco di presentarvi. Voi siete naturalmente gentile, amoroso, benefico, non avete bisogno di esser lodato, né io saprei farlo adequatamente. Vi prego permettermi di ragionare di Voi, e di ben bene considerarvi, sicché io possa non solo colla opinione mia, ma di quelli, che delle ragioni mie persuasi saranno, decidere, stabilire, e consolarmi, che se nel mondo può darsi vera felicità, questa con Voi alberga da Voi meritata, e da Voi posseduta. Per provare l'assunto mio, è necessario, prima d'ogni altra cosa, ch'io stabilisca qual sia l'umana felicità. Questa io la considero in vari gradi distinta li quali se in Voi saranno venficati, niuno potrà contendermi, che Voi siate l'Uomo felice, che siate Voi quella Fenice, che ricercasi, e non trovasi.

La prima immensa felicità comune a tutti i viventi dell'uman genere, è l'Essere. Sono infinite le creature possibili, come è infinita l'onnipotenza del Creatore, ma che noi siam compresi nel numero determinato degli Uomini, è una felicità incomprensibile, senza di cui né il bel Mondo, né il bellissimo Cielo sarebbe stato per noi. Vero è che questo Essere per taluni sarà funesto, e meglio sarebbe per essi, che stati non fossero, ma colpa sarà celesta del tristo abuso, che fatto avranno di un tanto bene, e confessar dovranno aver posseduto quella inesplicabile felicità, che a tutte la altre poteva loro servir di guida. Voi dunque siete in possesso di questo bene, comune agli Uomini tutti, egli è vero, ma felicissimo in Voi, poiché conoscendone il pregio, e ottimo uso facendo della vita vostra, grato a Dio vi rendete, e utile alla società umana.

Dopo la felicità dell'Essere, qual altra maggiore può immaginarsi oltre quella del nascere in grembo di Santa Chiesa, succhiando col latte la vera Fede, e cancellando coll'acque del Sacro Fonte la colpa de' primi nostri Patenti? Gli occulti, impenetrabili arcani della Provvidenza han noi arricchiti di un tanto bene Miseri quelli, che nati fra gli errori, ed allevati colle superstizioni, chiudono le orecchie alla grava, e induriscono il cuore sotto il peso della ingannevole educazione, ma più miseri quegli ancora che prevaricatori si chiamano del Vangelo, ribelli della Cattolica religione, i quali vendendo, a similitudine di Esaù, per poche lenti la Primogenitura Celeste, calpestano il più bel dono della imperscrutabile predilezione Divina Voi lo conoscete questo bel dono, e colle azioni vostre, e con i vostri ragionamenti date altrui a conoscere aver radicata nel petto la vera Fede. Non si sentono a Voi cadere dal labbro certi arguti concetti, che feriscono la Religione nel cuore. Pare a' dì nostri, che Uomo non sia di lettere colui, che di certi oltramontani Libri non sa far pompa, colui, che non sa porre in ridicolo il Dogma, le Tradizioni, e fino le sacre Carte medesime, spargendo massime false, anche contro il proprio suo cuore, detestate internamente nell'animo, ma lanciate con imprudenza, o per acquistare la grazia di un personaggio, o per far ridere la brigata. Si può rinunziare per meno ad una si grande felicità?

Dietro a cotesta inestimabile ed eterna, pongo io quella immediatamente di sortire dalla Natura un corpo bene organizzato, una macchina ben disposta in cui l'armonia delle parti, e l'equilibrio degli umori formino un perfetto temperamento. Non vi ha dubbio, che l'anima non sia d'un'istessa natura, di una bellezza, e perfezione medesima in tutti gli Uomini, onde la diversità degli abiti, delle inclinazioni, e delle passioni procede dalla costruzione di questa macchina, la quale fa piegar l'anima, ove, per così dire, le ruote interne la spingono. Vero è, che la ragione fu data all'Uomo da Dio, a distinzione di tutte le create cose per reggere, e illuminare quest'anima, ma non è da desiderarsi, che la Ragione abbia da usar violenza agl'impeti della natura, e beati coloro, i quali si conducono per forza d'inclinazione a operar bene, senza la guerra delle passioni nemiche, e l'Anima, e la Ragione sedendo unite, e comandando nel cuor dell'Uomo, danno esse il moto alle membra, ai sensi, alla volontà, ai pensieri, né schiave, né tiranne del corpo, ma di lui compagne, regolatrici, ed amiche.

Per questa parte, Veneratissimo Signor Cavaliere, chi può negare, che Voi non siate felici? Non parlo già dell'avvenenza esterna del vostro corpo, la quale non è poi tanto necessaria negli Uomini, ma dell'interna proporzion delle parti, dell'armonia degli organi, ove l'anima le sue operazioni principalmente eseguisce, la quale interna perfezion delle parti, se agli occhi non comparisce, coll'uso, e colla pratica si riconosce, quella egualità di temperamento, quella dolcezza di tratto, quella indifferenza per le vicende umane, la compassione verso de' bisognosi, la moderazione nelle passioni, l'umiltà in mezzo alle magnificenze, sono virtù dell'anima, non impedite in Voi da alcuna mala organizzazione del corpo, onde vi riesce di eseguire tanti abiti virtuosi, senza il contrasto delle passioni, e con facile studio della Ragione. Anche la forma esterna è argomento dell'interna bellezza, e quantunque, come diceva, non sia necessaria nell'Uomo quella beltà di volto, di cui le Donne abbisognano, Voi avete anche questa prerogativa di più, e potete assicurare, colla dolcezza del vostro viso, la candidezza del vostro cuore.

Il quarto grado dell'umana felicità lo reputo io il nascere da Genitori onesti, molto più poi da nobili Genitori, e tanto questa si accresce, quanto più puro è il sangue, che dà la vita. Vero è, che l'origine di tutti noi da un solo Padre deriva; che la pasta, onde siam formati è la medesima in tutti, e che di tutti egualmente struggesi collo stesso fine, ma non può negarsi però, che coll'andar del tempo non siasi prodotta certa diversità fra gli Uomini, che fa distinguere dall'aspetto il nobile dal plebeo, siccome ancora gli Uomini di una nazione, da quelli di un'altra. Ogni regola è soggetta alle sue eccezioni; accordo ancor io, e la pratica lo dimostra, che la Natura scherzando, darà talvolta ad un Pastorello un 'immagine da Sovrano, ma per lo più si ravvisa il contrario, anzi, per meglio dire, la natura giustifica per lo più co i lineamenti del volto la nobiltà de i natali. Sia ciò derivato per ragion dell'educazione, che a poco per volta ha regolato la macchina in virtù degli abiti virtuosi, o sia per la natura de' cibi, che hanno resa più delicata la complessione, o per la qualità degli esercizi, che quanto men faticosi tanto più rendono gentile il corpo, e avvenente, certissima cosa è, che il nascere da genitori nobili è un maggior bene. Bene massimo egli è altresì cotesto, perché col sangue si traggono per lo più da' nobili Genitori le inclinazioni magnanime e generose, e sarà un bene singolarissimo anche per questo, perché gli Uomini lo rispettano, lo stimano e lo hanno in venerazione. Chi sa distinguere l'onesto contegno dalla vanità, e dalla superbia, può ricevere senza colpa gli omaggi degl'inferiori. Anzi non deve seco loro familiarizzarsi soverchiamente, ma proteggerli con amore, trattarli con dolcezza, e farsi rispettare beneficandoli.

Se in Voi dunque ricercasi quella felicità, che dalla nobiltà del sangue deriva, a chi è ignota l'origine della Sovrana Casa de' Medici, da cui la vostra nobilissima è provenuta? Questo basta per provare la chiarezza de' vostri natali, la Croce invitta de' Cavalieri di Malta brilla mirabilmente sul vostro petto, e tutti quegli onori, che possono caratterizzare una famiglia illustre, nella vostra abbondantemente si trovano. Farei torto a chi per avventura leggesse questo mio foglio, volendone parlare distintamente, e vi vorrebbero dei Volumi pel farlo. A me basta poter concludere, che felicissimo siete rispetto alla nobiltà de' natali, che della felicità umana ho collocato nel quarto grado.

Che cosa pensate Voi, ch'io voglia considerare nel quinto? La Ricchezza forse? No; non ancora. Permettetemi ch'io chiami felicità una cosa, la quale potrebbe da alcuni credersi una facezia, ed a me sembra un articolo molto essenziale. Considero dunque felicità umana il nascer Uomo e non Donna. Che dite Voi Gentilissimo Signor Cavaliere, parvi, che sia ragionevole il mio pensiero? La Donna è più gentile di noi, e anche più bella, se certa bellezza esposta agli occhi altrui si consideri, ella è da noi provveduta, servita, amata. Ma se cerchiam fra le Donne le più servite, le meglio amate evvi paragone veruno colla libertà nostra, colla nostra virile autorità, col dominio (però discreto), che Dio ci ha dato sopra di esse? Quella perpetua soggezione che soffrono è compensata bastantemente colle finezze, che da noi ricevono? Non parlo io già di quelle Donne, che hanno l'abilità di porsi gli Uomini sotto i piedi, e calpestando le leggi del loro sesso, vivono con una libertà, che eccederebbe anche il diritto degli Uomini, queste hanno poi de' peggiori mali, sono in discredito presso le persone onorate, si deridono nelle conversazioni e passano per cattiva erba nel giardino del Mondo. Parlo delle femmine oneste, delle femmine virtuose, possono essere più soggette di quel, che sono? Fanciulle, sotto l'austera disciplina de' Genitori. Congiunte, sotto quella, talvolta asprissima, de' Mariti. Vedove, soggette assai più alla critica, alle osservazioni del Mondo, alle leggi del buon costume. Le Religiose sarebbero le più felici, se volessero esserlo. Nell'angusto loro recinto sono meno soggette di quelle, che passeggiano per le strade, obbediscono è vero, ma sono anche in grado di comandare, e si obbediscono fra di loro per effetto di virtuosa rassegnazione, che rende amabile l'obbedienza. Ciò non ostante, trovo preferibile per troppe ragioni lo stato nostro, e credo felicità l'esser Uomo, ed io mi consolo di esserlo, e mi rallegro con Voi, che lo siate, e tanto più ho ragione di rallegrarmi, quanto che non solo siete Uomo per la virile essenza, ma lo siete col senno, colla prudenza e colle virtù robuste dell'animo.

Il nascere in un buon Paese è un altro grado di felicità, che io considero in sesto luogo. Grandissima disavventura per mio giudicio è di coloro, che nascono in un Paese tiranno, in un Paese incolto, in un clima infelice. Chi nasce in Firenze, come Voi nato siete, nasce nel Giardino del Mondo, giacché l'Europa è la migliore delle sue quattro parti, e in questa ha il primo luogo l'Italia, e dell'Italia la bellissima parte è la Toscana tutta, e della Toscana la più vaga, la più deliziosa e l'inclita sua Capitale. Nulla manca a Firenze, per essere un soggiorno invidiabile. La situazione è amena, il clima è dolcissimo, le Vie spaziose, e piane, i magnifici Tempii, i sontuosi Palagi, le pubbliche grandiose Fabbriche, i Ponti, il Regal Fiume, le Gallerie stupende, le Biblioteche, le Statue, i Giardini, le amemssime Ville, i Teatri, i pubblici divertimenti son forti attrattive de' forestieri, che non solo vengono di lontano per vagheggiarla, ma lungamente vi si trattengono per goderla. E che dirò io della umanità, della cortesia de' gentilissimi Fiorentini? Questa è adorabile sopra tutto; questa ha colmato me pure di beneficenze, e di grazie, e se tanto si è usato meco, senza mento, e senza grado, convien dire, che benignissimi sian per natura, e a compatire, e a beneficare inclinati. Che più poteva io desiderare in questa Città famosa, Patria d'Uomini illustri, di felicissimi talenti a' giorni nostri ripiena? Accolte furono le mie Commedie da' Fiorentini, come se difettose non fossero, sofferte furono sulle Toscane Scene, ed acclamate ancora, indi alla luce mandandole per via dei Torchi, lo dirò a mia gloria, s'affollarono per averle Voi, Benignissimo Signor Cavaliere, Voi più di tutti compassionando le miserabili circostanze di un Uomo, condotto dalla disperazione ad arrischiare moltissimo, per la salvezza della propria riputazione, Voi mi deste animo, protezione, e consiglio, giungeste per fino ad esibirmi denaro, e sarei stato certo di ogni vostro soccorso, se Iddio Signore benedicendo le Opere mie, non mi avesse col frutto de miei sudori assistito. Non cesserò mai di lodar Voi, e di benedire la vostra Patria, e di considerar felicissimo chi in essa ha la fortuna di nascere, anche per un'altra ragione, non inferiore a quelle, delle quali ho parlato. Questa è la purgatissima Lingua, che vi si parla, mentre sceltissime sono le parole, graziosi gli adagi, e spiritosi i concetti. Quivi parlasi quella Lingua, che tanto difficilmente dagli stranieri si scrive, ed utilissimo studio credo io per un Uomo di lettere, trattenersi per qualche tempo in Firenze ad imparar dalle Balie e dalle Fantesche ciò, che altrove si mendica dal Bembo, dal Boccaccio, o dal la Crusca medesima. Ma già ben mi accorgo, che a troppo lunga faccenda impegnato mi sono esaminando i gradi della umana felicità. Altre circostanze importantissime mi rimangono dopo le sei da me alla meglio considerate, le quali non deggio io omettere, perché non credasi, o che io non le conosca, o che in Voi non si ritrovino. Le accennerò brevemente per non abusarmi della vostra umanissima tolleranza, e le rammenterò soltanto accennandole alla sfuggita.

In settimo luogo, quel che rende l'Uomo felice è la Salute, senza la quale ogni altro bene di questa vita è un miserabile bene, e Voi, grazie all'Altissimo siete sano, e Dio vi faccia esser tale in tutti i giorni di vostra vita, che vi bramo lunghissima.

Succede in ottavo grado alla salute del corpo quella dell'animo, se a quella del corpo non si voglia preferire; chiarezza di mente, prontezza di spinto, fecondità d'intelletto, sono segni evidenti di un animo sano, robusto, e vivace, che rende l'Uomo più facilmente felice Voi di ciò siete ben provveduto. Unir sapete alle applicazioni domestiche, dovute ad un ricchissimo Patrimonio, lo studio delle lettere, e l'erudizione. Ma giacché il ricco Patrimonio vostro mi è accaduto per incidente di nominare, lasciate, che io vi dica essere la Ricchezza il nono grado della ricercata felicità.

Altri non avrebbono aspettato sinora a ragionare della Ricchezza, ma collocandola in più alto posto, l'avrebbono mandata innanzi a parecchi gradi, considerandola il sommo ben della vita. Io non ho certamente in tanta estimazione i tesori, che ardisca di anteporgli alla salute, alle scienze, alla nobiltà, e né tampoco alla felicità della Patria, desiderandomi aver più tosto tre Paoli al giorno in Italia, che dieci Doppie in uno dei gelati Paesi del Settentrione. So, che Voi pure calcolate il bene delle vostre doviziose rendite per mantenere con decoro, e con lustro la nobilissima Casa vostra, ed il buon uso, che fate dell'oro, e dell'argento, dimostra, che Voi lo apprezzate sol quanto merita, ma, a quel che merita più, non lo preferite.

Non è fuor di proposito considerare fra i gradi della nostra felicità, la libertà ancora, e collocarla nel decimo luogo di questa nostra rassegna Voi la godete perfettamente, con un Ordine in petto, che vi difende dalla catena del Matrimonio. Io non dirò, che sieno le nozze generalmente di peso agli Uomini, e di tormento, anzi sostituirei a questo grado di felicità il Matrimonio medesimo, se di una discreta moglie potesse alcuno gloriarsi, ma poiché il dubbio è grande, ed il pericolo è manifesto, la libertà è un gran bene, un bene, che si conosce meglio, quando si perde, ma è meglio non perderlo, a costo ancora di non conoscerlo perfettamente.

L'undecimo grado diamolo noi meritamente all'uso delle sociali Virtù. Rendono queste l'Uomo amabile, e desiderato, arbitro delle oneste conversazioni, e posseditore dei migliori cuori del Mondo. Sono certe virtù quelle, che io chiamo virtù sociali, che derivano da una buona Morale, e si adattano alle circostanze. Per esempio ridere, barzellettare, brillare colle persone di spinto, ragionare colle persone di senno, non inquietare coloro, che sono di malinconico umore, parlar di scienze coi dotti, astenersene cogl'ignoranti, non irritare i superbi, non avvilire i pusillanimi. Esser savio coi savi, ma ben guardarsi di non impazzire coi pazzi. Mentre accenno queste regole della felicissima Società, non intendo già di darle a Voi, quasiché abbiate ora necessità d'impararle. Voi siete adorno di tutte le più amabili qualità, siete un perfetto conoscitore del Mondo, e avete per gli onesti piaceri, che il mondo ci somministra, un ottimo discernimento, un perfettissimo gusto.

Ecco la duodecima, ed ultima condizione, la quale, secondo me, può render l'Uomo felice: il buon gusto, il sano discernimento. Iddio ha creato il Mondo per noi, e tutte le sue delizie sono delizie nostre. Guardiamoci dall'abusarcene, non dal goderle. Senza andar dietro ai piaceri vietati, tanti noi ne abbiamo dei permessi, che smentir possiamo coloro, i quali tristo chiamano il Mondo. È l'appetito smoderato degli Uomini quello, che cambia aspetto alle cose, per altro vi è da godere, vi è da prendersi divertimento, senza traviare dal sentiero dell'onestà. Vi vuol buon gusto, vi vuol perfetto discernimento; Voi l'uno, e l'altro avete, e lodevole uso ne fate: Voi siete dunque felice. Che se alcuno mi volesse opporre, essere necessario per la felicità dell'Uomo il comando, no, gli direi, t'inganni. Possono gli Scettri, e le Corone appagar l'ambizione, non rendere contento il cuore. Un grado solo dell'umana felicità, che manchi al Sovrano, lo può rendere nella sua grandezza infelice, e tutta la sua grandezza non vale a procacciargli la pace del cuore.

Io dunque mi rallegro con Voi, Illustrissimo Signor Cavaliere, e mi rallegro di cuore con me medesimo, per aver ritrovato, e conosciuto in Voi il tesoro dell'umana felicità. Voi non potete non desiderare felici gli altri per effetto della Virtù, onde a ragion mi lusingo, che mi vorrete beneficare, donandomi ora per e sempre la benignissima grazia vostra, accettando come un tributo d'ammirazione, di servitù, ed ossequio questa miserabile Commedia, che vi offerisco, e permettendomi, che possa dire di essere, quale umilmente mi sottoscrivo,

Di V. S. Illustriss. Umiliss. Devotiss. ed Obblig. Serv.
CARLO GOLDONI


L'AUTORE A CHI LEGGE

Se nella lettera precedente ho ragionato dell'umana felicità, ora teco, Lettor carissimo, ragionare dovrei dell'umana miseria. Leggi la Commedia che seguita, e la rileverai da te stesso, senza che io te ne faccia parola.

Le Femmine puntigliose non solo fabbricano per se stesse dei mali che non vi dovrebbono essere al Mondo, ma vogliono dei pregiudizi loro fare anche agli Uomini sentir il peso. Eredi in ciò funestissime della prima Madre, tutti gli amari pomi voglion dividerli con noi meschini; e prevalendosi del sopravvento, che loro la debolezza nostra concede, ci rendono ministri della loro ambizione. Ogni picciolo moto scompone ed agita la loro macchina delicata; arrendevoli ad ogni urto della passione, conoscono che per se stesse non hanno bastante forza per vendicarsi, ricorrono all'Uomo, l'interessano ne' loro vani puntigli e gli avvelenano il cuore.

Le nobili non si degnano delle inferiori; le ignobili aspirano all'egualità colle Dame; le ricche disprezzano le miserabili, e queste hanno le altre in aborrimento. Esaminiamo le fonti di tai puntigli, e si vedrà chiaramente ch'esse provengono dallo smoderato amor proprio, dall'invidia e dall'ambizione. Non basta alla Nobile la nobiltà, vuol esser ricca. Non basta alla Ricca la sua ricchezza, vuol esser nobile. Non basta ad una Donna esser nobile ed esser ricca, vuol esser sola. Rarissime Donne ho io conosciuto, che si amino fra di loro, e le più amiche e le più amorose non se la perdonano ad ogni minima occasione di criticare. Di quante Commedie ho composto, argomento più spazioso di questo non mi proposi. Io era, come suol dirsi, confuso nell'abbondanza e se non avessi limitato i puntigli colle regole del Teatro, avrei fatto una Commedia sola per tutto il resto de' giorni miei.

Il puntiglio principalissimo su cui raggirasi la mia Commedia è quello di una Femmina ricca, la quale in mezzo a tutti i comodi della vita si crede infelice, se non può comparir fra le Dame. Io non credo, che possa darsi maggior pazzia di cotesta. La Nobiltà è un fregio grande, desiderabile da chicchessia, ma è quel tal fregio che unicamente può dalla nascita conseguirsi. Tutto l'oro del Mondo non è bastante a cambiar il sangue, e sarà sempre stimata più una Femmina doviziosa nel pro - prio rango, di quello possa ella sperare innalzandosi a qualche Ordine superiore. I ragionamenti di Pantalone su tale articolo, fatti da lui per instruzione di Don Florindo, potrebbero essere salutari consigli a tutti quelli che hanno tai pregiudizi nel capo, e l'esempio di Donna Rossaura può servire di specchio a qualche femmina troppo vana. La Contessa Beatrice fa una trista figura nel ceto della nobiltà. Io non credo che tal carattere si ritrovi. Una Dama che voglia per cento doppie arrischiar il decoro del suo Paese, ed esporre agli scherni una Forestiera, non credo vi sia mai stata. Ho figurato un carattere da Commedia per mettere i puntigli in ridicolo, sicuro quasi dentro di me medesimo, che non avrei potuto esserne rimproverato. Ma il Mondo che vuol fare scena di tutto, ha preteso di riscontrar degli originali, e mi ha caricato di averli io temerariamente imitati. Protesto non esser vero, ed è una prova della verità che sostengo, l'essersi l'istessa favola in ogni Paese narrata, in cui si rappresentò la Commedia. Non è verisimile che possa lo stesso fatto in più di un luogo verificarsi; non è credibile ch'io abbia voluto espormi al pericolo di una vendetta; è ben probabile che per tutto vi sieno degli spiritosi talenti, che cerchino di mettere in ridicolo le persone e di screditare gli Autori. Ciò non ostante ho dovuto fare qualche cambiamento nella Commedia; ho trasportato la Scena in un paese lontano, in cui non vi sono mai stato, acciò apporre non mi si possa averla io sulla verità lavorata. Questa ed altre simili mutazioni a me, in un'opera mia, non mi può essere impedito di farle, ma non era poi lecito al Correttore, che all'edizione del Bettinelli presiede, omettere nella Scena III dell'Atto I i più interessanti ragionamenti di Pantalone sull'articolo importantissimo della condotta di Don Florindo, che per aderire alla vanità della moglie, abbandona i propri interessi per una falsa immagine di decoro. E se mai fosse vero che l'Editore ed il Correttore medesimo mutilata avessero ricevuta la mia Commedia, apprendano esser giuste le mie querele, e che gli Autografi (per servirmi del loro termine) si prendono dalle mani dell'Autore, non da quelle di un terzo. Anche la parte dell'Arlecchino vedesi dimezzata e in quella di un Lacchè convertita. Ciò mi sovviene aver io medesimo fatto per compiacere un Arlecchino particolare, che dalla parte di un Moro credevasi pregiudicato, con animo di rimetterlo come prima, all'occasione di pubblicar con le stampe la mia Commedia; che se inoltre ho fatto senza di cotal Maschera, parmi che non s'abbia a togliere ove s'adoprano il Pantalone e il Brighella. - Un'altra cosa restami a dire sul buon evento di tal Commedia. Ella è stata fortunatissima da per tutto, fuor che in Venezia, quantunque l'annotazione del Bettinelli per otto sere di seguito asserisca colà essere stata rappresentata. - La ragione del minor incontro in una Città di ottimo gusto, e per le Opere mie benignamente inclinata, procede dal costume medesimo del paese. Non corrono in Venezia certi puntigli stucchevoli, certe ridicole affettazioni che usare in qualche altra Città si vedono. La Nobiltà è in cotal grado costituita, che niuno di qualunque altro rango inferiore può aspirare a confondersi colla medesima, ed ella riconoscendosi superiore bastantemente per il suo grado, tratta tutti con affabilità, e non ha pretensione di quegli onori che cotanto riescono incomodi alla società; che però siccome piace la commedia critica, quando in essa vi si riconosce il costume, non può allettare moltissimo il ridicolo di tai puntigli alla mia Patria stranieri.



PERSONAGGI

 
DONNA ROSAURA  moglie di
 
DON FLORINDO ARETUSI  mercante siciliano.
 
LA CONTESSA BEATRICE.
 
IL CONTE ONOFRIO  suo marito.
 
LA CONTESSA ELEONORA.
 
LA CONTESSA CLARICE.
 
IL CONTE OTTAVIO.
 
IL CONTE LELIO.
 
PANTALONE DE' BISOGNOSI mercante veneziano.
 
BRIGHELLA staffiere di donna Rosaura.
 
ARLECCHINO servidore della medesima in figura di Moro.
 
UN SERVITORE della Contessa Beatrice.
 
UN PAGGIO della Contessa Eleonora.
 
UN BRAVO.
 
 

La Commedia si rappresenta in Palermo.




ATTO PRIMO

SCENA I

Appartamento nella locanda, in cui sono alloggiati don Florindo, e donna Rosaura.

Donna Rosaura, e Don Florindo.

Florindo - Signora consorte carissima, credo, che ce ne possiamo tornare al nostro paese, e se aveste aderito a quello, che io diceva, non saremmo nemmeno venuti a Palermo.

Rosaura - Che avrebbero mai detto di noi le donne del nostro rango, se dentro il primo anno del nostro matrimonio non fossimo venuti a far qualche sfarzo nella città capitale?

Florindo - E che cosa diranno di noi, se torneremo alla patria, senza che una dama di questo paese siasi degnata di ammetterci alla sua conversazione?

Rosaura - Ciò basterebbe a farmi morir di dolore.

Florindo - Penso che sarebbe stato meglio, se in luogo di aspirare alla conversazione delle dame, ci fossimo contentati di quella delle mercantesse della nostra condizione.

Rosaura - Oh, questo poi no. Sono venuta a Palermo per acquistare qualche cosa di più. Per esser distinta a Castell'a Mare, basta ch'io possa dire, sono stata in Palermo alla conversazion delle dame.

Florindo - Ma se questa conversazione, non si può ottenere?

Rosaura - Il Conte Lelio mi ha dato speranza, che forse, forse si otterrà.

Florindo - Il Conte Lelio, e molti altri cavalieri ci trattano, ci favoriscono, mostrano desiderio d'introdurci per tutto; ma so, che le dame non vogliono ammetterci assolutamente.

Rosaura - Eppure sono stata a casa di alcune, e mi hanno ricevuta.

Florindo - Sì. In privato tutte ci faranno delle finezze, ma in pubblico non è possibile.

Rosaura - Mi ha promesso il Conte Lelio, che la Contessa Beatrice prenderà ella l'impegno d'introdurmi.

Florindo - Questa dama non la conosco. Non le ho portato veruna lettera di raccomandazione.

Rosaura - La lettera di raccomandazione, che dovremo noi presentarle, sarà un piccolo regaletto di cento doppie.

Florindo - Cento doppie? A che motivo?

Rosaura - Per gl'incomodi, che si dovrà prendere per causa nostra.

Florindo - E sarà tanto vile, per vendere a denaro contante la sua protezione?

Rosaura - Il Conte Lelio maneggia l'affare: io gliel'ho promesse, e son certa che in questo non mi farete scorgere. Purché ottenghiamo l'intento nostro, che importa a voi il sagrificio di cento doppie?

Florindo - Quando riesca la cosa bene, le sagrifico volentieri, unicamente per compiacervi.

Rosaura - Anzi ho divisato donare al Conte Lelio un orologio d'oro per gratitudine dei buoni uffici, che fa per noi.

Florindo - Ed egli l'accetta?

Rosaura - Perché volete, che lo ricusi?

Florindo - Per quel, ch'io vedo, si vende la protezione, come il panno, e la seta.

Rosaura - Ci siamo, bisogna starci.

Florindo - In otto giorni, che siamo qui, abbiamo speso più di trecento scudi, senza veder cosa alcuna.

Rosaura - Non voglio andare in nessun luogo, senza una dama, che mi conduca.



SCENA II

Brighella, e detti.

Brighella - Signori...

Rosaura - Villanaccio (a Brighella con isdegno gittandogli un fazzoletto in faccia).

Brighella - Lustrissima...

Rosaura - Dammi, quel fazzoletto.

Brighella - Lustrissima sì. Gh'è qua l'illustrissimo sior Pantalon, che li voria reverir.

Rosaura - Pantalone non è illustrissimo.

Brighella - La perdona, signora...

Rosaura - Asino!

Brighella - Illustrissima, la me compatissa.

Florindo - Digli che passi.

Brighella - Signor sì... Illustrissimo sì. (No me posso avvezzar) (parte).

Rosaura - Non voglio sentire le seccature di questo vecchio. Vado nella mia camera; se viene il Conte Lelio, mandatelo da me.

Florindo - Sarete servita.

Rosaura - Se questa dama ci favorisce, bisognerà trattarla.

Florindo - Siamo forestieri, probabilmente sarà ella la prima a trattarci.

Rosaura - Basta; purché si spunti, si ha da spendere senza riguardo (parte).



SCENA III

Don Florindo, poi Pantalone.

Florindo - Bel negozio, che ho fatto a prendere questa signora sposa! Ella mi ha dato una ricca dote, ma credo, che al terminar dell'anno sarà finita.

Pantalone - Sior don Florindo, mio patron reverito.

Florindo - Buon giorno, il mio caro signor Pantalone.

Pantalone - Son vegnù a reverirla, e in tel medesimo tempo a dirghe, che ho recevesto la lettera d'avviso per pagarghe i mille zecchini, a tenor della lettera de cambio, che gieri lu m'ha fatto presentar.

Florindo - Non v'era bisogno, che per questo v'incomodaste, mentre ieri, anco prima della lettera d'avviso, avete con bontà accettata la mia cambiale.

Pantalone - Gh'ò tanta stima per la so degna persona, gh'ò tanto credito alla so dita, che anca senza lettera de cambio l'averia servida, se la s'avesse degnà de commanderme.

Florindo - Vi sono molto tenuto per la bontà, che mi dimostrate.

Pantalone - La sarave bella! Semo stai tanto amici col sior Anselmo so barba, che gierimo, se pol dir, fradei. Quello el giera un omo! Quello ha fatto i bezzi! Con mille ducati, che gh'à dà so pare, in manco de dies'anni, l'ha fatto un capital de cinquantamille.

Florindo - Veramente a mio zio Anselmo ho tutta l'obbligazione.

Pantalone - Credo de sì, l'ha lassà tutto a ela, co l'è morto, el giera la prima dita de sti paesi, e ela, la me permetta, che ghe diga, se la seguiterà el bon ordine de so sior barba, la sarà un dei primi mercanti della Sicilia.

Florindo - Io, caro signor Pantalone, sono in un grado di non aver più bisogno di far il mercante. Ho tanti capitali, ho tanti crediti, ho tanto danaro in cassa da poter vivere comodamente, senza continuare la mercatura.

Pantalone - La me perdona se me avanzo troppo. Cossa gh'àla d'investìo?

Florindo - Oh poco! A riserva d'un bel palazzo per villeggiare con tre, o quattro campi tirati a giardino; non ho poi comprato né terreni, né case.

Pantalone - La senta, e l'ascolta un omo vecchio, pratico delle cosse del mondo, e interessà per i so vantazi. I bezzi i se spende, e quando, che in tel scrigno se cava, e no se mette, presto se ghe vede el fin. La mercanzia la val poco in te le man de chi no seguita a negoziar; e i crediti i gh'à la so gran tara, e no se scuode quando che se vol. Voggio mo dir, che continuando a negoziar, la pol mantegnir, e aumentar i bezzi, e el capital; che lassando el negozio, la pensa almanco a investir, per non aver un zorno da suspirar. La xè zovene, la xè novizzo, probabilmente l'averà dei fioi, a questi, anca solamente previsti, semo obbligai a pensar. La fazza conto de ste parole, e la le receva da un omo, che per etae, per amor, e per debito, se protesta d'esserghe come pare.

Florindo - Caro il mio amatissimo signor Pantalone; voi siete pieno di bontà per me, vi ringrazio de' salutevoli documenti, e vi prometto di porli in pratica.

Pantalone - Quando la crede, che mi ghe diga la verità, e che la sia persuasa de voler mantegnir in credito la so dita, mi la conseggio andar al so paese, tender ai so negozi, e seguitar le pratiche, le usanze, e le corrispondenze de so sior barba.

Florindo - Ho i miei ministri, che agiscono in mia vece.

Pantalone - I ministri i xè bei, e boni; ma col paron no gh'abada, le cosse no le va mai ben. Tutti cerca el proprio interesse, e pochi xè quei, che s'impegna con zelo, e con calor in favor dei so principali.

Florindo - Quanto prima tornerò a Castell'a Mare; ma giacché sono in Palermo, non è giusto, ch'io parta senza far vedere alla mia sposa le cose principali della città.

Pantalone - Se la commanda, mi la farò servir.

Florindo - Vi vorrebbe qualche signora, che si prendesse l'incomodo di accompagnare mia moglie.

Pantalone - Gh'ò una nezza maridada in t'un dei primi marcanti. La gh'à carrozza, la gh'à staffieri, la la servirà ela.

Florindo - Ma poi, s'anderà in veruna conversazione?

Pantalone - M'impegno, che i ghe farà tre, o quattro sontuose conversazion, e che la sarà trattada, come una principessa.

Florindo - Quand'è così, riceveremo le vostre grazie.

Pantalone - Vado subito a avvisar mia nezza.

Florindo - Trattenetevi un momento, tanto, che avvisi di ciò la mia sposa. Ehi, signora Rosaura? (la chiama).



SCENA IV

Donna Rosaura nell'altra camera, e poi esce, e detti, poi Brighella.

Rosaura - Cosa volete? (di dentro).

Florindo - Favorite, venite qui, che vi ho da parlare.

Rosaura - Non vi è nessuno, che alzi la portiera? (come sopra)

Florindo - Non vi è nessuno.

Pantalone - Gh'àla mal ai brazzi? La servirò mi (alza la portiera).

Rosaura - Obbligatissima alle sue grazie (esce).

Florindo - Il signor Pantalone è tutto bontà, tutto gentilezza. Sentite le belle esibizioni, ch'egli ci fa. Ci offerisce la buona grazia d'una signora sua nipote, la quale ci favorirà colla sua carrozza, e ci condurrà alla conversazione.

Rosaura - È dama questa sua nipote? (a Pantalone)

Pantalone - No la xè dama, ma la xè una delle prime mercantesse de sta città.

Rosaura - Va alla conversazione delle dame?

Pantalone - La va alle conversazion de par soo; de signore tutte oneste, e civil; signore, che non xè nobili; ma che gh'à dei soldi.

Rosaura - Signor Pantalone, la riverisco (vuol partire).

Pantalone - Come! No la se degna de lassarse servir da mia nezza?

Rosaura - Sì, anzi, mi farà piacere (sprezzante).

Pantalone - Vago subito a dirghe, che la se prepara per vegnirla a riverir.

Rosaura - No, no, per oggi non s'incomodi. Mi duole il capo.

Pantalone - Donca la vegnirà doman.

Rosaura - Se starò bene, vi avviserò.

Pantalone - Mo gh'àla mal?

Rosaura - Mi duole il capo. Non posso nemmeno sentir parlare.

Pantalone - Co l'è cusì, per non disturbarla de più, vago via.

Rosaura - Scusi di grazia. Quando mi duole il capo non so che cosa mi dica.

Pantalone - Me despiase infinitamente. Sior don Florindo, bisogna remediarghe; no sentela, che alla sposa ghe dol la testa?

Florindo - Lo so pur troppo. (Mia moglie ha il suo male nella testa, e mi dispiace, che non vi è rimedio) (da sé).

Brighella - Lustrissima, el sior Conte Lelio desidera de reverirla (a Rosaura).

Rosaura - Venga, è padrone (a Brighella, che parte).

Pantalone - Mo se ghe dol la testa, come farala a sentirlo a parlar? (a Rosaura)

Rosaura - La ragione per cui egli viene, interessa tutte le mie premure. Fate una cosa, signor Florindo, servite in un'altra camera il signor Pantalone, e lasciatemi col Conte Lelio a trattar l'affare, che voi sapete.

Florindo - Ma non potremmo noi prevalerci del signor Pantalone, che ci esibisce una sua nipote?

Rosaura - Mi maraviglio di voi. Sapete l'impegno, in cui sono.

Florindo - Signor Pantalone; andiamo, se vi contentate (stringendosi nelle spalle).

Pantalone - (Poverazzo! El se lassa menar per el naso) (da sé).

Rosaura - (Ehi! per vostra regola, acciò non facciate qualche cattivo giudizio, osservate ho preso le cento doppie) (piano a Florindo, e gli mostra la borsa).

Florindo - (Si potrebbero pur risparmiare) (piano a Rosaura).

Rosaura - Son chi sono; voglio così (adirata).

Florindo - Andiamo, andiamo, signor Pantalone (parte).

Pantalone - (Questi i xè de quei dolori de testa, che patisce le muggier, co le gh'à per marii de sta sorta de mamalucchi) (parte).



SCENA V

Donna Rosaura, poi il Conte Lelio, e Brighella.

Rosaura - La nipote del signor Pantalone? Farei una gran figura, se andassi con lei!

Lelio - Riverente m'inchino alla signora donna Rosaura.

Rosaura - Serva, signor Conte, chi è di là? (chiama).

Brighella - Lustrissima.

Rosaura - Da sedere.

Brighella - Lustrissima sì (porta due sedie).

Lelio - Galantuomo, siete forestiere? (a Brighella).

Brighella - Signor sì.

Rosaura - Dimmi, il moro è in casa? (a Brighella).

Brighella - Lustrissima sì.

Lelio - Siete lombardo? (a Brighella).

Brighella - Signor sì.

Rosaura - Va' via (a Brighella).

Brighella - Lustrissima sì.

Lelio - Sentite una parola (a Brighella). Mi date licenza ch'io dica un non so che al vostro servitore? (a Rosaura)

Rosaura - Siete padrone.

Lelio - (Voglio un poco vedere, perché a lei dà dell'illustrissima, e a me del signore). (Ditemi quel giovine, al vostro paese che regola si usa nel dar i titoli?) (a Brighella a parte).

Brighella - Ghe dirò, signor, in certi paesi dove, che ho praticà mi: chi li merita non li cura, e a chi non li merita i se ghe dà per burlarli.

Lelio - Bravo, mi piacete. Se vi occorre nulla, sarò per voi.

Brighella - Signor sì.

Rosaura - Portateci la cioccolata.

Brighella - Lustrissima sì (caricato, e parte; e a suo tempo ritorna).

Lelio - (Così con bella maniera costui si burla della sua padrona) (da sé).

Rosaura - Favorite d'accomodarvi.

Lelio - Ricevo le vostre grazie (siede).

Rosaura - Che buone nuove mi recate del nostro affare?

Lelio - Il tutto è accomodato. La Contessa Beatrice verrà da qui a pochi momenti a visitarvi; voi le anderete a render la visita; in casa sua farà, che si trovino varie dame. Vi introdurrà con esse, e vi condurrà pubblicamente nella loro conversazione.

Rosaura - Caro Contino, siete adorabile. Non poteva sperare diversamente dal vostro spirito, dalla vostra buona condotta.

Lelio - Circa alle cento doppie, bisogna condur la cosa con buona maniera.

Rosaura - Le si potrebbe dare un anello, che fosse di tal valore.

Lelio - No, un anello non accomoderà i suoi interessi.

Rosaura - Il danaro è pronto. Disponetene come vi aggrada.

Lelio - Faremo così; procureremo, che accada di fare una scommessa di cento doppie fra voi, e la Contessa Beatrice; voi perderete la scommessa, ed ella averà il danaro contante.

Rosaura - In questa maniera, non riconoscerà da me il dono, ma dalla sorte.

Lelio - Se la cosa è prima concertata, lo riconoscerà unicamente da voi.

Rosaura - Se si concerta così, può anche ricevere le cento doppie, senza far la scommessa.

Lelio - Signora no; ella pretende salvar con ciò la delicatezza del suo decoro.

Rosaura - Può salvarla presso di tutti gli altri, quando non lo sappiano altri che ella, ed io.

Lelio - Non vuole scomparire nemmeno con voi.

Rosaura - Ma se io ho a sapere la verità.

Lelio - Non importa; le resta sempre un rimorso di meno; e ancorché ella sia certa, che la scommessa sia inventata per regalarla, ciò nonostante, vanterà con voi medesima il suo bello spirito nell'aver saputo trionfare coll'oppinione.

Rosaura - E qual è la scommessa che dobbiamo fare?

Lelio - La scommessa caderà sopra le ore. Voi per esempio direte, che sono sedici. Ella dirà, che sono diciassette. Si farà la scommessa; io deciderò in favore della Contessa, e voi le darete le cento doppie.

Rosaura - Benissimo; per decidere con fondamento, favorite, tenete quest'orologio (gli dà un orologio d'oro).

Lelio - Credo che il mio sarà sufficiente.

Rosaura - Non pretendo sprezzare il vostro, ma questo è uno dei migliori di Londra. Tenetelo, e state certo che non isbaglierete.

Lelio - Ve lo renderò dopo la scommessa.

Rosaura - Spero che non mi farete un simile torto.

Lelio - Donna Rosaura, voi siete troppo obbligante.

Rosaura - Un Cavaliere, che mi dimostra tanta parzialità, può anche permettermi, ch'io mi possa prendere con esso lui una simile confidenza.

Lelio - Per dir il vero, la premura, ch'io nutrisco delle vostre soddisfazioni non è senza interesse, ma la mercede, a cui aspira il mio cuore, val molto più di quello mi avete graziosamente donato.

Rosaura - E qual è la mercede, che a misura del vostro merito possiate da me ottenere?

Lelio - Qualche generosa porzione della vostra grazia.

Rosaura - Oh via, signor Conte, vedo, che vi prendete spasso di me.

Lelio - Mostrerei di essere poco conoscitore del merito, se non aspirassi all'onore di essere da voi ben veduto.

Rosaura - Ben veduto, stimato, e venerato voi siete.

Lelio - E niente più?

Rosaura - Che cosa pretendereste di più?

Lelio - Niente amato? Niente affatto?

Rosaura - Onestamente, posso anche amarvi.

Lelio - Oh si sa! Onestamente.

Rosaura - Caro Conte, ditemi con sincerità. Siete impegnato con alcuna dama?

Lelio - Cinque ne ho servite in un anno, e tutte cinque si sono disgustate di me per femminili puntigli. La prima, perché ho procurato di accomodare in un'altra casa un servitore, che aveva ella licenziato. La seconda, perché in faccia sua ho detto, che mi piacevano gli occhi d'una romana. La terza, perché giocando all'ombre le ho dato un codiglio. La quarta, perché innocentemente ho scoperta una sua bugia; e la quinta, per essermi scordato una sera d'andarla a prendere alla conversazione. All'ultimo, mi sono posto a servire la Contessa Beatrice, la quale non è tanto puntigliosa quanto le altre.

Rosaura - Presto, presto, essa pure vi scarterà.

Lelio - Per qual motivo?

Rosaura - Può essere per causa mia.

Lelio - Per sì bella cagione, rinunzierei tutte le più belle dame del mondo.

Rosaura - Mi burlate?

Lelio - Dico davvero.

Rosaura - Caro Conte!

Lelio - Adorabile madamina!

Brighella - Lustrissima. La signora Contessa Beatrice, l'è fermada colla carrozza alla porta; e la manda a veder, se Vosustrissima è in casa, e se la pol vegnir a farghe una visita.

Rosaura - Padrona (s'alza).

Brighella - (Adesso la camisa no ghe tocca el preterito) (parte).

Rosaura - Veramente è sollecita questa dama.

Lelio - Spero, che resterete contenta.

Rosaura - Ha marito?

Lelio - Sì. Il Conte Onofrio. È un buonissimo uomo; mangia, e beve, e non pensa ad altro.

Rosaura - Lascia far tutto alla moglie?

Lelio - Tutto.

Rosaura - Felici quelle donne, che possono far così.

Lelio - Bisognerà andarle incontro.

Rosaura - Ma dove?

Lelio - Io direi alla scala.

Rosaura - Oh no, Contino mio, basterà, ch'io vada alla porta di camera.

Lelio - Per la prima volta, che viene a visitarvi, potete far qualche cosa di più.

Rosaura - Se lo facessi una volta, sarei obbligata di farlo sempre.

Lelio - Abbondare in gentilezza è cosa sempre ben fatta.

Rosaura - Chi troppo si abbassa non esige rispetto.

Lelio - Finalmente è una dama.

Rosaura - Ed io non sono la sua cameriera.

Lelio - Presto, andatele incontro. Vedetela, è qui alla porta.

Rosaura - Basta, che mi veda disposta per incontrarla (fa qualche passo verso la porta).



SCENA VI

La contessa Beatrice, e detti.

Beatrice - È qui la signora Rosaura?

Rosaura - Oh! Servitori ignoranti! Non mi hanno avvisata. Sarei venuta a riceverla.

Beatrice - Non importa, non importa.

Rosaura - Serva umilissima, signora Contessa.

Beatrice - Serva sua, signora donna Rosaura. Addio Conte.

Lelio - Con tutto il rispetto (inchinandosi).

Rosaura - Mi rincresce, che la signora Contessa siasi preso l'incomodo di venire sin qui; sarei venuta io a riverirla.

Beatrice - Il Conte Lelio mi ha procurato l'incontro di conoscere una signora di merito particolare, ed io non ho tardato ad accellerarmi un tal piacere.

Rosaura - S'accomodi. (Parla molto sostenuta) (piano a Lelio).

Lelio - (Si serve dei veri termini) (piano a Rosaura).

Rosaura - (Converrà misurar le parole) (da sé). Ma favorite d'accomodarvi (a Beatrice).

Beatrice - Eccomi accomodata (siedono tutti tre uniti; Beatrice alla dritta, Rosaura in mezzo, il Conte alla sinistra).

Lelio - (Così non istiamo bene. La Contessa non ha il suo posto) (piano a Rosaura).

Beatrice - Conte, avete fatto ammobiliar voi questo appartamento per la signora Rosaura?

Lelio - Sì signora, ho avuto io una tale incombenza.

Beatrice - E i suoi servitori, gli avete procurati voi?

Lelio - Ne ho ritrovati alcuni, per la pratica della città.

Beatrice - Perdonatemi; l'avete servita male. Cattivi mobili, e pessimi servitori.

Lelio - Perché dite questo, signora Contessa?

Beatrice - Non vedete? Siete pur Cavaliere. In una camera di udienza, le sedie tutte eguali non istanno bene. E i servitori non le sanno disporre.

Lelio - (Non ve l'ho detto? La Contessa non ha il suo posto, e vi voleva una sedia distinta) (piano a Rosaura). Signora, regolerò io le mancanze del servitore, giacché per i mobili non vi è rimedio (s'alza, porta la sua sedia in distanza di Rosaura, e fa che Beatrice resti alla dritta della medesima).

Rosaura - (Ho piacer d'imparare; anch'io a Castell'a Mare farò così) (da sé).

Beatrice - Conte mio, vi siete preso un incomodo, che lo potevate risparmiare. L'errore non consisteva nella vostra sedia, ma nella mia. Il sole di quella finestra mi offende la vista.

Lelio - (Ho capito). Permettetemi ch'io vi rimedi (s'alza; fa alzare Beatrice, e porta la di lei sedia in distanza di Rosaura colla spalliera verso la finestra, cosicché viene a restare in faccia a Rosaura nel primo luogo della camera d'udienza).

Beatrice - (Conte, se l'ho da condurre alla conversazione delle dame, insegnatele qualche cosa) (piano al Conte, e siede).

Rosaura - (Questa poi non l'intendo) (piano al Conte).

Lelio - (Quello è il primo luogo. Nella camera d'udienza, sempre la persona, che si riceve, va collocata in faccia la padrona di casa, e in faccia alla porta, o almeno di fianco) (piano a Rosaura).

Rosaura - (Anche questa è buona per Castell'a Mare) (da sé).

Lelio - Su via, signore mie, diciamo qualche cosa di bello (torna a portare la sua sedia vicino a Rosaura, e gira alquanto quella di essa Rosaura, acciò resti in faccia alla Contessa Beatrice).

Beatrice - E così, signora Rosaura, come vi piace la città di Palermo?

Rosaura - Non posso dirlo, perché non l'ho ancora veduta.

Beatrice - Quant'è, che ci siete?

Rosaura - Saranno otto giorni.

Beatrice - In otto giorni, sarete stata in qualche luogo.

Rosaura - Non sono uscita di casa, altro che una volta sola.

Beatrice - Per qual ragione?

Rosaura - Per non aver avuto una dama, che mi favorisse.

Beatrice - (Che pretensione ridicola!) E partirete di Palermo senza vederlo?

Rosaura - Spero che la signora Contessa mi onorerà della sua compagnia.

Beatrice - Conte, che ora abbiamo?

Lelio - Non lo so davvero; il mio orologio va male; voi che venite ora di fuori, potreste saperlo meglio di me (a Beatrice).

Beatrice - Ma pure, che ora direste voi, che fosse?

Lelio - Signora Rosaura, dite voi la vostra opinione.

Rosaura - Io dico, che saranno sedici ore.

Beatrice - Ed io dico, che saranno diciassette.

Rosaura - Quando la signora Contessa lo dice, sarà così.

Lelio - (Oh diavolo! E la scommessa?) (piano a Rosaura).

Rosaura - (È vero, non ci ho pensato). Signora Contessa, io scommetto che sono sedici ore.

Beatrice - O sedici, o diciassette non ci penso. Ma è ora che vi levi l'incomodo, e me ne vada (sostenuta).

Lelio - (Sentite? Se l'ha avuto per male) (piano a Rosaura).

Rosaura - (È molto puntigliosa!) (piano a Lelio)

Lelio - (Eppure è delle più correnti, e facili, che vi sieno) (piano a Rosaura).

Beatrice - A mezzogiorno devo esser a casa, ove alcune dame saranno per favorirmi.

Lelio - A che ora suona il mezzogiorno?

Beatrice - Alle diciassette.

Lelio - (Dite alle diciotto) (piano a Rosaura).

Rosaura - Perdoni, signora Contessa, ella s'inganna; il mezzogiorno suona alle diciotto.

Beatrice - Lo volete insegnare a me? Suona alle diciassette.

Lelio - (Ora è il tempo) (piano a Rosaura).

Rosaura - Scommetto che suona alle diciotto.

Beatrice - Scommetto, che suona alle diciassette.

Lelio - Animo, che cosa volete scommettere, signore mie?

Beatrice - Tutto quello, che vuole la signora Rosaura.

Rosaura - Scommetto cento doppie.

Beatrice - Doppie di Spagna?

Rosaura - Vi s'intende.

Beatrice - Benissimo. Accetto la scommessa. Cento doppie di Spagna, che mezzogiorno suona alle diciassette.

Rosaura - Che suona alle diciotto.

Beatrice - Ma chi deciderà la scommessa?

Lelio - Io, signore, se vi contentate. Ecco un giornale veridico, ed accreditato. Ecco qui: Tavola del mezzogiorno: undici Aprile, a ore diciassette. Signora donna Rosaura, avete perduto la scommessa.

Beatrice - Ho vinto, ho vinto (con allegria).

Rosaura - Benissimo, ed io sono pronta a pagare. Ecco, signora Contessa, una borsa con cento doppie di Spagna. Contatele se ne avete dubbio.

Beatrice - Mi maraviglio. Mi fido di voi.

Lelio - (Anche questa è andata bene, che non credevo) (da sé).

Beatrice - Il mezzogiorno dunque suona alle ore diciassette; ma presentemente, che ora sarà?

Rosaura - Io direi, che fossero sedici.

Beatrice - Ed io scommetto, che sono diciassette.

Rosaura - Signora Contessa, siete troppo brava; con voi non scommetto più. (Ne piglierebbe altre cento) (da sé).

Beatrice - Orsù; volete venire con me? (a Rosaura).

Rosaura - Dove?

Beatrice - A casa mia, dove vi saranno quattro, o cinque dame invitate unicamente per voi.

Rosaura - Riceverò volentieri le vostre grazie. Ma prima, se vi contentate, beviamo la cioccolata. Chi è di là? (chiama).



SCENA VII

Arlecchino, e detti, poi Brighella.

Arlecchino - Comandar.

Rosaura - Porta la cioccolata.

Arlecchino - Subito servir (in atto di partire).

Beatrice - Che grazioso moretto!

Arlecchino - Mi star graziosa moretta, e ti star galanta bianchetta (a Beatrice).

Beatrice - Come ti chiami?

Arlecchino - Mi chiamar con bocca.

Rosaura - Va' via di qua, impertinente.

Lelio - Lasciatelo dire, che la Contessa avrà piacere. È il più caro moro del mondo.

Arlecchino - Per ti star cara (a Lelio).

Lelio - Per me sei caro? Perché?

Arlecchino - Perché non aver quattrini, per mi comprar.

Beatrice - Bravo moretto, bravo!

Arlecchino - Oh cara! Quanto star bella! Mi voler bena. Mi, se ti voler, far razza mezza bianca, e mezza mora (a Beatrice).

Rosaura - Va' via, briccone. Porta la cioccolata.

Arlecchino - Per ti, e per ti portar cioccolata (a Rosaura, e Beatrice). E per ti polentina (a Lelio, e parte).

Lelio - È maledetto costui!

Beatrice - Dove l'avete avuto? (a Rosaura)

Rosaura - Vi dirò; questo è un moro, che quando fu preso, fu portato a Venezia, dove ha principiato a parlar italiano, e sentitelo, che dice quasi tutte parole veneziane corrotte. Egli poi venne in Sicilia sopra una nave, e piacendomi infinitamente il suo spirito, e le sue facezie, l'ho comprato dal capitano.

Beatrice - Che nome ha?

Rosaura - Perché è tanto burlevole, e giocoso; gli ho messo nome Arlecchino.

Lelio - Ma gli Arlecchini sono goffi, e costui è furbo come il diavolo.

Rosaura - In oggi i buoni Arlecchini sono più spiritosi, che goffi.

Brighella - L'illustrissimo sior Conte Onofrio vorria riverirla (a Rosaura).

Beatrice - Mio consorte (a Rosaura).

Rosaura - Favorisca, è padrone. Presto, un'altra sedia. Lì lì, presso la signora Contessa (a Brighella).

Beatrice - Che volete, ch'io faccia di mio marito vicino?

Rosaura - Aspetta (a Brighella). (Dove l'abbiamo da mettere?) (piano a Lelio)

Lelio - (Appresso di voi) (piano a Rosaura).

Rosaura - (Di sopra, o di sotto!) (come sopra)

Lelio - (Oh di sopra, di sopra!)

Rosaura - Mettila qui (a Brighella).

Brighella - (Se i mi padroni i sta troppo qua, i deventa matti) (mette la sedia, e parte).

Beatrice - (Questa povera donna è in una gran confusione) (da sé).



SCENA VIII

Il conte Onofrio, e detti.

Onofrio - Schiavo di lor signori.

Lelio - Amico, vi son servo.

Rosaura - Signor Conte posso bene annoverarmi fra le donne più fortunate, se vi degnate di onorar la mia casa coll'autorevole vostra presenza.

Onofrio - Oh garbata signorina! Chi è questa signora? (a Beatrice)

Beatrice - Questa è la signora donna Rosaura, moglie del signor Florindo Aretusi di Castell'a Mare.

Onofrio - Mercante, non è vero? (a Rosaura)

Rosaura - Fu mercante.

Onofrio - Ed ora, che cosa è?

Rosaura - Vive del suo, signore.

Onofrio - Non si è ancora fatto nobile?

Rosaura - Quanto prima, comprerà un titolo.

Onofrio - Se vuole il mio, glielo vendo (ridendo).

Beatrice - Siete qui sempre colle vostre barzelette (al conte Onofrio).

Lelio - Il Conte Onofrio è sempre di buon umore.

Onofrio - Contessa, sono venuto ad avvisarvi, che la Contessa Eleonora, e la Contessa Clarice, col Conte Ottavio, sono a casa nostra, che vi aspettano. (Ditemi, avete bevuto la cioccolata?) (piano a Beatrice)

Beatrice - (Or ora la portano). È molto tempo che ci sono?

Onofrio - Sarà mezz'ora.

Beatrice - Signora donna Rosaura, queste due dame le ho fatte venire per voi; se volete, che andiamo, principierete a conoscere queste, e vi servirà d'introduzione all'altre.

Rosaura - Sì, signora, andiamo: non le facciamo aspettare, non commettiamo questa mala creanza.

Beatrice - Io non so commettere male creanze (alterata).

Rosaura - Voglio dire... Vi s'intende. Se aspettan me....

Beatrice - No, no, non aspettano voi.

Rosaura - Dunque io non ci ho da venire?

Beatrice - Sì, verrete con me.

Rosaura - (Io mi confondo) (da sé).

Beatrice - (Poverina! È imbrogliata a voler far da signora) (da sé).



SCENA IX

Arlecchino, poi Brighella, e detti.

(Arlecchino con una guantiera con quattro chicchere di cioccolata, e vari biscottini).

Rosaura - Ecco la cioccolata.

Beatrice - Ma l'ora si fa tarda, e le dame aspettano.

Onofrio - Che aspettino. Quando avremo bevuto la cioccolata, anderemo.

Rosaura - Vi prego; accomodatevi (a Beatrice, perché prenda la cioccolata).

Beatrice - Potreste intanto prendere il ventaglio, e prepararvi per montare in carrozza (a Rosaura).

Rosaura - Ho tempo d'accomodarmi la testa?

Beatrice - Eh, che siete accomodata abbastanza!

Rosaura - Servitevi della cioccolata; vengo subito. Ehi? (chiama. Brighella viene)

Rosaura - Alza quella portiera (a Brighella, e passa nell'altra camera).

Brighella - (Se i la vedesse a Castell'a Mar, i creperia da rider) (parte).



SCENA X

Il conte Onofrio, la contessa Beatrice, il conte Lelio e Arlecchino.

Onofrio - Sediamo; la cioccolata si raffredda (siede, e prende una chicchera di cioccolata col biscottino).

Arlecchino - Per quella panza, no volir cioccolata, ma polenta.

Beatrice - Moretto, è buona questa cioccolata? (ne prende una chicchera).

Arlecchino - Star bona, perché star color de moretta (porta la cioccolata a Lelio).

Lelio - Non ne voglio. L'ho presa.

Beatrice - Bevetela che è buona (a Lelio).

Lelio - No, no, mi mette troppo calore.

Arlecchino - Bever, bever, che ti star pover giazzada (a Lelio).

Lelio - Se non portassi rispetto alla tua padrona, ti bastonerei.

Onofrio - Ehi? (ad Arlecchino; mette giù la chicchera vota, e ne prende un'altra piena col biscottino)

Arlecchino - Star Cavalier de bona fama.

Beatrice - Prendi (mette giù la sua chicchera).

Arlecchino - Voler quest'altra? (a Beatrice)

Beatrice - Non voglio altro; bevila tu.

Arlecchino - A mi no piaser; piaser maccarugna.

Onofrio - Ehi? (mette giù la chicchera vota, e prende la terza piena col biscottino, e beve).

Arlecchino - Evviva scrocca!

Lelio - (Quel Conte Onofrio, è veramente sordido!) (da sé)

Beatrice - (Mio marito non si contenta mai) (da sé).



SCENA XI

Donna Rosaura, e Don Florindo, poi Brighella, e detti.

Rosaura - Signora Contessa, mio marito vuol aver l'onore di rassegnarle la sua servitù.

Florindo - Rendo infinite grazie alla signora Contessa per la bontà, con cui si degna favorire mia moglie, e la prego ricevere me pure nel numero de' suoi servidori.

Beatrice - Signora donna Rosaura, avete un bel giovinotto per marito.

Florindo - E questo signore chi è? (a Lelio, accennando il conte Onofrio).

Lelio - È il signor Conte Onofrio, consorte della Contessa Beatrice.

Florindo - Permetta, che con lei pure... (ad Onofrio).

Onofrio - Schiavo, schiavo, senza cerimonie (voltandogli le spalle).

Florindo - (Questo trattamento non mi finisce) (da sé).

Onofrio - Signora Rosaura, avete della cioccolata molto buona.

Rosaura - Ne ho portata un poco per me, se comandate, la spartiremo.

Onofrio - Mi farete piacere, vi sarò obbligato.

Rosaura - Ehi? (chiama).

Brighella - Lustrissima.

Rosaura - Senti, porta subito, subito venti libbre di cioccolata a casa della Contessa Beatrice (piano a Brighella).

Brighella - Subito la servo (parte).

Beatrice - O via andiamo. Conte Onofrio, date mano alla signora donna Rosaura.

Onofrio - Volentieri, son qui la mia ragazza (a Rosaura).

Rosaura - Florindo, servite la signora Contessa.

Beatrice - Eh, no, non v'incomodate. Conte Lelio, favorite (chiama Lelio).

Lelio - Ma se si esibisce l'amico Florindo...

Beatrice - Andiamo, andiamo (prende Lelio per la mano).

Rosaura - Mio marito verrà in carrozza con noi? (a Beatrice)

Beatrice - In carrozza non vi si sta più di quattro. Verrà a piedi.

Rosaura - Basta... abbiamo anche noi la nostra carrozza.

Beatrice - Dunque verrà colla vostra (parte con Lelio).

Rosaura - Florindo, abbiate pazienza.

Onofrio - Ehi? Avete buon cuoco? (a Florindo)

Florindo - Sì signore, buono.

Onofrio - Lo proveremo (parte con Rosaura).



SCENA XII

Don Florindo solo.

Florindo - Ed io ho da andare a piedi, o solo nella mia carrozza a vettura? E il signor Conte Onofrio mi usa questa bella creanza? E la signora Contessa Beatrice, che vuol trattar mia moglie, fa di me questa stima? E quel che è peggio, mia moglie lo comporta? Ma io sono stato una bestia. Ma l'ha detto il signor Pantalone, me l'ha detto. Rosaura ha pagate le cento doppie, e queste serviranno a comprarci mille dispiaceri, mille torti, mille affronti. Tra i mercanti io era distinto. Qui tra i Cavalieri non sono considerato. Mai più non faccio simile bestialità. Dalla Contessa Beatrice non ci voglio andare, e quando torna mia moglie a casa, faccio i bauli, e subito prendo le poste, e la riconduco a Castell'a Mare (parte).



SCENA XIII

Appartamento in casa della Contessa Beatrice.

La contessa Eleonora, la contessa Clarice, ed il conte Ottavio.

Eleonora - Per assoluto, voglio andar via.

Ottavio - Ma perché, signora Contessa Eleonora, v'impazientite voi tanto?

Eleonora - La Contessa Beatrice non sa il trattare. Ci manda l'ambasciata, perché venghiamo da lei a sedici ore e sono ormai diciassette.

Ottavio - Vi ha pur fatto dire da suo marito, che abbiate la bontà di trattenervi, se ella tardasse alcun poco a venir a casa.

Clarice - Queste ambasciate si fanno fare alle serve, non alle dame, che sono al par di lei, e qualche cosa più di lei. Si vede bene, che i vizi di suo marito le hanno fatto non solo consummare l'entrate, ma perdere ancora la civiltà.

Ottavio - Anche voi vi riscaldate, Contessina Clarice?

Clarice - Mi riscaldo con ragione, e se non avessi licenziato la mia carrozza, me ne anderei assolutamente.

Eleonora - Venite nella mia, andiamo. Già io sto poco di qua lontano. Vi contenterete, che smonti al mio palazzo, e vi farete servire a casa.

Clarice - (Vuol esser servita prima lei?) No, no, vi ringrazio. Aspetterò ancora un poco.

Ottavio - Sentite una carrozza, sarà quella della Contessa Beatrice.

Clarice - Sarà la mia, sarà la mia.

Ottavio - Or ora ve lo saprò dire (parte per assicurarsene, e poi torna).

Eleonora - Per che causa mai ci ha fatto venir qui stamattina?

Clarice - Non lo so nemmen io. Ma suo marito, che è stato a invitarmi, mi ha fatto una gran premura.

Eleonora - È stato il Conte Onofrio a invitarvi?

Clarice - Egli in persona

Eleonora - Ed a me ha mandato il bracciere, non so perché abbia a usar questa differenza.

Clarice - Ha voluto far a me questa finezza.

Eleonora - Dunque voi restate, ed io partirò (in atto di andarsene).

Ottavio - Per dove, signora Contessa? (incontrandola)

Eleonora - Dove mi pare, e piace.

Ottavio - Così risoluta?

Eleonora - Risolutissima; e voi che mi avete accompagnata qui, riaccompagnatemi sino a casa.

Clarice - Brava, e io resterò sola come una pazza.

Ottavio - Io non posso dividermi in due.

Clarice - E bene, di chi era la carrozza? (ad Ottavio)

Ottavio - Non era né la vostra, né quella della Contessa Beatrice.

Clarice - Dunque di chi?

Ottavio - Era della Contessa Flamminia.

Eleonora - E per qual ragione non è smontata?

Clarice - Sarà stata invitata come noi; non ha trovato la dama in casa, e se ne sarà andata.

Eleonora - Ha fatto benissimo, andiamo anche noi.

Ottavio - Epure non è partita per questo.

Clarice - Dunque perché?

Ottavio - Mentre voleva smontare, ha veduto venire la carrozza della Marchesa Ortensia, e per non essere obbligata a salutarla, ha ordinato al suo cocchiere tirar di lungo.

Eleonora - Se s'incontravano, a chi toccava di loro a salutare l'altra?

Clarice - Toccava alla Marchesa, perché la Contessa era ferma, ed ella andava.

Eleonora - Ma la Marchesa Ortensia è qualche cosa di più della Contessa Flamminia. Siamo cugine di sangue.

Clarice - Circa al sangue, la Contessa Flamminia non è punto inferiore; e imparentata anche colla mia casa.

Ottavio - Sentite un'altra carrozza.

Clarice - Sarà la mia, sarà la mia.

Ottavio - Ne domanderò ai servitori (parte).

Eleonora - Se viene la Contessa Flamminia vado via subito.

Clarice - Non siete amiche?

Eleonora - Non sapete, che cosa mi ha fatto?

Clarice - Non lo so da donna d'onore.

Eleonora - L'altro giorno, che eravamo alle nozze della Baronessa Lucrezia, mi passò dinanzi due volte senza nemmen salutarmi.

Clarice - Ma per che causa?

Eleonora - Ve lo dirò io perché. Ha collera con me, perché nell'ultimo festino, che abbiam fatto al casino, io ho ballato dodici minuetti, ed ella solamente otto.

Clarice - Oh, in quanto a quella pazza si disgusta con tutte. Una volta è stata un mese senza guardarmi in viso, perché nel giorno, che ella si è messo un abito nuovo, io ne ho rinnovato uno più bello del suo. Ecco la Contessa Beatrice.

Eleonora - Eccola, eccola la Contessa senza creanza.

Clarice - Non ne ha mai avuta, e non ne avrà mai.



SCENA XIV

La contessa Beatrice servita dal conte Lelio, Rosaura dal conte Onofrio, il conte Ottavio, e dette.

Beatrice - Vi dimando scusa, se vi ho fatto aspettare (ad Eleonora ed a Clarice).

Eleonora - Niente, Contessina mia, niente (a Beatrice).

Beatrice - In verità, aveva del rammarico per causa vostra (come sopra).

Clarice - Voi siete piena di gentilezza; abbiamo aspettato pochissimo (a Beatrice).

Eleonora - Chi è questa dama? (a Beatrice accennando Rosaura)

Rosaura - Una vostra umilissima serva (inchinandosi ad Eleonora).

Beatrice - Appunto, io desiderava di farla conoscere a voi due, che siete le più compite dame della nostra conversazione (ad Eleonora ed a Clarice).

Eleonora - Per parte mia vi sono molto tenuta, dandomi questo vantaggio.

Clarice - Io pure mi chiamerò fortunata per questo felice incontro.

Beatrice - Sediamo, se vi contentate. Chi è là? Da sedere (i servidori portano le sedie).

Rosaura - (Io non so qual abbia ad essere il mio posto) (da sé).

Eleonora - Contessa Beatrice, fateci il piacere, ponete a sedere quella dama vicino a noi.

Clarice - Ecco il suo posto. In mezzo.

Beatrice - Signora donna Rosaura compiacete quelle due dame.

Rosaura - Per obbedirle anderò (s'incammina, poi siede in mezzo alle due dame suddette).

Eleonora - (Avete sentito? Le ha detto: signora donna Rosaura; non è titolata) (a Clarice, piano).

Clarice - (Non importa, basta che sia nobile) (ad Eleonora).

Beatrice - (Dimmi, è stata portata certa cioccolata?) (ad un servitore, piano).

Servitore - (Illustrissima sì).

Beatrice - (Presto corri a farne tre chicchere).

Servitore - (Subito; già l'acqua è calda) (parte).

Beatrice - Conte Ottavio, accomodatevi lì presso la Contessa Clarice.

Ottavio - Obbedisco (vuol sedere presso Clarice).

Eleonora - Si obbediscono volentieri questi dolci comandi (con ironia ad Ottavio).

Ottavio - I comandi della Contessa Beatrice sono da me in ogni tempo stimati.

Eleonora - Ma specialmente adesso, che vi fanno sedere vicino a una bella dama (accennando Clarice).

Clarice - Ah, ah; ora vi ho inteso. Conte Ottavio, questo non è il luogo vostro.

Ottavio - Ma qual è il mio luogo?

Clarice - Cercatelo; questo assolutamente non è.

Ottavio - Io non credeva di meritarmi di essere discacciato (si alza, e parte di là). Sarà più discreta a soffrirmi la Contessa Eleonora (va a sedere presso Eleonora).

Eleonora - Io non servo per ripiego a nessuno (si alza, e gli volta la schiena).

Ottavio - Fermatevi.

Eleonora - Andate dove siete stato sinora.

Ottavio - Signora Contessa Beatrice, in casa vostra decidete voi.

Beatrice - In casa mia non comando, quando vi sono delle dame, alle quali per debito, e per rispetto devo cedere tutta l'autorità.

Ottavio - Sicché dunque me ne posso andare.

Onofrio - (Conte Ottavio, sentite una parola: frattanto che queste pazze puntigliose taroccano fra di loro, volete venir con me in cucina a mangiar quattro polpette?) (ad Ottavio, piano)

Ottavio - (Vi ringrazio, per ora non ho appetito) (ad Onofrio).

Eleonora - Conte Lelio, venite qui.

Lelio - Dove comanda la Contessa Beatrice.

Beatrice - Sì, sì, sedete presso di lei, ch'io sederò qui vicino a voi.

Ottavio - Posso aver l'onore di sedervi appresso? (a Beatrice)

Beatrice - Siete padrone, se queste dame non s'oppongono.

Eleonora - Oh siete pur buona! Accettarlo voi, quando lo hanno rifiutato l'altre!

Beatrice - Dice il proverbio, che i bocconi rifiutati sono i migliori.

Eleonora - Sì, sì, tanto più ch'è un boccon grosso.

Ottavio - E voi siete un bocconcino... (verso Eleonora).

Eleonora - Via tacete (ad Ottavio con imperio).

Ottavio - Ma se due dame...

Clarice - Basta così, non dite altro (col medesimo tuono).

Ottavio - Contessa Beatrice...

Beatrice - Via, quando lo dicono, tacete.

Ottavio - (Ecco qui. Le donne sono tutte puntigli, e noi abbiamo da soffrire senza parlare) (da sé).

Onofrio - Io sederò presso di voi, se vi contentate (a Clarice).

Clarice - Mi fate onore.

Eleonora - Contessa Beatrice, favorite dirci, chi è questa dama.

Beatrice - È una signora di Castell'a Mare.

Eleonora - Ehi! di Castell'a Mare! (guardando Clarice)

Clarice - Castellana! (guardando Eleonora)

Lelio - (Principiano ad arruffare il naso) (piano a Beatrice).

Ottavio - (Contessa, siete in un brutto impegno) (piano a Beatrice).

Beatrice - La nostra signora donna Rosaura, è piena di merito. Oltre le ricchezze non ordinarie della sua casa, possiede poi molto spirito, e molta virtù.

Eleonora - È ricca? Me ne rallegro (deridendola).

Clarice - È virtuosa? Brava (fa lo stesso).

Rosaura - Io non sono né ricca, né virtuosa; ma quello, di cui mi pregio, è di essere vostra umilissima serva.

Eleonora - Obbligatissima, ah, ah, ah (ride, guardando Clarice).

Clarice - La ringrazio, ah, ah, ah (ride, guardando Eleonora).

Rosaura - (Come! Mi deridono? E la Contessa Beatrice non parla?) (da sé)

Lelio - (Prevedo, che voglia nascere qualche brutta scena) (piano a Beatrice).

Ottavio - (Le avete scelte dal mazzo queste due signore) (piano alla detta). (Servitori con tre cioccolate).

Beatrice - Ecco la cioccolata per chi non l'ha bevuta. Noi l'abbiamo presa (i servitori la portano ad Eleonora).

Eleonora - Non ne voglio (i servitori la presentano a Clarice).

Clarice - L'ho bevuta.

Onofrio - Non la volete? La beverò io (ne prende una chicchera. Servitore va da Ottavio).

Ottavio - Obbligato. L'ho presa.

Beatrice - Questa signora ha molta stima per le dame palermitane; ed è venuta apposta a Palermo per conoscerne alcuna delle più cortesi, e poter poi rappresentare al di lei paese con quanta urbanità, e pulitezza si trattino da noi le persone di merito come lei.

Rosaura - La signora Contessa Beatrice mi fa troppo onore.

Lelio - Infatti presso le persone del secondo ordine passa la nostra nobiltà per austera, e troppo sostenuta; non è mal fatto disingannare chi pensa malamente di noi, e dobbiamo ringraziare la signora donna Rosaura, che ci abbia offerta l'occasione di far conoscere al mondo, che sappiamo distinguere il merito in ogni rango, e in ogni carattere.

Rosaura - Sentimenti propri d'un Cavalier generoso.

Ottavio - Mi pare, che il signor don Florindo abbia tralasciato di negoziare (a Rosaura).

Rosaura - Sì signore. Sono più di tre mesi.

Onofrio - E poi, una bella donna si ammette per tutto.

Clarice - Quel giovine, guardate se è venuta la mia carrozza (ad un servitore, e s'alza).

Eleonora - Contessa, è tardi, bisogna ch'io vada (a Beatrice, e tutti s'alzano).

Rosaura - (Ho inteso. Queste dame non mi vogliono; ma la Contessa Beatrice me ne renderà conto) (da sé).

Beatrice - (Cara amica, vi prego, fatemi questa finezza, dissimulate qualche poco. Soffrite per amor mio. Se sapeste in qual impegno mi trovo, mi compatireste) (va vicino a Clarice, e le parla piano).

Clarice - (Vi pare una cosa ben fatta? Mettermi a sedere vicino ad una mercantessa?) (a Beatrice, piano).

Lelio - (Cara signora Contessa non fate questo dispiacere alla Contessa Beatrice, non le fate un affronto di questa sorta) (ad Eleonora, piano).

Eleonora - (L'affronto l'ha fatto a me, invitandomi a questa bella conversazione) (a Lelio, piano).

Beatrice - (È una giovane propria, e civile, mi è stata raccomandata da un ministro della corte. Ella ha dell'altissime protezioni. Credetemi, che questa cosa vuol esser la mia rovina) (a Clarice, piano).

Clarice - (Se fossi sola, non m'importerebbe, ma ho riguardo per la Contessa Eleonora. La conoscete; sapete chi è. Una ciarliera, che lo direbbe per tutto. Fate ch'ella se ne vada, e vedrete se le farò delle cortesie) (piano a Beatrice).

Lelio - (Finalmente non è una plebea; è una signora ricca, onesta, e civile; possibile che abbiate cuore di mortificarla così?) (piano ad Eleonora).

Eleonora - (A casa mia, o a casa sua non averei difficoltà di trattarla, ma qui dove vi sono due altre dame, guardimi il Cielo) (piano a Lelio).

Servitore - Illustrissima, la carrozza non è venuta (a Clarice).

Clarice - Grand'asino quel cocchiere! Non la finisce mai. Contessa Eleonora, se volete andare, non restate per me, ch'io aspetterò la carrozza.

Eleonora - Dunque anderò io. Amica, compatitemi, non posso più trattenermi (a Beatrice). Signora Rosaura, vi riverisco (sostenuta).

Rosaura - Serva sua (mortificata).

Eleonora - (Povera ragazza, mi fa compassione) (a Lelio).

Lelio - (Volete, che andiamo a casa sua a consolarla?)

Eleonora - (Se credessi, che non si sapesse, lo farei volentieri).

Lelio - (Oggi ci parleremo) (ad Eleonora).

Eleonora - Conte Ottavio, andiamo (gli dà la mano).

Ottavio - Sono a' vostri comandi. Vedete, se anche voi, vi degnate del boccon rifiutato? (ad Eleonora, dandole mano)

Eleonora - Signor no, non mi degno. Non ho bisogno di voi (parte scacciando da sé Ottavio).

Ottavio - Che maladetti puntigli! Non si sa come vivere, non si sa nemmeno come parlare. Tutto prendono in mala parte; tutto le mette in ardenza. Pur troppo è vero: i puntigli delle donne fanno impazzire i poveri uomini (parte).



SCENA XV

La contessa Beatrice, la contessa Clarice, Donna Rosaura,il conte Onofrio, il conte Lelio.

Rosaura - La carrozza della signora Contessa Clarice non è ancora venuta, onde per non farla maggiormente arrossire colla mia conversazione anderò via, se mi date licenza (a Beatrice).

Clarice - Oh cara donna Rosaura, che dite? Voi avete preso in sinistra parte le mie parole. Godo infinitamente della vostra conversazione, e mi rincresce, che l'ora è tarda, che per altro vi pregherei lasciarvi servire nella mia carrozza, e vi condurrei per Palermo, senza alcuna difficoltà. (Il dirlo non mi costa niente) (da sé).

Rosaura - Mi sorprende questa vostra inaspettata dichiarazione, la quale non corrisponde certamente al trattamento, che ho ricevuto fin ora da voi e dalla Contessa Eleonora.

Clarice - Oh, in quanto a quella pazza di Eleonora, non occorre abbadarvi. Ella è sempre così. Anzi mi sarò burlata delle sue caricature, e voi avrete creduto, ch'io ridessi di voi. Me ne dispiace infinitamente.

Lelio - (Che femmine accorte! Che femmine maliziose!).

Clarice - (Che dite amica, vi do piacere?) (piano a Beatrice).

Beatrice - (Vi sarò eternamente obbligata). Posso assicurarvi, signora donna Rosaura, che la Contessa Clarice è piena di buon cuore, e non è né superba, né puntigliosa.

Clarice - Guardimi il Cielo. Voglio bene a tutti. Tratto bene con tutti, e non fo male creanze a nessuno. Anzi, per farvi vedere, che fo stima di voi, oggi verrò a visitarvi (a Rosaura).

Rosaura - Sarò infinitamente obbligata alle vostre finezze.

Beatrice - (Cara amica, quanto vi sono tenuta) (piano a Clarice).

Clarice - (Lo fo unicamente per voi) (piano a Beatrice).

Onofrio - Ditemi, fate mai venir del salvaggiume dal vostro paese? (a Rosaura)

Rosaura - Sì signore; spessissimo. Anzi ieri sera mi hanno mandato delle starne.

Onofrio - Oh buone!

Rosaura - Due fagiani.

Onofrio - Oh cari!

Rosaura - E due cotorni.

Onofrio - Oh vita mia!

Rosaura - Se volete venir questa sera a favorirmi, li mangieremo insieme.

Onofrio - Sì, vengo, vengo. Quando si tratta di salvaggiume, non mi fo pregare.

Rosaura - Se queste dame si degnassero, lo riceverei per onore.

Beatrice - Non ricuserei le vostre grazie, ma non so, se la Contessa Clarice vorrà venire all'albergo.

Clarice - Cara Contessa Beatrice, queste cose non si dicono nemmeno.

Onofrio - Facciamo una cosa. Mandate qui, e si cenerà qui da noi (a Rosaura).

Rosaura - Questo sarà per voi troppo incomodo.

Onofrio - Niente affatto. Staremo meglio, e con libertà.

Rosaura - E la signora Contessa Clarice ci sarà?

Beatrice - In casa mia, spererei non dicesse di no.

Clarice - Quando non vi sia soggezione, verrò volentieri.

Onofrio - A tavola non ha da venir altri: siamo anche troppi.

Servitore - Illustrissima, è qui la sua carrozza (a Clarice).

Clarice - Contessa, a rivederci (a Beatrice).

Beatrice - Ricordatevi che vi aspettiamo.

Clarice - Verrò senz'altro.

Rosaura - Spero di godere anticipatamente le vostre grazie (a Clarice).

Clarice - Oggi sarò da voi. (Vi andrò presto, in ora, che probabilmente non sarò veduta da alcuna dama) (parte).



SCENA XVI

La contessa Beatrice, Donna Rosaura, il conte Lelio, ed il conte Onofrio.

Lelio - Questa sera, se la signora Beatrice l'accorda, si potrebbe anche fare una piccola festa di ballo.

Beatrice - Perché no? Che dite, signora donna Rosaura?

Rosaura - Io mi rimetto.

Onofrio - (Amico, la cera costa cara) (piano a Lelio).

Lelio - (La signora Rosaura ne ha portato due casse).

Onofrio - Bene, via, faremo la festa da ballo.

Lelio - Signora Contessa, potete per il ballo invitare qualche altra dama (a Beatrice).

Onofrio - Per il ballo sì, ma per la cena no.

Beatrice - Non vorrei mi nascesse qualche altro sconcerto.

Lelio - In casa vostra, potete far ballare chi volete.

Beatrice - Per la mia cara Rosaura, farò di tutto.

Rosaura - Vi sono molto obbligata. Permettetemi, ch'io torni a casa. Mio marito non si è veduto, e mi aspetterà.

Onofrio - Son qui, vi servirò io.

Rosaura - Riceverò le grazie del signor Conte Onofrio. A rivederci questa sera (a Beatrice).

Onofrio - Ehi! Non mi aspettate a pranzo, che non vengo (a Beatrice).

Beatrice - E dove andate?

Onofrio - Resto colla signora donna Rosaura.

Rosaura - Ma non so, se questa mattina vi sarà salvaggiume.

Onofrio - Non importa. So che avete un bravo cuoco. Ci sarà qualche buona zuppa (parte con Rosaura).



SCENA XVII

La contessa Beatrice, ed il conte Lelio.

Beatrice - E voi, Conte Lelio, potete restare a pranzo con me.

Lelio - Riceverò le vostre grazie.

Beatrice - Non vi sarà la tavola della signora Rosaura.

Lelio - Vi sarete voi, e tanto basta.

Beatrice - Che ne dite di quelle due dame?

Lelio - Dico, che vi è più fumo, che arrosto.

Beatrice - Ma sono nell'impegno, voglio spuntarla.

Lelio - Se non altro, in grazia della scommessa di cento doppie.

Beatrice - Ecco qui, subito un rimprovero delle cento doppie.

Lelio - Siamo tra noi.

Beatrice - Siete incivile. Non si mortificano le dame così.

Lelio - Ma se nessuno ci sente.

Beatrice - Vi sento io, e tanto basta.

Lelio - Via, compatitemi. Andiamo a pranzo.

Beatrice - Andate al diavolo. Io non pranzo con gente, che non sa trattar colle dame (parte).

Lelio - Ecco, che cosa si avanza colle donne. Sempre puntigli, sempre puntigli! Per buone, per umili, per discrete, che sieno, tutte, e poi tutte le donne sono puntigliosissime.



ATTO SECONDO

SCENA I

Camera prima nella locanda, con bauli, e robe su' tavolini.

Don Florindo, Pantalone, e Brighella.

Florindo - Subito, Brighella, ma subito, subito, senza perder tempo, va' alla posta, fa' attaccare al mio carrozzino quattro cavalli, e fa' che il postiglione venga qui col legno immediatamente.

Brighella - Ma volela partir subito? Senza disnar?

Florindo - Non cercar di più, fa' quello, che ti ordino, e torna colla risposta.

Brighella - Vado senz'altro. (Oh che matti! Oh che matti! Qualche volta i troppi bezzi i fa dar volta al cervello) (parte).

Pantalone - Donca, la vol andar via?

Florindo - Quando ritorna a casa la mia signora consorte, voglio che trovi il carrozzino pronto, e che ritorni meco a Castell'a Mare.

Pantalone - Ma perché sta resoluzion repentina?

Florindo - Non voglio soggiacere a maggiori affronti. Ne ho sofferti abbastanza.

Pantalone - Ma, la me perdona, l'esser pontiglioso xè proprio delle donne; vorla esser pontiglioso anca ela?

Florindo - Il mio risentimento non può chiamarsi puntiglio, mentre, come voi m'insegnate, il puntiglio non è, che una pretensione, o ridicola, o ingiusta, o eccedente. Ma io non ho, che a dolermi del trattamento, che qui ricevo, e voglio assolutamente partire.

Pantalone - Se la se fusse degnada de accettar le mie esibizion, no ghe sarabe successo sti inconvenienti.

Florindo - Dite bene; quella pazza di mia moglie, col fanatismo della nobiltà in capo, mi vuole esposto agli scherni, e alle derisioni.

Pantalone - E ela la xè tanto debole de lassarse guidar da una donna? Da una donna, che gh'à sta sorte de pregiudizi in testa? Da una donna, che va cercando el precipizio della so casa?

Florindo - Io sono uomo di bon cuore. Amo mia moglie, e cerco di compiacerla.

Pantalone - Amar la muggier xè una cossa bona, ma no bisogna amarla a costo della propria rovina. L'amor bisogna misurarlo col merito della persona; e no merita d'esser amada una femena, che se abusa dell'amor del mario. La sente cossa, che arrivo a dir a sto proposito, e la me fazza giustizia. Digo, che un mario, che ama troppo la muggier, e che per sto troppo amor, se lassa tor la man, se lassa orbar, el xè a pezo condizion d'un omo perso per una morosa. Perché della morosa, illuminà che el sia, el se ne pol liberar, ma la muggier, bisogna co el l'ha segondada a principio, che el la sopporta per necessità, e se la morosa per conservarse la grazia dell'amigo, qualche volta la cede, la muggier cognossendo aver dominio sul cuor del mario, la commanda, la vol, la pretende, e el pover'omo xè obbligà a accordarghe per forza quello, che troppo facilmente el gh'à accordà per amor.

Florindo - Sentite, signor Pantalone, è vero, che amo teneramente mia moglie, come vi ho detto, ma se devo dirvi la verità, non è stato l'amore, che ho per lei, che mi abbia unicamente indotto a venir a Palermo.

Pantalone - Xèla vegnua per negozi? La podeva vegnir senza muggier; perché no va per el mondo a negoziar colla muggier altro che quelli, che fa marcanzia de lumaghe.

Florindo - Io non intendo questa vostra frase.

Pantalone - Ho gusto, che no la l'intenda, perché la xè una barzeletta, che m'è scampada senza che me ne accorza.

Florindo - Veramente vi sono venuto più per impegno, che per volontà. Quasi tutti i mercanti del nostro rango, prendendo una moglie ricca, e di buon parentado, come la mia, sono in una specie di obbligo di far un viaggio con essa, di condurla in qualche città capitale, per darle divertimento, e per far quello, che fanno gli altri.

Pantalone - Questa xè la più forte rason de tutte. Per far quel, che fa i altri; andar in malora per complimento, farse burlar per usanza. Questa xè la rovina dei omeni, questo xè el desordene delle fameggie. Per far quel, che fa i altri se se precipita, se se descredita. A cossa serve le zoggie, che costa un tesoro, e che tien morto un capital, che poderave fruttar? Per far quel che fa i altri. Perché se va in malora? Perché se falisse? Per far quel che fa i altri. E per far quel che fa i altri s'ha da far mal? Scusa debbole, scusa fiacca, che no fa altro, che colorir in ti omeni la mala inclinazion. Se volè far quel, che fa i altri, no gh'aveu tanti esempi de zente, che opera ben, de zente savia, e prudente? Perché no feu quel che fa questi, e voleu far quel che fa quei altri? Sior Florindo, ve parlo con amor, con libertà da pare, che ve posso esser. Tolè esempio da i boni, no ve curè de i cattivi. Perché le critiche dei cattivi le finisse presto con rossor de quei medesimi che le fa, e le lode de i boni le dà credito, le consola, e le stabilisse la quiete dell'omo savio, e da ben.

Florindo - Voi dite bene, signor Pantalone; ma se sapeste che cosa vuol dire aver una moglie d'intorno, che non s'acquieta mai, forse, forse compatireste anche me.

Pantalone - Mi, per grazia del cielo, non ho avù de sta sorte de rompimenti de testa, perché no m'ho mai volesto maridar; ma me par, che se fusse stà maridà, m'averave volesto inzegnar de far a mio modo.

Florindo - Ma, come avreste fatto?

Pantalone - Con una somma facilità, senza andar in colera.

Florindo - Per amor del Cielo, ditemi, come avreste fatto?

Pantalone - L'averia lassada dir, senza responderghe, e senza abbadarghe.

Florindo - E se tutto il giorno vi fosse stata intorno a tormentarvi?

Pantalone - Averia procurà de star con ela manco, che fosse possibile; saria stà in tel mio mezzà, a tender a i mi negozi.

Florindo - E se a tavola non avesse fatto altro che rimproverarvi?

Pantalone - Quattro bocconi in pressa, e via.

Florindo - E se a letto non vi avesse lasciato dormire, per tenzonare, e gridare?

Pantalone - Saria andà a dormir in t'un'altra camera.

Florindo - E se vi fosse venuta dietro per tutto a strillare, a mortificarvi?

Pantalone - L'averia bastonada (con impazienza).

Florindo - Bastonare una donna civile?

Pantalone - Bastonarla in una camera serrada, che nissun savesse gnente, per salvar el decoro; ma bastonarla.

Florindo - E poi?

Pantalone - E po, la sarave vegnua via umile, umile come un agneletto.

Florindo - Dunque mi consigliereste bastonare mia moglie?

Pantalone - No digo sta cossa. No son capace de darghe sta sorte de conseggi. Ma una cossa ghe avverto, e po vago via. Le donne le xè come la pasta da far el pan, o troppo tenera, o troppo dura, o bazotta. Co l'è troppo tenera, bisogna manizarla con delicatezza, e metterghe della farina per ridurla a podersene servir. Co l'è bazotta, ognun xè capace de domarla; ma co la xè dura ghe vol la gramola e boni brazzi per gramolar. Sior don Florindo, a bon reverirla (parte).



SCENA II

Don Florindo, poi Arlecchino.

Florindo - Veramente il signor Pantalone dice bene. Son uomo, sono marito, tocca a me a comandare. Mia moglie dovrà principiar da oggi a fare a modo mio. Saprò farmi obbedire; saprò farmi stimare. Non dico di bastonarla, perché ella forse bastonerebbe me; ma troverò il modo di ridurla senza strepito, e senza violenza. Ehi, moro, dove sei?

Arlecchino - Comandar, patron.

Florindo - Hai finito di spazzare i miei panni? Sono all'ordine per riporli?

Arlecchino - Mi aver fatto tutto.

Florindo - Presto dunque, riponi ogni cosa in quei bauli, che or ora abbiamo a partire.

Arlecchino - Come! Partir avanti magnar?

Florindo - Si mangerà per viaggio.

Arlecchino - Ah patron, se mi andar viaggio senza magnar, cascar morto in mezzo de strada.

Florindo - Via, mangerai qualche cosa prima di partire. Sbrigati, e termina que' bauli.

Arlecchino - Dove star maledetto Brighella?

Florindo - Brighella è andato fuori di casa d'ordine mio.

Arlecchino - E mi far tutto? Ma se mi fadigar come aseno, seguro voler magnar come porco, patron (va, e torna con un abito da uomo).

Florindo - Oh come vuol arrivar nuova a mia moglie questa mia risoluzione!

Arlecchino - Patron, sentir carrozza; vegnir patrona (con l'abito).

Florindo - Presto, presto, termina il baule, e s'ella t'ordinasse diversamente, seguita a fare il fatto tuo. Dille, ch'io te l'ho comandato, che sei in necessità d'obbedirmi, e avverti bene, che se non eseguirai i miei ordini, ti caricherò ben bene di bastonate.

Arlecchino - Per so grazia, no per mio merito.

Florindo - Voglio terminar di vestirmi, per essere pronto a partire (parte).

Arlecchino - (mette l'abito nel baule, se ne va a prendere un altro da donna, e mentre va per riporlo, incontra quelli che vengono).



SCENA terza

Donna Rosaura, il conte Onofrio, e detto.

Rosaura - Che cosa fai? (ad Arlecchino)

Arlecchino - Metter in baula.

Rosaura - Ma perché?

Arlecchino - Patron commandar.

Rosaura - Non istanno bene gli abiti nel guardaroba?

Arlecchino - No star ben roba Palermo, se patron andar per viazo.

Rosaura - Come? Il padrone in viaggio?

Arlecchino - Andar Castella Mar subito senza disnar.

Onofrio - (Oh questa ci vorrebbe!) (da sé).

Rosaura - E se egli vuoi andarsene, per che causa ha da portar seco la roba mia?

Arlecchino - Andar patron, andar patrona, e anca povera moretta senza disnar.

Onofrio - (Peggio) (da sé).

Rosaura - È impazzito mio marito?

Arlecchino - No saver altro: mi metter in baula.

Rosaura - Porta via quell'abito; ponilo dov'era.

Arlecchino - Oh no poder.

Rosaura - Portalo dico, che è roba mia.

Arlecchino - No certo, mi no lassar.

Rosaura - Se non lo porti, l'averai a far meco.

Arlecchino - Se no metter baula, aver da far con patrugna.

Rosaura - O portalo dov'era, o con questo bastone te lo farò portar io (prende il bastone di mano al Conte).



SCENA IV

Florindo con bastone, e detti.

Florindo - O metti quell'abito nel baule, o ti rompo le braccia (ad Arlecchino).

Arlecchino - (Star fresca, star fresca) (da sé).

Rosaura - Che intenzione avete, signor consorte?

Florindo - Che andiamo immediatamente a casa nostra.

Onofrio - Senza desinare?

Rosaura - Come? Perché?

Florindo - Or ora verrà il postiglione col carrozzino attaccato.

Rosaura - L'ho da saper ancor io. Porta via quell'abito (ad Arlecchino minacciandolo).

Florindo - Lascia lì quell'abito (al medesimo minacciandolo).

Rosaura - E perché vorreste fare una simile bestialità?

Florindo - Perché degli affronti ne ho ricevuti abbastanza.

Rosaura - Niente per altro? Porta l'abito nel guardaroba (ad Arlecchino come sopra).

Florindo - Metti l'abito nel baule (al medesimo, come sopra).

Arlecchino - (Star fresco, star fresco) (da sé con paura).

Onofrio - Amico, queste risoluzioni repentine, sono per lo più sconsigliate, e importune. Pensateci un poco. Fate una cosa; desinate, e frattanto avrete luogo a riflettere (a Florindo).

Florindo - Vi ho pensato tanto che basta. E voi signor Conte Onofrio, in questo non ci avete da entrare.

Onofrio - C'entro, perché siete mio buon amico.

Florindo - Se foste mio amico, non mi avreste piantato qui come un villano, obbligandomi a venire a piedi, quando voi andavate in carrozza.

Rosaura - Veramente mio marito non dice male, e se non avessi avuto riguardo alla Contessa Beatrice, non sarei nemmen io venuta nella vostra carrozza.

Florindo - Ho piacere che ancor voi comprendiate la verità (a Rosaura). Metti quell'abito nel baule (ad Arlecchino come sopra).

Rosaura - Lascia stare. Portalo nel guardaroba (al medesimo, come sopra).

Onofrio - Io resto stordito di questa cosa. Non ci ho abbadato. Se mi dicevate qualche cosa, vi dava volentieri il mio posto, ed io sarei restato qui ad aspettarvi, e mi sarei divertito col vostro cuoco.

Rosaura - Sentite? Non l'ha fatto a malizia, non l'ha fatto per disprezzo, ma con inavvertenza. Vi domanda scusa, che cosa volete di più? (a don Florindo) Moro, va' via con quell'abito (ad Arlecchino).

Florindo - Fermati (ad Arlecchino). Ma che abbiamo da fare in Palermo? Che cosa possiamo sperare da queste dame?

Rosaura - Oh se sapeste, marito mio, quante cortesie ho ricevute, voi stupireste. Non è vero, Conte Onofrio?

Onofrio - Verissimo.

Rosaura - Vi era la Contessa Eleonora; che galante dama! Vi era la Contessa Clarice; che dama compita! Mi hanno fatto tante finezze, mi hanno fatto sedere in mezzo di loro, non si saziavano di lodarmi. Oggi verranno a farmi visita. Stasera verranno tutte alla festa di ballo della Contessa Beatrice, staranno colà a cena, e noi balleremo e ceneremo con tutte le dame.

Onofrio - E voi ci manderete il vostro salvaggiume, e il vostro cuoco (a Florindo).

Rosaura - (Tutto voglio, che mandiate. Tutto, anco la cera per il festino) (piano a Florindo).

Florindo - Ma, come tutto in una volta, queste dame si sono mutate?

Rosaura - Basta che una dia principio, tutte le altre corrono dietro. Siamo obbligati alla Contessa Beatrice.

Arlecchino - Porto, o metto? (a Florindo, e Rosaura)

Rosaura - Vanne.

Florindo - Fermati.

Onofrio - Se sapeste quanto ho operato per voi! Basta, ne parleremo con comodo. Non andate ancora a desinare?

Rosaura - Il Conte Onofrio, oggi favorisce di pranzar con noi.

Florindo - Mi rincresce, che per la risoluzione di partire non ho fatto preparar nulla.

Onofrio - Oh! Cosa avete fatto? Dov'è il cuoco? (a Florindo)

Florindo - Sarà in cucina.

Onofrio - Presto, presto; cuoco, dove siete? Cuoco. Animo legne, carbone, in quattro salti facciamo tutto (parte).

Florindo - Presto; al cameriere, che trovi il bisogno (parte).

Rosaura - Presto, la padrona di casa, che dia fuori la biancheria (parte).



SCENA V

Arlecchino, poi Brighella.

Arlecchino - Oh, questa star bella. Cossa mo aver da far? Se star qua, no magnar; se metter robba baula, padrona bastonar; se portar guardaroba, padron romper brazza. Mi star imbroiada come pulesa in perucca tegnosa.

Brighella - Dov'è el padron?

Arlecchino - Brighella, star vegnuda a tempo.

Brighella - Cossa voler?

Arlecchino - Tegnir abita (gli dà l'abito).

Brighella - Cossa aver da far?

Arlecchino - Quel, che ti voler. Cusì mi no metter, mi no portar: né patron, né patrona mi bastonar (parte).

Brighella - Costù l'è un gran matto. Vado a avvisar el patron, che el carrozzin l'è pronto (parte).



SCENA VI

Camera d'udienza nell'appartamento di don Florindo.

Donna Rosaura sola.

Rosaura - Manco male, che mi è riuscito di acquietar mio marito. L'aveva fatta la risoluzione, e s'io non arrivava in tempo, trovava i bauli sul carrozzino. Per obbligarlo a restare, non è stato mal fatto, ch'io gli abbia dipinto diversamente il trattamento delle due dame. Veramente mi hanno fatto ingoiare qualche boccone amaro; ma spero, che si cangeranno, e quelle buone grazie, che non mi hanno usato stamane, spero, che le otterrò questa sera. Con le buone maniere, con le parole rispettose, e obbliganti, e co i buoni offici della Contessa Beatrice, spero d'ottener l'intento. Mi basta una sol volta poter dire di essere stata in una conversazione numerosa di dame, accolta, trattata, e ammessa indistintamente con esse. Dopo ciò, me ne vado immediatamente alla patria, e per conseguir un tale onore farei qualunque gran sagrifizio.



SCENA VII

Brighella, e detta.

Brighella - Lustrissima. Gh'è la siora Contessa Clarice in carrozza, che la manda l'imbassada per vegnirla a reverir, se la se contenta.

Rosaura - È padrona. Chi ha mandato?

Brighella - El braccier.

Rosaura - Digli, ch'è padrona, e poi torna qui.

Brighella - A Castell'a Mar donca, no se va più.

Rosaura - No, non si va per ora.

Brighella - Se la sentisse, cossa che dise el postiglion.

Rosaura - Bene, che cosa dice?

Brighella - El dise robba del diavolo. El canta de musica come un sopran (e mi sotto ghe fazzo el basso) (da sé; parte, e poi torna).

Rosaura - Si vede, che la Contessa Clarice fa stima di me, manda a farmi l'ambasciata per il bracciere, e non per lo staffiere.

Brighella - Ghe l'ho dito (torna).

Rosaura - Presto, prepara le seggiole.

Brighella - Subito (tira innanzi due seggiole della camera).

Rosaura - No, no, va' in sala, prendi una sedia grande coi bracciuoli.

Brighella - La servo (va, e torna con un seggiolone antico, e pesante).

Rosaura - Ho imparato come si fa. Non mi fo più burlare.

Brighella - Eccola qua, la pesa, che l'ammazza.

Rosaura - Metti lì (gli addita il luogo).

Brighella - Dove? Qua?

Rosaura - No, un poco più là.

Brighella - Qua, come el trono.

Rosaura - E qui la mia (in distanza dell'altra).

Brighella - E qua la sua.

Rosaura - Vanne, vanne, che vien la Contessa. Alza la portiera.

Brighella - (Figureve cosa, che l'ha da far al so paese. L'ha da far smattir tutta la servitù) (parte).

Rosaura - Voglio incontrarla sulla porta.



SCENA VIII

Clarice, e Rosaura, poi Brighella.

Clarice - Riverisco la signora donna Rosaura.

Rosaura - Serva della signora Contessa.

Clarice - Vedete, se vi voglio bene, se vi sono venuta a vedere?

Rosaura - Onor, ch'io non merito; grazia, ch'io ricevo col più rispettoso sentimento del cuore.

Clarice - Avete desinato?

Rosaura - Signora no, non ho desinato. Ho bevuto la cioccolata, e mi riserbo a cenar questa sera dalla Contessa Beatrice. Vi supplico accomodarvi.

Clarice - Perché mi volete mettere in sedia d'appoggio? Questa è sufficiente (accenna l'altra, che Rosaura teneva per sé).

Rosaura - Di grazia fatemi quest'onore. Quella è la vostra sedia, e quello è il vostro luogo.

Clarice - Ma se non m'importa.

Rosaura - Ma se vi prego di questa grazia.

Clarice - (Che ridicola affettazione!) Per compiacervi, sederò dove volete (si prova a mettersi a sedere, ma col guardinfante non v'entra a cagion de' bracci del seggiolone). Signora donna Rosaura, non sono in grado di ricevere le vostre finezze.

Rosaura - Perché, signora Contessa?

Clarice - Non vedete? I bracci di questa sedia son tanto stretti, che il guardinfante non ci capisce.

Rosaura - (È vero; non so trovare il ripiego). Mi dispiace, che in questo appartamento non vi sono altre sedie distinte.

Clarice - E a me non m'importa niente. Vi dico, che sederò qui (va a sedere sulla sedia, ch'era per Rosaura).

Rosaura - Siete padrona di servirvi come v'aggrada. Ehi! (chiama).

Brighella - Lustrissima.

Rosaura - Senti. Con vostra licenza (a Clarice, poi parla nell'orecchio a Brighella).

Brighella - Lustrissima sì (parte, e poi torna).

Clarice - E voi, signora, non sedete?

Rosaura - Or ora sederò, se mi date licenza.

Brighella - (viene con un piccolo panchettino, su cui Rosaura siede).

Clarice - (Oh che freddure, oh che caricature!) (da sé).

Brighella - (E viva i matti!) (parte, poi torna).

Clarice - Nel vostro paese, che è porto di mare, e porto mercantile, vi saranno delle stoffe d'oro magnifiche, e di buon gusto?

Rosaura - Qualche volta ne vengono delle superbe. Ultimamente ne ho reso tre tagli per far tre abiti, che mi lusingo sieno qualche cosa di particolare.

Clarice - Gli avete portati con voi?

Rosaura - Sì signora, con idea di farmi far gli abiti da un sarto palermitano.

Clarice - Mi fareste il piacere di lasciarmi vedere queste stoffe?

Rosaura - Subito vi servo. Ehi! (chiama)

Brighella - Lustrissima.

Rosaura - Osserva in guardaroba, che vi sono quelle tre pezze di stoffa d'oro; portale qui, e portaci un picciolo tavolino.

Brighella - La servo subito (Sta' a veder, che la lustrissima vol far botteghetta). Volela anche el brazzolar?

Rosaura - Animo, sbrigati.

Brighella - (La vorrà guadagnar el viazo) (parte, poi torna).

Clarice - Mi dispiace darvi quest'incomodo.

Rosaura - È onor mio il potervi servire.

Clarice - Vi prego d'una grazia, se vedete la Contessa Eleonora, non le dite nulla, ch'io sia stata qui da voi.

Rosaura - Sarete obbedita. Ma per qual motivo non volete, che mi glori d'aver ricevuto e vostre grazie?

Clarice - Se sapesse, ch'io son venuta da voi senza dirlo a lei, lo avrebbe per male.

Rosaura - È puntigliosa?

Clarice - E come! Basta dire, che un'altra volta si è disgustata con me per essermi vestita da estate, senza averla avvisata.

Brighella - (col tavolino, e le tre pezze di stoffa, poi parte).

Rosaura - Ecco quanto ho portato meco in tal proposito.

Clarice - Questa è vaga, ma poco ricca.

Rosaura - Riesce meno pesante.

Clarice - Questo è un colore, che non mi piace.

Rosaura - È colore moderno.

Clarice - Oh questa poi, mi piace infinitamente.

Rosaura - Veramente non può negarsi, che non sia di buon gusto.

Clarice - Quante braccia sono?

Rosaura - Ventiquattro.

Clarice - Il bisogno per un andrienne. Ditemi, ve ne privereste?

Rosaura - Veramente l'ho provveduta per mio uso, ma quando si tratta di servire la signora Contessa, non ho difficoltà di privarmene.

Clarice - Vi ringrazio infinitamente. Quanto vi costa il braccio?

Rosaura - Quando vi degnate riceverla dalle mie mani, non avete da curarvi di saper quanto costi.

Clarice - Oh, non sarà mai vero, ch'io la riceva senza, ch'io vi rimborsi del valore.

Rosaura - Non posso meritar questa grazia?

Clarice - No assolutamente.

Rosaura - Quand'è così, per obbedirvi, vi dirò, ch'ella mi costa tre zecchini il braccio.

Clarice - Non è cara. In tutto quanto importa?

Rosaura - Il conto, io non lo so fare.

Clarice - Aspettate lo farò io. Ventiquattro braccia, a tre zecchini il braccio. Tre volte ventiquattro. Venti e venti quaranta e venti sessanta. Quattro, e quattro otto, e quattro dodici; sessanta, e dodici quanto fa? Sessanta, e dieci settanta, e due settantadue. Importa settantadue zecchini.

Rosaura - È verissimo. Settantadue zecchini.

Clarice - Stasera vi porterò il danaro dalla Contessa Beatrice.

Rosaura - Siete padrona.

Clarice - Che bella stoffa! Non si può far di più. Il disegno è vago a maraviglia, l'oro non può esser più bello. È un drappo che in Palermo non ho veduto il compagno.

Rosaura - Ho piacere, che la signora Contessa sia contenta.

Clarice - Credetemi, che oltre il pagamento, mi avete fatto un gran regalo. Bisogna poi dirla, gran Parigi! In Italia, non sanno fare di queste stoffe.

Rosaura - Eppure, signora Contessa, assicuratevi, che questa stoffa è fatta in Italia.

Clarice - In Italia! Dove?

Rosaura - Io so di certo, ch'è stata fatta in Venezia.

Clarice - Quando non è di Francia, compatitemi, non la voglio.

Rosaura - Ma s'è tanto bella; se non si può fare di più!

Clarice - Non importa; per esser bella deve esser di Francia.

Rosaura - Queste altre due pezze, sono di Francia, e non hanno che fare con questa.

Clarice - Lo voleva dire, che queste due erano di Francia. Vedete che finezza d'oro?

Rosaura - Eh, signora Contessa, è l'oppinione che opera. In Italia sanno lavorare al pari di Francia, ma fra noi altre donne corre un certo puntiglio, che la roba forestiera sia meglio dell'italiana, e se i nostri artefici vogliono vendere con riputazione i loro lavori, è necessario dare ad intendere, che sono manifatture di Francia, e così sagrificando al maggior guadagno la propria estimazione, si scredita la povera Italia, per la falsa opinione degl'italiani medesimi.

Clarice - Dite quel, che volete; ma io non porto stoffa, se non è forestiera.

Rosaura - Queste altre due sono forestiere.

Clarice - Non mi piacciono.

Rosaura - Dunque?

Clarice - Dunque scusate l'incomodo, che vi ho recato (s'alza).

Rosaura - Volete privarmi delle vostre grazie?

Clarice - In altro tempo goderò della vostra conversazione.

Rosaura - Questa sera, dalla Contessa Beatrice. Credo che vi sarà qualche poco di ballo.

Clarice - Fa invito?

Rosaura - Non lo so. Voi siete attesa.

Clarice - Verrò a vedere. (Mi daranno regola le circostanze). Signora donna Rosaura, vi riverisco (s'incammina per partire).

Rosaura - Serva divota (resta al suo posto).

Clarice - (Non fa grazia d'accompagnarmi nemmeno alla porta?) (da sé, e si ferma).

Rosaura - Signora, vi occorre qualche cosa?

Clarice - Queste tappezzerie, l'avete portate voi? (camminando)

Rosaura - Signora no (la seguita).

Clarice - In quest'altra camera qui, chi ci sta? (camminando)

Rosaura - Vi è il guardaroba (la seguita).

Clarice - Da questa porta si va in sala? (camminando sino alla porta)

Rosaura - Signora sì (la segue sino alla porta).

Clarice - Basta così. Non occorr'altro (parte).



SCENA IX

Rosaura, poi Brighella.

Rosaura - Ora capisco. Si è voluta far accompagnare sino alla porta. Sin dove arriva il puntiglio! Ambisce di essere complimentata anche per forza, anche in luogo, ove nessuno la vede. Non importa; voglio soffrir tutto per superare il mio punto. Se arrivo ad essere ammessa, e ben accettata in una pubblica conversazione di dame, son contenta, ma se ciò non mi riesce, prima di partir da Palermo voglio lasciare qualche memoria di me.

Brighella - Lustrissima, un'altra visita. L'è qua la signora Contessa Eleonora.

Rosaura - La Contessa Eleonora? Che stravaganza è questa! E dov'è ella?

Brighella - In carrozza, che l'aspetta la risposta dell'ambassada.

Rosaura - Ha veduto la Contessa Clarice?

Brighella - L'è arrivada giusto in tempo, che la signora Contessa Clarice montava in carrozza. Le s'ha fermà tutte do, le ha fatto un atto d'amirazion, e po le s'ha parlà sotto vose, ma mi ho sentido tutto.

Rosaura - E che cosa hanno detto?

Brighella - Ha dito la signora Contessa Eleonora a quell'altra: che cosa fate qui? Responde la signora Contessa Clarice: sono venuta dalla mercantessa a comprar ventiquattro braccia di stoffa d'oro. Brava! (ha dito la signora Contessa Eleonora); ed io vengo a comprare della tela d'Olanda.

Rosaura - Possibile, che abbiano parlato così?

Brighella - Le ha dito cusì in coscienza mia.

Rosaura - (Ecco il puntiglio! Una non vuol far credere all'altra d'aver della stima per me. Ma ancora mi convien dissimulare; quando sarà tempo di parlare, parlerò). Porta via questo tavolino con queste stoffe, acciò non dica, ch'io vendo la roba a braccio, e di' al bracciere, che venga pure, ch'è padrona.

Brighella - (Che bella cosa! Vegnir a Palermo a spender i so quattrini per farse burlar) (parte col tavolino, poi torna).

Rosaura - Parmi un sogno, che la Contessa Eleonora venga a casa mia, dopo la scena fatta in casa della Contessa Beatrice; o viene per iscusarsi, o viene per insultarmi. Nel primo caso sarebbe troppo umile, nel secondo troppo ardita. Ma siccome saprei far buon uso delle sue giustificazioni, così saprei anche rispondere alle sue impertinenze. E bene, dov'è la Contessa Eleonora? (vedendo ritornar Brighella)

Brighella - No la s'incomoda, che l'è tornada indrio.

Rosaura - È ritornata indietro? Perché?

Brighella - Perché Vosustrissima ha fatto aspettar el braccier avanti da darghe la risposta.

Rosaura - Asinaccio, sei stato tu, che l'ha fatto aspettare.

Brighella - Mi co la m'ha dito, che vada, son andà.

Rosaura - Dovevi andar subito.

Brighella - Mo se la m'ha fatto dir...

Rosaura - Presto, corri; raggiungi la carrozza della Contessa Eleonora; dille che il mancamento è provenuto da te, ch'io le domando scusa, e che la prego degnarsi di favorirmi.

Brighella - Ma la carrozza la va a forte. La sarà lontana...

Rosaura - Va' subito, che ti caschi la testa.

Brighella - Mi son staffier, e no son el lacchè.



SCENA X

Donna Rosaura, poi il conte Onofrio, poi Don Florindo.

Rosaura - Questo disordine mi dispiace infinitamente. La Contessa Eleonora veniva a domandarmi scusa, e il diavolo ha fatto, che se n'è andata.

Onofrio - (col tovagliuolo sulle spalle senza spada, mangiando) Animo, signora donna Rosaura, che la zuppa è in tavola.

Rosaura - Dispensatemi, che oggi non desino.

Onofrio - No? Pazienza, mangeremo noi (parte).

Rosaura - Ho altro in capo che mangiare. Mi sta sul cuore questo inconveniente colla signora Contessa Eleonora, spero per altro che si appagherà delle mie giustificazioni, e che ritornerà a visitarmi.

Florindo - Perché, non volete venir a pranzo? (a Rosaura)

Rosaura - Perché non ho volontà di mangiare.

Florindo - Venite almeno per compagnia.

Rosaura - Lasciatemi in pace; non mi disturbate da vantaggio.

Florindo - Vi è successo qualche inconveniente?

Rosaura - Mi è succeduto quello, che suol succedere, quando si tiene servitù in casa, che non sa il suo mestiere. Una dama è venuta per visitarmi. Brighella ha tardato a recar la risposta al bracciere, e la dama si è chiamata offesa, ed è ritornata indietro.

Florindo - Toccava a voi a mandar subito la risposta.

Rosaura - Ho spedito Brighella di volo dietro la carrozza per far le mie scuse colla Contessa.

Florindo - Eccolo, che ritorna.



SCENA XI

Brighella, e detti, poi il conte Onofrio, che torna come sopra.

Brighella - Ohimè, non posso più (affannato).

Rosaura - Presto, che ha detto la Contessa Eleonora? Vuole tornare a vedermi?

Brighella - La me lassa chiappar fià. Ho corso come un daino, no posso più.

Rosaura - Sbrigati, asinaccio.

Florindo - Via, abbiate un poco di carità (a Rosaura).

Brighella - Son arrivado alla carrozza, e l'ho fatta fermar. Me son presentà alla dama, ho principià a parlar; l'ha interrotto le mie parole, e la m'ha dito, che no la se degna de parlar con un staffier; mi voleva seguitar a dir, e ela m'ha fatto dar dal cocchier una scuriada in tel muso, e l'è tirada de longo.

Rosaura - Va' via di qua (a Brighella con collera).

Brighella - Subito la servo. (Questo l'è quel, che se guadagna a servir de sta sorte de matti) (parte).

Rosaura - Un affronto al mio staffiere?

Florindo - Vostro danno. Impacciatevi con gente par vostra.

Rosaura - E voi ve la passate così placidamente?

Florindo - E che volete, ch'io faccia? La dama ha ragione. Quando le volevate far una scusa non conveniva mandare uno staffiere.

Rosaura - E chi avevo da mandare, se voi avete licenziato il cameriere?

Florindo - L'ho licenziato stamattina, quando avevo risoluto di andarmene.

Onofrio - Florindo, venite, o non venite?

Florindo - Caro signor Conte, compatitemi: ho sempre di questi maladetti imbarazzi.

Onofrio - Se non vuol venir ella, almeno venite voi.

Florindo - Volete usare questa mala creanza al signor Conte? Non volete venire a tavola? (a Rosaura)

Rosaura - Il signor Conte mi dispenserà.

Onofrio - Sì, vi dispenso. Anche voi Florindo, se volete restare, restate, basta ch'io lo sappia, del resto mangerò anche solo, quando si tratta di compiacervi.

Rosaura - Signor Conte, favorite mandarmi il moro.

Onofrio - Subito ve lo mando. (Oh che cappone! Ha tanto di lardo) (parte).

Florindo - Che cosa volete fare del moro?

Rosaura - Voglio mandarlo a far le mie scuse colla Contessa Eleonora.

Florindo - Il moro? fareste peggio.

Rosaura - Il moro non è staffiere.

Florindo - È un servitore, è uno schiavo, e un buffone.

Rosaura - Dunque andateci voi.

Florindo - Io non vi anderei, se mi deste mille zecchini.

Rosaura - Dunque vi anderò io.

Florindo - A buon viaggio.

Rosaura - E se poi non mi ricevesse?

Brighella - Lustrissima, el Conte Lelio.

Rosaura - Venga, venga, che viene a tempo.

Brighella - (Qua no se patisse de indigestion. Sempre in moto) (parte).

Rosaura - Il Conte Lelio mi darà norma, come devo contenermi; andate a tener compagnia al Conte Onofrio.

Florindo - Quando mai finiremo d'impazzire? (parte)



SCENA XII

Donna Rosaura, ed il conte Lelio.

Rosaura - Conte Lelio, avete saputo la scena, che ha fatto la Contessa Eleonora?

Lelio - So tutto, e tutto è accomodato.

Rosaura - Dite davvero? Mi consolate.

Lelio - Siccome la Contessa Eleonora si era ridotta a farvi una visita per le mie insinuazioni, così è venuta a cercare di me al casino, e mi ha detto, che l'avete fatta aspettare tre quarti d'ora.

Rosaura - Non è vero, nemmeno dieci minuti.

Lelio - Basta; l'ho acquietata, l'ho persuasa a venire stasera dalla Contessa Beatrice, dove la vedrete, e potrete anche voi far le vostre scuse.

Rosaura - Caro Conte, quanto mai vi sono obbligata!

Lelio - Che non farei per meritarmi l'onore della vostra grazia?

Rosaura - La mia grazia val troppo poco in paragone del vostro merito.

Lelio - Con quanto garbo voi proferite quelle dolci parole!

Rosaura - Volete sedere, Contino?

Lelio - Riceverò le vostre grazie.

Rosaura - Ehi... (vuol chiamare il servo, e Lelio la trattiene).

Lelio - Zitto. I vostri servitori mangiano. Povera gente lasciategli stare.

Rosaura - E volete voi...

Lelio - Sì, vi servirò io. Quando sono con qualche bella signora, mai servitori (porta due sedie, e siedono).

Rosaura - Credete voi, Contino mio, che avrò questo piacere, di stare tutta una sera in una conversazione di dame?

Lelio - Io ne son quasi certo, questa sera alla festa di ballo vi saranno parecchie dame.

Rosaura - Ma che cosa dicono di me?

Lelio - Vi lodano infinitamente.

Rosaura - Mi lodano? Che dicono del mio discorso?

Lelio - Piace a tutte universalmente.

Rosaura - Il mio modo di vestire incontra?

Lelio - Assai.

Rosaura - Spero, che se mi vedranno ballare, faranno miglior concetto di me.

Lelio - Eh, signora mia, il vostro discorso è elegante, il vostro portamento è grazioso, ma il vostro volto è adorabile.

Rosaura - Via, via; non ho desinato, e non volete ch'io ceni.

Lelio - Voi state su gli scherzi, ed io languisco per voi.

Rosaura - Caro Conte, voi mi fate arrossire.



SCENA XIII

La contessa Beatrice, e detti.

Beatrice - Conte Lelio, chi vi vuol ritrovare, ha da venire dalla signora donna Rosaura.

Lelio - (Ora sto fresco) (s'alzano).

Rosaura - Signora Contessa, voi qui?

Beatrice - Se vi do incomodo, vado via.

Rosaura - Se aveste favorito mandarmi l'ambasciata, sareste stata meglio ricevuta.

Beatrice - Già voi non vi sareste incomodata fuori della vostra camera.

Rosaura - In casa mia non si fa cattivo trattamento a nessuno.

Beatrice - E in casa mia si ricevono degli affronti per causa vostra.

Rosaura - Quand'è così, non ci verrò più.

Beatrice - Se non ci verrete, sarà vostro danno.

Rosaura - Signora Contessa, quanto volete scommettere, che non ci vengo più?

Beatrice - (Mi tocca sul vivo) (da sé).

Rosaura - Scommettiamo cento doppie, che non ci vengo più.

Beatrice - Ecco qui, per causa vostra tutte le mie fatiche, tutte le mie attenzioni saranno inutili, e la signora donna Rosaura invece di ringraziarmi, mi darà de' rimproveri (a Lelio).

Lelio - Per causa mia?

Beatrice - Sì, per causa vostra. Avevo bisogno di voi, mi siete sparito dagli occhi senza che me n'avveda, e per ritrovarvi sono stata costretta a venir sin qui.

Lelio - Ma se vengo dalla signora Rosaura, voi sapete il perché.

Rosaura - Vi adirate, perché è venuto da me? (a Beatrice)

Beatrice - Non mi lagno, che sia venuto da voi, ma che lo abbia fatto senza dirmelo.

Lelio - È questa una colpa sì grande?

Beatrice - Colle dame non si tratta così.

Rosaura - E un mancamento del signor Lelio vi obbliga a venire in casa mia senza avvisarmi?

Beatrice - Per dirvela, non mi prendo poi questa gran soggezione.

Rosaura - Certo, quando si va a visitare la balia, non si osservano le cerimonie.

Beatrice - Andiamo, signor Conte (sostenuta).

Rosaura - Buon viaggio a lei (con disprezzo, a Beatrice).

Lelio - (Contessa, per amor del cielo, non precipitate l'affare. Se non andaste in collera, vi ricorderei la scommessa) (piano a Beatrice).

Beatrice - Non sentite, che la signora Rosaura prende in mala parte tutte le mie parole? Ella è stanca della mia amicizia, ella ricompensa con ingratitudine l'amore, che ho concepito per lei.

Rosaura - Cara signora Contessa, non sono poi una donna di stucco.

Beatrice - Ma non vedete, che se sono venuta in casa vostra senza l'ambasciata è stata una confidenza, che mi son presa per l'amore, che vi porto?

Rosaura - Se aveste detto così alla prima, non averei replicato.

Lelio - Via, se non l'ha detto prima, lo dice adesso. Vi basta? Siete contenta? (a Rosaura)

Rosaura - Io sono contentissima.

Lelio - Avete più collera colla signora donna Rosaura? (a Beatrice)

Beatrice - Con lei non ho collera. Osservate (dà un bacio a Rosaura). Ma con voi a tempo, e luogo mi sfogherò.

Lelio - Cosa vi ho fatto?

Beatrice - Basta così. Signora donna Rosaura, questa sera vi aspetto. L'invito alle dame è corso. Spero, che resterete contenta.

Rosaura - Non diffido della vostra buona condotta.

Lelio - (Anderà tutto bene?) (a Beatrice, piano).

Beatrice - (Io faccio quel che posso, se non anderà bene, non so che farci) (a Lelio piano).

Rosaura - A che ora si principierà il festino?

Beatrice - Presto, perché le notti son corte. Ma la sera si va avvicinando. Vado innanzi, e vi aspetto (a Rosaura).



SCENA XIV

Il conte Onofrio con la spada, il bastone e il cappello,tutto in mano, e detti.

Onofrio - Ehi, Contessa, aspettatemi (a Beatrice).

Beatrice - Siete ancor qui? (ad Onofrio)

Onofrio - Abbiamo finito di desinare in questo momento. Voglio venire in carrozza ancor io. Ho tanto mangiato, che non posso più stare in piedi.

Beatrice - Andiamo, andiamo (a Lelio). Gran ghiottone!

Lelio - (È venuta a interromperci sul più bello).

Onofrio - Oh che cappone! Oh che zuppa! Oh che ragù! Oh che fricassè. (a Rosaura)

Rosaura - Mi dispiace, che questa sera non vi farete onore col salvaggiume.

Onofrio - Non mi farò onore? Vi farò stordire. Da qui a mezz'ora torno ad esser fresco, come la mattina a digiuno (parte).



SCENA XV

Donna Rosaura sola.

Rosaura - Eppure si danno questi stomachi, che digeriscono tutto. Io non so come facciano. Così parimente vi sono di quelli, che digeriscono facilmente i rimproveri. La signora Contessa con tutti i suoi cavallereschi puntigli, ha dovuto ingoiarsi il rimprovero della scommessa, e subito ha cangiato, e si è resa docile. Anch'io so dare a tempo i miei colpi segreti, quando vedo di poterlo fare, ma quando temo di restar al di sotto, sto zitta, e fingo di non vedere, o di non sentire. La vera regola è questa, far valere il puntiglio, quando vi sia il caso di sostenerlo. Cedere con prudenza, quando si prevede di dover cedere con dispiacere (parte).



SCENA XVI

Strada.

Il conte Ottavio, poi un Paggio della contessa Eleonora con viglietto.

Ottavio - Servir dama? Gran miseria al dì d'oggi! Sempre puntigli, sempre puntigli. L'uomo più flemmatico del mondo, quando si mette a servire una donna, ha da perder la pazienza, voglia, o non voglia. Ecco un paggio della Contessa Eleonora.

Paggio - La mia padrona manda questo viglietto a V. S. illustrissima.

Ottavio - Che fa la vostra padrona?

Paggio - Sta alla tavoletta a correggere i difetti della natura (parte).

Ottavio - Ma il difetto di essere puntigliosa non lo correggerà mai. Vediamo, che cosa contiene questo foglio. È molto, che dopo essersi dichiarata disgustata meco, sia stata la prima a scrivermi un viglietto. Qualche gran cosa conterrà (legge). Questa sera la Contessa Beatrice dà una festa di ballo, ed io sono invitata. Quattro cavalieri si lusingano, che sia durevole il mio sdegno con voi, e si esibiscono a gara. Io per altro, che mi pregio sopra tutto della costanza, vi voglio preferire per non far ridere a spese vostre i vostri rivali. Ed io credo non vi sia un cane, che la guardi, e che cerchi di me per non andar sola. Sentiamo il resto. La castellana mi ha fatto un'impertinenza. Il Conte Lelio ha fatto il possibile per acquietarmi, ed io ho finto di esser placata; ma questa sera farò conoscere il mio risentimento. Ecco qui certe signore così fatte, osservano minutamente tutti i puntigli, e non abbadano a quello di mantener la parola. Andiamo alla conclusione: Venite dunque immediatamente a mia casa, e se vi preme la mia grazia, e se bramate far vedere pubblicamente, che non sono sdegnata con voi, venite disposto a persuadermi con qualche segno di pentimento, che vi dispiace avermi fatto adirare; ed allora tornerò con voi quale finora sono stata. Vostra amica sincera, chi voi sapete. Oh questa è graziosissima! Ella ha bisogno di me, perché non ha nessuno, che l'accompagni, vuol ch'io vada a servirla, e pretende, che le domandi perdono di un'offesa sognata! Che cosa ho da fare? Se non ci vado, commetto un'inciviltà. Se ci vado, faccio una figura ridicola. Ma vi anderò, perché già questa sorta di figure ridicole in oggi sono all'ultima moda. Sono curioso di saper qual sia il dispiacere, che la Contessa ha ricevuto dalla signora donna Rosaura. Già m'immagino, sarà qualche freddura. Mi dispiace la minaccia ch'ella fa di riscattarsi alla festa di ballo; non vorrei, ch'ella suscitasse qualche sconcerto, ed io dovessi entrare in qualche impegno per sua cagione. Ecco il signor Pantalone. Egli è amico della signora donna Rosaura, e di suo marito, forse qualche cosa saprà.



SCENA XVII

Pantalone, e detto.

Ottavio - Riverisco il signor Pantalone.

Pantalone - Servitor devotissimo, sior Conte.

Ottavio - Ditemi in grazia, quant'è che non avete veduto il vostro amico, il signor don Florindo?

Pantalone - Da stamattina in qua.

Ottavio - Sapete che sia succeduto alcun disordine in casa sua?

Pantalone - Mi no so gente. So che l'aveva destinà de partir, e che l'averia fatto da omo a andar via; ma so, che quella cara zoggia de so muggier la l'ha tornà a voltar, e la l'ha fatto restar a Palermo.

Ottavio - Io dubito, che sua moglie voglia essere la sua rovina.

Pantalone - No la saria una gran maraveggia, perché per el più le femmene, le xè la rovina delle fameggie.

Ottavio - Giacché voi siete amico di casa sua, voglio farvi una confidenza da uomo onesto. Sappiate che una dama si chiama offesa dalla signora Rosaura; questa sera si vedranno a una festa di ballo, e non vorrei le succedesse qualche disgrazia.

Pantalone - Mi no so cossa dir. A sior don Florindo ghe voggio ben, e per elo faria de tutto; ma a casa soa son stà adesso, e nol ghe xè. Debotto xè notte, e mi no so dove andarlo a trovar: me sàla dir chi sia la dama offesa?

Ottavio - Ve la dirò in confidenza, ma non mi fate autore. È la Contessa Eleonora.

Pantalone - Stemo freschi. So che muschietto che la xè.

Ottavio - Lo so ancor io pur troppo.

Pantalone - La me perdona, se parlo con libertà. La sa de che umor stravagante, che la xè, e la la serve con tanta attenzion?

Ottavio - Che volete ch'io faccia? Ho principiato a servirla; son nell'impegno, e non so come fare a staccarmi.

Pantalone - Gran cossa xè questa! I omeni i xè arrivai a un segno, che debotto no i gh'à de omo altro che el nome. Le donne le ghe comanda a bacchetta. Per le donne se fa tuto, e chi vol ottegnir qualche grazia, bisogna, che el se raccomanda a una donna. Da questo nasce, che le donne le alza i registri, e le se mette in testa de dominar. Le xè cosse che fa morir da rider andar in conversazion dove ghe xè donne coi Cavalieri serventi. Le sta là dure impietrie a farse adorar, chi ghe sospira intorno da una banda, chi se ghe inzenocchia dall'altra. Chi ghe sporze la sottocoppa: chi ghe tiol su da terra el fazzoletto. Chi ghe basa la man, chi le serve de brazzo. Chi ghe fa da secretario, chi da camerier, chi le perfumega, chi le sbruffa, chi le coccola, chi le segonda. E elle le se lo dise una con l'altra, le va d'accordo, le se cazza i omeni sotto i piè, el sesso trionfa, e i omeni se reduse schiavi in caéna, idolatri della bellezza, profanatori del so decoro, e scandolo della zoventù.

Ottavio - Signor Pantalone, per dir il vero, le vostre massime sono ottime, la vostra morale è molto giusta.

Pantalone - Sàla quante volte, che ho fatto de ste lezion anca a sior don Florindo? Ma gnente, no i me ascolta. Onde xè meggio, che tasa, che lassa, che l'acqua corra per el so canal, e a chi ghe dol la testa so danno. Anderò a cercarlo, ghe dirò le parole, ma gnanca sta volta no farò gnente, perché el gh'à una muggier fatta sul gusto delle donne moderne. Volubile in tel ben, e ustinata in tel mal (parte).

Ottavio - Questi vecchi parlano bene, ma non si ascoltano. Conosco anch'io, che dice il vero, ma non trovo la via di seguitarlo. Ah sì! La nostra rovina sono i rispetti umani (parte).



SCENA XVIII

Sala per il ballo in casa della contessa Beatrice, con lumiere, e sedie, ed un tavolino in mezzo con varie candele di cera, ed una accesa.

Il conte Onofrio, e Servitori che accomodano le candele. Suonatori per la festa.

Onofrio - Basta così; la sala è bene illuminata. (Queste sei candele le cambierò collo speziale in tanto zucchero) (parte colle sei candele, poi torna).

Servitore - (M'immagino, che all'ultimo si prenderà anche i moccoli) (da sé con rabbia).

Onofrio - Via, andate in cucina, preparate ogni cosa, che vogliono cenar presto. Vi raccomando quei cotornici. Dite al cuoco, che faccia con essi una buona zuppa (il servo parte). Vorrei, che di questi forestieri ne venisse uno alla settimana.



SCENA XIX

Brighella con un bacile di confettura sotto il tabarro, ed il conte ONOFRIO.

Brighella - Con buona grazia de Vusustrissima.

Onofrio - Venite, galantuomo. Che cosa avete là sotto?

Brighella - La padrona la prega perdonar la confidenza, che la se tol. La gh'à sto poco de confettura; e la ghe la manda, la se ne servirà stasera alla festa da ballo.

Onofrio - Benissimo; ha fatto benissimo. Lasciate vedere (prende due, o tre manciate di confetti). Andate, consegnate il bacile alla cameriera.

Brighella - (El gha dà la so castradina) (parte).

Onofrio - Questi sono buoni per divertirsi, mentre ballano.



SCENA XX

Arlecchino con una guantiera con boccette di rinfreschi, ed uomini con sorbettiere, ed il conte ONOFRIO, poi la contessa Beatrice, ed il conte Lelio.

Arlecchino - Poder vegnir?

Onofrio - Venir, venir. Che cosa aver?

Arlecchino - Portar acqua, per refrescar.

Onofrio - Lassar veder (prende due boccette, e se le beve).

Arlecchino - Maledetto! E mai no crepar?

Onofrio - Tegnir, andar (ripone le due boccette sulla guantiera).

Arlecchino - Mi andar, e ti mandar (parte cogli uomini).

Onofrio - Quel vino di Canarie mi ha eccitato la sete.

Beatrice - Ecco le dame, che principiano a venire.

Onofrio - Io me ne vado; e vi aspetto a cena (parte).

Beatrice - Sonatori, principiate la sinfonia (suonatori suonano).



SCENA XXI

LA CONTESSA CLARICE servita da un cavaliere, che non parla. Altre due dame, con due cavalieri che non parlano. Beatrice va a ricevere le due dame, le quali entrano, servite di braccio da' loro cavalieri. Entrati che sono, Beatrice fa seder le tre Dame in mezzo nel primo luogo. I Cavalieri siedono discorrendo fra di loro nelle sedie laterali. Lelio siede dall'altra parte, e Beatrice dopo aver fatto i suoi complimenti colle Dame, va a sedere vicino a Lelio, seguita la sinfonia, e frattanto arriva ROSAURA E FLORINDO. Beatrice s'alza, e va a riceverla, e la pone a sedere presso a Clarice, poi torna vicino a Lelio. Florindo va presso a' Cavalieri. Clarice colle due Dame salutano freddamente Rosaura, poi si parlano sottovoce fra di loro. Da lì a qualche poco Clarice s'alza, e va vicino a Beatrice, e finge parlare con lei; dopo le altre due Dame si alzano, e vanno vicino a Clarice, lasciano Rosaura sola, e parlano sottovoce con Clarice. Florindo s'alza, va per parlare con Rosaura, la quale arrabbiata lo scaccia, ed egli torna al suo posto. Arrivano La contessa ELEONORA, ed il conte OTTAVIO. Beatrice s'alza, la va ad incontrare, e la conduce per sedere presso Rosaura. Ella osserva intorno, e va a sedere in mezzo degli uomini, e resta Rosaura sola. Beatrice vedendo questo, va ella a sedere presso Rosaura parlandole piano, e Rosaura scuote il capo. Viene in sala Un BALLERINO, maestro di sala, e terminata la sinfonia, ordina a' sonatori il minuè. I sonatori sonano. Il ballerino per ordine di Beatrice va a prender Rosaura, e con essa balla il minuè. Frattanto che Rosaura balla, tutte le Dame a una per volta partono, e i Cavalieri seguitano le loro Dame. Lelio per arrestarle s'alza, e le seguita. Rosaura vedendo andar via la gente, prima di terminare il minuè, si rivolta a Beatrice, che va smaniando. I sonatori si fermano.

Rosaura - Come? A me un affronto di questa sorta? (a Beatrice).

Beatrice - L'affronto lo ricevo io, e lo ricevo per causa vostra.

Florindo - Andiamo, andiamo, me ne farò render conto (a Rosaura).

Beatrice - Da chi ve ne farete render conto?

Florindo - Da quello scrocco di vostro marito.

Beatrice - Sia maledetto, quando vi ho conosciuto.

Rosaura - Da una dama della vostra sorta, nulla potevo sperar di meglio (parte).



SCENA XXII

La contessa Beatrice, poi il conte LELIO, poi il conte Onofrio.

Beatrice - Un affronto alla mia casa? Come mai risarcirlo? Non si parlerà d'altro per i caffè. Sarò io la favola di Palermo.

Lelio - Son partite. Non vi è stato rimedio di trattenerle.

Beatrice - E dove sono andate?

Lelio - Tutte in casa della Contessa Eleonora.

Beatrice - Voglio andarvi ancor io.

Lelio - Non fate; vi rimedieremo.

Beatrice - Voglio andarvi per assoluto. Se non volete venir voi, non m'importa (parte).

Lelio - Vi servirò, se così volete.

Onofrio - Che cosa c'è? (a Lelio).

Lelio - Perché la signora Rosaura ha ballato il primo minuè, tutte le dame, sono andate via (parte).

Onofrio - Non vi è altro male? Quando è all'ordine la cena, io non aspetto nessuno (parte).



ATTO TERZO

SCENA I

Camera solita nella locanda con tavolino e lumi.

Donna Rosaura, e Don Florindo.

Florindo - Tant'è, voglio sfidar alla spada, quel mangione del Conte Onofrio.

Rosaura - Quando lo volete sfidare?

Florindo - Subito; domani mattina.

Rosaura - Mi parrebbe di commettere un'azione indegna, se restassi a Palermo sino a domani. Mandate subito a prendere il carrozzino; ordinate, che attacchino i quattro cavalli, e avanti che suoni la mezza notte usciamo da questa città.

Florindo - E mi persuadereste partire senza dimostrare dell'affronto ricevuto un qualche risentimento?

Rosaura - Questa è una cosa, alla quale tocca a pensare a me.

Florindo - Ci devo pensar io, che sono vostro marito.

Rosaura - No, Florindo, fidatevi questa volta di me. Può essere, che mi riesca far le vostre vendette, senza sfoderare la spada.

Florindo - Eh, che per fare a vostro modo, sinora ho fatto delle bestialità, non voglio, che mi meniate più per il naso.

Rosaura - Ora non vi domando di secondarmi per un capriccio, per un piacere, ma solamente vi chiedo, che siccome sono io stata la cagione di questo male, lasciate fare a me a procurare il rimedio.

Florindo - Ditemi che cosa avete intenzione di fare.

Rosaura - No, non lo voglio dire. Bastivi sapere, che il pensiero è tutto mio, che la vendetta è sicura, e che mancherà il tempo di farla se inutilmente ci trattenghiamo.

Florindo - Dunque che abbiamo a fare?

Rosaura - Mandate subito a ordinare il carrozzino con i quattro cavalli.

Florindo - E la roba?

Rosaura - La roba si consegnerà al padron dell'albergo, e la manderà poi a Castell'a Mare.

Florindo - Volete far uccidere qualcheduno?

Rosaura - Eh, pensate! La vendetta ha da essere senza sangue.

Florindo - Io non vi so capire.

Rosaura - Sollecitate, e saprete la mia intenzione.

Florindo - Brighella? (chiama).



SCENA II

Brighella e detti, poi Arlecchino.

Brighella - Lustrissimo.

Florindo - Va' subito alla posta, ordina nuovamente il carrozzino con i quattro cavalli, e di' al postiglione, che venga immediatamente, poiché voglio da qui a pochi momenti partire.

Brighella - A st'ora? Sàla, che sarà tre ore de notte?

Florindo - La porta si farà aprire. Va' subito; non tardare.

Brighella - (Oh, cosa che vol rider el postiglion!) (parte).

Rosaura - Bravo, ora vedo che mi volete bene, e che vi fidate di me.

Florindo - Ma si può sapere che cosa abbiate intenzione di fare?

Rosaura - Or ora lo saprete. Moro? (chiama).

Arlecchino - Commandar.

Rosaura - Ascolta bene ciò, che ti ordino, e bada di non fallare.

Arlecchino - Mi star omo, mi no fallar.

Rosaura - Informati dove è il palazzo della Contessa Eleonora del Poggio. Introduciti bel bello nel primo ingresso, e domanda a quei servitori, se colà vi sono ancora le dame, ch'erano al festino della Contessa Beatrice, e portami subito la risposta.

Arlecchino - No voler altro?

Rosaura - Questo, e non altro; mi preme subito.

Arlecchino - In do salti andar, e in quattro salti tornar.

Florindo - Dunque le dame, che erano al festino, sono andate dalla Contessa Eleonora?

Rosaura - Così mi ha detto il cocchiere.

Florindo - E voi che pensate di fare dopo, che sarete di ciò assicurata?

Rosaura - Gran curiosità! Lo saprete da qui a poco tempo.



SCENA terza

Brighella, e detti.

Brighella - Ho trovà el postiglion per strada. Gh'ò dà l'ordine, e adessadesso el sarà qua.

Florindo - Presto; mettiamoci all'ordine.

Rosaura - Io monto in carrozzino tale, qual mi vedete.

Brighella - Gh'è l'illustrissimo sio Conte Lelio, che li voria reverir.

Rosaura - Digli che non ci sono.

Florindo - Sentiamo che cosa dice.

Rosaura - Non lo voglio ricevere.

Brighella - Cosa gh'òio da dir?

Rosaura - Digli che non ci siamo, e se non lo crede, digli che io non lo voglio ricevere.

Brighella - La sarà servida (parte).

Florindo - Credete, che il Conte Lelio, abbia colpa nell'affronto che ci hanno fatto?

Rosaura - O colpa, o non colpa, non voglio più nessuno di costoro d'intorno. Vado nella mia camera, e quando viene il carrozzino, avvisatemi (parte).



SCENA IV

Don Florindo, poi Brighella.

Florindo - Ora conosce mia moglie la pazzia, che aveva nel capo; spero che ciò le servirà di regola, e per l'avvenire non darà in simili debolezze.

Brighella - L'è andà via.

Florindo - Che cosa ha detto?

Brighella - El s'ha accorto benissimo, che no i l'ha volesto, e l'ha dito mastegando: "Questo è quello, che si avanza a usar finezze a questa sorta di gente".

Florindo - A questa sorta di gente? Giuro al cielo! Mia moglie dice di vendicarsi, ma non so che cosa farà, e dubito di qualche freddura; anch'io voglio cavarmi una soddisfazione. Senti, Brighella, so che sei uomo, e che farai con esattezza quanto ti ordino.

Brighella - La comanda pur, e la vederà, se so far.

Florindo - Sei pratico di Palermo?

Brighella - Ghe son stà tanti anni.

Florindo - Sapresti ritrovarmi quattro bravi uomini, che fossero buoni da menar le mani?

Brighella - Alla bettola se ne trova quanti se vol.

Florindo - Tieni. Questi sono sei zecchini, trova quattro uomini, dà loro uno zecchino per uno, conducili al palazzo della Contessa Eleonora, e ordina ad essi, che bastonino tutti i servidori, che escono da quella casa.

Brighella - I servidori?

Florindo - Sì, i servitori.

Brighella - Che colpa gh'à i poveri servidori?

Florindo - Questa è una vendetta, che ho veduta praticare da molti. Bastonar il servo per far un affronto al padrone.

Brighella - Poverazzi! I me fa peccà.

Florindo - Se lo fai, guadagni li due zecchini, che avanzano; se non lo fai, ti licenzio dal mio servizio.

Brighella - Lo farò; ma confesso el vero, che me despiase, perché l'è un pan, che me pol esser reso anca a mi (parte).

Florindo - Almeno potrò vantarmi di aver fatto una qualche vendetta; si parlerà almeno di me con qualche stima, con qualche rispetto.



SCENA V

Pantalone, e detto.

Pantalone - Se pol vegnir? (di dentro).

Florindo - Venite, venite, signor Pantalone.

Pantalone - L'ho cercada per tutto a bonora, per dirghe una cossa de premura, e no l'ho trovada. Se l'avesse trovà in tempo, pol esser, che avesse potesto prevegnir un desordene, che sento a dir, che sia nato. Com'è? Xè la verità, che gh'è stà fatto un affronto? Giera a casa, e i me lo xè vegnù a contar.

Florindo - Pur troppo è la verità.

Pantalone - Se la me avesse badà a mi, no ghe saria successo sto inconveniente.

Florindo - Causa mia moglie.

Pantalone - Causa el mario, e no la muggier. Col mario no segonda, la muggier no pol gnente.

Florindo - Basta, avete fatto bene a venirmi a favorire, mentre aspetto il carrozzino, e subito parto.

Pantalone - La farà come stamattina.

Florindo - Non ci è pericolo.

Pantalone - E la consorte cossa dìxela?

Florindo - È stata ella, che mi ha fatto risolvere a partir subito.

Pantalone - Ah donca la va via per conseggio della muggier? Co la lo fa perché la muggier lo conseggia, anca sta volta la farà un sproposito.

Florindo - Mi persuadereste voi, ch'io restassi a Palermo?

Pantalone - Sior sì, stamattina l'averia persuaso a andar via. Stassera ghe digo, che el doveria restar qua.

Florindo - Da che nasce la varietà della vostra opinione?

Pantalone - Dalla varietà delle circostanze. Stamattina l'andava via avanti, che ghe fusse stà fatto sto affronto, e la so partenza giera un atto de virtù, che prevegniva i disordini. Adesso, che l'affronto è seguìo, la so partenza xè un atto de viltà, che mazormente faria rider i so nemici.

Florindo - Prima però di partire, daremo segni del nostro risentimento.

Pantalone - Come, cara ela?

Florindo - Mia moglie ha in mente il disegno di vendicarsi a dovere, senza far strepito.

Pantalone - Ecco qua: tutto la muggier. Mo cossa xèlo elo? La me perdona, un papagalo?

Florindo - Io per la mia parte ho fatto quello che dovevo; e domani si saprà, che ho spirito per risarcire le offese fattemi.

Pantalone - Poderavela a un omo, che ghe vol ben come mi, confidar qual sia la so resoluzion?

Florindo - Ho mandato quattr'uomini a bastonare i servitori di quelle Dame, e di quei Cavalieri, che al festino mi hanno fatto l'affronto.

Pantalone - Oh bella vendetta! Veramente eroica, e da omo de garbo! No me posso tegnir, bisogna che diga quel che sento, e la me cazza via se la vol, che la gh'à rason. Per un affronto recevudo dai patroni, far bastonar i servitori? Con che rason? Con che leze? Con che conscienza? Che colpa gh'à i servitori in tei mancamenti dei so patroni? A questo la ghe dixe risarcimento dell'offesa? A questo mi ghe digo ingiustizia, crudeltà, barbarità; ghe digo maltrattar l'innocente senza vendicarse dell'offensor. Ma po, se parleremo della vendetta, che razza de vendetta xè questa? Ghe vol assae a trovar quattr'omeni, che a sangue freddo bastona quella povera servitù. Sior Florindo caro, tutte pazzie, tutti inganni della fantasia, inganni dell'ambizion, che lusinga i omeni, e ghe dà da intender, che la vendetta più facile sia la più vera, e che per vendicarse del reo, sia lecito opprimer anca l'innocente.

Florindo - Ma dunque, signor Pantalone, che specie di vendetta mi consigliereste voi, che io facessi?

Pantalone - Prima de tutto ghe dirò, che la vendetta non xè mai cossa lecita in nissun tempo, in nissun caso. Ma molto manco quando l'offesa provien da qualche principio, che giustifica l'offensor. Me spiego. L'uso de squasi tutti i paesi del mondo xè, che in te le conversazion, in te le reduzion, dove se raduna la nobiltà, no se ammetta chi no xè nobile. Mi no ghe digo adesso se sta usanza sia bona, o cattiva, perché no voggio intrar in t'una disputa de sta natura, ma ghe digo ben, che bisogna uniformarse al costume, e se la nobiltà, che xè garante de sto so privileggio, per mantegnirlo in osservanza, gh'à fatto un affronto, l'offesa no se pol dir prodotta da un'ingiustizia, ma più tosto cercada da chi l'ha recevuda.

Florindo - Dunque, da quel che dite, io ho torto.

Pantalone - La gh'à torto siguro, a pretender quel che no se ghe convien.

Florindo - Il male l'ha fatto la Contessa Beatrice, la quale per cento doppie ha preso l'impegno d'introdurci nelle adunanze di nobiltà.

Pantalone - Benissimo, el so risentimento la lo revolta contro la Contessa Beatrice.

Florindo - Per questo, voleva sfidare alla spada il Conte Onofrio suo marito.

Pantalone - Coss'è sta spada? Coss'è sta spada? Anca ela xè de quei che crede, che un duello possa resarcir ogni offesa? Che una sfida sia bastante a render la reputazion a chi l'ha persa? Pregiudizi, errori, pazzie! Sàla come che la s'averia da vendicar in sto caso? Ghe dirò mi. Farse dar indrio le cento doppie, che i gh'à magnà. Star qualche zorno a Palermo; spender, goder, star allegramente con zente civil, e da par soo, senza curarse de andar colla nobiltà. Far veder che la cognosce el so dover, e buttar la broda adosso della Contessa Beatrice. Procurar de far servizio a qualche zentilomo, se la pol; reverirli tutti, e respettarli, senza desmestegarse. In sta maniera a poco alla volta tutti ghe correrà drio, e allora la poderà tornar a casa contento, e la poderà dir: no son stà in pubblico colle Dame, e coi Cavalieri, ma le Dame, e i Cavalieri m'ha fatto delle onestà, e delle finezze in privato.

Florindo - Questa è una cosa, che mi piace infinitamente; ma non so che cosa avrà risoluto mia moglie.

Pantalone - Ma no la se lassa dominar dalla muggier.

Florindo - Sentirò la di lei intenzione: se sarà uniforme al vostro buon consiglio, l'approverò; quando no, cercherò d'impedirla.

Pantalone - La fazza quel che ghe detta la so prudenza; mi no so più cossa dir. Son vecchio, xè tardi, vago a casa, e vago a dormir. Se la vol bezzi, la manda, se la va via, ghe auguro bon viazo, se la resta se vederemo doman. Ghe auguro la bona notte, bona salute, e la me permetta de dirghe, meggio condotta, e un poco più de giudizio (parte).

Florindo - Che buon vecchio è il signor Pantalone; mi ha veramente penetrato nell'animo. Non vorrei, che Brighella avesse già eseguito il mio ordine, e le bastonate a quei poveri servitori fossero corse. Anderò io stesso, e se sarò in tempo l'impedirò; vado, e torno in un momento, senza che mia moglie lo sappia (parte).



SCENA VI

Notte. Strada con porta del palazzo della contessa Eleonora.

BRIGHELLA con quattro uomini intabarrati.

Brighella - M'avè inteso; un zecchinetto per uno, e bastonè tutti i servitori che vien fora de sto palazzo.

Bravo - E se venissero a sei, a otto, e bastonassero noi?

Brighella - Usè prudenza. Tolèli coi vien a uno, a do alla volta.

Bravo - Credo, che dopo il primo, non ne potremo aver altri.

Brighella - Fè quel che podè. Tolè i vostri bezzi, che mi no vòi altri fastidi. A revederse (parte).

Bravo - Ritiriamoci dietro di questa casa, e aspettiamo che n'esca uno (si ritirano).



SCENA VII

Arlecchino dal palazzo della contessa Eleonora, poi quattro uomini rimpiattati.

Arlecchino - Aver inteso, aver inteso. Star tutte dame palazzo. Andar subito dir patrona (escono li quattro uomini, e bastonano ben bene Arlecchino, sinché egli cade in terra, e poi partono). Ahi, aiuto, chi star? Chi me aiutar? No saver gnente. Lassar vita, lassar vita. Aimè star morto, star morto.



SCENA VIII

Don Florindo, e detto.

Florindo - O Brighella non è ancora qui capitato, o l'ordine è già corso. Parmi veder un uomo disteso in terra.

Arlecchino - Star morto, star morto (con voce fioca).

Florindo - Fosse mai uno dei servitori, che ho fatto bastonare? Me ne dispiacerebbe infinitamente.

Arlecchino - Star morto, star morto (come sopra).

Florindo - Galantuomo, chi siete voi?

Arlecchino - Morto, morto.

Florindo - Moro, sei tu?

Arlecchino - No star moro, star morto.

Florindo - Oh povero sventurato! Dimmi, sei stato forse bastonato?

Arlecchino - Ahi, patron; povero moretto! Tanto tanto bastonar (s'alza un poco).

Florindo - Chi ti ha dato?

Arlecchino - Mi no saver. Ahi! brazzi tanto doler.

Florindo - Dove andavi? Da dove venivi?

Arlecchino - Esser vegnù de palazzo, e andar da padrona per risposta portar. Ahi, quanto doler!

Florindo - Ora capisco. È uscito dal palazzo della Contessa, gli uomini trovati da Brighella l'avranno creduto un servo dei Cavalieri, e lo hanno bastonato. Ecco il solito effetto della vendetta; cade sempre in danno del vendicatore. Levati povero moro, levati.

Arlecchino - No poder.

Florindo - Vieni qui, che t'aiuterò.

Arlecchino - Caro patron. Poveretto, moretto, tanto bastonar (s'alza).

Florindo - Andiamo, ti farò medicare.

Arlecchino - Maladetto, chi ha fatto mi bastonar, possa diavolo portar, chi fatto mi bastonar. Chi mi fatto bastonar, possa per boia impiccar (parte).

Florindo - Tutte queste imprecazioni vengono a me. Tutti gli innocenti oppressi gridano vendetta contro i loro oppressori (parte).



SCENA IX

Stanze in casa della contessa Eleonora, con tavolini, lumi, e sedie.

La contessa Eleonora, la contessa Clarice, il conte Ottavio. Cavalieri, e dame a sedere indietro giocando.

Clarice - Può darsi temerità maggiore di questa? Una mercantessa sedere in mezzo di tante dame?

Eleonora - E di più ballare il primo minuè? Principiar ella il ballo?

Clarice - È una cosa che fa inorridire. Pare impossibile, che si dia un caso di questa sorta.

Ottavio - Circa il ballo è stato il ballerino, che ha mancato al suo dovere.

Clarice - Meriterebbe colui, che gli si facessero romper le gambe, acciò non ballasse più.

Eleonora - Io son capace di fargli fare questo servizio.

Ottavio - Gli fareste una bella burla.

Eleonora - Pezzo d'asino! Non sa come si tratta! Il primo minuetto toccava a me.

Clarice - O a voi, o a me (le dame che sono indietro ridono).

Eleonora - Sentite quelle signorine; credo, che ridano di noi (a Clarice).

Clarice - O di voi, o di me.

Ottavio - Eh che non ridono di alcuna di voi! (Or ora si attaccano fra di loro) (da sé).

Eleonora - Ma di tutto è causa la Contessa Beatrice.

Clarice - Veramente, la Contessa Beatrice, si è portata malissimo.

Eleonora - Qualche gran cosa l'ha messa in quest'impegno.

Clarice - Una raccomandazione di un gran ministro.

Eleonora - Per veder d'impiegar suo marito.

Clarice - Vedrete che quanto prima averà qualche carica.

Eleonora - Dopo che ha mangiato tutto il suo, anderà a mangiare quello degli altri.

Ottavio - Signore mie, questa è mormorazione.

Eleonora - Oh il signor precettore!

Clarice - Il signor morale!

Ottavio - Non parlo più.



SCENA X

Il conte Lelio, e detti.

Eleonora - Oh signor protettore, che fa la sua castellana?

Lelio - Non mi parlate più di colei.

Clarice - Che vuol dire? Si è disgustato?

Lelio - Spiacendomi d'averla veduta partire in quella maniera dalla festa di ballo, sono andato a casa per ritrovarla, e mi ha fatto dire, che non vi era, e non mi ha voluto ricevere.

Clarice - Vostro danno.

Eleonora - Imparate a servire delle mercantesse.

Ottavio - Si sarà vergognata, e per questo non vi avrà ricevuto, non già con intenzione d'offendervi.

Eleonora - Mi volevo maravigliare, che il signor Conte non la difendesse (verso Ottavio).

Ottavio - Non parlo più.

Lelio - Mai più m'impaccio con questa sorta di gente.

Eleonora - Contino, giacché non vi è la Contessa Beatrice, dite, vi dava qualche poco nel genio, non è così?

Lelio - Se vi ho da confessare la verità, non mi dispiaceva.

Eleonora - Ehi! Come è andata?

Lelio - Non ho avuto tempo.

Clarice - Per altro...

Lelio - Figuratevi.

Eleonora - Regali le ne avete fatti?

Lelio - Più d'uno.

Clarice - Se lo sa la Contessa Beatrice, povero voi.

Eleonora - Che dice Beatrice di noi?

Lelio - È nelle furie al maggior segno.

Eleonora - Merita peggio.

Lelio - Anzi voleva venire a trovarvi qui.

Clarice - Doveva venire, che ci avrebbe sentito.

Eleonora - Farla sedere nel primo luogo!

Clarice - Farla ballare il primo minuè!

Ottavio - M'aspetto, che di questa gran cosa, ne parliate ancora da qui a dieci mesi.

Eleonora - Quanto vogliamo noi.

Clarice - Che caro signor correttore!

Ottavio - Non parlo più.



SCENA XI

La contessa Beatrice, e detti.

Beatrice - Brave, brave, avete fatto una bella cosa.

Eleonora - Voi l'avete fatta più bella.

Clarice - Abbiamo sofferto anche troppo.

Ottavio - (Ora viene la bella scena) (da sé).

Eleonora - Andarla a metter al primo posto.

Beatrice - Ecco lì il signor protettore, l'ha messa lui (verso Lelio).

Eleonora - Bravo.

Clarice - Bravissimo.

Lelio - Io non ho fatto questa cosa. Non ero io il padrone di casa.

Beatrice - Se sapeste tutto, è innamorato morto di colei.

Eleonora - E voi lo soffrite? (a Beatrice)

Clarice - E voi gli fate la mezzana? (alla medesima)

Beatrice - Che volete ch'io faccia? Me l'ha saputa dare ad intendere; son di buon cuore, non ho potuto dire di no.

Lelio - (Non sanno niente del negozio delle cento doppie) (da sé).

Eleonora - E poi, cara Contessa, farla ballare il primo minuè?

Beatrice - Questa è colpa del ballerino.

Clarice - E voi ve la passate con questa disinvoltura? Non gli fate romper le ossa?

Beatrice - A quest'ora credo se ne sia pentito.

Lelio - Sì signora, ha avuto di già il suo castigo. Egli è a tavola col Conte Onofrio, che si mangia i fagiani.

Beatrice - Briccone! Me la pagherà. Ma voi altre, che siete amiche, piantarmi così? Andarvene senza dir nulla?

Eleonora - In queste cose, non vi vogliono complimenti.

Clarice - Vi andava del nostro decoro.

Beatrice - Eh via! Che siete puntigliose.

Eleonora - Brava, siamo puntigliose? Perché non l'avete condotta qui quella signora di tanto merito?

Beatrice - Per me non la tratterò più certamente.

Clarice - Non avete impegno con un ministro?

Beatrice - Quando devo dirvi tutto, l'ho fatto per compiacere unicamente il caro signor Conte Lelio.

Eleonora - Sicché il signor Conte Lelio è causa di tutto.

Clarice - Non vi credeva capace di ciò (a Lelio).

Lelio - (Se potessi dir tutto, non parlereste così) (a Beatrice).



SCENA XII

Donna Rosaura, e detti.

Eleonora - Come!

Beatrice - Qui?

Clarice - Che temerità è questa?

Rosaura - Signore mie, per grazia, per clemenza. Non vengo in conversazione, non vengo per framischiarmi con voi, vengo a chiedervi scusa, vengo a domandarvi perdono.

Ottavio - Oh, via, signora donna Rosaura, questo è troppo.

Rosaura - Conte Ottavio, giacché voi mostrate essere penetrato dalla mia umiliazione, impetratemi voi da queste dame la grazia di poter parlare, assicurandole, che non eccederà il mio discorso il periodo di pochi minuti; che alla porta di questo palazzo vi è il carrozzino, che mi attende per ritornare alla patria mia, e che non venendo io per trattenermi in conversazione, ma per dar loro una ben giusta soddisfazione, posso essere ascoltata, senza offendere le leggi rigorose delle loro adunanze.

Ottavio - Signore mie, che cosa dite? Siete persuase dell'istanza, senza che vi aggiunga niente del mio per indurvi ad ascoltare una donna, che con tanta civiltà ve ne supplica?

Eleonora - Sentiamo che cosa sa dire.

Ottavio - Parlate, signora donna Rosaura; queste dame ve lo permettono.

Rosaura - Ringrazio queste dame della loro bontà; le ringrazio delle finezze, che alcuna di esse si è degnata farmi in privato, e le ringrazio della libertà, che mi danno di poter per l'ultima volta ad esse in pubblico favellare. Confesso aver io estese troppo le mire, allorché mi sono lusingata di poter essere ammessa alla loro conversazione, ma spero sarò compatita allora che farò noti i motivi, dai quali è derivata in me una tale lusinga. Primieramente è rimarcabile essere io allevata in un luogo, ove per ragion del commercio non vi è certa rigorosa distinzione degli ordini, ma tutte le persone oneste e civili si trattano a vicenda, e si conversano senza riserve; onde non è temerità l'aver io sperato, con qualche maggior difficoltà poter essere ammessa fra le dame di questa città. Di ciò per altro mi sarei facilmente disingannata, se da persone illibate, e sincere fossi stata meglio istruita, e delle vostre leggi avvertita. Quello, che dalla legge è proibito, non si può col denaro ottenere; quello che si può ottenere col denaro, non si deve credere direttamente opposto alla legge. Onde se mi fu esibito a contanti l'onor della vostra conversazione, son compatibile, se ho creduto aver anch'io il diritto di potervi aspirare. Parlo senza arcani, mi levo la maschera, e a chi duole suo danno. La Contessa Beatrice con cento doppie mi ha venduta la sua mediazione, e a questo prezzo mi ha assicurato l'accesso alla conversazione delle dame. O ella mi ha ingannato, o voi le avete fatta un'ingiuria. Nel primo caso, siate voi stesse giudici della mia ragione; nel secondo pensi la Contessa Beatrice a risentirsi con voi, e a giustificarsi con me. Io non voglio altro né da lei, né da voi. Bastami avervi fatto noto, che non sono né pazza, né debole, né presontuosa. Il carrozzino mi aspetta, mi sollecita mio consorte, torno alla patria, e porterò colà la memoria delle vostre grazie, e della mia disavventura; anzi in ricompensa della bontà, che ora avete dimostrata per me, permettetemi che vi avvertisca, che più di quello avesse potuto pregiudicare al decoro vostro la mia bassezza, deturpa il vostro carattere, e la vostra società una dama ingannatrice, e venale (parte).



SCENA XIII

I suddetti fuori di donna Rosaura, che è partita.

Beatrice - A me questo? Temeraria, a me questo?

Eleonora - Fermatevi, Contessa Beatrice, non inveite contro di essa, senza prima giustificarvi. Avete voi avuto le cento doppie?

Beatrice - Le cento doppie le ho vinte per una scommessa.

Eleonora - E che cosa avete scommesso?

Beatrice - Cadde la scommessa sull'ora del mezzogiorno.

Eleonora - Eh, che non si scommettono cento doppie per queste freddure! Se le aveste perse, come le avereste pagate?

Beatrice - Se nol credete, chiedetelo al Conte Lelio.

Eleonora - Conte, in via d'onore, da Cavaliere qual siete, e sotto pena di essere dichiarato mendace se non dite la verità, narrate voi la cosa com'è.

Lelio - Voi mi astringete a farlo con un forte scongiuro, e la signora donna Rosaura mi fa arrossire con i suoi giusti risentimenti. Contessa Beatrice, voi avete avuto le cento doppie per introdurla, ed io per mia confusione ho stabilito il contratto.

Beatrice - E voi in prezzo della mediazione avete avuto l'orologio d'oro.

Ottavio - Oimè! Che orribili cose ci tocca a' giorni nostri a sentire! Una dama vende la sua protezione, mercanteggia sull'onore della nobiltà; mette a repentaglio il decoro della città, della nazione, dell'ordine nostro, del nostro sangue? Un Cavaliere non solo tollera, e permette che si profanino i diritti delle nostre adunanze, ma vi coopera, e vi presta la mano, e ne promuove li scandali? Dame, Cavalieri, ascoltatemi: osservare minutamente i puntigli è cosa, che qualche volta ci pone in ridicolo; ma conservare illibato il nostro ordine, scacciar da noi chi lo deturpa con indegne azioni, questo è il vero puntiglio della Nobiltà. La contessa Beatrice, il conte Lelio non sono degni della nostra conversazione.

Lelio - Voi mentite, e mi renderete conto colla spada alla mano dell'ingiurie colle quali vi fate lecito d'insultarmi.

Ottavio - Uscite da questo luogo, e preparatevi a battervi con quanti siamo, mentre ciascheduno di noi vi reputa per indegno, e mal Cavaliere.

Lelio - Ad uno, ad uno vi farò conoscere se io... Come la vostra arditezza... (Il rimorso mi confonde. Il nuovo sole non mi vedrà più in Palermo) (parte).

Beatrice - A una dama mia pari, si fanno di questi insulti?

Eleonora - Tacete, che le dame non trattano come voi.

Clarice - Siete indegna di questo nome e per vostra cagione si faranno in Palermo delle risate sopra tutte noi.

Beatrice - Informerò tutto il mio parentado della vostra insolenza.

Clarice - Anch'io per mia sventura sono vostra parente, e mi vergogno di esserlo.

Beatrice - Domani ne parleremo.

Ottavio - Domani vostro marito sarà chiamato da chi s'aspetta.

Beatrice - (Domani anderò in campagna, e non mi vedranno mai più) (parte).



SCENA XIV

La contessa Eleonora, la contessa Clarice, il conte Ottavio, dame e cavalieri.

Ottavio - Signore mie, per rimediare in parte al discapito della nostra riputazione, direi che fosse ben fatto unire fra di noi le cento doppie, e farle avere alla signora Rosaura, prima della sua partenza. Io ne esibisco trenta, che tengo in questa borsa (fa vedere una borsa con varie monete).

Eleonora - Per parte mia, eccone sei (mette sei doppie nella suddetta borsa).

Clarice - Ed io ve ne posso dar otto (fa lo stesso).

Ottavio - E voi dame, e voi Cavalieri, concorrete a quest'opera degna di noi? (va dai Cavalieri, e dalle Dame, e tutti gli danno denari) Ecco raccolte le cento doppie. Andrò a presentarle per parte della nobiltà alla signora donna Rosaura (parte).



SCENA XV

La Contessa Eleonora, la Contessa Clarice, Cavalieri e Dame, poi il Conte Onofrio.

Eleonora - Il conte Ottavio è veramente Cavaliere.

Clarice - Ma il conte Lelio non ha restituito l'orologio.

Eleonora - Donna Rosaura di quello non ha parlato.

Onofrio - Dov'è mia moglie?

Eleonora - Dama indegna! (verso il Conte Onofrio)

Clarice - Cavaliere senza riputazione! (allo stesso).

Eleonora - Scroccone! (al medesimo)

Clarice - Parasito (al medesimo).

Eleonora - Scorno della nobiltà! (al medesimo)

Clarice - Obbrobrio della nazione! (al medesimo)

Onofrio - Parlate con me? (con flemma)



SCENA ultima

Conte Ottavio, e detti.

Ottavio - Non siamo più in tempo; la signora Rosaura è partita. Però se approvate il mio consiglio, con queste cento doppie compreremo un anello, e a lei lo manderemo fino alla di lei patria.

Eleonora - Fate quello credete meglio, purché si salvi il nostro decoro.

Clarice - Tutto si faccia, per la riputazione del nostro nome.

Ottavio - Questo è il vero puntiglio. Conservar la fama del nostro rango con azioni degne, eroiche, cavalleresche.

Onofrio - Dov'è la Signora donna Rosaura?

Ottavio - È partita, è ritornata a Castell'a Mare.

Onofrio - Mi dispiace non averlo saputo; ma l'anderò a ritrovare. Oh che starne! Oh che coturnici! Oh che vino! (parte)

Eleonora - La Contessa Beatrice non la pratico più.

Clarice - Né men io mi degno più di farmi vedere con lei.

Ottavio - In questa occasione non disapprovo, che facciate le puntigliose. Non è decoro delle persone onorate trattar con gente venale, che non sa sostenere il suo grado. Ognuno cerchi di conversare con chi può rendergli egual onore; ma niuno aspiri a passar i limiti delle sue convenienze, servendoli d'esempio il fatto comico di donna Rosaura.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Carlo Goldoni: teatro", a cura di Marzia Pieri, Giulio Einaudi editore, Torino, 1991







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