Giovanni Boccaccio - Opera Omnia >>  Teseida delle nozze d'Emilia




 

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A FIAMMETTA


Come che a memoria tornandomi le felicità trapassate, nella miseria vedendomi dov'io sono, mi sieno di grave dolore manifesta cagione, non m'è per tanto discaro il riducere spesso nella faticata mente, o crudel donna, la piacevole imagine della vostra intera bellezza. La quale, più possente che il mio proponimento, di sé e d'amore, giovane d'anni e di senno, mi fece suggetto. E quella, quante volte vi viene, con intero animo contemplando, più tosto celestiale che umana figura esser con meco dilibero; e che essa quello che io considero sia, il suo effetto ne porge argomento chiarissimo, però che ella, con gli occhi della mia mente mirata, nel mezzo delle mie pene ingannando non so con che ascosa soavità l'aflitto core, li fa quasi le sue continue amaritudini obliare, e in quello di se medesima genera un pensiero umilissimo, il qual mi dice: « Questa è quella Fiammetta, la luce de' cui belli occhi prima i nostri accese, e già fece contenti con gli atti suoi gran parte de' nostri ferventi disii ». Oh, quanto allora, me a me togliendo di mente, parendomi essere ne' primi tempi, li quali io non immerito ora conosco essere stati felici, sento consolazione! E certo, se non fossero le pronte sollecitudini delle quali la nemica fortuna m'ha circundato, che non una volta ma mille in ogni picciolo momento di tempo con punture non mai provate mi spronano, io credo che così contemplando, quasi gli ultimi termini della mia beatitudine abracciando, morre'mi. Tirato adunque da quello a che, quantunque sia stato lungo lo spazio, appena essere stato mi pare, quale io rimanga, Amore, che i miei sospiri conosce, il può vedere. Il quale, ancora che voi ingiustamente di piacevole sdegnosa siate tornata, però non m'abandona. Né possono né potranno le cose avverse, né il vostro turbato aspetto, spegnere nell'anima quella fiamma la quale mediante la vostra bellezza esso v'accese; anzi essa, più fervente che mai, con isperanza verdissima vi nutrica: sono adunque del numero de' suoi sogetti, com'io solea. Vero è che dove bene avventurato già fui, ora infelicissimo mi ritruovo, sì come voi volete, di tanto solamente appagato che torre non mi potete ch'io non mi tenga pur vostro e ch'io non v'ami, posto che voi per vostro mi rifiutate, e il mio amarvi forse più gravezza che piacere riputiate. E tanto m'hanno oltre a questo le cose traverse di conoscimento lasciato, che io sento che per umiltà ben servendo ogni durezza si vince e merita uom guiderdone. La qual cosa non so se a me s'averrà, ma come che seguir me ne debba, né da sé mi vedrà diviso umiltade, né fedel servire stanco giammai. E acciò che l'opera sia verissimo testimonio alle parole, ricordandomi che già ne' dì più felici che lunghi io vi sentii vaga d'udire e tal volta di leggere una e altra istoria, e massimamente l'amorose, sì come quella che tutta ardavate nel fuoco nel quale io ardo – e questo forse faciavate acciò che i tediosi tempi con ozio non fossero cagione di pensier più nocevole –, come volonteroso servidore, il quale non solamente il comandamento aspetta dal suo maggiore, ma quello, operando quelle cose che crede che piacciano, previene, trovata una antichissima istoria e alle più delle genti non manifesta, bella sì per la materia della quale parla, che è d'amore, e sì per coloro de' quali dice, che nobili giovani furono e di real sangue discesi, in latino volgare e per rima, acciò che più dilettasse, e massimamente a voi che già con sommo titolo le mie esaltaste, con quella sollecitudine che conceduta mi fu da l'altre più gravi, disiderando di piacervi, ho ridotta. E che ella da me per voi sia compilata, due cose fra l'altre il manifestano. L'una si è che ciò che sotto il nome dell'uno de' due amanti e della giovane amata si conta essere stato, ricordandovi bene, e io a voi di me e voi a me di voi, se non mentiste, potreste conoscere essere stato detto e fatto in parte: quale de' due si sia non discuopro, ché so che ve ne avvedrete. Se forse alcune cose soperchie vi fossero, il volere bene coprire ciò che non è onesto manifestare da noi due infuori e il volere la storia seguire ne son cagioni; e oltre, a ciò dovete sapere che solo il bomere aiutato da molti ingegni fende la terra. Potrete adunque e qual fosse innanzi e quale sia stata poi la vita mia che più non mi voleste per vostro, discernere. L'altra si è il non avere cessata né storia né favola né chiuso parlare in altra guisa, con ciò sia cosa che le donne sì come poco intelligenti ne sogliano essere schife, ma però che per intelletto e notizia delle cose predette voi dalla turba dell'altre separata conosco, libero mi concessi il porle a mio piacere. E acciò che l'opera, la quale alquanto par lunga, non sia prima rincresciuta che letta, disiderando di disporre con afezione la vostra mente a vederla, se le già dette cose non l'avessero disposta, sotto brevità sommariamente qui appresso di tutta l'opera vi pongo la contenenza.

Dico adunque che dovendo narrare di due giovani nobilissimi tebani, Arcita e Palemone, come, innamorati d'Emilia amazona, per lei combattessero, primamente posta la invocazione poetica, mi parve da dimostrare e donde la donna fosse e come ad Attene venisse, e chi fossero essi e come quivi venissero similemente; laonde sì come premessioni alla loro istoria due se ne pongono. E primamente dopo la invocazione predetta, disegnato il tempo nel quale le seguenti cose furono, la battaglia fatta da Teseo con Ipolita, reina dell'Amazzone, e la cagione d'essa e la vittoria seguitata discrivo; procedendo oltre, come Teseo, presa Ipolita per isposa, con lei insieme Emilia sua sorella triunfando ne menò ad Attene; quinci, acciò che onde e come i due amanti venissero sia aperto, un'altra battaglia, e la felice vittoria di quella seguita, fatta da Teseo co' Tebani, premessa la cagione, si disegna; e, come appare, i due giovani, presi in quella parte del triunfo di Teseo, vennero in Attene. Dove come da lui; imprigionati fossero e come e in che tempo d'Emilia s'innamorassono, procedendo si legge; pervenendo poi da questo alla diliberazione fatta d'Arcita a' prieghi di Peritoo e al pellegrinaggio suo in Egina e alla sua vita e alla tornata d'esso sconosciuto ad Attene e al suo dimorar con Teseo; quindi scrivendo qual Palemone rimanesse, come a lui la tornata d'Arcita sotto cambiato nome si discoprisse e come per lo ingegno di Panfilo suo famigliare elli uscisse de la prigione, e la battaglia con lui fatta nel bosco; mostrando apresso come da Emilia prima combattendo veduti, e poi da Teseo, e riconosciuti, manifestandosi essi medesimi, fossero, e quello che Teseo con lor componesse, e la loro tornata in Attene; dichiarando poi qual fosse la vita loro, e l'avenimento di molti prencipi ad una battaglia futura, e i sacrificii fatti e da loro e da Emilia, e poi la loro battaglia e chi vincesse; e dopo a tutte queste cose lo infortunio d'Arcita, il suo triunfo, la liberazione di Palemone, la sponsalizia d'Emilia e la morte d'Arcita si pongono interamente; giungendosi ad esse l'onore publico fattoli da Teseo e dagli altri greci prencipi al sepellire, e il mirabile tempio nel quale le sue ceneri furon poste. E ultimamente come Emilia conceduta fosse a Palemone, e le sue nozze, e de' prencipi la partita finendo si truova. Le quali cose se tutte insieme e ciascuna per sé, o nobilissima donna, da voi con sana mente saranno pensate, potrete quello che di sopra dissi conoscere, e quindi la mia affezione discernendo, potrete il preso orgoglio lasciare, e, lasciatolo, potrete la mia miseria in disiderata felicità ritornare. Ma se pure gravi vi fossero le dette cose e vincesse la vostra altierezza la mia umilità, in questa una sola cosa per suppremo dono addomando, che, dando ad essa luogo, il presente picciolo libretto, poco presento alla vostra grandezza ma grande alla mia picciolezza, tegnate. Questo se 'l fate, alcuna volta ne' miei affanni sarà di rifrigerio cagione, pensando che in quelle dilicate mani nelle quali io più non oso venire, una delle mie cose alcuna volta pervenga. Io procederei a molti più prieghi, se quella grazia la quale io ebbi già in voi non se ne fosse andata; ma però che io del niego dubito con ragione, non volendo che a quello uno che di sopra ho fatto, e che io spero d'ottenere sì come giusto, gli altri nocessono, e sanza essermene niuno conceduto mi rimanessi, mi taccio, ultimamente pregando colui che mi vi diede, allora che io primieramente vi vidi, che se in lui quelle forze sono che già furono, raccendendo in voi la spenta fiamma, a me vi renda, la quale, non so per che cagione, inimica fortuna m'ha tolta.


SONETTO

nel quale si contiene un argomento generale a tutto il libro.

Nel primo vince Teseo l'Amazone,
nel secondo Creon certanamente;
nel terzo amore Arcita e Palemone
occupa, e 'l quarto mostra la dolente

vita d'Arcita uscito di prigione;
il quinto la battaglia virilmente
da Penteo fatta col suo compagnone,
e 'l sesto poi convoca molta gente

alla battaglia; il settimo li afrena,
l'ottavo l'un di lor fa vincitore,
il nono mostra il triunfo e la pena

d'Arcita, e l'altro il suo mortal dolore;
e l'undecimo Arcita al rogo mena;
l'ultimo Emilia dona all'amadore.



LIBRO PRIMO

Sonetto nel quale si contiene uno argomento particulare del primo libro.

La prima parte di questo libretto
a chi 'l riguarda mostra apertamente
la cagion che Teseo fece fervente
dell'Amazone a vengiare il difetto;

e come el fosse in Scizia provetto
col suo navilio e con l'armata gente,
e come il suo scender primamente
dall'Amazone gli fosse interdetto;

mostrando appresso come discendesse
per viva forza, e come combattendo
con quelle donne poscia le vincesse,

l'assedio poi alla città ponendo;
e come a patti Ipolita si desse,
con pace lui per marito prendendo.


Incomincia il primo libro del Teseida delle nozze d'Emilia. E prima la invocazione dell'autore.


1

O sorelle castalie, che nel monte
Elicona contente dimorate,
dintorno al sacro gorgoneo fonte,
sottesso l'ombra delle frondi amate
da Febo, delle quali ancor la fronte
spero d'ornarmi, sol che 'l concediate:
le sante orecchi a' miei prieghi porgete
e quelli udite come voi dovete.

2

E' m'è venuto in voglia con pietosa
rima di scrivere una istoria antica,
tanto negli anni riposta e nascosa
che latino autor non par ne dica,
per quel ch'io senta, in libro alcuna cosa;
dunque sì fate che la mia fatica
sia graziosa a chi ne fia lettore
o in altra maniera ascoltatore.

3

Siate presenti, o Marte rubicondo,
nelle tue armi rigido e feroce,
e tu, madre d'Amor, col tuo giocondo
e lieto aspetto, e 'l tuo figliuol veloce
co' dardi suoi possenti in ogni mondo;
e sostenete e la mano e la voce
di me che 'ntendo i vostri effetti dire
con poco bene e pien d'assai martire.

4

E voi, nel cui conspetto il dir presente
forse verrà com'io spero, ancora
quant'io più posso priego umilemente,
per quel signor che' gentili innamora,
che attendiate con intera mente;
voi udirete come elli scolora
ne' casi avversi ciascun suo seguace
e come dopo affanno e' doni pace.

5

E questo con assai chiara ragione
comprenderete, udendo raccontare
d'Arcita i fatti e del buon Palemone,
di real sangue nati, come appare,
e amendun tebani, e a quistione,
parenti essendo, per soverchio amare
Emilia bella, vennero, amazona;
donde l'un d'essi perdeo la persona.


Seguita il tempo e la cagione nel quale e per che Teseo,
duca d'Attene, andò adosso alla reina delle donne amazone.


6

Al tempo che Egeo re d'Attene era,
fur donne in Scizia crude e dispietate,
alle qua' forse parea cosa fiera
esser da' maschi lor signoreggiate;
per che, adunate, con sentenzia altiera
diliberar non esser soggiogate,
ma di voler per lor la signoria;
e trovar modo a fornir lor follia.

7

E come fer le nepoti di Belo
nel tempo cheto alli novelli sposi,
così costor, ciascuna col suo telo
de' maschi suoi li spirti sanguinosi
cacciò, lasciando lor di mortal gielo
tututti freddi, in modi dispettosi;
e 'n cotal guisa libere si fero,
ben che poi mantenersi non potero.

8

Recato adunque co' ferri ad effetto
lor malvoler, voller maestra e duce
che correggesse ciascun lor difetto
e a ben viver desse forma e luce;
né a tal voglia dier lungo rispetto,
ma delle donne che 'l luogo produce
elesser per reina en la lor terra
Ipolita gentil, mastra di guerra.

9

La quale, ancora che femina fosse
e di bellezze piena oltre misura,
prese la signoria, e sì rimosse
da sé ciascuna feminil paura,
e in tal guisa ordinò le sue posse,
che 'l regno suo e sé fece sicura;
né di vicine genti avea dottanza,
sì si fidava nella sua possanza.

10

Regnando adunque animosa costei,
alle sue donne fé comandamento
che Greci, Trazii, Egizii o Sabei,
né uomini altri alcun nel tenimento
entrar lasciasser, se esse avean di lei
la grazia cara; ma ciascuno spento
di vita fosse che vi s'appressasse,
se subito il terren non isgombrasse.

11

Se per ventura lì fosser venute
femine, di qual parte si volesse,
da lor benignamente ricevute
comandò fossero e, se lor piacesse
d'esser con loro insieme, ritenute
dovessono esser, sì che si riempiesse
il luogo di color che lì morieno
di quelle che d'altronde lì venieno.

12

Sotto tal legge più anni quel regno
istette, e' porti furon ben guardati,
sicché non vi venia nave né legno,
o da fortuna o da altro menati
che fosser lì, che non lasciasser pegno
oltre al parer loro; e malmenati
li conveniva del luogo fuggire,
se non volevan miseri morire.

13

A questo scotto i Greci assai sovente
incappavan per lor disaventura;
per che a Teseo, allor signor possente,
duca d'Attene, spesso con rancura
eran posti richiami di tal gente
e di lor crudeltate a dismisura;
ond'elli, in sé di ciò forte crucciato,
propose di purgar cotal peccato.

14

Marte tornava allora sanguinoso
dal bosco dentro al qual guidati avea,
con tristo agurio del re furioso
di Tebe, l'aspra schiera, e si tenea
lo scudo di Tideo, il qual pomposo
della vittoria, sì come potea,
ad una quercia l'aveva appiccato
cotal qual era, a Marte consecrato.

15

E 'n cotal guisa, in Trazia ritornando,
si fé sentire al crucciato Teseo,
in lui di sé un fier caldo lasciando;
e col suo carro avanti procedeo,
dovunque giva lo cielo infiammando;
poi nelle valli del monte Rifeo,
ne' templi suoi posando, si raffisse,
sperando ben che ciò che fu seguisse.

16

Quinci Teseo magnanimo chiamare
li baron greci fé, e lor propose
ch'elli intendeva voler vendicare
la crudeltà e l'opere noiose
delle donne amazone; e a ciò fare
richiese lor, nelle cui virtuose
opere si fidava; e ciascun tosto
rispose sé al suo piacer disposto.

17

Commossi adunque i popoli dintorno,
qual per dovere e qual per amistate,
tutti ad Attene in un nomato giorno
si ragunar, con quella quantitate
ch'ognun poteva; e, sanza far sogiorno,
sopra le navi già apparecchiate
cavalli e arme ciascun caricava
con ciò che a fare oste bisognava.


Come Teseo co' suoi entrò in mare e andò sopra le donne amazone.


18

E quando parve tempo al buon Teseo
di navigar vedendol chiaro e bello,
tutta la gente sua raccoglier feo
con debito dover, sì come quello
che altra volta il buon partito e 'l reo
avea provato del mar piano e fello;
e nel mar col suo stuol tutto si trasse,
vento aspettando ch'al gir gli aiutasse.

19

Essendo a tal partito sopra l'onde
la greca gente bene apparecchiata,
la notte che le cose ci nasconde
aveva l'aer tututta occuppata;
onde alcun dorme, e tal guarda e risponde,
e così infino alla stella levata;
la qual sì tosto com'ella appario,
l'amiraglio dell'oste si sentio;

20

e a guardare il ciel col viso alzato
tutto si diè, e quindi fé chiamare
li marinar, dicendo: – Egli è levato
prospero vento, onde mi par d'andare
a nostra via, e però sia spiegato
ciaschedun vel sanza più dimorare. –
E e' fu fatto il suo comandamento,
e quindi si partir con util vento.


Come ad Ipolita reina pervenne che Teseo s'apparecchiava d'andarle adosso.


21

Ma la corrente fama, che transporta,
con più veloce corso ch'altra cosa,
qualunque opera fatta, dritta o torta,
sanza mai dare alli suoi passi posa,
cotal novella tosto la rapporta
ad Ipolita bella e graziosa,
e in pensier la pon di sua difesa
di mal talento e di furore accesa.

22

Ma poi che l'ira alquanto fu affreddata
con utile consiglio immantanente
di volersi difendere avvisata,
fece chiamar ciascuna, di presente,
donna che nel suo regno era pregiata,
e tutte a sé venirle tostamente;
alle qua' poi in publico consiglio
a parlar cominciò con cotal piglio.


Diceria d'Ipolita alle donne sue.


23

– Perciò che voi in questo vostro regno
coronata m'avete, e' s'appartiene
a me di porre e la forza e lo 'ngegno
per la salute vostra u' si convene,
sanza passar di mio dovere il segno
nel prestar guiderdoni o porger pene
ond'io, a ciò sollecita, chiamate
v'ho, perché voi e me con voi atiate.

24

Non vede il sol, che sanza dimorare
dintorno sempre ci si gira in terra
donne quanto voi sete da pregiare;
le qua', se 'n ciò il mio parer non erra,
per voler virile animo mostrare,
contro a Cupido avete presa guerra,
e quel ch'a l'altre più piace fuggite,
uomini fatti, non femine ardite.

25

E che questo sia vero, assai aperto
non ha gran tempo ancora il dimostraste,
allor ch'amor, né paura, né merto
non vi ritenne che voi non mandaste
a compimento il vostro pensier certo,
quando da servitù vi dilibraste;
nell'arme sempre esercitate poi,
cacciando ogni atto feminil da voi.

26

Ma se mai virile animo teneste,
ora bisogno fa, per quel ch'io senta,
perciò che voi, sì com'io, intendeste
che 'l gran Teseo di venir s'argomenta
sopra di noi, avendoci moleste
perché nostro piacer non si contenta
di quel che l'altre, ciò è suggiacere
a gli uomini, faccendo il lor volere.

27

Al suo inimicarci altra cagione
veder non so, né voi credo veggiate,
perciò che mai alcuna offensione
ver lui non commettemmo, onde assaltate
dovessomo essere; e questa ragione
assai è vota di degna onestate,
perciò che non fa mal que' che s'aiuta
per raver libertà, se l'ha perduta.

28

Ma qual che sia la cagion che il mova,
a noi il difender resta solamente,
sì che non vinca per forza la pruova;
laond'io vi richeggio umilemente
e priego, se in tal vita vi giova
di viver qual noi tegniamo al presente,
che l'animo, lo 'ngegno e ogni possa
mettiate contro a chi guerra v'ha mossa.

29

Né vi metta paura conscienza
d'aver peccato negli uomini vostri,
ché morte lor la loro isconoscenza
lecita impetrò nelli cor nostri,
che non stimavan che d'equal semenza
con lor nascessim, ma come da mostri,
da quercie, over da grotte partorite,
eravam poco qui da lor gradite.

30

E' si tenevan l'altezze e gli onori
sanza participarle a noi giammai,
le quali eravam degne di maggiori
ch'alcun di loro, a dir lo vero, assai;
per che di ciò gl'iddii superiori
rison che noi facemmo, e sempre mai
n'avranno per miglior, l'altre schernendo
che per viltà si van sottomettendo.

31

Né vi spaventi il nome di costoro,
perch'e' sien Greci; ché non son guarniti
di forza divisata da coloro
che nel passato fur vostri mariti;
se fiere vi mostrate verso loro,
e' non saranno inver di voi arditi,
ché niun può più ch'un uom, chi ch'el sia;
però da voi cacciate codardia.

32

Non risparmiate qui, donne, il valore
non risparmiate l'armi, non l'ardire;
non risparmiate il morire ad onore
considerate ciò che può seguire
dell'esser vigorose o con timore;
voi non avrete aguale a far morire
padri o figliuo' che vi faccian pietose,
ma inimiche genti a voi odiose.

33

Ritorni in voi agual quella fierezza
che quella notte fu, quando ciascuna
mai non usata usò crudele asprezza
ne' padri e ne' figliuo'; né sia nessuna
che qui, se dell'iddii la forza prezza,
istea, per aver nosco equal fortuna;
usi pietà altrove, ché qui morta
la comando io in ogni donna accorta.

34

Ben che forse l'iddii non ne saranno
contrarii per la nostra gran ragione;
anzi, se giusti son, n'aiuteranno,
dimenticando quel, se fu offensione
e se atarci forse non vorranno,
il danno suppliran nostre persone
contra colui che si move a gran torto
per navigare inverso il nostro porto.

35

E acciò ch'io non ponga in più parole
il tempo, il qual ne bisogna al presente,
a ciascheduna che libertà vole
ricordo e priego ch'ella sia valente;
e a qual morte per libertà dole,
dipartasi da noi immantanente;
noi varrem molto me' sanza di lei. –
E così detto si tacque colei.

36

Grande fu tra le donne il favellare,
quasi pendendo tutte in tal sentenza:
del dover pure a Teseo dimostrare
quanta e qual fosse la lor gran potenza,
se e' si ardisse a' lor porti appressare;
per che, sanza alcun'altra resistenza,
sé offerse ciascuna infino a morte
alla reina vigorosa e forte.


Come Ipolita, fatta la diceria, guarnì le terre sue.


37

Ipolita, poi le proferte intese,
sanza dimoro i porti fé guarnire,
e le miglior del regno alle difese
sanza nessuno indugio fece gire;
e in tal guisa armò il suo paese,
ch'assai sicura poteva dormire,
se soverchio di gente oltre pensata
non fosse, come fu, su quello entrata.

38

Né altramenti il cinghiar c'ha sentiti
nel bosco i can fremire e' cacciatori,
i denti batte e rugghia e gli spediti
sentieri a sua salute cerca e, pe' romori
ch'egli ha in qua in là in giù e 'n su uditi,
non sa qua' vie per lui si sien migliori,
ma ora in giù e ora in su correndo,
fino al bisogno, incerto, va fuggendo

39

che facesse colei per lo suo regno,
in dubbio da qual parte quivi vegna
Teseo, o con che arte overo ingegno;
onde a gire in ciascuna non disdegna,
né di pregar che ciascheduna al segno
di quel c'ha imposto ben ferma si tegna;
però che, s'a tal punto son vincenti,
più non cal lor curar mai d'altre genti.


Come Teseo navigando pervenne nel regno dell'Amazone.


40

L'alto duca Teseo, con tempo eletto
a suo viaggio, lieto navigava;
passando pria Macron sanza interdetto,
ad Andro le sue prode dirizzava;
il qual lasciato, con sommo diletto
pervenne a Tenedòs e quel passava,
entrando poi nel mar ch'a l'abideo
Leandro fu soave e poscia reo.

41

E oltre quel cammin che Frisso tenne
allor che la sorella cadde in mare,
servò, finch'a Bisanzio pervenne
Quivi fatta sua gente rinfrescare,
per picciola stagion vi si ritenne;
e come nel mar Tanao ad intrare
incominciò, così delle donzelle
le terre vide graziose e belle.

42

E come leoncel cui fame punge,
il qual più fier diventa e più ardito
come la preda conosce da lunge,
vibrando i crin, con ardente appetito
e l'unghie e' denti aguzza infin l'agiunge
cotal Teseo, rimirando espedito
il regno di color, divenne fiero,
volonteroso a fare il suo pensiero.

43

Esso mandò solenni avvisatori
a discerner la più leggiera scesa;
li qua', mirate dintorno e di fori
le rive tutte con la mente intesa,
tornarono, avvisati de' migliori
dove discender con minore offesa
potessero, e al duca il raccontaro;
e 'n quella parte lo stuol dirizzaro.


Come Teseo mandò ambasciadori alla reina, e la risposta.


44

Quindi Teseo, per due de' suoi baroni,
significare ad Ipolita feo
la sua venuta e ancor le cagioni;
e oltre a questo, sì le concedeo
termine a poter fare eccezioni
ne' patti fatti a lei, se per men reo
consiglio forse le fosse piaciuta
la pace, pria che fosse scombattuta.

45

Ma di que' patti che e' domandava
da lei niun non ne fu accettato;
anzi di lui assai si ramarcava
pur di quel tanto ch'aveva operato,
riprendendol di ciò, che s'impacciava,
fuor del suo regno, dell'altrui stato;
ma che, s'ella potesse, ancor pentere
nel faria tosto; e ciò l'era in calere.

46

Tornaron que' con sì fatta risposta
qual fu lor data, sanza star niente,
e a Teseo davanti l'han proposta;
il qual l'udì mal pazientemente,
dicendo: – Poco a questa donna costa
così risponder; ma certanamente
io la trarrò d'error, se 'l cuor non erra. –
Quinci gridò: – Signori, ogni uomo a terra! –


Come Teseo, volendo scendere in terra, fosse dalle donne impedito.


47

A questa voce i legni fur tirati
quasi in sul lito; e voleano smontare,
e già le scale ponean, quando, alzati
gli occhi, d'un bel castel vicino al mare
sopra una montagnetta, onde calati
i ponti, genti vidono avvallare
bene a cavallo armati, e 'n su la rena
in prima fur che 'l vedessero appena,

48

e quasi presi d'ogni parte i passi,
con gli archi in mano, or qua or là correndo,
traendo le saette de' turcassi,
con viva forza givan difendendo
tagliate avanti fatte, e di gran sassi
i balzi a grosse schiere provedendo;
Arpalice era questa che 'l facea,
a cui commesso Ipolita l'avea.

49

Il gran Teseo, magnifico barone,
poi che co' suoi alle terre pervenne,
vedendole guarnite per ragione,
per savie donne en l'animo le tenne;
e alquanto mutato d'oppinione,
fra mare il suo stuol fermo ritenne,
poi fé ciascun de' suoi apparecchiare,
pur dilivrando di volervi entrare.

50

Poi che ciascun fu bene apparecchiato,
inverso il porto si tiraro i legni;
e per iscender nel luogo avvisato
si fero avanti li baron più degni;
e in quel modo ch'avean divisato
gittaro in terra scale e altri ingegni;
ma troppo fu più forte lor la scesa
che non fu divisar cotale impresa!

51

Egli eran quasi con le poppe in terra
delli lor legni i Greci tutti quanti,
e con ogni artificio utile a guerra
arditamente si traeno avanti;
ma bene era risposto, se non erra
la mente mia, a lor da tutti i canti,
però che quelle donne saettando
forte gli gieno ognora dammeggiando.

52

Esse gittavan fuoco spessamente
sovra l'armate navi, il quale acceso
molto offendeva i Greci; e similmente,
con artifici, pietre di gran peso,
che rompevan le navi di presente
dove giugnean, se non era difeso;
e oltre a questo, pece, olio e sapone
sopra lo stuol gittavano a fusone.

53

Battaglia manual nulla non v'era,
perciò ch'ancora non avean potuto
prender li Greci di quella rivera
parte nessuna; e 'l conforto e l'aiuto
del buon Teseo per niente gli era;
anzi pareva ciaschedun perduto,
di quelle donne mirando le schiere
crescere ognora e diventar più fiere.

54

Di dardi, di saette e di quadrella
non fo menzion, che 'l ciel n'era coverto
e occupata tutta l'aere bella,
gittando l'uno a l'altro; e per lo certo
battaglia non fu mai sì dura e fella,
né in alcuna mai tanto sofferto;
molti ve ne fedien le donne accorte,
ben che di loro alcune fosser morte.

55

Grandi eran quivi le grida e 'l romore
che le donne faceano e' marinari,
tal che Nettunno o Glauco mai maggiore
sentito non l'aveano; e' duoli amari,
ch'a' marinar feriti gieno al cuore,
eran cagion di molto, perché rari
ve n'eran che nel capo o nel costato
o in altra parte non fosse piagato.

56

E 'l sangue lor vedevan sopra l'onde
con trista schiuma molto rosseggiare
e male a' Greci l'aviso risponde,
poi che così si veggon malmenare;
e qual più cuore aveva or si nasconde
temendo delle donne il saettare,
perciò ch'ell'eran di cotal mestiere,
più ch'altre, somme e vigorose e fiere.


Come Teseo, vedendo a' suoi fare falsa pruova,
prima verso Marte e poi a' suoi cavalieri turbato parlò,
gittandosi poi solo sopra il lito.


57

Teseo che d'alta parte riguardava
la falsa punta della greca gente,
di rabbia tutto in sé si consumava,
maladicendo il duro convenente,
e d'ultima vergogna dubitava,
e quasi uscia per doglia della mente;
per che sdegnoso al cielo il viso tolto,
così parlò alto gridando molto:

58

– O fiero Marte, o dispettoso iddio,
nemico alle nostre armi, io mi vergogno
d'aprirti con parole il mio disio;
e certo priego per cotal bisogno
non averai, né sacrificio pio;
ma sanza te la vittoria ch'agogno
farò d'avere, o l'alma sanguinosa
ad Acheronta n'andrà dolorosa.

59

Opera omai in male i tuoi rossori,
e contro a me le femine fa forti
con l'arte che in Flegra i successori
d'Anteo vincesti; e fa che le conforti
quanto tu sai, e piovi i tuoi vapori
sopra li miei, ch'or fossero e' già morti;
però che sol mi credo me' valere
che io non fo con tutto lor potere.

60

E tu, Minerva, che il sommo loco
tra l'iddii tien nella nostra cittade,
non aspettar da me altar né foco,
né ch'io ti liti bestie in quantitade,
né che per te io ordini alcun gioco
in onor fatto di tua maestade;
aiuta pure a queste le qua' sono
teco d'un sesso, e me lascia in bandono.

61

Poi si rivolse a' suoi con vista viva,
con piggior piglio, e cominciò a dire:
– Ahi, vitupero della gente achiva,
ov'è fuggito il vostro grande ardire?
é la forza di voi tanto cattiva
che molli donne vi faccian fuggire?
Tornate adunque nelle vostre case,
e qua le donne vengan, là rimase.

62

Il chiaro Appollo e 'l cielo e 'l salso mare
fien testimoni etterni e immortali
del vostro vile e tristo adoperare;
e porterà la fama i vostri mali
con perpetuo nome, e voi mostrare
farà a dito a genti disiguali,
dicendo: "Vedi i cavalier dolenti,
che vinti fur dall'amazone genti".

63

Fuggitevi di qui, vituperati,
poi Marte, più che voi, donne sovene;
e delli vostri arnesi dispogliati,
li lasciate vestire a chi convene;
or non v'era e' miglior che onorati
di morte aveste sostenute pene,
che con vergogna indietro rinculare
e a donzelle lasciarvi avanzare?

64

Entri nell'armi adunque chi n'è degno
(l'altro le lasci che non vole onore)
morte pigliando per fuggire sdegno;
e a cui piace più con disinore
vita che pregio, non segua il mio segno;
vivasi quanto vuol sanza valore,
ch'io sarò troppo più, solo, onorato
ch'essendo da cotali accompagnato.

65

Or che avreste voi fatto se avversi
vi fosser forse i Centauri usciti
o i Lapiti, popoli diversi,
turba dolente, o uomini scherniti?
Credo nel mar vi sareste sommersi,
poiché per donne vi sete fuggiti.
Or vi tornate e fate novo duca,
e Marte me, sì come vuol, conduca. –

66

E questo detto, sotto l'arme chiuso,
tirar fe' la sua nave inver lo lito,
e sanza scala por ne saltò giuso,
né si curò perché fosse ferito
da molte parti; ma, come duca uso
di tal mestier, più si mostrava ardito,
sé riparando e di sopra e dintorno;
e fuor dell'acqua uscì sanza sogiorno.

67

Non altramente si gittano in mare
li marinari il cui legno già rotto
per la fortuna sentono affondare,
e chi più può, sanza a gli altri far motto,
briga, notando, di voler campare,
che' Greci si gittar tutti di botto
dietro a Teseo nell'acqua lui vedendo,
né ben né male al suo dir rispondendo.

68

E sì gli aveva vergogna spronati
con le parole del fiero Teseo,
ch'egli eran presti e arditi tornati;
per che ciascun com più tosto poteo,
così com'eran tututti bagnati
e ta' feriti, al suo duca si feo
vicino; e fero in sul lito una schiera
subitamente assai possente e fiera.


Come Teseo per battaglia ottenne il lito.


69

Fatta la schiera tal quale e' poteano,
nel marin lito ov'essi eran discesi,
perciò che bene i luoghi non sapeano,
né seco avevan tutti i loro arnesi,
a lor poter le donne sosteneano,
d'alto vigor ne' loro animi accesi,
disposti a far gran cose in poca d'ora,
pur che le donne lì faccian dimora.

70

Le donne in su' cava' forti e isnelli
givano armate in abiti dispari
(e que' correan come volano uccelli),
faccendo spesso li lor colpi amari
sentire a' Greci, che ne' campi belli
eran discesi a piè non avea guari,
or qua or là correndo e ritornando,
spesso e rado i Greci molestando.

71

Così pugnavano a la morte loro,
poi che potuto non avean la scesa
con le lor forze vietare a coloro;
li qua', sentendo ognor crescer l'offesa,
chieser di poter gir, sanza dimoro,
dal duca lor, ver quelle in lor difesa;
e poi a piè entr'alle donne entraro
e a combatter fieri incominciaro.

72

E' ferirono a loro arditamente,
sì come que' che ben lo sapean fare;
e a' lor colpi non valea neente
di quelle donne a' colpi riparare;
e se non fosse ch'eran poca gente
a rispetto del lor multiplicare,
tosto l'avrebber del campo cacciate,
o morte tutte, over prese e legate.

73

Ma il numero di lor, ch'era infinito,
ogni ora la battaglia rinfrescava;
questo contra Teseo fiero e ardito
il campo lungamente sostentava;
esso sanza riposo e ispedito
ferendo, or qua or là correndo andava,
e ammirar di sé ciascun facea
che 'n quello stormo mirar lo potea.

74

Né altramente infra le pecorelle
si ficca il lupo per fame rabbioso,
col morso strangolando or queste or quelle,
fin c'ha saziato il suo disio guloso,
che faceva Teseo tra le donzelle
a piè con la sua spada furioso,
coperto dello scudo, ognor ferendo,
or questa or quella misera uccidendo.

75

Così Teseo fieramente andando
co' suoi compagni infra le donne ardite,
molte ne gian per terra scavallando,
e morte quelle e quelle altre ferite
lasciando per lo campo, indi montando
sopr'a' cava' ch'a redine sbandite,
le lor donne lasciate, si fuggieno
or qua or là sì come e' potieno.

76

E già di lor gran parte eran montati
per tal procaccio sopra i buon destrieri,
e tutti in sé di ciò riconfortati,
contra color ferivan volontieri;
e esse, lor vedendo inanimati
più ch'al principio non erano e feri,
temendo cominciarono a voltare,
e 'l campo a' Greci del tutto lasciare.

77

Fuggiensi adunque in quel castel tututte,
e dietro ad esse la duchessa loro;
e sopra l'alte mura fur ridutte,
armate, sanza fare alcun dimoro,
fra lor dicendo: – Noi sarem distrutte
se a le man pervegnàn di costoro. –
E la sconfitta lor quasi non suta,
a ben guardar si dier la lor tenuta.

78

Era la terra forte, e ben murata
da ogni parte, e dentro ben guarnita
per sostener assedio ogni fiata,
lunga stagion, ch'ella fosse assalita;
però ciascuna dentro bene armata
non temeva né morte né ferita;
chiuse le porti al riparo intendeano
e quasi i Greci niente temeano.


Come Teseo, sconfitte le donne e preso il lito, s'acampò.


79

Come Teseo le vide fuggire,
in un raccolse tutta la sua gente,
e comandò che le lasciasser gire;
poi fé cercare il campo prestamente,
e fece i corpi morti sepellire;
e le ferite assai benignamente
lasciò andar, sanza ingiuria nessuna,
là dove piacque di gire a ciascuna.

80

E 'n cotal guisa avendo preso il lito
con la sua gente, malgrado di quelle,
in su un picciol poggio fu salito,
dirimpetto al castel delle donzelle;
e comandò che quel fosse guarnito,
sì che resister si potesse ad elle
senza battaglia, infin che scaricate
sien le galee e le genti posate.

81

Li Greci prestamente scaricaro
tutte le navi delli arnesi loro,
e altri in brieve il poggetto afforzaro
quanto poteron sanza alcun dimoro;
né dì né notte mai non riposaro,
infin ch'ebber fornito lor lavoro;
ben fer le donne loro ingombro assai,
che d'assalirli non calavan mai.

82

Poscia che' Greci furono afforzati
sì, che le donne neente temeano,
e' legni loro in mar furon tirati
per corseggiar dintorno ove poteano,
e i feriti furon medicati,
e quelli ancor che 'l mar temuto aveano
posati fur, parve a Teseo che stare
quivi poria più nuocer che giovare.

83

Esso, ch'ognor con sollecita cura
al suo più presto spaccio più pensava,
imaginò che, se 'ntorno alle mura
di quella terra il suo campo fermava,
e' potrebbe avvenir per l'avventura
che sanza utile il tempo trapassava;
però che quando pure elli avvenisse,
poco avea fatto perché lor vincesse.

84

E tornandoli a mente come Alcide
a l'ldra, che de' suoi danni crescea,
avea la vita tolta, seco vide
che là dov'era Ipolita volea
sua pruova far; perché, se lei conquide
più contasto nessun non vi sapea;
e per cotal pensiero il campo mosse
per colà gir dove Ipolita fosse.


Come Ipolita, sentendo la venuta di Teseo, aspettò sicura l'asedio.


85

Corse la fama per tutto il paese
della sconfitta stata tostamente,
per che ciascuna sé alle difese
si metteva di sé velocemente;
ma quella cui tal cosa più offese
Ipolita è da creder certamente;
la qual, poi che così la cosa andare
vide, propose di volersi atare.

86

Né fu stordita per quella sciagura,
ma le sue donne a sé chiamò dicendo
– Or ciascuna convene esser sicura,
non dico in campo Teseo combattendo,
ma in difender ben le nostre mura,
le quali ad assalir vien, com'io intendo,
perciò che non potrà lunga stagione
dimorar qui, per nulla condizione.

87

Noi siam di ciò ch'al vivere ha mestiere
fornite bene, e la terra è sì forte,
che non è sì ardito cavaliere,
se al guardar vorremo essere accorte,
ch'appressar ci si possa, che pentere
non nel facciam forse con trista morte.
quando ci fieno stati e vederanno
il nostro ardir, per vinti se ne andranno.

88

Dunque, se mai amaste libertate
se vi fu caro mai il mio onore,
ora mostrate vostra probitate,
ora si scopra l'ardire e 'l valore
ver chi s'appressa alla vostra cittate
per voler noi di quella trarre fore.
Etterna fama ora acquistar potete,
se ben contra Teseo vi difendete. –

89

E questo detto, niente interpose,
ma ciò che seco aveva divisato
fece, dando ordine a tutte le cose;
per le mura ponendo in ogni lato,
a guardia, donne savie e valorose,
faccendo ancor ciascuno altro apparato
ch'a tal cosa bisogna, sempre andando
or queste or quelle tutte confortando.

90

E per salute ancor delle sue genti
gran doni a' templi poi fece portare,
l'iddii pregando che negli emergenti
casi dovesser lor pietosi atare;
quinci, operando tutti altri argomenti
ch'a sua difesa potevan giovare,
e guarnita così come poteo,
con le sue donne aspettò poi Teseo.


Come Teseo assediò Ipolita.


91

Poi che Teseo si fu di quel loco
partito onde le donne avea cacciate,
a la città sen venne in tempo poco,
dove Ipolita e molte erano armate;
e lì giurò per Vulcan, dio del foco,
di non partirsi mai, se conquistate
da lui non fosser per forza o per patti
prima elli e' suoi vi sarebber disfatti.

92

E' fé tender trabacche e padiglioni
e afforzar suo campo di steccati,
a' cavalier dicendo e a' pedoni
che si facesser e tende e frascati;
e che niun di lor mai non ragioni
di ritornare a' suoi liti lasciati,
se Ipolita pria non si vincea,
così come con lor proposto avea.

93

E' fé drizzar trabocchi e manganelle
e torri per combattere a le mura,
e fé far gatti, e a le mura belle
spesso faceva con essi paura,
e con battaglia spesso le donzelle
assaliva con sua gente sicura;
ma di tal cuor guarnite le trovava,
che poco assalto o altro li giovava.

94

Elli stette più mesi a tal berzaglio
e poco v'acquistò, anzi niente,
fuor che paura e onta con travaglio,
perché le donne dentro assai sovente
di morte si metteano a ripentaglio,
predando sopra loro arditamente
cotanto s'eran già assicurate
per lo non potere esser soperchiate!

95

Di ciò era Teseo assai crucciato,
e nel pensiero sempre gia cercando
come potesse abbatter loro stato.
Un dì avvenne che e' cavalcando
a la terra dintorno, fu avvisato
ch'ella s'avrebbe sotterra cavando,
per che, avendo mastri di tali arti,
cavar la fé da una delle parti.


Come Ipolita scrisse a Teseo.


96

Quando la donna del cavare intese,
dubbiò, e tosto di mura novelle
un cerchio dentro più stretto comprese,
il qual fer tosto e donne e damigelle;
appresso inchiostro e carta tosto prese
e con le mani dilicate e belle
una pìstola scrisse; e trovar feo
due savie donne, e mandolla a Teseo.

97

Eran le donne belle e di gran core,
con compagnia leggiadra disarmate,
vestite in drappi di molto valore;
le qua', giunte nel campo, fur menate
da' maggior Greci davanti al signore,
al quale, assai da lui prima onorate,
le lettere lor diero, e la risposta
addomandaron graziosa e tosta.

98

Teseo le prese assai benignamente,
e innanzi a sé chiamati i suoi baroni
insieme con molta altra buona gente,
disse: – Signori, le donne amazzoni
queste lettere mandan veramente;
però l'udite, e con belle ragioni
lor si risponda. – E poi le fé aprire,
e legger sì ch'ognun poteva udire.


Il tenore della lettera mandata da Ipolita a Teseo.


99

La lettera era di cotal tenore:
"A te, Teseo, alto duca d'Attene,
Ipolita, reina di valore,
salute, se a te dir si convene,
e crescimento sempre di tuo onore,
sanza mancar di quel che m'appartiene,
e pace con ciascuno, e ancor meco
che ho ragion d'aver guerra con teco.

100

Io ho veduta la tua gente forte
ne' porti miei con isforzata mano,
tal ch'essi avrebber paura di morte
data a qualunque popol più sovrano,
fuor ch'alle donne mie, di guerra scorte
più ch'altra gente che al mondo siano;
le qua' di que' cacciasti assai superbo,
delle qua' meco una parte ne serbo.

101

E poi venuto se' ad assediarmi,
come nemica d'ogni tuo piacere,
e hai più volte provate tue armi
a le mie mura, e ancora potere
da quelle non avesti di cacciarmi;
per che, per adempier lo reo volere
c'hai contro a me, la terra fai cavare,
per poi potermi sanza arme pigliare.

102

Certo di ciò la cagion non conosco,
ch'io non ti offesi mai, né son Medea
che per invidia ti voglia dar tosco;
anzi la tua virtute mi piacea
quando si ragionava talor nosco,
e di vederti gran disio avea,
e ancor disiava tua contezza,
tanto gradiva tua somma prodezza.

103

Ma di ciò veggo contrario l'effetto,
considerando la tua nuova impresa,
pensando ch'io non abbia il difetto
commesso, e sia subitamente offesa,
sanza di te avere alcun sospetto;
di che nel core non poco mi pesa,
e non men forse per la tua virtute
che faccia per la mia propia salute.

104

Tu non hai fatto come cavaliere
che contro a par piglia debita guerra,
ma come disleale uom barattiere
subitamente assalisti mia terra,
e come vile e cattivo guerriere
mai non pensasti, se 'l mio cor non erra
che 'l guerregiar con donne e aver vittoria
del vincitore è più biasmo che gloria.

105

Ben ti dovresti di ciò vergognare,
se figliuol se', com dì, del buono Egeo;
né ti dovresti con arme appressare
a le mie mura; e già se ne penteo
chi ha volute mie forze provare,
però che mal sembiante mai non feo
nessuna ancora delle mie donzelle,
ma tutte sono ardite, prodi e snelle.

106

Ma poscia c'hai le tue forze provate,
e 'l tuo pensiero hai ritrovato vano,
diverse vie hai sotterra trovate
per avermi in prigione a salva mano
ma non sarà così in veritate,
ché già c'è preso rimedio sovrano;
e di combattere in oscura parte
non è di buon guerrier mestier né arte.

107

Dunque mi lascia in pace per tuo onore,
sanza voler più tua fama guastare,
ch'io ti perdono ciascun disinore
che fatto m'hai o mi volessi fare;
e se nol fai, per forza e con dolore
io ti farò la mia terra sgombrare;
né qui mi troverai qual festi al lito,
perch'io ti giucherò d'altro partito".


Come Teseo rispose ad Ipolita, e mostrò alle messaggiere le cave.


108

Quando Teseo la lettera ebbe udita,
a' suoi baroni e' disse sorridendo:
– Beato me, che campata ho la vita
mercé di questa donna, ch'amonendo
mi manda acciò che mia fama fiorita
tra le genti dimori, me vivendo! –
Poi si rivolse a quelle donne e disse:
– Risposto tosto fia a chi ne scrisse.


Il tenore della risposta di Teseo.


109

E 'n cotal guisa fé scrivere allora:
"Ipolita, reina alta e possente,
la quale il popol feminile onora,
Teseo, duca d'Attene, e la sua gente,
salute, quale ella ti bisogna ora,
cioè la grazia mia veracemente:
una tua lettera e messi vedemmo
per questa ad essa così rispondemo

110

chi 'l nostro popol uccide e discaccia
dalle sue terre, a noi fa villania;
però s'adoperiam le nostre braccia
in far vendetta, grande onor ne fia;
né viltà nulla i nostri cori impaccia,
se sottoterra cerchiam di far via,
per tuo orgoglio volere abbassare;
ma facciam quel che buon guerrier suol fare,

111

cioè prender vantaggio, acciò che' suoi
più salvi sieno, e vincasi il nemico;
e tosto ci vedrai ne' cerchi tuoi
della città, non miga come amico,
se non t'arrendi tostamente a noi,
uccidendo e tagliando; ond'io ti dico
che 'l mio comando facci, e avrai pace,
ché in altra maniera non mi piace".

112

E poi che l'ebbe scritte e suggellate,
le lettere donò alle donzelle,
e quali avanti avea molto onorate;
e a cavallo poi salì con quelle,
e tutte le sue forze ha lor mostrate,
e similmente en le cave con elle
entrò, e fece lor chiaro vedere
le mura puntellate per cadere.

113

Poi disse loro: – O messaggiere care,
a la reina vostra tornerete,
e 'n verità potrete raccontare
ciò che apertamente ora vedete;
sì che le piaccia di non farmi fare
asprezza contro a quantunque voi sete,
e contro a lei, la qual mi par valente;
ch'io ne sarei poi più di voi dolente. –


Come le damigelle, partendosi da Teseo, tornarono ad Ipolita.


114

Le danmigelle allor preson commiato,
dicendo: – Signor nostro, volentieri. –
E nella terra per occulto lato
si ritornar, non pe' mastri sentieri;
e a la donna lor tutto han contato,
ciò c'han veduto infra li lor guerrieri.
e poi le lettere hanno presentate,
le qua fur tosto lette e ascoltate.

115

Poi che di quelle Ipolita il tenore
ebbe compreso, e 'l dir delle donzelle,
nel cor sentì gravissimo dolore,
e simile sentiron tutte quelle
ch'eran presenti, ch'avesser valore,
pensose assai e nello aspetto felle;
ma dopo alquanto Ipolita, chiedendo
con mano udirsi, incominciò dicendo


Diceria d'Ipolita a le donne sue.


116

– Chiaro vedete, donne, a qual partito
ci abbian gl'iddii recate, e non a torto.
Se di ciascuna qui fosse il marito,
fratel, figliuolo o padre che fu morto
da tutte noi, non saria stato ardito
Teseo mai d'appressarsi al nostro porto;
ma perché non ci son, ci ha assaltate,
come vedete, e ancora assediate.

117

Venere, giustamente a noi crucciata,
col suo amico Marte il favoreggia;
e tanta forza a lui hanno donata,
che contro a nostro grado signoreggia
dintorno a noi la città assediata,
e come vuole ognora ne dammeggia,
e perciò che vie più che noi è forte,
se noi non ci rendiam, minaccia morte.

118

Però a noi bisogna di pigliare
de' due partiti l'un subitamente
o contra lui ancora riprovare
le forze nostre in campo virilmente,
o a lui, poi ci vuol, ci vogliàn dare,
perciò che qui più tenerci niente
noi non possiam, ché, come voi udite,
le mura tosto in terra vederite.

119

E 'l dir che noi con esso combattiamo
mi par che sia assai folle pensiero,
perciò che tutte quante conosciamo
la gente sua e lui ardito e fiero;
e se ancora ben ci ricordiamo
e con noi stesse vogliam dir lo vero,
noi il provammo non ha molto ancora;
di che noi ci pentemmo in poca d'ora.

120

E oltre a questo, egli ha seco l'aiuto
degli alti iddii, che noi han per nemiche
e noi l'avemo assai chiaro veduto,
ché orazion, vigilie, né fatiche,
forza di corpo o atto proveduto,
campar non ci han potuto che mendiche
della sua grazia esser non ci convegna,
se noi vogliam che 'n vita ci sostegna.

121

Però terrei consiglio assai migliore
renderci a lui, che del valor mondano,
per quel ch'io senta, ha il pregio e l'onore,
e è, a chi s'umilia, umile e piano;
e già non ci sarà e' desinore
se vinte siam da uom così sovrano,
perciò ch'ogn'uom per femine ci tiene,
come noi siamo, e lui duca d'Attene. –

122

Tacquesi qui; ma un gran mormorio
infra le donne surse, lei udita,
ch'una reputa buono e altra rio
cotal consiglio; ma nessuna ardita
è di dir contra o d'aprir suo disio;
per che cotal sentenzia diffinita
per le più sagge fu, che si mandasse
chi con Teseo per lor patti trattasse.


Come Ipolita trattò patti con Teseo e poi li si arrendé.


123

Poi che cotal sentenzia fu fermata,
Ipolita due donne fé venire,
Polisto e Dinastora, e informata
ebbe ciascuna di ciò c'hanno a dire
e poi che lor libertà ebbe data
quanta ne bisognava a ciò fornire,
disse: – Omai, donne, a vostra posta andate,
ma sanza pace qui non ritornate. –

124

Fur costoro a Teseo, e e' con esse
e dopo lungo d'una e d'altra cosa
parlar, fermarsi che esso prendesse
Ipolita per sua etterna sposa,
e che la terra per lui si tenesse,
sotto le leggi della valorosa
Ipolita reina, e accordarsi
con molti altri più patti e ritornarsi.

125

Ipolita era a maraviglia bella
e di valore accesa nel coraggio;
ella sembiava matutina stella
o fresca rosa del mese di maggio
giovine assai e ancora pulcella,
ricca d'avere, e di real legnaggio,
savia e ben costumata, e per natura
nell'armi ardita e fiera oltre misura.

126

A cui le donne, da Teseo venute,
e a molte altre i patti raccontaro,
recando a tutte da Teseo salute;
il che fu alle più grazioso e caro.
E poi che fur le parole compiute,
le donne l'arme di botto lasciaro,
e ella comandò, per suo amore,
ch'a Teseo e a' suoi sia fatto onore.


Come Teseo, fermati i patti, entrò nella città,
e ricevuto onorevolemente da Ipolita, la sposò,
e i suoi cavalieri sposaro dell'altre.


127

Poscia che furono i patti fermati,
Teseo co' suoi montati in su' destrieri,
i più di loro essendo disarmati,
a picciol passo e lieti i cavalieri,
sanza contasto en la città menati,
nella qual ricevuti volontieri,
umili d'essa preser possessione,
sanza fare ad alcuna offensione.

128

Incontro venne, sopra un bel destriere,
al suo Teseo Ipolita reina,
e più bella che rosa di verziere
con lei veniva una chiara fantina,
Emilia chiamata, al mio parere,
d'Ipolita sorella picciolina;
e dopo lor molte altre ne venieno,
ornate e belle quanto più poteno.

129

E 'n cotal guisa con solenne onore
ricevetter Teseo e la sua gente;
né fu guari di lì lontano Amore,
ma co' suoi dardi molte prestamente
e molti ancora ne ferì nel core.
E' se ne andaron tutti lietamente
fino al palagio, e quivi dismontaro,
e in su quel Teseo accompagnaro.

130

Egli era bello e d'ogni parte ornato
di drappi ad oro e d'altri cari arnesi,
per ogni cosa ricco e bene agiato;
ma Teseo gli occhi non teneva attesi
a ciò guardar, ma il viso dilicato
d'Ipolita mirando, con accesi
sospir dicea: "Costei trapassa Elena,
cui io furtai, d'ogni bellezza piena".

131

Elli avea già nel cor quella saetta
la qual Cupido suole aver più cara;
e seco nella mente si diletta
d'aver per cotal donna tanta amara
fatica sostenuta; e lieto aspetta
d'avere in braccio quella stella chiara,
parendoli colei assai più degno
acquisto che tututto l'altro regno.

132

Le donne avevan cambiati sembianti,
ponendo in terra l'arme rugginose,
e tornate eran quali eran davanti,
belle, leggiadre, fresche e graziose;
e ora in lieti motti e dolci canti
mutate avean le voci rigogliose,
e' passi avevan piccioli tornati,
che pria nell'armi grandi erano stati.

133

E la vergogna, la qual discacciata
avean la notte orribile, uccidendo
li lor mariti, loro era tornata
ne' freschi visi, gli uomini vedendo;
e sì era del tutto transmutata
la real corte, a quel che prima, essendo
sanza uomini le femine, parea,
ch'appena alcuna di loro il credea.

134

Ripresi adunque i lasciati ornamenti,
di Citerea il tempio fero aprire,
serrato ne' lor primi mutamenti;
lì fé Teseo Ipolita venire;
e dati sacrifici reverenti
a Venere, sposò con gran disire
Ipolita, l'aiuto d'Imeneo
chiamando quivi i baron di Teseo.

135

Molte altre donne a greci cavalieri
si sposarono allora lietamente,
e per signor li preser volontieri,
com'avean gli altri avuti primamente;
con iuramenti santissimi e veri
lor promettendo che, al lor vivente,
nella prima follia non tornerieno
e che lor cari sempre mai avrieno.

136

Tra l'altre belle vedove e donzelle
che fossero in quel loco, una ve n'era
che di bellezze passava le belle,
come la rosa i fior di primavera;
la qual Teseo, vedendola tra quelle,
fé prestamente domandar chi era.
Detto li fu: – Sorella alla reina,
Emilia nominata è la fantina. –

137

Piacque a Teseo la bella donzelletta
non men che alcuna altra che vi fosse,
ancor che li paresse giovinetta;
e nella mente sua seco proposse
che ad Acate, sua cosa distretta,
per moglie la darà; quindi si mosse,
e al palagio real ritornaro,
dove pien di letizia ogn'uom trovaro.

138

Le nozze furon grandi e liete molto,
e più tempo durò il festeggiare,
e ciascun dalla sua fu ben raccolto,
e a tutti pareva bene stare,
perché fortuna avea cambiato volto;
e le donne sapeano or che si fare,
sé ristorando del tempo perduto
mentre nel regno non era uomo issuto.


Qui finisce il libro primo.



LIBRO SECONDO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del secondo libro.

Questo secondo mostra il ritornare
che fé Teseo di Scizia vincente;
e delle Greche il tristo lagrimare,
col priego insieme d'Evannès dolente;

per lo qual, sanza del carro smontare,
con picciola orazione a la sua gente
persuadendo, si mosse ad andare
contra Creon, re di Tebe possente;

e come, in campo vinto, a lui la vita
tolse e a' corpi fé dar sepoltura,
avendo Tebe a le donne largita;

e poi, feriti, per loro sciagura,
presi da lui Palemone e Arcita
mostra, mettendo poi loro in chiusura.


Incomincia il libro secondo di Teseida. E prima perché e come Teseo si partisse di Scizia per tornare ad Attene con Ipolita e con Emilia.


1

Il sole avea due volte dissolute
le nevi en gli alti poggi, e altrettante
Zeffiro aveva le frondi rendute
e i be' fiori alle spogliate piante,
poi che d'Attena s'eran dipartute
le greche navi, Africo spirante,
da cui Teseo co' suoi furon portati
nelli scitichi porti conquistati;

2

quando esso con la sua novella sposa
in lieta vita e dolce dimorava,
sanza pensiero d'alcuna altra cosa,
e appena d'Atene si curava;
ma il piacer divin più gloriosa
vittoria assai che quella li serbava;
onde li fé nuova vision vedere,
per che del ritornar li fu in calere.

3

Nel dolce tempo che il ciel fa belle
le valli e' monti d'erbette e di fiori,
e le piante riveste di novelle
frondi, sopra le quali i loro amori
cantan gli uccelli, e le gaie donzelle
di Citerea più senton gli ardori,
era Teseo da dolce amor distretto,
in un giardin, pensando a suo diletto.

4

Nel qual da una parte solo stando
gli parve seco con viso cruccioso
tener per man Peritoo ragionando,
dicendo a lui: – Che fai tu ozioso
con Ipolita in Scizia dimorando,
sotto amore offuscando il tuo famoso
nome? Perché in Grecia oramai
non torni, ove più gloria avrai assai?

5

Essi da te quell'animo gentile,
ch'ancor simile ad Ercul prometteva
di farti, dipartito? Se' tu vile
tornato nella tua età primeva?
E stando entra la turba feminile,
la tua prodezza, la qual già sapeva
ciaschedun regno, hai qui messa in oblio
d'Ipolita nel grembo e nel disio? –

6

A cui Teseo volendo dar risposta
e iscusar la sua lunga dimora,
subito agli occhi suoi si fu nascosta
la imagine di quel che parlava ora;
per che e' dubbioso col passo si scosta
dal loco ove era, a sé mirando ancora
dintorno, per veder se el vedea
colui che quivi parlato gli avea.

7

Ma poi che la paura luogo diede
a l'animal vertù, si ruppe il velo
della 'gnoranza, e con intera fede,
che non lì Peritoo, ma che dal cielo,
da qualche deità la qual provede
al suo onor con caritevol zelo,
era venuto cotal ragionare;
onde pensò ad Atene tornare.

8

Ad Ipolita adunque il suo volere
con donnesco parlar fé manifesto;
la qual rispose ad ogni suo piacere
essere apparecchiata e anche a questo;
ond'elli, allor ch'a lui fu in parere,
il suo navilio fé preparar presto,
e poi dispose del regno lo stato,
per modo che alle donne fu a grato.

9

E fatto questo, entrò sanza dimoro
in mare, e 'nsieme Ipolita reina;
e tra più donne ne menar con loro
la bella Emilia, stella matutina;
quindi spirando tra Borea e Coro
ottimo vento da quella marina
li tolse, lor portando verso Attene
il più del tempo con le vele piene.


Transgressione dalla propria materia, per mostrare qual fosse la cagione
per la quale Teseo andasse contra Creonte.


10

Ma Marte, il quale i popoli lernei
con furioso corso avea commossi
sopra' Tebani, e' miseri trofei
donati avea de' prencipi percossi
più volte già, e de' Greci plebei
ritenuti talvolta e tal riscossi,
con asta sanguinosa fieramente
trista avea fatta l'una e l'altra gente;

11

perciò che, dopo Anfiorao, Tideo
stato era ucciso, e 'l buono Ippomedone,
e similmente il bel Partenopeo,
e più Teban, de' qua' non fo menzione,
innanzi e dopo al fiero Campaneo;
e dietro a tutti, in doloroso agone,
Etiocle e Polinice, ferito,
morti, e Adastro ad Argo era fuggito;

12

onde 'l misero regno era rimaso
voto di gente e pien d'ogni dolore;
ma in picciola ora da Creonte invaso
fu, che di quel si fé re e signore,
con tristo agurio, e 'n doloroso caso
recò insieme e 'l suo regno e l'onore
per fiera crudeltà da lui usata,
mai da nullo altro davanti pensata.

13

Esso, con fiero cuor li Greci odiando,
poi che fur morti in lor l'odio servava,
per ch'elli avea con gravissimo bando
vietato a chi sua grazia disiava,
ch'a nullo corpo quivi morto stando
fuoco si desse, e 'mputridir lasciava
lor sozzamente sanza sepoltura
qual delle fiere pria non fu pastura.

14

Onde le donne argoliche, le quali
venien dolenti a far lo stremo ofizio
con somma maestà di tutti i mali,
anzi giungesser quivi, ebbero indizio
dello editto crudele; e però tali
quali eran, triste di tal malefizio,
proposer con le lagrime pregare
Teseo a tale ingiuria vendicare.

15

E quindi i passi ad Attena drizzaro,
atate dal dolor nella fatica
e a quella venute, con amaro
segno mostrar la fortuna nemica.
Gli Atteniesi assai si marvigliaro
di quella turba, d'ogni ben mendica,
e domandaron di ciò la cagione,
perché venute e di qual regione.

16

I qua', poscia ch'udir la nobiltate
di quelle donne e la cagion del pianto,
con tenerezza lor prese pietate
di veder loro in tormento cotanto;
e gli alti cittadini apparecchiate
proferser lor le case d'ogni canto,
finché Teseo in Attene tornava,
che d'ora in ora in essa s'aspettava.

17

Esse non voller da nessuno onore,
ma solo il tempio cercar di Clemenza
e in quel con gravissimo dolore
istanche e lasse fecer residenza,
aspettando con lagrime il signore,
assai crucciose della sua assenza;
e le donne atteniesi in compagnia
di loro stetter quivi tuttavia.


Come Teseo ritornò triunfando in Attene, e la festa che vi si fece.


18

Teseo, con vento fresco a suo viaggio,
contento ritornava inverso Attene
con gran partita del suo baronaggio
e con colei che 'l suo cuor guida e tene,
Ipolita reina; e 'l suo passaggio
tosto fornito fu e sanza pene;
né prima giunto fu alla marina
che si seppe in Attene, la mattina.

19

Gli Atteniesi, che lui attendieno
con gran disio, per la sua ritornata
mirabil festa preparata avieno,
la qual fu incontanente incominciata;
secondo il lor poter, ch'assai potieno,
fu la lor terra tutta quanta ornata
di drappi ad oro e d'altri paramenti,
con infiniti canti e istrumenti.

20

Quanto le donne allor fossero ornate,
ne' teatri, ne' templi e a' balconi
e per le vie mostrando lor biltate,
nol potrieno spiegare i miei sermoni;
la lor presenzia tal solennitate
facea maggior per diverse ragioni;
e 'n brieve in ogni parte si cantava
e con somma allegrezza si festava.

21

Gli alti suoi cittadini apparecchiare
li fero un carro ricco e triunfale,
il qual gli fer là dov'era menare;
né altro ne fu mai a quello equale
veduto per alcuno; e apprestare
li fer con esso vesta imperiale
e corona d'allor, significante
che per vittoria venia triunfante.

22

Teseo adunque, come fu smontato
di mare in terra, in sul carro salio,
degli ornamenti reali addobbato;
e sopra quello appresso il suo disio,
Ipolita, gli stette dall'un lato,
da l'altro Emilia fu, al parer mio;
poi l'altre donne e' cavalier con loro
a cavallo il seguir sanza dimoro.

23

In diverse brigate festeggiando,
a cavallo e a piè erano andati
gli Atteniesi inver di lui cantando,
di varii vestimenti divisati,
con infiniti suoni ogn'uom festando,
e con esso in Attene rientrati:
diritto andò al tempio di Pallade
a reverir di lei la deitade.

24

Quivi con reverenza offerse molto,
e le sue armi e l'altre conquistate;
e poi per altra via il carro volto,
alquanto circuendo la cittate,
con infinito d'uomini tomolto,
ovunque gia, con grida eran lodate
l'opere sue magnifiche, e con gloria
le dicean degne d'etterna memoria.


Come a Teseo si fero incontro le donne greche piagnendo.


25

E mentre ch'elli in cotal guisa giva,
per avventura davanti al pietoso
tempio passò, nel quale era l'achiva
turba di donne in abito doglioso;
la qual udendo che quindi veniva,
su si levar con atto furioso:
con alte grida e pianto e gran romore
pararsi innanzi al carro del signore.

26

– Chi son costor ch'a' nostri lieti eventi
co' crini sparti, battendosi il petto,
di squalor piene in atri vestimenti,
tutte piangendo, come se 'n dispetto
avesson la mia gloria, a l'altre genti,
sì com'io veggo, cagion di diletto? –,
disse Teseo stupefatto stando;
a cui una rispose lagrimando:

27

– Signor, non ammirar l'abito tristo
che 'nnanzi a tutti ci fa dispettose,
né creder pianger noi del tuo acquisto,
né d'alcun tuo onore esser crucciose;
ben che l'averti in cotal gloria visto
pe' nostri danni ne faccia animose
a pianger più che non faremmo forse,
essendo pur dal primo dolor morse. –

28

– Dunque chi sete? – disse a lor Teseo,
– e perché sì nella publica festa
sole piangete? – Allora oltre si feo
Evannès, più che nessuna altra mesta,
dicendo: – Isposa fui di Campaneo,
e qualunque altra ancora vedi in questa
turba, di re fu moglie o madre o suora
o figlia; e aprirotti che ci accora.

29

La perfida nequizia del tiranno
figliuol d'Edippo, contro a Polinice,
suo unico fratello, e 'l fiero inganno
del regno, degli Argivi lo 'nfelice
esercito tirò al suo gran danno,
che è maggiore assai che non si dice,
davanti a Tebe, dove trista sorte
ciascuno alto baron tolto ha con morte.

30

E dove noi, invano, speravamo
con quello onor vederli ritornare
alle lor terre ch'agual te veggiamo
nella tua laurato triunfare,
nell'abito dolente in che noi siamo
a sepellirli ci conviene andare;
ma l'aspra tirannia di que' c' ha preso
il regno dietro a lor ciò ci ha difeso.

31

Il perfido Creon, a cui più dura
l'odio ch' a' morti non fece la vita,
a' greci corpi nega sepoltura
(crudeltà, credo, non mai più udita),
e di qua l'ombre a la padule oscura
di Stigia ritiene; onde infinita
doglia ci assal tra gli altri nostri mali,
sentendoli mangiare agli animali.

32

Pietose adunque a questo estremo onore
voler donar, d'Acaia ci movemmo;
ma come a noi contato fu il tenore
di tale editto, i passi qua volgemmo
e porger prieghi a te, pio signore,
di tale oltraggio con noi proponemmo
i qua' l'abito nostro per noi doni
a te in prima, e poi a' tuoi baroni.

33

Se alto valor, come crediam, dimora
in te, a questo punto sie pietoso;
tu n'averai alto merito ancora,
e oltre a ciò, ciò che uom virtuoso
de' far, farai. Deh, s'altro da te infora
far lo volesse, en dovresti cruccioso
essere e impedirlo, acciò ch'avessi
la gloria tu di punir tali eccessi.

34

Deh, se l'abito nostro e il lagrimare
non ti movon, né prieghi, né ragione
a far che 'l pio oficio possiam fare,
movati almen la trista condizione
di que' che già fur re; non gli lasciare
nella futura fama in dirisione:
e' furon teco già d'un sangue nati,
e come te ancor Greci chiamati. –

35

Le lagrime non eran mai mancate,
perché parlasse, agli occhi di costei,
ma sempre in quantità multiplicate;
e 'l simile era a l'altre dietro a lei,
le qua' con forza avean messa pietate
in ciaschedun di que' baroni attei;
per che con seco ognun forte dannava
la crudeltà la qual Creon usava.

36

Teseo attento le parole dette
racogliea tutte, l'abito mirando
di quelle donne, e ben che lor neglette
vedesse, chiaro assai, seco stimando,
la maestà nascosa conoscette;
e greve duol nel cor gli venne quando
udì de' re la morte; e dopo alquanto
così rispose al doloroso canto:


La risposta di Teseo alle donne greche.


37

– L'abito oscuro e 'l piangere angoscioso,
e 'l voi conoscer pe' vostri maggiori,
e 'l ricordarmi il vostro esser pomposo,
gli agi e' diletti e' regni e' servidori
e de' re vostri il regnar glorioso,
hanno trovato ne' miei sommi onori
luogo a' vostri prieghi, e la mutata
fortuna trista di lieta tornata.

38

Io vorrei ben poter nel primo stato
e in vita li vostri re tornare,
com'io credo poter far che fia dato
onor di sepoltura a cui donare
vel piacerà; e l'orgoglio abbassato
di colui fia che ciò vi vuol negare;
però, se a male avuto può conforto
vendetta porger, per me vi fia porto.

39

Fortificate gli animi dolenti
con isperanza buona, ch'io vi giuro,
prima che io o' miei baron possenti
ci riposiam d'Attene dentro al muro,
di ciò faremo interi esperimenti;
e io son già di vittoria sicuro,
non tanto avendo in mie forze fidanza,
quanto mi dà di Creon la fallanza. –


Come Teseo dispose Ipolite ed Emilia del carro, per gire a Tebe.


40

E detto questo, con benigno aspetto
si rivolse ad Ipolita, dicendo:
– Bene hai udito, donna, ciò c'han detto
queste donne reali a noi piangendo:
priegoti adunque non ti sia dispetto
se al presente a lor giustizia intendo.
Dismonta, e col mio padre ti starai
finché tornato me qui vederai. –

41

A cui così Ipolita rispose:
– Caro signor, ben ch'io sia amazona,
io non son sì crudel, ch'a cota' cose
volentier non mettessi la persona
per vendicarle, sì son dispettose,
se vero è ciò che delle donne sona
il tristo ragionar, sol ch'io credesse
che 'n ciò il mio portare arme ti piacesse.

42

Però, signor, secondo il tuo piacere
opera omai, e s'elli è di tal fretta
qual esse dicon, non soprasedere;
va e fa ciò ch'al tuo enore aspetta,
ché ciò m'è più ch'altra gioia in calere. –
E questo detto, intra la turba eletta
di molte donne che l'accompagnaro,
essa e Emilia del carro smontaro.

43

Poi che Teseo le donne ebbe posate
del carro suo, tenendo il viso fitto
nella miseria delle sconsolate,
da intima pietà nel cor trafitto,
sopra 'l carro si volse a le pregiate
schiere de' suoi sanz'altro alcun respitto;
e con voce alta, di furore acceso,
parlò sì che da tutti fu inteso:


Diceria di Teseo a' cavalieri suoi per andare sopra Creonte.


44

– Tanto è nel mondo ciascun valoroso,
quanto virtute li piace operare;
dunque ciascun di vivere ozioso
si guardi che in fama vuol montare;
e noi, acciò che stato glorioso
intra' mondan potessimo acquistare,
venimmo al mondo, e non per esser tristi
come bruti animali e 'ntra lor misti.

45

Adunque, cari e buon commilitoni
che meco in tante perigliose cose
istati sete in dubbie condizioni,
per far le vostre memorie famose
a le future nuove nazioni,
ora li cuori all'opre gloriose
vi priego dispognate, né vi caglia
prender riposo d'avuta travaglia.

46

Udito avete tutti, sì com' io,
ciò che le donne ne dicon presenti;
certo ciascun ne dovrebbe esser pio,
e al vengiar dovreste esser ferventi,
ché l'aspre nimistà e il disio
del nuocer debbon ciaschedune genti
lasciare e obliar, poi l'uomo è morto;
ma or Creon fa nuovo a' morti torto.

47

Andiamo adunque, e lui, fiero Creonte,
umil facciàn con le spade tornare,
sì che e' lasci l'ombre ad Acheronte,
poi fien sepulti i corpi, trapassare;
noi non andiamo acciò che a Demofonte
rimanga regno, a l'altrui usurpare,
ma a ragion rilevare in sua gloria;
per che l'iddii ne daranno vittoria.

48

E' non fu più lasciato avanti dire,
ch'un romor surse che il ciel toccava
– Tutti siam presti di voler morire
dintorno a te, e già molto ne grava
che 'nver Creonte non prendiamo a gire,
poi ch'opera commette così prava:
voi vederete nell'operar nostro,
signor, se ci fia caro l'onor vostro. –


Come Teseo andò contra Creonte, re di Tebe.


49

Teseo adunque, sanza rivedere
il vecchio padre o parente o amico,
uscì d'Attene, né li fu in calere
d'Ipolita l'amor dolce e pudico,
né altro alcun riposo, per potere
gloria acquistar sopra 'l degno nemico;
e com'elli era entrato nella terra,
così n'uscì a la novella guerra.

50

Le 'nsegne, che ancora ripiegate
non eran, si drizzaron di presente;
e' cavalier con le schiere ordinate,
dietro a la sua ciascuno acconciamente,
ne givano, e le donne sconsolate
lor precedean, di ciò molto contente;
e dopo giorno alcun giunsero a Tebe,
e fermar campo in su le triste glebe.

51

Sentì Teseo l'aere corrotto
pe' corpi ch'eran senza sepoltura;
onde mandò a Creonte di botto
che e' lasciasse aver de' morti cura,
o s'aprestasse, sanza più dir motto,
della battaglia dispietata e dura.
I messi andaro e fecer l'ambasciata;
a' qua' Creon cotal risposta ha data:

52

– Dite a Teseo ch'io sono apparecchiato
della battaglia, e ch'elli avrà a fare
con franco popol tutto bene armato,
e non si creda qui donne trovare,
come in altra parte egli ha trovato;
e però venga, qualora gli pare,
che corpi fuoco non avranno, e esso
giacer farò con loro assai di presso. –

53

Il buon Teseo la risposta intese
superba assai, della quale e' si rise;
e al pian campo con li suoi discese,
e in tre parti tutti i suoi divise,
e fece loro il loro affar palese;
quindi davanti a tututti si mise;
e bene in concio ne gir ver Creonte,
che con sua gente lor veniva a fronte.


La battaglia intra Teseo e Creonte, e come Teseo fu vincitore.


54

Allora trombe, nacchere e tamburi
sonaron forte d'una e d'altra parte;
fremivano i cavalli, e i securi
cavalier tutti gridavano: – O Marte,
or si parranno li tuoi colpi duri,
ora conoscerassi la tua arte. –
Allora lance e saette pungenti
cominciarsi a gittar tra le due genti.

55

E' cavalieri insieme si scontraro
con tal romore e con sì gran tempesta,
che 'nsino al ciel le voci risonaro;
e con le lance ciaschedun s'infesta
di vender bene il romper quelle caro;
poi con le spade battaglia molesta
incominciar, dove molti moriro
nel primo assalto che 'nsieme feriro.

56

Il buon Teseo, sopra un alto destriere,
con una mazza in man pel campo andava
ferendo forte ciascun cavaliere
e abbattendo cui elli incontrava,
e spesso confortando le sue schiere:
col suo ben far tutti l'incoraggiava,
porgendo arme sovente a chi l'avesse
perdute e rimontando chi cadesse.

57

E ben vedea chi con tremante mano
moveva i ferri, e chi arditamente
sovra' nemici suoi valor sovrano
combattendo mostrava, e chi niente
pigro operava dimorando invano;
li qua' gridando spregiava vilmente,
lodando gli altri, e per nome chiamando
or questo or quel, gli giva confortando.

58

Da l'altra parte il simile facea
Creonte, come ardito conduttore,
e quasi in sé del nemico credea
sanza alcun fallo farsi vincitore.
L'un contra l'altro ben si difendea
arditamente e con sommo valore;
ma sì andando, insieme si scontraro
Creon e 'l buon Teseo, e si sgridaro.

59

Corsorsi adosso li due cavalieri,
chiusi nell'armi e valorosamente
si cominciaro a ferire i guerrieri,
com'uomin che s'odiavan mortalmente,
e come que' ch'avrebber volentieri
l'un l'altro a morte dato certamente;
e già co' colpi tutte magagnate
s'avevan l'armi, e le carni tagliate.

60

Teseo di cruccio tutto quanto ardeva,
vedendo di Creon il gran durare,
e fra se stesso fremendo diceva:
– Deh, de'mi questi a la fine menare? –
Poi tutte in sé sue forze raccoglieva,
e furioso li si lascia andare
adosso, e lui per sì gran forza fiere,
che lì il gittò per morto del destriere.

61

Teseo allora da caval discese,
dicendo: – O fier tiranno, or è venuto
il dì che 'l tuo mal viver tanto attese;
ora sarà tuo fallo conosciuto,
or fien punite le già fatte offese
da te, or fia il tuo viver compiuto;
e le tue arme io sacrerò a Marte,
benigno iddio a me in ogni parte.

62

E' corpi contra i qua' fosti spietato
arsi saranno, e 'l tuo regno distrutto,
e 'l nome tuo di memoria privato;
e a le donne, a cui cagion di lutto
fosti, sarà il tuo corpo donato,
ch'esse ne facciano il lor piacer tutto:
così la tua superbia fia abbattuta,
ch'a rispondermi fu cotanto arguta. –

63

Non spaventar le parole Creonte,
perch'abattuto si vedesse in terra,
né sembianza mutò l'ardita fronte,
né mitigossi nel cuor la sua guerra;
anzi più fiero, e con parole pronte,
aspra risposta parlando diserra
a que' che sopra il petto fier li stava
e col suo ferro morte gli aprestava;

64

dicendo a lui: – Fanne tuo piacere,
pur che io muoia avanti che vittoria
io veggia a te e a tua gente avere;
ché l'alma mia almeno alcuna gloria
ne porterà con seco nel parere,
e segnato terrà nella memoria
che 'n dubbio i tuoi e' miei lascio d'onore;
e credo che li miei hanno il migliore.

65

Questo ne porterò a l'infernali
iddii, quasi contento; e se e' fia
il corpo mio donato agli animali
sanz'altro foco, ciò l'alma disia;
però che parte delli miei gran mali
di qua dalla riviera oscura e ria,
la qual vuo' far passare a' regi morti,
io celerò, se non fia chi men porti.

66

Or fa omai quel che più t'è in grato,
ch'io non men curo. – E tacque; e intratanto
l'avea Teseo già tutto disarmato,
e quasi tutto del sangue e del pianto
il vide il duca nel viso cambiato;
e già era freddato tutto quanto:
per che conobbe l'anima dolente
esser partita dal corpo spiacente.

67

Il quale e' lasciò quivi, e risalio
sopra 'l destriere, e fra' suoi ritornossi;
e tutto quanto ardendo nel disio
d'aver vittoria, focoso ficcossi
tra li nemici, e 'l primo che ferio
a li suoi piedi morto coricossi;
e 'l simil fece a' più degli altri fare,
per che nessun l'ardiva d'aspettare.

68

E' suoi facevan nell'armi gran cose,
contra' nemici gran forze mostrando;
e per lo campo le genti orgogliose
uccidendo, ferendo e scavallando
andavan, pur pensando a le pietose
donne ch'avean vedute lagrimando;
tal che non li potean più sofferire
li Teban, salvo chi volea morire.

69

E d'altra parte già saputo aveno
del lor signor la morte dolorosa,
per che che farsi tra lor non sapeno;
laonde in fuga trista e angosciosa,
sì come gente che più non poteno,
si volser tutti, ché nessun non osa
volversi indietro o insieme aspettarsi,
tanto di presso vedean seguitarsi.

70

I miseri cacciati non fuggiro
nella città per quivi aver riparo,
ma per li monti Ogigii se ne giro,
chi per lo bosco ove Tideo assediaro,
e qua' su Citeron se ne saliro,
altri ne' cavi monti s'appiattaro;
e 'n cotal guisa con greve dolore
tutti fuggir davanti al vincitore.

71

Questo vedendo, i cittadin tebani,
le donne e' vecchi e' piccioli figliuoli
rimasi in quella miseri e profani,
di quella usciron faccendo gran duoli,
li suoi seguendo pe' luoghi silvani;
e così tristi per diversi stuoli
lasciar di Bacco e d'Ercule la terra
nelle man di Teseo in tanta guerra.

72

Al buon Teseo non piacque seguitare
que' che fuggien, ma tosto se ne gio
inver la terra, de la qual nello entrare
nessuno incontro con arme gli uscio.
Passato adunque dentro, ad ammirare
cominciò i templi di qualunque iddio,
l'antiche rocche di Cadmo cercando,
e l'altre cose mire riguardando.

73

E poi ch'egli ebbe vedute le cose
magnifiche a ciascun quelle guardante,
fuor se n'uscì, e a le sue vogliose
genti di rubar quella rimirante
licenzia diè; ver è ched elli impose
che tutte salve sien le case sante
delli tebani iddii: per che cercata
fu tosto tutta e per tutto rubata.


Come Teseo fé sepellire Creon,
e concedette a le donne d'andare a sepellire cui esse volessero,
concedendo loro, oltre a questo, Tebe.


74

Teseo sé veggendo vincitore,
sopra Asopo il suo campo fé porre,
e de' vincenti chetato il romore,
del campo il corpo di Creon fé torre,
e con esequie degne grande onore
li fé, e fé la cenere riporre
dentro ad una urna, e poscia di Lieo
nel tempio in Tebe collocar la feo,

75

dicendo: – I' vo' che all'ombre infernali
possi di me miglior testimonianza
render, che quelli eccelsi e gran reali,
a' qua' negavi con grande arroganza
gli ultimi onori e' fuochi funerali,
di te non posson, per la tua fallanza. –
E questo fatto, a sé fece chiamare
le greche donne, e lor prese a parlare:

76

– Donne, gl'iddii a la nostra ragione
hanno prestata debita vittoria,
e però con dovuta oblazione
tenuti siam d'esaltar la lor gloria,
perciò mettete ad esecuzione
ciò che de' vostri faceste memoria;
date alli vostri re l'uficio pio,
secondo che avete nel disio.

77

E questo fatto, la terra prendete
che cagion fu di morte a' vostri regi,
e sì ne fate ciò che voi volete,
come di nido di tutti i dispregi;
sicuramente in quella andar potete,
ch'alcun non v'è ch'al gir vi privilegi. –
Le donne quasi liete il ringraziaro,
e quindi a fare il loro oficio andaro.


Come le donne, arsi i corpi e Tebe, si tornarono ad Argo.


78

Esse giron nel campo doloroso,
dove gli argivi re morti giaceano;
e ben che fosse a l'olfato noioso
per lo fiato che' corpi già rendeano,
non fu però a lor punto gravoso
cercar pe' morti che elle voleano,
in qua in là or questo or quel volgendo,
il suo ciascuna intra molti caendo

79

Il quale in prima non avean trovato
che, dopo molto pianto, mille volte
non si ristavan sì l'avean basciato,
usando ne' lor pianti voci molte,
qua' soglion far le donne a cotal piato;
quindi, de' corpi le parti raccolte,
prima ne' fiumi li bagnavan tutti,
poi li ponean sopra li roghi estrutti.

80

E sopra lor, carissimi ornamenti
quali a ciascun di lor si confacea,
arme, corone, scettri e vestimenti,
di quelle donne ciascuna ponea;
e dietro a tutto, con pianti dolenti,
ne' roghi ornati fuoco si mettea,
dicendo versi di maniere assai,
appartenenti tutti a tristi guai.

81

E 'n cotal guisa la turba piangente
co' fuochi i corpi morti consumaro,
e poi le cener diligentemente
dentro da l'urne, con dolore amaro,
ch'avean portate, miser di presente,
e per portarle ad Argo le serbaro;
ma prima giro in Tebe, e non potendo
altra vendetta far, la giro ardendo.

82

Quindi a Teseo tornate, una di loro
incominciò: – Valoroso signore,
della vendetta c'hai fatta in ristoro
del nostro inestimabile dolore,
grazie ti rendan l'iddii e coloro
c'hanno o avranno mai di ciò valore,
e noi, in ciò che femine han potere,
l'onestà salva, siamo al tuo piacere.

83

L'eccelsa gloria de' nostri reali,
che morti sono in questo tristo loco,
cui noi aspettavàn con triunfali
solennità, con doloroso foco
avèn tornata in ceneri, le quali,
ristrette tutte in vassello assai poco
ce ne portiamo; e tu riman con dio,
il quale adempia ciascun tuo disio.

84

Così sen giro; ma Teseo cercare
fatto avea il campo, e ciaschedun ferito
che fu trovato fatto medicare,
e ogni morto aveva sepellito;
e quindi a sé avea fatto recare
ciò ch'avean guadagnato, e quel partito
secondo i merti tra' suoi cavalieri,
liberamente el diede e volontieri.


Come Arcita e Palemone furono trovati e menati a Teseo.


85

Mentre li Greci i lor givan cercando,
e ruvistando il campo sanguinoso,
e' corpi sottosopra rivoltando,
per avventura in caso assai dubbioso
due giovani feriti dolorando
quivi trovaron, sanza alcun riposo;
e ciaschedun la morte domandava,
tanto dolor del lor mal gli agravava.

86

E' non eran da sé guari lontani,
armati tutti ancora, e a giacere;
i qua', come coloro a le cui mani
pervenner prima, udendo lor dolere,
gli vider, si pensar che de' sovrani
esser doveano; e ciò fecer vedere
le lucenti armi e loro altiero aspetto
che dio nell'ira lor facea dispetto.

87

E' s'appressaro ad essi e umilmente,
quasi già certi di lor condizione,
né disarmarli, come l'altra gente
nemica avevan fatta e cui in prigione
avevan messi; e poi benignamente
recatilisi in braccio, con ragione
gli ripigliavan del disperar loro;
e menarli a Teseo sanza dimoro.

88

I qua' Teseo come gli ebbe veduti,
d'alto affar li stimò, lor dimandando
se del sangue di Cadmo fosser suti.
E l'un di loro altiero al suo dimando
rispose: – In casa sua nati e cresciuti
fummo, e de' suo' nepoti semo; e quando
Creon contra di te l'empie arme prese,
fummo con lui, co' nostri, a sue difese. –

89

Ben conobbe Teseo nel dir lo sdegno
real ch'avean costor, ma non seguio
però l'effetto a cotale ira degno;
ma verso lor più ne divenne pio,
e co' medici suoi, con ogni ingegno,
fé sì che tutte lor piaghe guario;
e poi con gli altri in prigion li ritenne,
lor riservando al triunfo solenne.


Come Teseo triunfando tornò ad Attene.


90

Poi che parve a Teseo del ritornare,
distrutta Tebe e data sepoltura
a cui vi fu da dovergliele dare,
raccolti i suoi con diligente cura,
inver d'Attene si mise ad andare;
né prima fur vicini alle sue mura
che ciò ch'all'altra festa era mancato,
a quel punto trovaron ristorato.

91

Gli Atteniesi un carro li menaro
più ricco assai che 'l primo, e tutti quanti
generalmente inverso lui andaro
con allegrezza, e con solenni canti
di vittoria doppia il commendaro;
e 'n cotal guisa, andandoli davanti,
entrarono in Attene, e quivi Egeo,
suo vecchio padre, incontro li si feo.

92

Esso davanti al suo carro fé gire
Arcita e Palemon, presi baroni,
a' qua' facea tutti gli altri seguire
ch'avea nel campo presi per prigioni;
e dietro al carro faceva venire
di preda onusti i suoi commilitoni;
ma al carro d'ogni lato era ripieno
di donne assai che gran festa facieno.

93

A così alto e magnifico onore
Teseo vegnendo, Ipolita reina
li venne in petto, il suo alto valore
mostrando più che mai quella mattina;
la quale e' vide con allegro core,
e Emilia con lei, rosa di spina,
con altre donne assai e cavalieri,
li quali ora nomar non fa mestieri.

94

A cotal festa e sì lieto sembiante
fu Teseo ricevuto e onorato
da tutti i suoi, e così triunfante
quasi per tutto con gioia menato;
ma com di Marte al tempio fu davante,
quivi li piacque che fosse arrestato
il carro suo, e in terra discese,
e 'n quello entrò a tututti palese.

95

Lì si fé dare l'arme che a Creonte
avea nel campo teban dispogliate,
e a Marte l'offerse, e dalla fronte
con man le frondi di Pennea levate
diè similmente, e con parole pronte
delle vittorie da lui acquistate
grazie rendé a Marte copiose,
offerendoli vittime pietose.

96

Quindi uscì poi, e al mastro palagio
tornò, accompagnato dal suo padre;
quivi prendendo gioco e festa e agio,
alla reina le cose leggiadre
narrava ch'avea fatte e 'l suo disagio,
spesso assalito dalle luci ladre
di quella donna, che 'l mirava fiso;
per ch'esser li pareva in paradiso.


Come Teseo fece mettere in prigione Palemone e Arcita.


97

Riposato più giorni in lieta vita,
il buon Teseo si fé innanzi venire
il teban Palemone e 'l bello Arcita,
e ciascun vide molto da gradire
e nello aspetto di sembianza ardita;
per che pensò di farli ambo morire,
dubbiando che s'andare e' li lasciasse,
non forse ancora molto li noiasse.

98

Poi fra sé disse: «Io farei gran peccato,
nullo di loro essendo traditore»;
e in se stesso fu diliberato
che li terrà in prigion per lo migliore;
e tosto al prigioniere ha comandato
che ben li guardi e faccia loro onore.
Così da lui Arcita e Palemone
dannati furo ad etterna prigione.

99

Li prigion furon tutti incarcerati
e dati a guardia a chi 'l sapea ben fare;
e questi due furon riservati
per farli alquanto più ad agio stare,
perché di sangue reale eran nati;
e felli dentro al palagio abitare
e così in una camera tenere,
faccendo lor servire a lor piacere.


Qui finisce il secondo libro.



LIBRO TERZO

Sonetto nel quale si contiene uno argomento particulare del terzo libro.

Nel terzo a Marte dona alcuna posa
l'autore, e discrive come Amore
d'Emilia, bella più che fresca rosa,
a' duo prigion con li suoi dardi il core

ferendo, elli accendesse in amorosa
fiamma, mostrando poi l'aspro dolore
del soverchio disio e l'animosa
voglia di far sentire il lor valore.

E poi, pregando il figliuol d'Isione
il gran Teseo, suo amico caro,
Arcita fa fuor trarre di prigione;

e mostra i patti che con lui fermaro
e poi, preso congio da Palemone,
d'Attene il mostra uscir con duolo amaro.


Incomincia il libro terzo di Teseida.


1

Poi che alquanto il furor di Iunone
fu per Tebe distrutta temperato,
Marte nella sua fredda regione
con le sue Furie insieme s'è tornato
per che omai con più pio sermone
sarà da me di Cupido cantato
e delle sue battaglie, il quale io priego
che sia presente a ciò che di lui spiego.

2

Ponga ne' versi miei la sua potenza
quale e' la pose ne' cuor de' Tebani
imprigionati, sì che differenza
non sia da essi alli loro atti insani;
li qua', lontani a degna sofferenza,
venir li fero a l'ultimo a le mani,
in guisa che a ciascun fu discaro,
e a l'un fu di morte caso amaro.

3

In cotal guisa adunque imprigionati
i due Tebani, in supprema tristizia
e quasi più che ad altro al pianger dati,
del tutto d'ogni futura letizia
dovere aver giammai più disperati,
maladicean sovente la malizia
dello 'nfortunio loro, e 'l tempo e l'ora
ch'al mondo venner bestemmiando ancora,

4

morte chiamando seco spessamente
che gli uccidesse, se fosse valuto.
E in istato cotanto dolente
presso che l'anno avevan già compiuto,
quando per Vener, nel suo ciel lucente,
d'altri sospir dar lor fu proveduto;
né prima fu cotal pensiero eletto,
che al proposto seguitò l'effetto.


Il tempo prima, e poi come Arcita e Palemone s'innamorarono d'Emilia.


5

Febo, salendo con li suoi cavalli
del ciel teneva l'umile animale,
ch'Europa portò sanza intervalli
là dove il nome suo dimora aguale;
e con lui insieme graziosi stalli
Venus facea de' passi con che sale,
per che il cielo rideva tutto quanto
d'Amon, che 'n Pisce dimorava intanto.

6

Da questa lieta vista delle stelle
prendea la terra graziosi effetti,
e rivestiva le sue parti belle
di nuove erbette e di vaghi fioretti.
e le sue braccia le piante novelle
avean di fronde rivestite, e stretti
eran dal tempo gli alberi a fiorire
e a far frutto e 'l mondo ribellire.

7

E gli uccelletti ancora i loro amori
tututti avean cominciato a cantare,
giulivi e gai, nelle frondi e ne' fiori;
e gli anima' nol potevan celare,
anzi 'l mostravan con sembianti fori;
e' giovinetti lieti, che ad amare
eran disposti, sentivan nel core
fervente più che mai crescere amore.

8

quando la bella Emilia giovinetta,
a ciò tirata da propria natura
non che d'amore alcun fosse constretta,
ogni mattina, venuta l'aurora,
in un giardin se n'entrava soletta
ch'allato alla sua camera dimora
faceva, e 'n giubba e scalza gia cantando
amorose canzon, sé diportando.

9

E questa vita più giorni tenendo
la giovinetta semplicetta e bella,
con la candida man talor cogliendo
d'in su la spina la rosa novella,
e poi con quella più fior congiugnendo
al biondo capo fando ghirlandella,
avvenne nova cosa una mattina
per la bellezza di questa fantina.

10

Un bel mattin ch'ella si fu levata
e' biondi crin ravolti alla sua testa,
discese nel giardin, com'era usata:
quivi cantando e faccendosi festa,
con molti fior, su l'erbetta assettata,
faceva sua ghirlanda lieta e presta,
sempre cantando be' versi d'amore
con angelica voce e lieto core.

11

Al suon di quella voce grazioso
Arcita si levò, ch'era in prigione
allato allato al giardino amoroso,
sanza niente dire a Palemone,
e una finestretta disioso
aprì per meglio udir quella canzone,
e per vedere ancor chi la cantasse,
tra' ferri il capo fuori alquanto trasse.

12

Egli era ancora alquanto il dì scuretto,
ché l'orizonte in parte il sol teneva,
ma non sì ch'elli con l'occhio ristretto
non iscorgesse ciò che lì faceva
la giovinetta con sommo diletto,
la quale ancora esso non conosceva;
e rimirando lei fisa nel viso,
disse fra sé: «Quest'è di paradiso!».

13

E ritornato dentro pianamente
disse: – O Palemon, vieni a vedere:
Vener è qui discesa veramente!
Non l'odi tu cantar? Deh, se 'n calere
punto ti son, deh, vien qua prestamente!
Io credo certo che ti fia in piacere
qua giù veder l'angelica bellezza,
a noi discesa della somma altezza. –

14

Levossi Palemon, che già l'udiva
con più dolcezza che que' non credea,
e con lui insieme alla finestra giva,
cheti amenduni, per veder la dea;
la qual come la vide, in voce viva
disse: – Per certo questa è Citerea;
io non vidi giammai sì bella cosa
tanto piacente né sì graziosa. –

15

Mentre costoro, sospesi e attenti,
gli occhi e gli orecchi pur verso colei
tenendo fissi facevan contenti,
forte maravigliandosi di lei,
e del perduto tempo in lor dolenti
passato pria sanza veder costei,
Arcita disse: – O Palemon, discerni
tu ciò ch'io veggo ne' belli occhi etterni? –

16

– Che? – li rispose allora Palemone.
Arcita disse: – Io veggo in lor colui
che già per Danne il padre di Fetone
ferì, se io non erro, e in man dui
istral dorati tene, e già l'un pone
sovra la corda, e non rimira altrui
che me; non so se forse li dispiace
ch'io miri questa che tanto mi piace. –

17

– Certo – rispose Palemone allora
– il veggo, ma non so s'ha saettato
l'un, ché non ha più che uno in mano ora. –
Arcita disse: – Sì, e' m'ha piagato
in guisa tal che di dolor m'acora,
se io non son da quella dea atato. –
Allora Palemon tutto stordito
gridò: – Omè, che l'altro m'ha ferito! –

18

A quello omè la giovinetta bella
si volse destra in su la poppa manca;
né prima altrove ch'alla finestrella
le corser gli occhi, onde la faccia bianca
per vergogna arrossò, non sappiendo ella
chi si fosser color; poi, fatta franca,
co' colti fiori in piè si fu levata,
e per andarsen si fu inviata.

19

Né fu nel girsen via sanza pensiero
di quello omè, e ben che giovinetta
fosse, più che non chiede amore intero,
pur seco intese ciò che quello affetta;
e parendole ciò saper per vero
d'esser piaciuta, seco si diletta,
e più se ne tien bella, e più s'adorna
qualora poi a quel giardin ritorna.

20

Dentro tornaron li due scudieri,
poscia che videro Emilia partita;
e, stati alquanto con nuovi pensieri,
pria cominciò così a dire Arcita:
– lo non so che nel cor quel fiero arcieri
m'ha saettato, che mi to' la vita,
e sentomi fallire a poco a poco,
acceso, lasso! non so in che foco.

21

E non mi si diparte della mente
l'imagine di quella creatura,
né pensiero ho d'altra cosa niente;
sì m'è fissa nel cor la sua figura,
e sì mi sta nell'animo piacente,
ch'io mi riputerei somma ventura
s'io le piacessi com'ella mi piace;
e sanza ciò mai non credo aver pace. –

22

Palemon disse: – Il simile m'avene
che tu racconti, e mai più nol provai;
per che io sento al cor novelle pene,
tal ch'io non credo si sentisser mai;
e veramente io credo che ci tene
quel signore in balia, che già assai
volte udi' ricordar, cioè Amore,
ladro sottil di ciascun gentil core.

23

E dicoti che già sua prigionia
m'è grave più che quella di Teseo;
già più d'affanno nella mente mia
sento, ch'io non credea che questo iddeo
donar potesse; e gran nostra follia
a quella finestretta far ci feo,
quando colei cantava tanto vaga,
che già per lei di morte il cor si smaga.

24

Io mi sento di lei preso e legato,
né per me trovo nessuna speranza;
anzi mi veggo qui imprigionato
e ispogliato d'ogni mia possanza;
dunque che posso far che le sia in grato?
Nulla; ma ne morrò sanza fallanza;
e or volesse Iddio ch'io fossi morto!
Questo mi fora sommo e gran conforto.

25

Oh, quanto ne sarieno a tal fedita
gli argomenti esculapii buoni e sani!
Il qual dice om che tornerebbe in vita
con erbe i lacerati corpi umani.
Ma che dich'io, poi ch'Apollo, sentita
cotal saetta, che' sughi mondani
tutti conobbe, non seppe vedere
medela a sé che potesse valere? –

26

Così ragionan li due nuovi amanti,
e l'un l'altro conforta nel parlare;
né san se questa è dea ne' regni santi
che sia qua giù venuta ad abitare,
o se donna mondana; e li suoi canti
e le bellezze li fan dubitare;
per che, ignoranti di chi sì gli ha presi,
molto si dolgon, da dolore offesi.

27

Né escon delle sicule caverne,
allora ch'Eol l'apre, sì furenti,
ora le basse e ora le superne
parti cercando, li rabbiosi venti,
come costor delle parti più interne
producean fuor sospiri assai cocenti,
ma con picciole voci, perché ancora
era la piaga fresca che gli accora.

28

Continuando adunque il gir costei,
sola tal volta e tal con compagnia,
nel bel giardino a diporto di lei,
nascosamente gli occhi tuttavia
drizzava alla finestra, ove l'omei
prima di Palemone udito avia:
non che a ciò amor la costrignesse,
ma per veder se altri la vedesse.

29

E se ella vedeva riguardarsi,
quasi di ciò non si fosse avveduta,
cantando cominciava a dilettarsi
in voce dilettevole e arguta;
e su per l'erbe con li passi scarsi
fra gli albuscelli, d'umiltà vestuta,
donnescamente giva e s'ingegnava
di più piacere a chi la riguardava.

30

Né la recava a ciò pensier d'amore
che ella avesse, ma la vanitate,
che innata han le femine nel core,
di fare altrui veder la lor biltate;
e quasi nude d'ogni altro valore,
contente son di quella esser lodate,
e per quel di piacer sé ingegnando,
pigliano altrui, sé libere servando.

31

Li due novelli amanti ogni mattino,
nello apparir primier dell'aurora
levati, rimiravan nel giardino
per veder se in quel venuta ancora
fosse colei il cui viso divino
oltre ad ogni misura gl'innamora;
né di quel loco si potean levare
mentre lei nel giardin vedeano stare.

32

E' si credevan, mirandola bene,
saziar l'ardente sete del disio
e minor far le lor gravose pene:
e essi più dal valoroso iddio
Cupido si stringean nelle catene;
e or con lieto aspetto e or con pio
si dimostravan rimirando quella,
sol per piacere a lei quanto a loro ella.

33

E come avven che 'l dente del serpente
pria lede altrui con picciola morsura,
sé dilatando poi subitamente
offusca il membro della sua mistura,
poi l'uno a l'altro successivamente,
infin che 'l corpo tutto quanto oscura;
così costor di dì in dì, mirando,
d'amore il fuoco gieno aumentando.

34

E sì per tutto l'avevan raccolto,
che ogni altro pensier dato avea loco
e a ciascun già si parea nel volto
per le vigilie lunghe e per lo poco
cibo che e' prendean; ma di ciò molto
davan la colpa a l'allegrezza e 'l gioco
ch'aver soleano, e ora eran prigioni;
così coprendo le vere cagioni.

35

E da' sospiri già a lagrimare
eran venuti, e se non fosse stato
che 'l loro amor non volean palesare,
sovente avrian per angoscia gridato.
E così sa Amore adoperare
a cui più per servigio è obligato:
colui il sa che tal volta fu preso
da lui e da cota' dolori offeso.

36

Era a costor della memoria uscita
l'antica Tebe e 'l loro alto legnaggio,
e similmente se n'era partita
la 'nfelicità loro, e il dammaggio
ch'avevan ricevuto, e la lor vita
ch'era cattiva, e 'l lor grande eretaggio;
e dove queste cose esser soleano
Emilia solamente vi teneano.

37

Né era lor troppo sommo disire
che Teseo gli traesse di prigione,
pensandosi ch'a lor converria gire
in esilio in qualch'altra regione,
né più potrebber veder né udire
il fior di tutte le donne amazone;
ver è ch'uscir di lì per sommo bene
disideravano, e starsi in Attene.

38

Così costor da amor faticati,
vedendo questa donna, il loro ardore
più leve sostenean; poi ritornati,
partita lei, nel lor primo furore,
in lor conforto versi misurati
sovente componean, l'alto valore
di lei cantando; e in cotale effetto
nelli lor mal sentieno alcun diletto.

39

E non sappiendo ben chi ella fosse
ancora, un dì un lor fante chiamaro,
al quale Arcita ta' parole mosse:
– Deh, dinne per amore, amico caro,
sai tu chi sia colei che dimostrosse
l'altrieri a noi, cantando tanto chiaro,
in quel giardino? Haila tu mai veduta
in altra parte, o è dal ciel venuta? –

40

Il valletto rispose prestamente:
– Questa è Emilia, suora alla reina,
più ch'altra che nel mondo sia piacente;
la qual, perché ancor molto fantina,
al giardin se ne vien sicuramente,
sanza fallir giammai, ogni mattina;
e canta me' che mai cantasse Appollo,
e io l'ho già udita, e così sollo. –

41

Disser fra lor costoro: – E' dice il vero;
ell'è bene essa che n'ha tolto il core
e a lei volto ogni nostro pensiero;
e ciaschedun di noi albergatore
di pianti e di sospiri e di severo
tormento ha fatti e d'ogni altro dolore
con tanta forza sé fa disiare
con la bellezza che in lei appare! –

42

Così li due amanti con sospiri
vivevan tutto il giorno discontenti,
e vegnente 'l mattino i lor martiri
avevan sosta, infin gli occhi lucenti
vedean d'Emilia, che li lor disiri
ciaschedun'ora facean più ferventi;
e così visser mentre fu la state,
con doglia insieme e con soavitate.

43

Ma poi ch'al mondo tolse la bellezza
Libra ch'aveva donata Ariete,
li due amanti perder la dolcezza
che quietava lor focosa sete,
ciò è vedere la somma chiarezza
che gli teneva d'amor nella rete;
donde rimaser dolorosi forte,
chiamando giorno e notte sempre morte.

44

Il tempo aveva cambiato sembiante
e l'aere piangea tutto guazzoso;
secche eran l'erbe e spogliate le piante,
e 'l popol d'Eol correa tempestoso
or qua or là nel tristo mondo errante;
per che Emilia col viso amoroso,
lasciati li giardin, sempre si stava
in camera e del tempo non curava.

45

Allor tornarono i martiri e' pianti,
gli aspri tormenti e le noie angosciose
in doppio a ciaschedun de' due amanti,
e non vedevan né udivan cose
che lor piacesse; e così tutti quanti
si consumavano in pene dogliose;
e ciaschedun disperar si volea,
ma pure in fine se ne ritenea.

46

Grandi erano i sospiri e il tormento
di ciascheduno, e l'esser prigionati
vie più che mai faceva discontento
ciascun di loro, a tal punto recati;
e ogni giorno lor pareva cento
che fosser morti o quindi liberati,
e per lor solo e unico conforto
Emilia chiamavan, lor diporto.


Come Arcita fu tratto di prigione ad istanzia di Peritoo.


47

In questo tempo un nobil giovinetto,
chiamato Peritoo, venne a vedere
Teseo, suo caro amico; e con diletto
un dì si poser parlando a sedere;
e ragionando, a Teseo venne detto
de' due Teban li qua' facea tenere
imprigionati, Arcita e Palemone,
ciaschedun grande e nobile barone.

48

Allora Peritoo il prese a pregare
che li dovesse far veder costoro;
per che Teseo per lor fece mandare
e li si fé venir sanza dimoro.
Essi eran belli e di nobile affare,
e ben parea la gentilezza loro
nella forma e nell'abito ch'aveano,
posto ch'alquanto scolorati seano.
La forma e l'esser di Palemone.

49

Era Palemon grande e ben membruto,
brunetto alquanto e nello aspetto lieto,
con dolce sguardo e nel parlare arguto;
ma ne' sembianti umile e mansueto,
poi che fu innamorato, divenuto;
d'alto intelletto e d'operar secreto,
di pel rossetto e assai grazioso,
di moto grave e d'ardir copioso.


La forma e l'esser d'Arcita.


50

Arcita era assai grande ma sottile,
non di soperchio, e di sembianza lieta;
bianco e vermiglio com rosa d'aprile,
e' cape' biondi e crespi, e mansueta
statura aveva, e abito gentile;
gli occhi avea belli e guardatura queta;
ma nel parlar gran coraggio mostrava,
e destro e visto assai a chi 'l mirava.

51

Conobbe Peritoo, nel lor venire,
Arcita e 'ncontro li si fu levato,
e abbracciollo e cominciolli a dire:
– O caro amico, come se' tu stato
qui tanto sanza farlomi sentire,
ché l'uscir di prigion t'avre' impetrato?
Mal grado n'abbi tu, ché ti sta bene
d'avere avute queste e maggior pene. –

52

Poi si rivolse a Teseo, suo amico,
dicendo: – Se giammai per mio amore
nulla facesti, quel ch'ora ti dico
ti priego facci, dolce mio signore,
che questo Arcita, mio compagno antico,
facci che di prigione egli esca fore;
io ten sarò tutto tempo tenuto,
e elli, in ciò che per te fia voluto. –

53

Teseo rispose: – Dolce amico caro,
ciò che tu mi domandi sarà fatto,
ma odi come, non ti sia discaro.
I' 'l trarrò di prigion con questo patto,
che nel mio regno e' non faccia riparo,
né ci venga giammai per nessuno atto;
ch'io l'ho disfatto e tenuto in prigione,
perch'a dritto di lui ho sospeccione.

54

S'io cel prendessi, io gli farò tagliare
la testa sanza fallo immantanente;
però, se vuol cotal patto pigliare,
vada dove li piace di presente
per lo tuo amor, che lo mi fai lasciare;
ché altramente mai al suo vivente
uscito non saria di prigionia,
ben lo ti giuro per la fede mia. –

55

Peritoo disse: – E io vo' ch'elli il faccia
e te ringrazio di cotanto dono. –
E tosto i ferri da' piè li dislaccia,
e libero lui lascia in abandono.
Arcita s'inginocchia e sì l'abraccia,
dicendo: – Peritoo, dovunque io sono,
son tutto tuo, e ciò ch'io posso fare,
sol che ti piaccia a me tuo comandare. –

56

Poi se n'andò innanzi al gran Teseo,
ginocchion disse: – Nobil signore,
se per me cosa incontro a te si feo
giammai, perdona per lo tuo onore,
ch'altro per me al ver non si poteo;
il danno che m'hai fatto e 'l disinore
i' 'l ti perdono, e ti ringrazio assai
di questa grazia ch'agual fatta m'hai.

57

E in che che parte io me ne debba gire,
son tutto tuo, quando ti sia in piacere;
non men che vita avrò caro il morire
per te, pur che ci sia il tuo volere.
A così grande e fervente disire
mi pinge Amor, che m'ha nel suo potere,
e a te e a' tuoi sì obligato,
ch'io sarò sempre tuo in ogni lato. –

58

Teseo cotal parlar non intendea
donde venisse, ma semplicemente
di puro cuor le parole prendea;
e però fé venir subitamente
nobili doni, e disse li piacea
che, oltre a quel ch'è 'ntra lor convenente,
e' pigliasse que' doni e glien portasse,
e del patto e di que' si ricordasse.

59

Arcita, a cui niente avea lasciato
la misera fortuna, bisognoso
ebbe i don di Teseo non poco a grato,
e poscia, con uno atto assai pietoso,
piangendo prese da Teseo commiato,
e del palagio discese doglioso,
pensando al suo esilio che 'l doveva
privar di veder ciò che li piaceva.

60

Ma Palemon, vedendo queste cose,
quasi nel cor moriva di dolore
per la fortuna sua, che più noiose
cose serbava al suo misero core,
e pel compagno suo, al qual gioiose
credea novelle del comune amore;
e quasi prese nova gelosia
di ciò ch'ancor non aveva in balia.

61

Esso fu rimenato alla prigione,
e Peritoo se ne gì con Arcita
e disse: – Caro amico e compagnone,
la voglia di Teseo tu l'hai udita;
ben che 'l tempo sia duro e la stagione,
e' si pur vuol pensar della partita;
ben me ne pesa, e sappi, s'io potessi,
non vorrei mai da me ti dividessi.

62

Io sì ti donerò arme e destrieri
di gran valore, belle e ben fornite,
per te e anco per li tuo' scudieri;
e poi, dove vi piace, ve ne gite;
tu se' di nobil sangue e buon guerrieri,
nato di genti valenti e ardite,
e non potrai fallire ad alto stato:
dove ch'arrivi, e' ti sarà donato. –

63

Arcita li rispose lagrimando
e ringraziollo del proferto onore,
e poi li disse: – Bello amico, quando
la mia partita è a grado al signore,
io la farò; ma sempre lamentando
andrò la mia fortuna con dolore,
poi c'ho perduto ciò ch'al mondo avea,
e converrà che d'altrui servo stea.

64

E certo io non conosco a cui servire
con maggior fede e con minor fatica
io possa ch'a Teseo, che dal morire
mi tolse, presso alla mia terra antica;
ma poi non vuol, convemmi intorno gire,
né so che farmi e vie men ch'io mi dica.
Or foss'io qui rimaso per servente
di chi si fosse, e non vi dria niente!

65

Non sai tu, Peritoo, come l'andare
attorno per lo mondo pien d'affanni
m'è conceduto? E' ti de' ricordare
ch'ancor non son trapassati due anni,
che sei gran re per lo nostro operare
fur morti a Tebe, e gravissimi danni
n'ebber gli Argivi e popoli altri assai,
per che odiati sarén sempre mai.

66

E oltre a ciò l'iddii ne sono avversi:
come tu sai, antica nimistate
serva Giunon ver noi, e diè perversi
mali a color che passar questa etate;
e noi ancor perseguendo ha somersi,
come tu vedi, in infelicitate
estrema; e Ercul né Bacco n'aiuta,
per che io tengo mia vita perduta. –

67

Queste parole facea dire Amore;
ma Peritoo non le conosceva,
sì come que' che non sapea l'ardore
che per Emilia dentro l'accendeva;
e però pur con purità di core
lui confortava, e spesso li diceva:
– Deh, non pensar che ti fallin l'iddii
che tu non abbi ancor quel che disii.

68

Molti altri regni ci ha dove potrai
miglior fortuna attender pianamente,
così com'io; e tu udito l'hai
che del qui rimaner saria niente
il ragionare, e a me parve assai
ricever pur quand'io liberamente
ti trassi di prigion; sie valoroso,
ché Dio non mancò mai a virtuoso. –

69

Poscia che Arcita, doppio ragionando
con Peritoo, sentì che 'l rimanere
non avea luogo, in sé stette pensando;
e tornandoli a mente che vedere
Emilia non potrebbe, essendo in bando,
quasi vicin fu a dir di volere
innanzi la prigion che tale esilio,
sospignendolo amore a tal consilio.

70

Ma la ragion, che subita prevenne
alla volontà folle di costui,
con tre buoni argomenti appena il tenne,
dicendo: «Se tu di' questo ad altrui,
e' non fia detto: "Amore il ci ritenne",
ma: "Non credendo sé valer, per lui
donato s'è a questa gran viltate,
prima ch'abbia voluta libertate".

71

E oltre a questo, se di prigion fora
se', molte cose potranno avvenire
che in istato ti porranno ancora;
e se 'n palese non potrai venire
in questa terra, come vorresti, ora,
forse altro tempo ci potrai reddire;
e se non in palese, almeno ascoso,
tanto che veggi il bel viso amoroso.

72

E se e' fosse tanta tua ventura
che 'n altro regno ella si maritasse,
non ti sarebbe soperchia sciagura
se in prigione allora ti trovasse?
Il che s'avien, con sollecita cura
esser potrai là dovunque ella andasse;
e posto che sua grazia non acquisti,
pur la vedranno almen gli occhi tuoi tristi».

73

Questi consigli distolser Arcita
dal suo sconcio e reo intendimento,
e confortossi l'anima invilita,
in ciò sperando; e preso il guarnimento
da Peritoo proferto, fé partita,
sé offerendo al suo comandamento,
dove che fosse, e sé raccomandando,
co' suoi scudier se ne gì sospirando.


Come Arcita, preso commiato da Palemone, uscì d'Attene.


74

Da Peritoo partito, se ne gio
dov'era Palemone imprigionato,
e sì li disse: – Caro amico mio,
da te convien che io prenda commiato
e ch'io mi parta, contro al mio disio,
sì come fuor bandito e iscacciato;
né ci oserò, credo, tornar giammai,
ond'io morrò in dolorosi guai.

75

Io me ne vo, o caro compagnone,
con redine a fortuna abandonate,
e vorria inanzi certo esta prigione,
che isbandito usar mia libertate;
almen vedrei alla nuova stagione
colei che ha 'l mio core in potestate,
ché mai, partito, vederla non spero,
ond'io morrò di doglia, questo è 'l vero.

76

Io lascio l'alma qui innamorata
e fuor di me vagabundo piangendo
men vo, né so là dove l'adirata
fortuna mi porrà così languendo;
per ch'io ti priego, s'alcuna fiata
vedi colei per cu' i' ardo e incendo,
che tu le raccomandi pianamente
que' che morendo va per lei dolente. –

77

Mentre 'n tal guisa favellava Arcita,
Palemon sempre lagrimava forte,
dicendo: – Lassa, trista la mia vita!
Perché non mi confonde tosto morte,
acciò che prima della tua partita
fosse finita la mia trista sorte?
Ché sanza te in doglioso tormento
rimango, lasso! tristo e iscontento.

78

Ma tu, se savio se' sì come suoli,
dei di fortuna assai bene sperare
e alquanto mancar delli tuoi duoli,
pensando ch'assai puoi adoperare,
libero come se' di quel che vuoli,
là dove a me conviene ozioso stare:
tu vederai andando molte cose
ch'alleggeranno tue pene amorose.

79

Ma io, che sol rimango, a poco a poco
verrò mancando come cera ardente;
e ben che tal fiata mi dea gioco
il riguardare il bel viso piacente,
tutto mi fia uno accender più foco,
come a me più non dimorrà presente;
ond'io non so omai quel ch'io mi faccia,
e par che 'l cuore in corpo mi si sfaccia. –

80

Così piangean con amari sospiri
li due compagni forte innamorati,
e parean divenuti due disiri
di pianger forte, sì eran bagnati;
per che, tra lor crescendo i lor martiri,
da' lor valletti furon rilevati
e della lor follia forte ripresi
del mostrarsi d'amor cotanto accesi.

81

Allora i due compagni si levaro
per le parole de' loro scudieri,
e amenduni stretti s'abracciaro
di buono amor e di cuor volontieri,
e poco appresso in bocca si basciaro,
e più che prima nel lagrimar fieri,
con rotta voce si dissero addio.
E così quindi Arcita si partio.

82

Nulla restava a far più ad Arcita
se non di girsen via, e già montato
era a caval per far sua dipartita,
fra sé dicendo: «O lasso sconsolato!
Sol tanto fosse a Dio cara mia vita
ch'io solo un poco il viso dilicato
d'Emilia vedessi anzi 'l partire,
poi men dolente me ne potrei gire».

83

Passò i cieli allor quella preghiera,
e seguì tosto d'Arcita l'affetto,
ché quel giglio novel di primavera
sovr'un balcone appoggiata col petto
si venne a star, con una cameriera,
mirando il grazioso giovinetto
che in esilio dolente n'andava,
e compassione alquanto gli portava.

84

Ma esso dopo il priego alzò il viso,
incerto del futuro, e vide allora
l'angelico piacer di paradiso;
per ch'el disse con seco: «Omai se fora
di qui mi to' fortuna, e' m'è avviso
non poter male avere». E quindi ancora
la riguardò, dicendo: «Anima mia,
piangendo sanza te me ne vo via».

85

E così detto, per fornir la 'mposta
fattoli da Teseo, a cavalcare
incominciò; ma dolente si scosta
dal suo disio, il qual quanto mirare
poté il mirò, pigliando talor sosta,
vista faccendo di sé racconciare;
ma non avendo più luogo lo stallo,
uscì piangendo d'Attene a cavallo.


Qui finisce il terzo libro di Teseida.



LIBRO QUARTO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del quarto libro.

Dimostra il quarto dipartito Arcita
con greve tempo, e 'l suo ramaricare,
mutato il nome per sicura vita,
e di Boezia a Corinto l'andare;

e quindi appresso la sua dipartita,
e in Mecena poscia l'arrivare,
dove con Menelao con ismarrita
mente si pose per famiglio a stare.

Quindi ad Egina a Pelleo se ne vene,
e con lui non potendo lungamente
durar, non conosciuto entrò in Attene,

e di Teseo diventò servente;
quindi dimostra la vita che tene,
faccendol noto a Panfil primamente.


Incomincia il libro quarto del Teseida. E prima come Arcita con tempestoso tempo, mutatosi nome, ramaricandosi se ne va.


1

Quanto può fare il tempo più guazzoso,
cotanto allora il faceva Orione,
molto nel cielo allora poderoso
con le Pliade in sua operazione;
e Eol d'altra parte più ventoso
il faceva che mai, in quella stagione
ch'uscì d'Attena il doloroso Arcita
sanza speranza mai di far reddita.

2

Grande era l'acqua, il vento e 'l balenare
quel dì che Arcita si partì d'Attene,
dal termine costretto dell'andare,
posto che 'l dove e' non sapesse bene;
ma non pertanto, sol per sodisfare
a Peritoo, avendo ancora spene
del ritornar, dolente a capo chino
inver Boezia prese suo cammino.

3

Poco era ancor dalla terra partuto,
quand'elli a' suo' scudieri: – Amici cari,
io non intendo d'esser conosciuto,
mentre che duran questi tempi amari;
però che forse, se fosse saputo
là dov'io fossi, io non viverei guari;
e però non Arcita, ma Penteo
mi nominate in questo tempo reo. –

4

E poi con tempo iniquo camminando,
lo 'nnamorato Arcita si voltava
ispesse volte la città mirando,
e quindi, lei veduta, sospirava,
seco sovente così ragionando:
"Deh, quanto pò amor, poi che mi grava
partir del loco ch'io dovrei odiare,
se degnamente volessi operare!".

5

E quinci alla cagion che a ciò il traeva,
ciò era Emilia bella e graziosa,
subitamente l'animo volgeva;
onde con voce alquanto più pietosa,
fra sé parlando, misero diceva:
"O nobile donzella, o amorosa
più ch'altra fosse mai, esemplo degno
delle bellezze dello etterno regno,

6

dove, partendom'io contra volere,
posto che tu giammai non fosse mia,
essendo io tuo, ti lascio, o bel piacere?
Perché non m'era la prigion men ria,
potendo alcuna volta te vedere,
ch'avere il mondo tutto in mia balia
sanza di te, che io più che me amo,
né altra cosa ch'al mondo sia bramo.

7

Deh, se io fossi en la mia libertate
dimorato in Attene tanto ch'io
un poco pur la tua novella etate
avessi, omè, accesa del disio
del quale io ardo, credo in veritate
ch'io sentire' il lungo esilio mio
con men dolor, sentendo que' sospiri
in te per me c'ho per te, e' disiri.

8

Ma tu appena non conosci amore
non che tu m'ami, e però non ti cale
del mio intollerabile dolore,
né puoi compassione al mio gran male
portare; e ciò che mi dà duol maggiore
e con asprezza più il cor m'asale,
è che mi par vederti maritata
ad uom che mai non t'avrà più amata.

9

E così 'l mio fedele e buon servire
sarà perduto, e angosciosamente
lontano a te mi converrà morire.
Deh, or foss'io pur certo solamente
che per tal morte tu dovessi dire:
"Certo costui amò ben fedelmente;
e' me ne incresce!". Poi, dove ch'io gissi,
altro che ben non credo ch'io sentissi.

10

Deh, lasso me!, or che vo io cercando
ne' sospir dispietati e angosciosi,
che in me ognora van multiplicando,
ciò che esser non pò? O tenebrosi
regni di Dite, s'alcun tormentando
in voi tenete, dite che si posi,
poiché vivendo io son colui che porto
sol pena più che altro vivo o morto".

11

Poi ad Amor le sue voci volgea
con troppo più orribile favella
dolendosi di lui; poscia dicea:
"Omè, Fortuna dispietata e fella,
che t'ho io fatto che sì mi se' rea?
O Morte trista, vien, che 'l cor t'appella;
coniugni me, col tuo colpo feroce,
co' miei passati nella infernal foce".


Come Penteo pervenne in Boezia, e quel che disse vedendo Tebe disabitata.


12

Così piangendo con seco Penteo,
più doloroso assai che non appare,
il dì secondo del regno d'Egeo
uscì co' suoi, e cominciò a intrare
in quel nel qual già felice poteo,
cioè in Boezia; e dopo alquanto andare,
Parnaso avendo dietro a sé lasciato,
alla distrutta Tebe fu arrivato.

13

E' vide tutta quella regione
esser diserta allora d'abitanti,
per ch'elli incominciò: "O Anfione,
se tu, intanto che co' dolci canti
della tua lira, tocca con ragione,
per chiuder Tebe i monti circustanti
chiamasti, avessi immaginato questo,
forse ti saria suto il suon molesto.

14

Dove sono ora le case eminenti
del nostro primo Cadmo? Dove sono,
o Semelè, le camere piacenti
per te a quel che del più alto trono
governa il cielo, e per le qua' le genti
tebane mai non meritar perdono
da Iuno? E quelle dove son d'Almena,
che doppia notte volle a farsi plena?

15

Ove di Dionisio appaiono ora,
misero me, li triunfi indiani?
Deh, dove son gli eccelsi segni ancora
de' popoli silvestri libiani?
Nessun qui al presente ne dimora:
li re son morti, e voi, tristi Tebani,
dispersi gite, e 'n cenere è tornato
ciò che di voi fu già molto lodato.

16

Ov'è lo spesso popolo, ove Laio,
ove Edippo dolente, ove i figliuoli?
Ogni cosa ha distrutto il fuoco graio;
e per multiplicar li nostri duoli
con vergogna, le femine il primaio
v'accesero. O Iunon, dunque che vuoli
del nostro miser sangue più omai?
Non ti pare aver fatto ancora assai?

17

Piccola forza omai al tuo furore
finire ha luogo, ch'io e Palemone,
né altro più, del sangue d'Agenore
rimasi siamo; e elli è in prigione,
e io in tristo esilio; né piggiore
stato potresti donarci, o Iunone,
fuor se ci uccidi; e questo per conforto
disidera ciascun, d'esser già morto".


Come Penteo, partitosi di Boezia, andò a Corinto, e quindi in Mecena.


18

E detto ciò, con ira sospirando,
da quella torse il viso disdegnoso,
co' suo' scudieri inver Corinto andando;
nella qual giunto, assai piccol riposo
fece, ma ver Mecena cavalcando,
in essa quasi fuor di sé pensoso
pervenne, e quivi così sconosciuto
a servir Menelao fu ricevuto.

19

Egli era ancora molto giovinetto,
sì come il barba non aver mostrava;
bello era assai e di gentile aspetto,
e a gran pena quel ch'era celava;
ben l'avea fatto alquanto palidetto
l'amorosa fatica che portava,
ma non sì ch'elli molto non piacesse
a chiunque era que' che lui vedesse.

20

Egli era già vicin d'uno anno stato
con Menelao in gran doglia e tormento,
né mai, ben che n'avesse domandato
celatamente, del suo intendimento
niuna cosa n'aveva spiato;
per che ad Egina li venne in talento
d'andar, là dove reggeva Pelleo,
e, concedendol Menelao, il feo.

21

Quivi sperava di potere udire
d'Emilia novelle tal fiata;
questa sola cagion vel fece gire.
Elli avea già la forma sì mutata,
né di sé cosa alcuna sentia dire,
sì ch'a fidanza con la sua brigata
prese 'l cammino e gissene ad Egina,
là dove giunse la terza mattina.


Come Penteo in guisa di povero valletto si pose a stare con Pelleo.


22

Quivi in maniera di pover valletto,
non delli suoi maggior ma compagnone,
al servigio del re sanza sospetto
fu ricevuto e messo in commessione
e ubidendo a ciò che gli era detto,
si fece a modo che un vil garzone,
acciò che e' potesse lì durare,
fin che fortuna li volesse atare.

23

Quivi con seco sovente piangeva
la sua fortuna e la sua trista vita,
e spesse volte con sospir diceva:
"Ahi, doglioso più ch'altro e tristo Arcita!
Se' fatto fante, laddove soleva
esser tua casa di fanti guarnita;
così fortuna insieme e povertate
t'ha concio, e il voler tua libertate.

24

Per libero esser, più servo che mai
se' divenuto, misero dolente!
Ahi, real sangue, che vitupero hai
sed e' mi conoscesse questa gente!
Certo per mio peccar nol meritai,
ma di Creon la dispietata mente
di questo, lasso!, m' è cagione stato,
e ancor dello stare imprigionato".

25

Così senza nell'animo riposo
aver giammai, in doglia sempre stava;
e l'esser già istato glorioso
vie più che gli altri danni il tormentava;
e vorria inanzi sempre bisognoso
essere stato e in vita trista e prava,
ch'avere avuto tal fiata bene
e ora sostener noiose pene.

26

E ben che di più cose e' fosse afflitto
e che di viver gli giovasse poco,
sopra ogn'altra cosa era trafitto
d'amor nel core, e non trovava loco;
e giorno e notte sanza alcun respitto
sospir gittava caldi come foco,
e lagrimando sovente doleasi,
e ben nel viso il suo dolor pareasi.

27

Egli era tutto quanto divenuto
sì magro, che assai agevolmente
ciascun suo osso si saria veduto;
né credo ch'Erisitone altramente
fosse nel viso che esso paruto
nel tempo della sua fame dolente;
e non pur solamente palido era,
ma la sua pelle parea quasi nera.

28

E nella testa appena si vedeano
gli occhi dolenti; e le guance, lanute
di folto pelo e nuovo, non pareano;
e le sue ciglia pelose e acute
a riguardare orribile il faceano
le come tutte rigide e irsute;
e sì era del tutto tramutato,
che nullo non l'avria raffigurato.

29

La voce similmente era fuggita
e ancora la forza corporale;
per che a tutti una cosa reddita
qua su di sopra dal chiostro infernale
parea, più tosto ch'altra stata in vita;
né la cagion onde venia tal male
giammai da lui nessun saputa avea,
ma una per un'altra ne dicea.

30

Come d'Attene lì nessun venia,
onestamente e con savio parlare
di molte cose domandandol pria,
d'Emilia trascorrea nel ragionare,
addomandando s'ella fosse o fia
nelli tempi vicin per maritare,
e d'altre cose circustanti molte;
ben che ciò gli avenisse rade volte.


Come e perché Penteo si dispose di tornare ad Attene.


31

Ma i dolenti fati, i qua' tirando
gian d'una in altra miseria costui,
vegnendosi il suo fine appropinquando,
con poca festa rallegraron lui,
diversamente l'opere menando
quando per esso e quando per altrui;
fin ch'al veduto termine pervenne,
dove si ruppe il fil che 'n vita il tenne.

32

Per avventura un dì, come era usato,
Penteo soletto alla marina gio,
e 'nverso Attene col viso voltato
mirava fisamente e con disio;
e quasi il vento ch'indi era spirato
più ch'altro li pareva mite e pio,
e ricevendol dicea seco stesso:
"Questo fu ad Emilia molto appresso".

33

E mentre che 'n tal guisa dimorava,
una barchetta dentro al porto entrare
vide; laonde ad essa s'appressava,
e cominciò di loro a domandare
donde venisse; e un che 'n essa stava
disse: – D'Attene, e là crediam tornare
assai di corto; s'tu vorrai venire,
qui su potrai con esso noi salire. –

34

A cotal voce sospirò Penteo;
poi, tratto quel da parte, pianamente
il domandò che era di Teseo,
e di più cose diligentemente,
a le qua' tutte que' li sodisfeo;
ma poi della reina ultimamente
e della bella Emilia domandando,
così que' li rispose al suo domando.

35

– Qualunque dea nel cielo è più bella,
nel cospetto di lei parrebbe oscura;
ell'è più chiara che alcuna stella,
né dicesi che mai bella figura
fosse veduta tanto come quella;
ver è che per la sua disaventura
l'altrier morì Acate, a cui sposa
esser doveva quella fresca rosa. –

36

E altre cose molte più li disse,
le qua' misor Penteo in gran pensiero;
e 'l tramortito amor quasi rivisse,
e il disio più focoso e più fiero
parve subitamente divenisse;
né ciò li parve a sostener leggiero,
e in sé conobbe che 'n tal disiare
non potrebbe or, come già fé, durare.

37

E' si sentiva sì venuto meno,
ch'appena si poteva sostenere;
onde, se a quelle pene che 'l coceno
nol medicasse l'Emilia vedere,
assai in brieve lui ucciderieno;
per che diliberò pur di volere
in ogni modo tornare ad Attene
ad alleggiare o a finir sue pene

38

fra sé dicendo: "Io son sì trasmutato
da quel ch'esser solea, che conosciuto
io non sarò, e vivrò consolato,
me ristorando del mal c'ho avuto,
vedendo il bello aspetto ove fu nato
il disio che mi tene e ha tenuto;
e s'al servigio di Teseo potessi
esser, non so che poi più mi chiedessi.

39

Se forse è sì crudel la mia ventura
ch'io sia riconosciuto, e' m'è il morire
vie più grazioso che vita sì dura,
come io fo in sempre mai languire".
Poi in su tal proposta s'asicura
e si dispon del tutto a ciò seguire;
e mille anni gli par che a ciò sia,
tanto vedere Emilia disia.


Come Penteo tornò in Attene.


40

E' non tardò di metter ad effetto
cotal pensiero, anzi commiato prese,
e 'nver di quella navicò soletto;
e 'n pochi giorni lì giunto discese
in maniera di povero valletto,
e in Attene con tema si mise;
e acciò ch'elli Emilia vedesse,
stette più dì, né fu chi 'l conoscesse.

41

Quando s'avide ben ch'era del tutto
fuor delle menti di tutte persone,
e che l'angoscia e 'l doloroso lutto
ora li torna in consolazione,
disse fra sé: "Ancor sentirò frutto
della mia lunga tribulazione;
e la fortuna, a me stata nemica,
sotto altro aspetto mi fia forse amica".


Come Penteo andò nel tempio d'Apollo ad adorare.


42

Quinci agli eccelsi templi se ne gio
del grande Appollo, e 'nnanzi alle sue are
s'inginocchiò, e con sembiante pio
volendo quivi li suoi prieghi dare,
subito pianto molto lo 'mpedio,
venutoli da nuovo memorare
quel che già fu e quel che egli ora era
poi cominciò in sì fatta maniera:

43

– O luminoso Iddio che tutto vedi,
il cielo e 'l mondo e l'acque parimente,
e con luce continua procedi
tal che tenebra non t'è resistente,
e sì tra noi col tuo girar provedi
ched e' ci vive e nasce ogni semente,
volgi ver me il tuo occhio pietoso
e questa volta mi sie grazioso.

44

A me non legne, non fuoco, né incenso,
non degno armento a la tua deitate,
non lauree corone, e or pur censo
mi fosse a sodisfar necessitate;
e quinci vien che con giusto compenso
non son da me le tue are onorate,
e tu il ti vedi, ché di ciò ingannare
non ti potrei, perch'i' 'l volessi fare.

45

Di lagrime, d'affanni e di sospiri,
d'ogni infortunio e povertate intera
son io fornito, e ancor di disiri
d'amor, vie più che bisogno non m'era;
di questi a te che l'universo giri
fo sacrificii con nuova maniera;
prendili per accetti, io te ne priego,
e al mio domandar non metter niego.

46

Sì come te alcuna volta Amore
costrinse il chiaro cielo abandonare
e lungo Anfrisio, in forma di pastore,
del grande Ameto a gli armenti guardare,
così or me il possente signore
qui in Attene ha fatto ritornare,
contra 'l mandato che mi fé Teseo,
allor ch'a Peritoo mi rendeo.

47

E ben ch'angoscia transformato m'abbia,
e 'l nuovo nome, di ciò ch'io solea
altra volta esser, la smarrita labbia
priego mi servi o nuova in me la crea,
sotto la qual coverta la mia rabbia,
vedendo Emilia, contento mi stea,
e a servir Teseo sia ricevuto,
sanza mai esser lì riconosciuto.

48

Se ciò mi fai, e io sia rivestito
giammai del mio, sì come tu se' degno
t'onorerò. – E fu esaudito
d'ogni suo priego, e cognobbene segno;
per che dal tempio tosto dipartito,
a fornir sua intenzion lo 'ngegno
pose, e pensò come fatto venisse
ch'esser potesse che Teseo servisse.


Come Penteo fu ricevuto al servigio di Teseo,
e come elli prima rivide Emilia, da lei solamente riconosciuto.


49

Com'elli avea con seco immaginato,
così lo immaginar seguì l'effetto;
e s'elli avesse a lingua dimandato
non gli saria sì ben venuto detto,
però che fu con Teseo allogato,
né fu dell'esser suo preso sospetto,
né domandato fu chi fosse o donde:
così gli andaron le cose seconde!

50

E' non fu prima a tal partito giunto,
che 'l suo aspetto un pochetto più chiaro
si fé che pria parea così compunto,
e dipartissi il suo dolore amaro
il qual l'avea col lagrimar consunto,
e le sue membra forze ripigliaro;
ma tutte altre allegrezze furon nulla
a petto a quando vide la fanciulla.

51

Teseo, faccendo una mirabil festa,
tra l'altre donne Emilia fé venire,
la qual più ch'altra leggiadra e onesta,
piacevol, bella e molto da gradire,
ornata assai in una verde vesta,
tal che di sé ciascuno uom facea dire
lode maravigliose, e tal dicea
che veramente ell'era Citerea.

52

Ma oltre a tutti gli altri con disio
la rimirava più lieto Penteo,
dicendo seco: – O Giove, sommo iddio,
se e' mi fa omai morir Teseo,
alli tuoi regni me ne verrò io;
omai non mi può nuocer tempo reo,
e di buon cuor perdono alla fortuna
se mai di mal mi fece cosa alcuna,

53

poi ch'ella m'ha condotto a cotal porto,
ch'io veggio il chiaro viso di colei
ch'è sommo mio diletto e mio conforto.
Fuggan da me e sospiri e gli omei,
fugga 'l disio ch'aveva d'esser morto,
siemi ben sommo il rimirar costei;
questo mi basti. – E sì dicendo, fiso
sempre mirava l'angelico viso.

54

Maggior letizia non credo sentisse
allor Tereo quando li fu concesso
per Pandion che Filomena en gisse
alla sua suora in Trazia con esso,
che or Penteo; ma come ch'avenisse,
essendogli ella non molto di cesso,
inver di lui alquanto gli occhi alzati,
ebbe li suoi di botto affigurati.

55

Mirabil cosa a dir quella d'amore,
che rade volte è che la cosa amata,
quantunque ella abbia male abile core
d'esser per tale obietto innamorata,
pur nella mente porta l'amadore;
e quantunque ella si mostri adirata,
non le dispiace, e se non ama altrui,
poco o assai conven ch'ami colui.

56

Era, com'è già detto, giovinetta
Emilia tanto, ch'ella non sentia
quanto nel core amor punge o diletta,
allor ch'Arcita pria se n'andò via
le' rimirando, come su si detta;
il quale, ancor che la fortuna ria
così deforme l'avesse renduto,
da essa sola fu riconosciuto.

57

Ella nol vide prima che ridendo
con seco disse: "Questi è quello Arcita
il quale io vidi dipartir piangendo.
Ahi, misera dolente la sua vita!
Che fa e' qui? Or che va e' caendo?
Non conosc'el che se fosse sentita
la sua venuta da Teseo, morire
gli converrebbe o in prigion reddire?".

58

Vero è che tanto fu discreta e saggia,
che più di ciò non parlò ad alcuno,
e a lui fa sembianti che non l'aggia
giammai veduto più in loco nessuno;
ma ben si maraviglia quale scaggia
di bianco l'abbia così fatto bruno
e dimagrato, che par pur la fame
nel suo aspetto e pien di tutte brame.

59

Incominciò il nobile Penteo,
ammaestrato da fervente amore,
sì a servir sollecito a Teseo
e ad ogni altro per lo suo valore,
ch'elli in tutto suo segreto il feo,
amando lui più ch'altro servidore;
e 'l simile l'amava la reina
di buono amor, e ancor la fantina.

60

E ben che la fortuna l'aiutasse
e fosse a lui benigna ritornata,
mai dal diritto senno lui non trasse,
né 'l fece folleggiare una fiata;
e posto che ferventemente amasse,
sempre teneva sua voglia celata,
tanto ch'alcun non se ne accorse mai,
ben che facesse per amore assai.

61

Come io dico, saviamente amava,
né si lasciava a voglia trasportare,
e a luogo e a tempo rimirava
Emilia bella, e ben lo sapea fare;
e ella savia talor se ne addava,
mostrando non saper che fosse amare;
ma pur l'età già era innanzi tanto,
che ella conoscea di ciò alquanto.

62

Esso cantava e faceva gran festa;
faceva pruove e vestia riccamente,
e di ghirlande la sua bionda testa
ornava e facea bella assai sovente;
e 'n fatti d'arme facea manifesta
la sua virtù, che assai era possente;
ma duol sentiva, in quanto esso credea
Emilia non sentir per cui il facea.

63

Né e' non gliele ardiva a discovrire,
e isperava e non sapea in che cosa,
donde sentiva sovente martire;
ma per celar ben sua voglia amorosa,
e per lasciar li sospir fuori uscire
che facean troppo l'anima angosciosa,
avea in usanza tal volta soletto
d'andarsene a dormire in un boschetto.

64

E questo aveva in costuma di fare
nel tempo caldo, ch'era fresco il loco,
e era sì rimoto da l'andare
di ciaschedun, che ben poteva il foco
d'amor con voci fuor lasciare andare
e a sua posta lungamente e poco;
e non era lontano alla cittate
oltre tre miglia giuste misurate.

65

Egli era bello, e d'alberi novelli
tutto fronzuto e di nova verdura;
e era lieto di canti d'uccelli,
di chiare fonti fresche a dismisura,
che sopra l'erbe facevan ruscelli
freddi e nemici d'ogni gran calura;
conigli, lepri, cervi e cavriuoli
vi si prendean con cani e con lacciuoli.

66

Come io dico, in quello assai sovente,
quando con arme e quando senza, gire
Penteo usava, e 'n su l'erba ricente
sotto un bel pin si poneva a dormire,
a ciò invitato da l'acqua corrente
che mormorava; ma del suo disire
focoso, in prima che s'adormentasse,
con Amor convenia si lamentasse.

67

E cominciava così a parlare:
– Io non pensava, Amor, che tu potessi
tanto in un cuor d'uno uomo adoperare,
ch'al piacer d'una donna sì 'l traessi,
ch'ogni altra cosa il facessi obliare,
e in potenzia di lei tutto il ponessi,
come hai posto tutto quanto il mio,
che altro che servirla non disio.

68

Ma tu m'hai fatto in alcun caso torto,
però ch'io amo e non son punto amato,
ond'io non spero mai d'aver conforto;
e haimi sì tutto l'ardir levato,
che dir non l'oso, e tu te ne se' accorto,
perché troppo m'hai posto in alto lato
a quel ch'a mia fortuna si convene,
ché non son ricco d'altro che di pene.

69

Deh, quanto mi saria stata più cara
la morte ch'aspettar la tua saetta!
Oh, quanto dicer può che l'abbia amara
qualunque è que' che dolente l'aspetta,
però che in essa poco ben ripara
a rispetto del mal che ella getta!
E però s'io mi dolgo, io ho ragione,
vedendo me legato in tua prigione.

70

Ma tu se' tanto e tal, caro signore,
ch'ogni mia doglia puoi volvere in pace,
faccendo ch'ella mi senta nel core
quale essa dentro al mio sentir si face;
e io, sì come umil servidore,
ti priego il facci, Amor, se e' ti piace.
Deh, chi sarà di me poi più contento,
se per me pruova quel ch'io per lei sento?

71

Io viverò tutto tempo gioioso,
né biasmerò giammai tua signoria;
io ti farò sacrificio pietoso,
signor mio caro, della vita mia,
e sempre il tuo onore in grazioso
verso da me lieto cantato fia:
adunque fallo, se di me ti cale,
ch'io mi consumo per soverchio male. –

72

Questo ripete spesso con sospiri,
chiamando Emilia, e nel dir si contenta,
e quasi in mezzo delli suoi martiri
istanco tutto quivi s'adormenta;
e mentre il ciel co' suoi etterni giri
l'aere tien di vera luce spenta,
si stava, e sempre si svegliava allora
che da Titon partita ven l'Aurora.

73

Allor, sentendo cantar Filomena
che si fa lieta del morto Tereo,
si drizza, e 'l polo con vista serena
mirato un pezzo, lauda Penteo
la man di Giove d'ogni grazia piena,
che lavoro sì bello e grande feo;
poi ad Emilia il suo pensier voltava,
vedendo Citerea che si levava

74

mostrando innanzi al sol la sua chiarezza,
alla qual gli occhi d'Emilia lucenti
assomigliava e la mira bellezza;
e gli augelletti, del giorno contenti,
davan, cantando in su' rami, dolcezza,
per che a Penteo i pensier più cocenti
si facevano ognora, e più a quelli
dava gli orecchi, sì gli parean belli.

75

E quando aveva gran pezza ascoltato,
mirava inver lo cielo e sì dicea:
– O chiaro Febo, per cui luminato
è tutto il mondo, e tu piacente dea
del cui valor m'ha tuo figliuol piagato
vie troppo più che io non mi credea,
mettete in me sì del vostro valore,
che io non pera per soverchio amore.

76

Deh, date al mio amar fine piacente,
sì ch'io non moia per fedelmente amare;
per glovanezza Emilia non sente
che cosa sia ancora innamorare,
né come piace conosce niente,
se ad Amor non gliel fate mostrare;
e io non l'oso più fare assentire,
tanta è la mia paura del morire.

77

E così vivo in speranza dubbiosa,
e 'l mio adoperare è sanza frutto;
per ch'io ti priego, o Venere amorosa,
entrale in core omai, e me che tutto
son sanza fallo suo, fa che pietosa
senta, sì che si termini il mio lutto;
e tu, Febo, la fa tanto discreta,
che la mia voglia in sé ritenga cheta. –

78

E queste e altre più parole ancora
metteva in nota lo giovine amante;
ma poi che e' vedeva chiara l'ora
e le stelle partite tutte quante,
sanza far quivi più lunga dimora,
se ne veniva ad Attene festante,
e alla cambra del signor n'andava
per lui servir, se nulla bisognava.


Come Penteo, nel boschetto ramaricandosi, fu conosciuto da Panfilo.


79

Questa maniera teneva Penteo
molto sovente, fuor d'ogni paura,
e a grado servendo il gran Teseo,
di suo amore ognora avea più cura;
ma poco n'avanzava, e di ciò reo
li parea molto, onde di sua sventura
una mattina con greve parlare
così si cominciò a ramarcare:

80

– O misera Fortuna de' viventi,
quanti dai moti spessi alle tue cose!
Deh, come abbassi li sangui e le genti,
e quando vuoli ancora graziose
le vilissime fai, e non consenti
di legge avere in esse mervigliose,
sì come uom vede in me che son verace
esemplo del girar che fai fallace.

81

Di real sangue, lasso!, generato,
venni nel mondo d'ogni pena ostello,
e con gran cura in ricchezza allevato,
nella città di Bacco tapinello
vissi e con gioia tenni grande stato,
sanza pensare al tuo operar fello;
poi per l'altrui peccato, non per mio,
la gioia e 'l regno e 'l sangue mio perio.

82

E fui del campo per morto, doglioso
feruto, tolto e recato a Teseo,
il qual, sì come signor poderoso,
come li piacque, imprigionar mi feo;
quivi, per farmi peggio, l'amoroso
dardo m'entrò nel cor, focoso e reo,
per la bellezza d'Emilia piacente,
che mai di me non si curò niente.

83

E cominciai di novo a sospirare
per tal cagione, e a sostener pene;
né mi pareva assai avere a fare
di sostener di Teseo le catene,
delle qua' Peritoo mi fé cacciare;
onde convenne partirmi d'Attene,
credendo aver mio affar migliorato,
e di gran lunga il trovai piggiorato;

84

ch'io mi trovai povero e pellegrino
del regno mio cacciato, e per amore
gir sospirando a guisa di tapino;
e là dove altra volta fui signore,
servo divenni per lo gran dichino
della fortuna; e non potendo il core
più sofferir, da Pelleo fei partita,
Penteo essendo tornato d'Arcita.

85

E sì d'Emilia strinse la bellezza,
che di Teseo cacciai via la paura,
e qui mi misi per la mia mattezza
a ritornare con mente sicura,
essendo suo nemico; alla sua altezza
divenni servidor con somma cura,
sì ch'io Emilia vedessi sovente,
colei ch'è donna mia veracemente.

86

E essa, omè, del mio greve tormento
nulla si cura né pensa este cose,
sì che io servo vie peggio ch'al vento,
e stonne sempre in pene dolorose;
e or m'avesser sol fatto contento
d'un bel guardarmi le luci amorose!
Ma tu, crudel Fortuna, mi ci nuoci,
ch'ognor con nuovo foco più mi coci.

87

Di tanto sol seconda mi se' stata,
che 'l nome mio hai ben tenuto cheto;
e ha' mi ancor tanta grazia donata,
che al servir m'hai fatto mansueto;
e di Teseo la grazia m'hai prestata,
di che io son vivuto molto lieto;
ma tutto è nulla, s'Emilia non fai
che com'io l'amo conosca oramai.

88

Io ardo e 'ncendo per lei tutto quanto,
e dì né notte non posso aver posa,
ma mi consumo e in sospiri e 'n pianto;
né mi pò confortare alcuna cosa,
se non Emilia cui io amo tanto,
mostrandomi la sua faccia amorosa,
dalla qual, morto, lei mirando vita
riprendo, tanta speranza m'aita. –

89

Così di sopra da l'erbe e da' fiori
Penteo la sua fortuna biasimava
un bel mattin, nel venir degli albori.
Allor per avventura indi passava
Panfilo, ch'era l'un de' servidori
di Palemone, e intento ascoltava
dello scudiere il gran ramarichio
di sua fortuna e ancor del disio.

90

E fra se stesso si fu ricordato
chi fosse Arcita, e udì che Penteo
nel suo ramaricar s'era chiamato,
per che tantosto lo riconosceo,
e molto seco s'è maravigliato
com'elli avea la grazia di Teseo:
non disse nulla, ma ver la prigione
se ne tornò per dirlo a Palemone.

91

Ma il giovine Penteo, di ciò ignorante,
come ora fu in Attene sen venne,
e con allegro viso e con festante
al loco ove era il suo signor pervenne;
col qual di molte cose ragionante,
sì com'elli era usato, si ritenne;
poi, partito da lui, gì a sapere
s'un poco Emilia potesse vedere.


Qui finisce il libro quarto di Teseida.



LIBRO QUINTO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro quinto.

Marte, che troppo s'era riposato,
entrato in Palemon novo sospetto
il suo compagno udendo ritornato,
dimostra il quinto a lui entrar nel petto;

quindi dichiara lo 'ngegno trovato
a sprigionarlo dal savio valletto,
poi dal medico suo il mostra armato,
e lui orante conduce al boschetto.

Poscia le lor carezze, e 'l quistionare
d'ognun volere Emilia, e 'l fiero Marte
può chiaro assai chi più legge trovare;

quindi venendo Emilia d'una parte,
vedendo lor, Teseo fece chiamare,
il qual con patto lor, già noti, sparte.


Incomincia il libro quinto del Teseida. E prima come Palemone, pensoso rimaso in prigione, seppe che Arcita era tornato.


1

Rimase Palemon, partito Arcita,
com'è già detto di sopra, in prigione,
e poco cara aveva la sua vita,
tanta sentiva più sconsolazione
che altro, e simil per la dipartita
la qual già fatta avea il suo compagnone;
e 'l tempo suo in lagrime e sospiri
tutto spendeva, pien d'aspri martiri.

2

In parte paurosa gelosia
lo stimola che Arcita, dell'amore
d'Emilia forse rinvestito, sia
per suo sollecitar di prigion fore;
e quinci pensa ch'Arcita si fia
dileguato del mondo per temore
dell'aspra morte che Teseo dicea
di darli se lì giunger lo potea.

3

Poi d'altra parte lo stringeva assai
amor più che l'usato, e disiare
li facea ciò ch'a lui non parea mai
possibil di potere appressimare;
speranza d'altra parte li suoi guai
faceva alquanto più lievi passare;
così di cose varie si gravava
dentro al pensiero, e simil s'alleggiava.

4

E pur portava nel core speranza
che di prigion quando che sie uscirebbe,
della qual fuor, l'amor della sua amanza
sanz'alcun fallo crede acquisterebbe;
e quasi li parea sanza fallanza
ch'ancor per sua nel mondo la terrebbe;
e 'n cotal guisa sua vita menando,
viveva in doglia e 'n gioia talora stando.

5

Al qual Panfil, tornando del boschetto,
venne in prigione e d'una parte il trasse;
e ragionando con esso soletto,
molto il pregò che non si sconfortasse,
e poi li disse senza alcun difetto
come conobbe Arcita, e ciò che trasse
del suo parlare, e ch'e' servia Teseo
e faceasi per nome dir Penteo.

6

Maravigliossi Palemone assai,
e disse: – Panfil, guarda non errassi;
ché io non credo che Arcita mai
né tu né altri per qua lo scontrassi. –
Rispose Panfil: – Certo sì scontrai,
e ancora è nel boschetto e istassi,
e ben che sia molto transfigurato,
e' pure è desso, tanto l'ho mirato. –

7

Palemon disse allora: – Grande amore
e poco senno cel fa dimorare,
ché se venisse ad orecchie al signore,
tututto il mondo nol poria campare.
O sommo Giove, quanto l'amadore
al suo disio sé lascia tirare,
e quanti ingegni s'usan per venire
all'amoroso fin di tal disire! –

8

Poi disse a Panfil: – Guarda che non sia
sentito da nessun ciò che m'hai detto,
ché posto ch'elli a me per gelosia
sanza colpa di lui mi sia sospetto
per uscir di prigione, in fede mia
non vorre' io ch'egli avesse difetto;
se gl'iddii l'aman più che me non fanno,
abbiasi il pro' e mio si sia il danno. –


Come a Palemone venne del tutto in disio d'uscire di prigione, e il perché;
e come Panfilo trovò il modo.


9

Poi cominciò a pensar fortemente
sopra l'affar d'Arcita innamorato,
e crede che d'Emilia veramente
il lieto amore egli abbia guadagnato,
e poscia dice: "O me lasso dolente,
in che mal punto nel mondo fui nato!
Ch'io amo e sto in priglone, e altri face
quel ch'io faccendo poria sentir pace.

10

E or mi fosse un poco di speranza
rimasa, o mi venisse, dell'uscire
di questo loco! Io mi crederei, sanza
la doglia che io ho, gioia sentire,
e ancora la mia somma intendanza
sanz'alcun fallo crederei fornire;
ma sì m'è gran nemica la fortuna,
ch'io n'uscirò quando starà la luna!

11

E s'io di quinci uscissi per ventura,
da Arcita converria che io sapesse,
su buon cavallo e con forte armadura,
quel che tra lui e me esser dovesse
dell'amor della nobil creatura
che mi fa sentir pene così spesse;
e fermamente ella mi rimarrebbe,
o sopra il campo l'un di noi morrebbe.

12

Ma come avrei io ardir contro a lui,
che per uscirci giammai non tentai?
E el non cura lo star con colui
ch'è suo nemico per vederla, e mai
non ha posato di servire altrui
per servir lei; e io in trarre guai
ho speso il tempo, ov'io dovea più tosto
morir voler che sempre star nascosto".

13

E sì come Tesifone, chiamata
dal cieco Edippo nella oscura parte
dov'elli lunga notte avea menata,
a' due fratei del regno con su' arte
mise l'arsura, così a lui 'ntrata
con quel velen che 'l suo valor comparte,
d'Emilia aver, dicendo: – Signoria
né amore stan ben con compagnia. –

14

E subito così cambiò il pensiero,
e chiamò Panfil di cui si fidava,
e disse: – Amico, ora sappi per vero
che troppo qui l'adimorar mi grava,
e però fa che il mio dire intero
vegna, se puoi, sicch'io di questa prava
prigion mi parta e possa conquistare
per arme Emilia, se e' si può fare.

15

Questo pensier di novo m'è venuto
e sanza fallo il metterò ad effetto;
e se e' fia per ventura saputo
prima che sia con l'opera perfetto,
da me si dica che sia proceduto
ciò che farai, ché e' mi fia diletto
morire anzi che stare in tal tormento,
perciò ch'io fo il dì ben morti cento. –

16

Panfil rispose: – Caro signor mio,
morir per voi a me sarebbe vita,
e però penserò sì ch'al disio
di voi darò bene opera compita,
avvegnane che puote omai; ché s'io
ne dovessi morir, darovvi uscita
di questo loco; onde vi confortate
e di cuor lieto alquanto v'aspettate.

17

Elli uscì fori e gio in loco solo,
e 'nfra se stesso cominciò a pensare;
e pria li venne nel pensiero il volo
che Dedal fé con Icar per campare,
ma nol vide possibil; poi d'imbolo
s'immaginò lui di prigion cavare,
ma non li parve via ben ben sicura;
però non se ne mise in avventura.

18

Similemente pensò per denari
voler corromper le guardie vegghianti,
sentendo loro in generale avari;
ma mal pareali a fidarsi di tanti
quanti di nuovo lì venien vicari
sanza lunga dimora essere stanti;
e 'n brieve non vedea di poter fare
ciò che 'ntendea con le guardie trattare.

19

Ma pur li venne un modo in pensamento
che infra gli altri li parve migliore,
e dopo molto disaminamento
il si fermò con ordine nel core,
pensando che il suo intendimento
saria fornito e quel del suo signore;
al qual n'andò, là dov'era in prigione,
e così cominciò: – O Palemone,

20

e' non ha guar che qui venne Alimeto,
di medicina maestro sovrano,
uom d'alto senno e di vita quieto;
e so che esso fu nostro tebano,
e puolli l'uom ben dire ogni segreto
e da lui prender buon consiglio e sano:
questi ci fornirà il nostro fatto,
per mio avviso, e udite in che atto:

21

che voi v'infignerete esser malato
in sul mutar che le guardie si fanno,
e io avraggio ben lui informato
e avvisato dello nostro inganno,
e 'ncontanente a voi l'avrò menato,
perché e' curi voi del vostro affanno;
e' vestirà li miei panni, ma voi,
sì come mastro, vi vestite i suoi.

22

E sanza fare alcun dimostramento,
con lui fuor ve n'uscite baldanzoso,
e me lasciate qui sanza pavento
in vostro luogo, e dite ch'io riposo;
essi non fien di tanto avvedimento
che vi conoscan, se voi uscite oso;
poi se Arcita volete, soletto
voi il troverete nel lieto boschetto. –

23

– Tu hai ben detto – disse Palemone;
– però metti ad effetto queste cose. –
E malato si fece alla stagione
che Panfilo con lui insieme pose;
e Panfil, sanza far dimoragione,
ad Alimeto il loro affar dispose.
Egli era a Palemon fedele amico;
disse: – Io son presto, e farol com'io dico. –


Come Panfilo, inebriate le guardie, fece Palemone uscire di prigione.


24

Panfilo allor si cominciò a dolere
con que' ch'avean Palemon a guardare,
che 'l suo signore è infermo, e a sedere
con lor si puose, e fé vino arrecare
a gran dovizia, e cominciò a bere;
e però che non l'aveano a pagare,
sanza ordine nessun n'hanno cioncato,
tanto ch'ognun s'è bene inebriato.

25

Allora Panfil fé il mastro venire,
il qual vi venne molto lietamente,
e tosto de' suo' panni il fé vestire,
e Palemone ancor similemente
di que' del mastro fece rifornire;
e sanza più addimorar niente,
Palemon, fatto medico, assai lieto
fuor di prigione uscì con Alimeto.

26

Le guardie allora incontro li si fanno,
e del prigion domandan come stava,
e e' con fermo viso dello inganno
che Panfil fatto aveva, ben s'adava,
e disse: – Certo egli ha assai affanno,
ma al presente alquanto si posava;
però il lasciate questa notte stare,
domattina il verrò a ricercare. –


Come Palemone, uscito di prigione, andò armato al boschetto.


27

Lasciato adunque il suo buon servidore
Palemone in prigion, col suo maestro
se n'andò all'ostiere, e di bon core,
dimenticato già il tempo sinestro,
dormì alquanto, e già vegnenti l'ore
vicine al giorno su si levò destro;
e fattesi armi e buon caval ancora
prestar, quivi s'armò sanza dimora.

28

Alimeto sapeva il convenente,
sì come Palemon gli avea contato;
per ch'elli il lasciò fare, e prestamente
ben l'aiutò, però che n'era usato.
E quelli uscì d'Attene di presente,
e inverso il boschetto s'è avviato,
là dove Arcita allora si dormia
sicuro sì come faceva in pria.

29

Cheto era il tempo, e la notte le stelle
tutte mostrava ancora per lo cielo,
e 'l gran Chiron Aschiro avea, con quelle
che vanno seco, il pianeto che 'l gielo
conforta, il quale le sue corna belle
coperte aveva con lucente velo,
e quasi piena, ove Cenìt facea
il ciel, nel mezzo cerchio, rilucea.

30

Inver la qual, poi l'ebbe rimirata
alquanto, Palemon cominciò a dire:
– O di Latona prole inargentata,
che or meni i passi miei sanza fallire
con la tua luce meco accompagnata,
piacciati alquanto li miei prieghi udire;
e come in questo se' ver me pietosa,
così nell'altro mi sii graziosa.

31

Io vado tratto da quella fortezza
d'amor che trasse Pluto a innamorarsi
sopra Tifeo della tua gran bellezza,
allor che tu ne' prati con iscarsi
passi ten givi en la tua giovanezza
cogliendo i fiori per li campi sparsi.
Acciò che per battaglia io possa avere
l'amor di quella sol che m'è in calere,

32

guida li passi miei, come facesti
più volte in mar di Leandro i lacerti;
e sì col padre tuo fa che mi presti
quella virtù che fa gli uomini esperti;
e come tu del tuo lume mi vesti,
così da' colpi i membri fa coperti
che mi darà l'avversario potente,
sì ch'io di lui ne rimanga vincente. –


Come Palemone pervenne al bosco, ove trovò Arcita dormire.


33

E mentre che così dicendo andava,
giunse nel bosco per gli albori ombroso,
e con intento sguardo in quel cercava
acciò ch'Arcita trovasse amoroso;
e mentre in dubbio fortuna il portava,
s'avenne sopra il prato ove riposo
prendeva Arcita, ch'ancora dormiva
e Palemon vegnente non sentiva.

34

E poi che fu di sopra la rivera
sotto il bel pino infra le fresche erbette
che lì avea produtte primavera,
vide dormire Arcita; onde ristette,
e appressato quivi dov'egli era,
il rimirava, e a ciò molto stette;
e sì nel viso li parea mutato,
che non l'avrebbe mai raffigurato.

35

Ma Febea, che chiara ancor lucea,
co' raggi suoi il viso li scopria,
sicché aperto Palemon vedea
perché il risomigliarlo li fuggia;
ma poi ch'alquanto mirato l'avea,
in sé la sua effigie risentia,
per che disse fra sé: "Desso è per certo,
né 'l può celar la barba ond'è coverto".

36

E' nol voleva miga risvegliare,
tanto pareva a lui che e' dormisse
soavemente; ma si pose a stare
allato a lui, e così fra sé disse:
"O bello amico molto da lodare,
se al presente tu ti risentisse,
tosto fra noi credo si finirebbe
qual di noi due per donna Emilia avrebbe".


Come, risvegliato, Penteo si fece carezze con Palemone, e il loro ragionare.


37

E 'n questo il giorno a fare era già presso,
e a cantar gli uccelli han cominciato,
per che Penteo, risentendosi addesso,
in piè si fu prestamente levato.
Ver Palemon, che veniva verso esso,
con maraviglia tosto s'è voltato,
e disse: – Cavalier, che vai cercando
per questo bosco, sì armato andando? –

38

A cui tosto rispose Palemone:
– Cosa del mondo nulla altra cercava
se non di trovar te, o compagnone;
questo voleva e questo disiava,
e però sono uscito di prigione. –
E poi benignamente il salutava.
Penteo li rispose al suo saluto
e tostamente l'ha riconosciuto.

39

E 'nsieme si fer festa di buon core
e li loro accidenti si narraro;
ma Palemon, che tutto ardea d'amore,
disse: – Or m'ascolta, dolce amico caro;
io son sì forte preso del valore
d'Emilia bella col visaggio chiaro,
che io non trovo dì né notte loco,
anzi sempre ardo in amoroso foco.

40

E tu so ch'ancor l'ami similmente,
ma più che d'uno ella esser non poria;
per ch'io ti priego molto caramente
che tu consenta che ella sia mia;
e' mi dà 'l cuor di far sì fattamente,
se questo fai, che quel che ne disia
di lei 'l mio core avrò sanza tardanza;
lasciala dunque a me sol per amanza. –

41

Quando Penteo queste parole intese,
tutto si tinse e divenne fellone,
e d'ira dentro tutto il cor s'accese,
e poi rispose e disse: – Palemone,
e' ti puote esser certo assai palese
ch'i' ho messa mia vita a condizione
sol per poter ad Emilia servire,
cui io tanto amo, ch'i' nol poria dire.

42

Pero ti priego, se t'è la mia vita
niente cara, che quel che dimandi
tu il conceda al tuo parente Arcita,
il qual s'è messo a pericoli grandi
per procacciar di lei gioia compita;
e tu il sai se e' son ammirandi,
che uditi gli hai, raccontandotegli io:
fa dunque, caro amico, il mio disio. –

43

Palemon disse allor: – Veracemente
questa non è l'amistà ch'io credea
aver di te, poi sì palesemente
un don mi nieghi il quale io ti chiedea;
ma io ti giuro, per l'onipotente
Giove del cielo e per Venere dea,
che prima ch'io di qui faccia partenza,
co' ferri partirén tal differenza.

44

Però t'acconcia come me' ti piace
dell'arme omai, e tua ragion difendi,
ché di tal guerra non sarà mai pace,
poi quel di ch'io ti priego mi contendi,
e 'l core in corpo tutto mi si sface.
Perché tu peni e del campo non prendi
contra di me, che vincer o morire
per la mia donna porto nel disire? –

45

A cui Penteo disse: – O cavaliere,
perché vuo' por te e me in periglio
forse di morte (e non ti fa mestiere)?
Deh, noi possiam pigliar miglior consiglio,
che ciascun si procacci a suo potere
d'aver l'amor del grazioso giglio,
e a cui il concede la fortuna
colui se l'abbia sanza briga alcuna.

46

Tu sai che io son quiritto sbandito,
e tu hai rotta a Teseo la prigione;
però se 'l nostro affar fosse sentito,
non ci bisogneria far più ragione
d'Emilia bella col viso chiarito,
ma seremmo di morte a condizione;
e però piano amiamo intrambendui,
infin che Giove altro faccia di noi.

47

Forse le cose avranno mutamento,
e potremmo tornare in nostro stato;
o io partirmi e tu esser contento,
come fui io, da Teseo accettato,
e così alleggiarsi il tuo tormento;
o quello amor mancar che m'ha infiammato,
e sola Emilia a te si rimarebbe,
ch'essere in questo punto non potrebbe. –

48

Palemon più di ciò non volle udire,
anzi li disse tosto: – Vedi, Arcita,
se io dovessi qui oggi morire,
tra noi convien che ella sia partita;
chi me' saprà della spada ferire,
a lui rimanga la donna e la vita;
se tu mi fai per forza ricredente,
mai più non l'amerò veracemente. –

49

– Deh ! – disse Arcita, – Questo a dir che vene?
Pognàn che tu quiritta m'abbi morto,
che farai tu? Avrai tu minor pene?
Che ben te ne verrà o che conforto?
Io pur conosco che e' ti convene
in prigion ritornare, o, pel più corto
cammin che tu potrai, fuggirne via:
Emilia, poscia, che util ti fia?

50

E pognàm pur che tu fossi in amore
a Teseo com'io sono, è tua credenza
che le volesse te dar per signore?
Tu se' ingannato; egli ha più alta intenza!
Io sono stato e son suo servidore
quanto esser posso, e sempre sto in temenza,
dove ch'io sia, pur di rimirarla;
e tu come ardirai di domandarla?

51

E se io qui con fé ti promettessi
di non amarla, credi tu che fare
con tutto il mio ingegno io il potessi?
Certo più tosto sanza mai mangiare
crederei viver che d'amarla stessi;
e amor non si può così cacciare
come tu credi; e poco ama chi posa,
per impromessa, d'amare una cosa.

52

Dunque che vuoi pur far? Combatteremo,
e con le spade in man farén le parti
di quella cosa che noi non avemo?
Deh, perché lasci così abagliarti
al tuo folle consiglio? Omè, ch'io temo
lo 'mpedimento tuo, se non ti parti
prima che 'l giorno sia, né sicur sono,
s'io son riconosciuto, di perdono. –

53

– Di mia salute – disse Palemone,
– non aver tu pensier; del tutto, avanti
che io mi parta, la nostra quistione
si finirà, sì che l'un de' due amanti
solo d'amarla fia in possessione;
e' consigli che dai ho tutti quanti
esaminati meco, e son contento
più di morir che di vita in tormento.

54

Se tu fai quel ch'io cheggio, gelosia,
s'altro non me ne segue, avendo fede
in te come in amico, anderà via;
e ben nel tempo di ciò mi procede,
rendronne grazie alla fortuna mia;
dunque t'apresta, ché il mio cor crede
vittoria aver, se non vuogli altramente
in ciò far cosa che mi sia piacente. –

55

Allora disse Penteo sospirando:
– Omè, ch'io sento l'ira dell'iddii,
li quali ancor ne vanno minacciando
contrarii tutti alli nostri disii;
e la fortuna ci ha qui lusingando
menati con effetti lieti e pii,
e non Amore, a voler che moiamo
per le man nostre, come noi sogliamo.

56

Omè, che m'era assai maravigliosa
cosa a pensar che Iunon ci lasciasse
nostra vita menare in tanta posa,
e come i nostri noi non stimolasse,
de' quali alcun giammai a gloriosa
morte non venne, che si laudasse;
ond'io mi posso assai ramaricare,
vedendo noi a simil fin recare.

57

I primi nostri, che nacquer de' denti
seminati da Cadmo, d'Agenore
figlio, ver lor furon tanto nocenti,
che sanza riguardar fraterno amore
fra lor s'uccisero; e i can mordenti
Atteon disbranaron lor signore;
e Atamante i suoi figliuoli uccise,
tal Tesifone in lui fiera si mise!

58

Latona uccise i figliuoi d'Anfione
intorno a Niobè, madre dolente;
e la spietata nemica Iunone
arder fé Semelè miseramente;
e qual d'Agave e delle sue persone
fosse la rabbia, il si sa tutta gente;
e simile d'Edippo, il quale il padre
uccise e prese per moglie la madre.

59

Quai fosser poi fra loro i due fratelli,
d'Edippo nati, non cal raccontare:
il fuoco fé testimonianza d'elli,
nel qual fur messi dopo il lor mal fare
e 'l misero Creonte dopo quelli
molto non s'ebbe di Bacco a lodare;
or resta sopra noi, che ultimi siamo
del teban sangue, insieme n'uccidiamo.

60

E e' mi piace, poi che t'è in piacere,
che pure infra noi due battaglia sia;
io sarò presto a fare il tuo volere,
ma pria mi lascia addobbar l'arma mia
e ripigliare lo mio buon destriere;
quindi farén tutto ciò che disia
la mente folle che sì ti consiglia:
piangasi il danno a cui di ciò mal piglia. –

61

Isnellamente Penteo si fu armato,
se forse alcuna cosa li mancava,
e ebbe tosto il caval ripigliato,
e destramente sopra vi montava;
e inver Palemon si fu voltato,
che fiero e tutto ardente l'aspettava,
e sì li disse: – Omai, come ti piace,
prendi con meco o vuo' guerra o vuo' pace.

62

Ma siemi il ciel, che queste cose vede,
ver testimonio, e Appollo surgente,
e' Fauni e le Driade, se si crede
che 'n questo loco alcun ne sia possente;
e le stelle ch'io veggio faccian fede
come io son del combatter dolente,
e Priapo con esse, li cui prati
ci apparecchiàn di fare insanguinati.

63

Non mi si possa mai rimproverare
ch'io sia cagion di battaglia con teco;
tu mossa l'hai e tu pur la vuoi fare,
e pace schifi di voler con meco;
sallosi Iddio ch'io non poria lasciare
mai d'amar quella c'ha 'l mio cor con seco;
ma, così amando, volentier vorrei
con teco pace, e presto a ciò sarei. –


Come tra Penteo e Palemone, dopo lungo ragionare, si cominciò la battaglia.


64

Dette queste parole, nulla cosa
rispose Palemon, ma inanzi al petto
lo scudo si recò, quindi l'ascosa
spada nel foder trasse, e 'l viso eretto,
inver Penteo con voce orgogliosa
disse: – Or si parrà chi più diletto
avrà d'amare Emilia. – A cui Penteo:
– Tu di' il vero; – e 'nver di lui si feo.

65

E' non avevan lance i cavalieri,
e però insieme giostrar non potero;
ma con li spron punsero i buon destrieri,
e con le spade in man presso si fero
l'un verso l'altro, e sì si scontrar fieri,
che maraviglia fu, a dir lo vero,
e sì de' petti i cava' si feriro,
che rinculando a forza in terra giro.

66

Ma non pertanto il valoroso Arcita
su l'elmo con la spada a Palemone
diede un tal colpo, ch'appena la vita
li rimanesse fu sua oppinione,
e ben credette alla prima ferita
che terminata fosse lor quistione;
ma poi che sotto il buon destrier caduto
si vide, su si levò sanza aiuto.

67

E Palemon, nel cader del cavallo,
percosse il capo sopra il verde prato;
il che acrebbe il gran mal sanza fallo
ch'aveva per lo colpo a lui donato
dal buon Penteo, per che di quello stallo
non si moveva, anzi parea passato
di questa vita, e a giacer si stava;
e 'l buon Penteo ardito l'aspettava.

68

Ma poi che elli il vide pur giacere,
disse fra sé: "Che potrebbe esser questo?"
E sanza indugio lui gì a vedere,
e trovol che non era ancora desto
dello spasmo profondo, e 'n suo parere
disse: "Morto è, ché troppo li fu infesto
il colpo della mia spada tagliente,
di ch'io sarò tutto tempo dolente".

69

Elli il tirava degli arcion di fori
soavemente, e l'elmo li traeva,
e 'n su l'erbetta fresca e sopra i fiori
teneramente a giacer lo poneva;
e poi con man delli freschi liquori
del vicin rivo a suo poter prendeva,
e 'l viso li bagnava acciò che esso,
se fosse vivo, si sentisse addesso.

70

Ma Palemone ancor non si sentia,
per che Penteo piangeva doloroso,
dicendo: – Lassa omai la vita mia!
Morto è il mio compagno valoroso;
ma di ciò testimon Febo mi sia,
che io non fui di ciò volonteroso,
né mai battaglia con lui disiai.
O me dolente, perché mai amai?

71

S'io questa donna non avessi amata,
com'io faceva, di tutto mio core,
questa battaglia non sarebbe stata;
ma per difendere il leale amore
che io porto ad Emilia, è incontrata
l'aspra giornata piena di dolore;
or foss'io morto il giorno che a Teseo
prima tornai, nominato Penteo! –

72

E 'n questo punto tornò Palemone
in sua memoria e 'n piè si fu levato,
ché non aveva altro che stordigione
per lo gran colpo in sé di mal provato;
e come ardito e franco e buon campione,
davanti al petto lo scudo recato,
si vide presso che forte piangea
il buon Penteo, a cui così dicea:

73

– Leva su, cavalier, che io non sono
ancora vinto, perch'io sia abbattuto;
e se della tua spada il greve trono
mi spaventò, in me son rivenuto;
e non creder però aver perdono
da me, perché pietoso t'ho veduto;
e' ti convien con forza e con valore
combatter meco d'Emilia l'amore. –

74

Maravigliossi allor Penteo assai,
e dentro al cor nascose la sua ira,
e disse: – Palemon, gran ragione hai
di mal volere a chi per te sospira,
ma d'altra foggia ti sarò omai;
però come tu vuo' così ti gira,
prendi come ti piace ogni vantaggio,
ché di te vincer ho fermo coraggio. –

75

Ciaschedun chiama in suo aiuto Marte
e Venere e Emilia insiememente,
e imprometton doni; e d'altra parte
ciascun si reca dentro alla sua mente
la nobiltà, l'ardire e la molta arte
delle battaglie e 'l ferir prestamente
e l'uno inver dell'altro de' baroni
s'andarono a ferir come dragoni.

76

Li scudi in braccio e le spade impugnate,
sopra l'erbette l'un l'altro ferendo,
sanza aver più l'un dell'altro pietate,
si gieno i due baroni e ricoprendo:
tututte l'armi s'aveano spezzate,
per la lunga battaglia combattendo
e poco s'era ancora conosciuto
ch'alcun vantaggio fra lor fosse suto.


Come ai due combattenti Emilia sopravenne.


77

Ma come noi veggiam venire in ora
cosa che in mille anni non avvene,
così avvenne veramente allora
che Teseo con Emilia d'Attene
uscir con molti in compagnia di fora,
e qual di loro uccello e qual can tene,
e nel boschetto entraro, alcun cornando,
alcun compagni e alcun can chiamando.

78

E cominciar lor caccia e lor diletto,
e ciascun gia sì come li piacea
in qua in là per lo folto boschetto,
e chi uccelli e chi bestie prendea;
e in tal guisa, senza alcun sospetto,
con un falcone in pugno procedea,
per pervenire alla chiara rivera,
Emilia, ove per lei tal battaglia era.

79

Ell'era sopra d'un bel pallafreno
co' can dintorno, e un corno dallato
avea e dalla man contraria al freno,
dietro alle spalle, un arco avea legato
e un turcasso di saette pieno,
che era d'oro tratto lavorato;
e ghirlandetta di frondi novelle
copriva le sue treccie bionde e belle.

80

E sopravenne lì subitamente,
e s'arestò vedendo i cavalieri;
ma conosciuta fu immantanente
da ciaschedun delli due buon guerrieri;
li qua' però non ristetter niente,
ma ne divenner più forti e più fieri,
sì si raccese in ciaschedun l'ardore
della donzella ch'amavan di core.

81

Ella si stava quasi che stordita,
né giva avanti né 'ndietro tornava;
e sì per maraviglia era invilita,
ch'ella non si movea né non parlava,
ma poi ch'alquanto fu in sé reddita,
della sua gente a sé quivi chiamava,
e similmente ancor chiamar vi feo
a veder la battaglia il gran Teseo.

82

Il quale assai di maraviglia prese
chi fosser questi due che combatteano,
e a mirarli lungamente intese;
e stima ben che gran mal si voleano,
quando considerava ben l'offese
che essi insieme tra lor si faceano;
ma poi ch'egli ebbe assai ciascun mirato,
cavalcò oltre e lor si fu appressato.


Come Penteo e Palemone si palesassero a Teseo.


83

Poi disse loro: – O cavalier, se Marte
vittoria doni a chi più la disia,
ciascun di voi si tragga d'una parte,
e s'elli è in voi alcuna cortesia,
mi dite chi voi sete e chi in tal parte
a battaglia v'induce tanto ria,
secondo ne mostrate nel ferire
che fate l'uno a l'altro da morire. –

84

Li cavalier quando vider Teseo
e lui udiro a lor così parlare,
ciascuno indietro volentier si feo,
e vorrebbero avere a cominciare
quella battaglia; ma il buon Penteo
prima così rispose al dimandare:
– Noi siam duo cavalier che per amore
con le spade proviàn nostro valore. –

85

Disse Teseo: – Ditene chi sete. –
A cui Penteo: – Noi 'l farem volentieri,
se voi, caro signor, ne promettete
la pace vostra, se a noi fia mestieri. –
A cui Teseo rispose: – Vo' l'avete,
perch'io vi veggio sì pro' cavalieri,
e combattete ancor per tal cagione,
ch'offendervi saria contra ragione. –

86

Allora que' rispose prestamente:
– Io sono il vostro Penteo che vi parlo,
il qual con questo cavalier valente,
per troppo amor, volendo soperchiarlo,
battaglia fo; e e' me similmente
vuol soperchiar, perch'io accompagnarlo
voglio ad amar; chi e' sia, ecco lui
che vel dirà assai me' che altrui. –

87

A Palemon pareva male stare;
ma non pertanto e' cacciò la paura
e disse: – Siri, io nol posso celare
chi io mi sia, e ancor mi sicura
vostra virtù che non vorrete usare
la vostra forza contro alla mia pura
mente, che per amor fuor di prigione
usci', e sono il vostro Palemone. –

88

Teseo, udendo nominar costoro,
prima sdegnò, poi ringraziolli assai
che s'eran nominati, e disse loro:
– Deh, non vi spiaccia, ditemi oramai
come Cupido con lo stral dell'oro
amendun vi ferì di pari guai,
con ciò sia cosa che l'un vien d'Egina,
l'altro fu preso a Tebe la meschina.

89

E se licito m'è ch'io sappia ancora
chi sia la donna, vi priego il diciate. –
Palemon sospirò, e disse allora
come le cose tutte erano andate;
e ciò Teseo vie più che l'altre accora
che prima gli erano state contate,
e disse: – Amor v'ha dato grande ardire,
poi non curate per lui il morire. –

90

A cui Palemon disse: – Alto signore,
saputo hai ciò che vuoli interamente
e a contarlo m'ha dato valore
disiderio di morte certamente,
la qual mi finiria l'aspro dolore
che sempre offende la mia trista mente
e io, che son di tua prigion fuggito,
ho d'esser morto molto ben servito. –


Come Teseo, perdonando loro, rispose, e i patti posti loro da lui.


91

Allor Teseo: – Non piaccia a Dio che sia
ciò che dimandi, ben che meritato
l'aggiate per la vostra gran follia;
ché l'un contra 'l mandato è ritornato,
e l'altro ha rotta la mia prigionia,
sì ch'io non ne saria mai biasimato
se i' 'l facessi, né faria fallanza,
ma serverei l'antica buona usanza.

92

Ma però ch'io già innamorato fui
e per amor sovente folleggiai,
m'è caro molto il perdonare altrui,
perch'io perdon più fiate acquistai,
non per mio operar, ma per colui
pietà a cui la figlia già furtai;
però sicuri di perdono state:
vincerà il fallo la mia gran pietate.

93

Ma non fia assoluto il perdonare,
ch'io ci porrò piacevol condizione,
la qual voi mi prometterete fare,
se io perdono a vostra falligione. –
Essi il promisero, e e' fé giurare
lor di servarla sanza offensione,
e felli insieme far pace solenne;
poi in questo modo con lor si convenne.

94

E' cominciò: – Be' signori, io avea
la giovinetta la qual voi amate
meco guardata, e donar la credea
per vera sposa al piacevole Acate,
nostro cugin; ma la fortuna rea
con morte queste cose ha via levate,
e ella s'è rimasa senza sposo,
come vedete, col viso amoroso.

95

Dunque convene a me pensar d'altrui,
perché l'età di lei omai il richiede,
né io non so pensar ben bene a cui
io la mi dea, che con più ferma fede
l'ami e onor che farà un di voi,
se sì l'amate come il mio cor crede;
ma non la può di voi aver ciascuno
però convien ch'ella rimanga a l'uno.

96

A l'un di voi sarà bene investita,
però che sete di sangue reale
e d'alto affare e di nobile vita;
e ella similmente è altrettale,
e è sorella a la reina ardita
che meco stato serva imperiale;
per la qual cosa sdegnar non dovete
per moglie lei, se averla potete.

97

Ma per cessar da voi ogni quistione,
con l'arme indosso vi convien provare
nel modo ch'io dirò: che Palemone
cento compagni farà di trovare
quali e' potrà a sua elezione,
e a te simil converrà di fare;
poi a battaglia nel teatro nostro
sarete insieme col seguito vostro.

98

Chi l'altra parte caccerà di fore
per forza d'arme, marito le fia;
l'altro, di lei privato e dell'onore,
a quel giudicio converrà che stia
che la donna vorrà, al cui valore
commesso da questa ora innanzi sia;
e 'l termine vi sia a ciò donato
uno anno intero. – E così fu fermato.

99

Sì come per mal sol palida fassi
candida rosa o per Noto spirante,
che poi, vegnendo Zeffiro, rifassi
o per la fresca aurora levante,
e gloriosa in su li pruni stassi,
bella come tal volta fu davante,
così costor diventaron, raccolto
il parlar di Teseo lor caro molto.

100

E risposero a lui umilemente:
– Signore, a tanta grazia quanta fai
a ciaschedun di noi, nessun possente
a ciò guiderdonar sarebbe mai;
ma que' che 'l cielo e 'l mondo parimente
governa ti contenti, sì come hai
noi contentati de l'alto perdono
del nostro fallo, il qual ci è sommo dono.

101

Noi siam disposti ad ogni tuo piacere,
e penserem di metter ad effetto
quel che n'hai comandato a tuo volere. –
Poi cominciaron mirabil diletto,
vedendo ciò che più era in calere
sicura dimorar nel lor cospetto;
la qual li rimirava vergognosa
e delle lor ferite assai pietosa.

102

A cui Teseo: – O giovine donzella,
vedi tu quanto per te faccia Amore,
perché tu se' più ch'alcuna altra bella?
Ben tel dei reputar sovrano onore,
e oltre a ciò isposa se' novella
dell'un de' due di cotanto valore. –
Nulla rispose Emilia, ma cambiossi
tutta nel viso, tanto vergognossi!


Disegna il tempo e l'ora, e come Penteo e Palernone con Emilia ne vennero in Attene.


103

Febo era già a mezzo il ciel salito.
nell'animal che tenne Garamante
allor che Giove, di Creti partito,
in Africa passava ad Atalante;
quando ciascun di loro, assai ferito,
le piaghe si stagnava tutte quante;
ma 'l tempo caldo mosse a dir Teseo
– Medichera'ti alla città, Penteo. –

104

E poi li fé sovra i cavai salire
con tutte l'arme, e in mezzo di loro
Emilia bella di grazia fé gire;
di che contenti tanto eran costoro,
che lingua alcuna nol potrebbe dire;
e poco gli occhi lor facean dimoro,
che non mirasser lei assai celato,
finché per loro in Attene fu intrato.

105

Quivi con festa al palagio maggiore
disceser tutti, e Teseo disarmare
fé li teban baron di gran valore,
e dolcemente li fece curare;
e più ancora lor fece d'onore,
che li fé dentro al palagio abitare;
e rendé lor castella e possessioni,
quante n'avean pria che fosser prigioni.


Qui finisce il libro quinto di Teseida.



LIBRO SESTO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro sesto.

Il sesto libro nel cominciamento
li due teban baron pacificati
dimostra, e il lor ricco portamento,
e le feste e' conviti dilicati.

Appresso ciò, dichiara il lieto avvento
in Attene di molti convitati
baroni, acciò che ognun n'avesse cento
tra molti eletti, arditi e più pregiati.

E in che modo e abito ciascuno
e di qual parte in Attena venuti
discrive, e oltre a ciò come ognuno

e tutti inseme fosser ricevuti;
de' qua', veduta Emilia, nessuno
biasima lor se e' ne son perduti.


Incomincia il libro sesto del Teseida. E prima parole dell'autore.


1

L'alta ministra del mondo Fortuna,
con volubile moto permutando
di questo in quel più volte ciascheduna
cosa togliendo e tal volta donando,
or mostrandosi chiara e ora bruna
secondo le pareva e come e quando,
avea co' suoi effetti a' due Tebani
mostrato ciò che può ne' ben mondani.

2

Però che con lei lieta furon nati
e allevati, e già mutato il viso
avea quando nel campo fur pigliati;
indi da lor ciascun suo ben diviso
avendo, li lasciò isconsolati
e in prigion fuor d'ogni lieto avviso;
poi l'un ne trasse e quasi a lieta vita
l'avea recato, e questi fu Arcita.

3

L'altro che poi, com'ella volle, fore
se n'era uscito ancor, mis'ella in esso
con matto imaginare un tal furore,
che sé col primo quasi ebbe rimesso
d'acquistata salute in gran dolore;
alla qual cosa essendo assai appresso
e ben credendo ciò, com'ella volse,
Teseo lor perdonò e li raccolse.

4

Né solamente li mise in speranza
di posseder quel che ciascuno amava,
ma oltre a ciò, sanza alcuna mancanza,
quel che ciascuno in pria signoreggiava,
com'è detto, rendé, sì ch'abondanza
ebber dove ognun prima mendicava;
così da morte, over da rea prigione,
condusse loro in tale esaltazione.

5

Deh, chi fia qui che dica che' mondani
provvedimenti a' moti di costei
possan mai porger argomenti sani?
Se non fosse mal detto, io dicerei
certo che fosser tutti quanti vani,
questo mirando e ciò ch'ancor di lei
si legge e ode e vede ognora aperto,
ben che ne sia come ciò fa coverto.


Della vita de' due Tebani riconciliati a Teseo.


6

Costoro insieme tenner buona pace
e l'amistà antica rifermaro,
e quel voleva l'un che all'altro piace,
e così era il contrario discaro.
La rea fortuna loro ora si tace,
fuggito è il tempo d'ogni parte amaro;
ma pure Amor li teneva ristretti
vie più che mai con tutti i lor diletti.

7

Elli avean di lor terre grande entrata,
per che essi spendevan largamente;
ogni persona da loro onorata
era in Attene graziosamente;
e sì gran cortesia da loro usata,
che sen maravigliava tutta gente;
onde gli amavan tutti i cittadini,
quantunque egli eran, grandi e piccolini.

8

Altro che canti, suoni e allegrezza
nelle lor case non si sentia mai,
e ben mostravan la lor gentilezza;
a chi prender volea davano assai;
astor, falconi e can di gran prodezza
usavano a diletto, né giammai
erano in casa sanza forestieri,
conti e baroni e donne e cavalieri.

9

E vestien robe per molto oro care,
con gran destrier, cavalli e pallafreni;
e nulla si lasciavano a donare,
sì eran di larghezza i baron pieni;
giostre faceano e grande l'armeggiare
con lor brigate ne' giorni sereni;
e ciascun s'ingegnava di piacere
più ad Emilia, giusto il suo potere.

10

E ben che fosse la festa e 'l diletto
ched e' facevan, ciascun giorno cento
pareva lor che 'l dì ch'aveva detto
Teseo venisse, acciò che di tormento
uscissero o con gioia o con dispetto
e ciascheduno aveva intendimento
di vincer l'altro sanza alcun fallire,
e se perdesse, perdendo morire.

11

E per non aspettar l'ultimo giorno
ch'esser doveva tra lor la battaglia,
ciaschedun manda messaggi dintorno
e d'invitare amici si travaglia;
e d'altra parte, per esser adorno,
ciascun fa paramenti di gran vaglia
per sé ornare e per donare a' sui
che arme porteranno il dì con lui.

12

E 'n brieve tempo si furon forniti
d'armi lucenti e forti ad ogni pruova,
e di cavalli feroci e arditi,
grandi, alli Greci a veder cosa nova.
e in sé ciascheduno i più spediti
fatti di guerra pensando ritrova,
per non venir disaveduti a fare
cosa ch'a danno lor possa tornare.


Discrive l'avvenimento de' prencipi invitati da' Tebani.


13

In questo mezzo il giorno s'appressava
che dato avea Teseo a' cavalieri,
onde ciascuno i suoi sollecitava
che e' venisser, ch'elli era mestieri;
per che ad Attene assai gente abbondava
d'ogni paese, per tutti i sentieri,
chi ad Arcita e chi a Palemone
venia per vinta dar la sua quistione.


Viene il re Ligurgo.


14

Il primo venne, ancora lagrimoso
per la morte d'Ofelte, a ner vestito,
il re Ligurgo, forte e poderoso,
di senno grande e di coraggio ardito;
e menò seco popol valoroso
del regno suo pure il più fiorito,
e ad Arcita s'offerse in aiuto,
per cui era di Nemea venuto.


Viene il re Pelleo.


15

Venne d'Egina lì il re Pelleo,
giovane ancora e di sommo valore,
e seco quella gente, che si feo
di seme di formiche en le triste ore
che Eaco lo suo popol perdeo,
menò con pompa grande e con onore:
bianco e vermiglio e chiaro nel visaggio,
più che non fu giammai rosa di maggio.

16

Vestito era il buon re in drappi d'oro
cari per molte pietre e rilucente,
e sovra un destrier grande di pel soro,
era fra tutti i suoi più eminente,
e un turcasso, ricco per lavoro,
pien di saette, ciascuna pungente,
dal destro lato, e dal manco pendea
d'Arcadia uno arco forte ch'elli avea.

17

I biondi crini e 'l collo e' biancheggianti
omeri ricoprien, cadendo stesi;
la sella e 'l freno eran d'oro micanti,
e similmente tutti gli altri arnesi;
e' suoi gli gien dintorno tutti quanti
d'alta prodezza e sommo ardire accesi;
e 'n mano avea, quale a lui si convenne,
una termodontiaca bipenne.

18

Così li piacque nella terra entrare;
alla vista del qual ciaschedun trasse,
né di mirarlo si potean saziare,
né fu alcuno il dì che non lodasse.
Oh, quante donne allor fé sospirare!
E è credibil che ne innamorasse,
se gentilezza e biltate han potere
di fare a donna giovane uom piacere.

19

Cefal, d'Eol figliuol, seguì costui;
seguillo Foco e seguil Telamone;
Agreo epidaurio gì con lui,
Flegiàs di Pisa e sicionio Alcone;
e altri molti nobili, di cui
la spenta fama non fa menzione,
vi furo, i qua' si de' creder che onore
v'acquistar molto per lo lor valore.


Viene il re Niso.


20

Né Nisa, di gran boschi copiosa,
tra gli urli dionei Niso ritenne,
ma con sembianza lieta e valorosa,
con bella gente, d'Alcatoe venne,
armati tutti in arme luminosa,
con quelli arnesi ch'a lor si convenne:
guardando quel capel dal qual tenea
la signoria delle terre ch'avea.


Vegnono Agamenone, Menelao, Castore, Polluce.


21

Sopra un carro, da quattro gran tori
tirato, di Trenarea, Agamenone
vi venne accompagnato da plusori,
armato tutto a guisa di barone,
sé già degno mostrando degli onori
ch'ebbe da' Greci nella ossidione
a Troia fatta: nel sembiante arguto,
con nera barba, grande e ben membruto.

22

Non arme chiare, non mantel dorato,
non pettinati crin, non ornamenti
d'oro o di pietre aveva, ma legato
d'orso un velluto cuoio con rilucenti
unghioni al collo, il qual da ogni lato
ricoprien l'armi tutte rugginenti;
e chiunque il vedea diceva d'esso:
– Que' vincerà con cui questi fia messo. –

23

Di dietro a lui, in abito dispari,
Menelao sen veniva giovinetto,
vestito in drappi belli e molto cari:
piacevol, bello e gentil nello aspetto,
sanz'alcuna arme, e' crin come oro chiari
Zeffiro ventilava, e giuso al petto
la barba bionda come oro cadea,
lodata da chiunque la vedea.

24

Egli era sopra un gran caval ferrante
reggendo il freno grave per molto oro,
con un mantel ch'al collo ventilante
da' circustanti s'udiva sonoro;
e se Venere fosse sanza amante,
ch'ella prendesse lui credean coloro
che lui vedean: così la sua bellezza
lodavano e 'l valore e la destrezza!

25

Costui seguieno il nobile Castore
e 'l suo fratel Polluce, tutti armati,
e ben mostravan che di gran valore
gli avesse 'l cigno lor padre dotati;
i qua' ne' loro scudi per onore
aveano il quando e 'l come generati
fur, con ingegno, della bella Leda,
allor che ella fu del cigno preda.

26

Seguien costor più uomini lernei,
armati tutti e fieri ne' sembianti,
nobili misti insieme con plebei;
e qual giva di dietro e qual davanti,
in forme ta' che dir non le saprei,
sì eran divisati tutti quanti;
e con onor nella cittade entraro,
e al real palazzo dismontaro.


Viene Cromis, figliuol d'Ercule, e Ippodomo.


27

Un cuoio d'un leon nemeo velluto
vi recò Cromis, tirinzio vestito
che già al padre era stato veduto,
da cui il giel mortale avea sentito;
e con un baston grande e noderuto
e di tutte l'altre armi ben guarnito,
sopra Strimon, caval di Diomede,
d'uomini mangiator, sì com si crede,

28

non altramenti la testa menando
che faccia il toro poi ch'è amazzato,
e sanza alcun riposo ognor ringhiando
giva di suon tal, chente fu ascoltato
tal volta già quando i cani abbaiando
si fer sentir di Silla nel turbato
mare, in quell'ora che Eolo spira
il vento che quel loco più martira.

29

Con esso d'Oetalia molta gente
vi venne ancora, tutta ben guarnita;
Ippodomo vi fu sirnilemente,
figliuolo d'Oemomia pulita,
con quello sforzo donde era possente
a mostrar la grandezza di sua vita,
sovr'un caval calidonio coverto
di drappi sirii, ben ne' campi esperto.


Viene Nestore, figliuolo di Neleo, di Pilos.


30

Di Pilos venne il giovane Nestore,
di Neleo figliuol, la cui etate
nelle vermiglie guancie il primo fiore
mostrava, poco ancora seminate
di crespo pel che d'oro avea colore,
il qual multiplicava sua biltate;
costui ornò il padre in guisa tale,
che d'ornamento a lui non vi fu iguale.

31

Natura ornato l'avea di bellezza,
quanto giovane donna disiare
poté giammai, e poi di gentilezza
di real sangue; né potea celare
l'ardito cuor ch'avea e la prodezza
con disio sommo di bene operare;
e la Fortuna de' ben ch'ella dona
più li fu larga ch'ad altra persona.

32

Costui armato, il ferro sotto argento,
quanto era, in piatte tutto nascondea,
ma della maglia il molto guarnimento
tutto fu d'oro, quantunque n'avea;
di ricche pietre assai fu l'ornamento
che ad arnese cotal si richiedea,
e sì lucea, che in ogni parte oscura
luce avria data come giorno pura.

33

E in su un gran caval di pel morello,
sanza riposo tuttavia fremendo,
cavalcava Nestor leggiadro e bello,
un gran baston di ferro in man tenendo;
e sì come falcon che di cappello
esce, s'andava tutto plaudendo,
da molti cavalier da ogni lato
molto nobilemente accompagnato.

34

Nella terra de' Ciclopi festando
in cotal guisa se n'entrò Nestore,
di che ciascun si gia maravigliando,
faccendo a lui iusto 'l potere onore;
e e', che ben sapeva dimostrando
andare a tutti il suo sommo valore,
a tutti onor facea, finché pervenne
dove Teseo con gli altri lui ritenne.


Viene il re Evandro.


35

Evandro, nato nel gelido colle
Cilleno di Carmenta e di colui
che l'anime da' corpi morti tolle,
in ozio star con li popoli sui
nella steril Nonacria non volle;
ma per mostrar la sua potenza altrui,
essendo ancora prospero e regnante,
con molti suoi baron giunse festante.

36

Egli era in su tesalico destriere,
co' suoi insieme andando baldanzoso,
e era armato d'armi forti e fiere,
e per mantello un cuoio d'orso piloso
libistrico, le cui unghie già nere
sotto oro eran nascose luminoso,
e de' suoi molti avean tal copertura,
e di leone alcun la pelle dura.

37

Altri avean pelli di tori lunati,
tutte di cari limbi circuite,
e alcuni erano in cinghiar fasciati,
nullo v'aveva con armi pulite;
così insieme tutti divisati
circuivano Evandro, come udite,
il qual dall'una man saette avea,
dall'altra uno arco e il caval reggea.

38

A cui da l'armo pendeva sinestro
uno scudo, assai rozzo per lavoro,
nel qual pareasi Atlanciade, silvestro
fatto, Argos ingannar col suo sonoro
nuovo strumento, e lui uccider destro
lì si vedeva ancor, sanza dimoro;
eravi ancor quando divenne Geta
per far del padre la volontà cheta.

39

Eravi ancor ciò che per Erse fece;
e altre opere sue v'eran distinte,
le qua' per brevità dir qui non lece,
ma pur tra l'altre da parte dipinte,
l'opere sue già fatte dritte o biece,
eran le braccia sue al collo avvinte
di Carmenta, di cui Evandro nacque
ne' tempi ch'ella in Cilleno a lui piacque.

40

In cotal guisa co' suoi, rugginoso
dell'arme e del sudor, venne in Attene,
e ben che bel non paia, valoroso
chiunque il vede veramente il tene;
e fé del modo suo, non borioso
ma utile, parlare a tutti bene;
ben s'amiraron della condizione,
chiunque il vide, a sì fatto barone.


Viene Peritoo, figliuolo d'Isione.


41

Vennevi Peritoo, che della madre
ancor le guancie sanza pelo avea;
questi, con veste di drappi leggiadre,
di biltà tutto nel viso splendea:
bianco, vermiglio e con le luci ladre,
chi 'l rimirava con amor prendea;
e biondo assai vie più che fila d'oro,
incoronato di frondi d'alloro.

42

Né crede alcun che sì bel fosse Adone
di Cinera, da Vener tanto amato,
quanto era Peritoo ancor garzone,
morbido nello aspetto e dilicato;
costui montato sopra un gran roncione,
del seme di Nettunno procreato,
venne ad Attene, e 'ncontro li si feo
il suo amico, con festa, Teseo.

43

E ben che fosse molto conosciuto
Peritoo in Attene, nondimeno
sì era elli volontier veduto;
per che ciaschedun luogo v'era pieno
di popol ch'era a lui veder venuto,
tanto ch'appena in loco non capeno;
così col suo Teseo sen venne adagio,
e con lui smontò nel suo palagio.


Vegnono Ulisse e Diomede.


44

E il duca narizio, giovinetto
ancora molto, vi mandò Laerte,
da cui li fur con paternale affetto
l'arme lucenti primamente offerte;
le quali e' prese con sommo diletto,
e assai parli ogni poco che esperte
l'abbia; e con seco menò Diomede,
cui sempre amò con amichevol fede.


Vegnonvi Pigmaleone e Sicceo.


45

E di Sidonia ancor Pigmaleone
vi venne; e fuvvi con esso Siceo,
che poi fu sposo dell'alta Didone,
e a' Fenici nobili si feo
seguire a guisa di sommo barone;
e con li suoi insieme da Teseo
fu onorato magnificamente
e ricevuto molto caramente.


Vegnono Minòs re di Creti, e Radamante e Sarpedone.


46

Quivi nell'arme con solenne stuolo
il gnosiaco re della dittea
isola, già d'Europa figliuolo,
vi venne, che ancora non avea
del suo bello Androgeo sentito il duolo;
e 'n su la riva d'Attene lernea
discese, e fé con l'ancore fermare
le navi lì che 'l doveano aspettare.

47

Di dietro a cui discese Radamante,
fratel di lui, e Sarpedone appresso,
e le lor genti ancora tutte quante.
Quivi era un carro orrevole per esso,
sovra 'l quale e' montò; e messa avante
la gente sua, non però molto cesso,
inverso Attene il camin prese tosto,
sì come avea nella mente disposto.

48

Il manco lato uno scudo gli armava,
nel qual vedeansi i regni di Nereo,
e come Giove in que' toro notava,
carico d'Europa onde nasceo;
e' liti v'eran dove la posava
soavemente nel regno ditteo;
e similmente la casside bella
tutta lucea della paterna stella.

49

Erano i campi, l'argini e le strade,
le porte de' palazzi e li balconi,
come che fossero o ispesse o rade,
piene di donne tutte e di baroni,
per veder di Minòs la dignitade;
e vecchi antichi e giovani garzoni
tutti venuti v'erano a mirare
il gran baron nella lor terra entrare.

50

Il qual v'entrò con molto grande onore,
e più vide ciascun che non credea
veder di lui d'altezza e di valore;
e furvi assai che poi non disser rea
né biasimarono il focoso amore
di Silla, allor ch'ogni altro la dicea
degna di morte per lo padre ucciso,
sé rimembrando quale e' l'avean viso.


Viene Anchelado bistone.


51

Vennevi ancora Anchelado bistone
a dimostrar della sua gran prodezza,
con nobil compagnia d'ogni ragione:
audaci erano e pien di fiereza
dintorno a lui, che sopra un gran roncione
mostrava chiara la sua adornezza;
e' fu da tutti in Attene, veduto,
con lieto viso assai ben ricevuto.


Viene Ida pisano.


52

E ben che molti de' liti d'Alfeo
venissor quivi a volere onorarsi,
non volle rimanere Ida piseo,
ma per alquanto quivi dimostrarsi,
pensando al suo valore, il quale il feo
nelli giuochi olimpiaci pregiar, sì
che coronato fu; e 'n compagnia
gente menò di somma valentia.

53

Questi era tanto nel corso leggiere,
veloce e presto, che nulla saetta
da Partico o Cidone o altro arciere
mandata fu di nervo con tal fretta,
che lenta non paresse e che diriere
non li fosse rimasa per dispetta;
e tanto e sì e' tal fiata correa,
ch'agli occhi de' miranti si togliea.

54

Questi saria nel fluttuoso mare,
qualora e' più inver lo ciel crucciato
istende i suoi marosi col gridare,
correndo con asciutte piante andato;
né li saria paruto grave affare
l'esser trascorso sanza aver guastato
alcuna spiga sopra li tremanti
campi spigati e col vento sonanti.


Viene Ameto, re di Tesaglia.


55

E oltre a questi ancor vi venne Ameto
lucente di reale adornamento,
di mezza etate, nello aspetto lieto,
il quale in uno scudo d'ariento,
in forma di pastore umile e queto
d'oro portava Febo, che l'armento
di lui ne' verdi boschi pasturava,
e in Anfriso poi gli abeverava.

56

Questi infra' suoi Foloèn cavalcando
di verde quercia inghirlandato, giva;
il qual da il castalio somigliando
gregge fremendo adizzato anitriva,
or qua or là co' piedi il suol pestando,
ferendo chi appresso li veniva;
e Irim gli menava avanti a destro,
tutto coverto uno scudier sinestro.

57

E così con gli Ematici sen venne
fino in Attene in atto baldanzoso;
quivi al palagio di Teseo si tenne
il caval fiero e d'andare animoso;
là dove fu, sì come si convenne,
ben ricevuto assai dal valoroso
Teseo, il qual l'aveva per amico,
non or di nuovo, ma già ab antico.


Vennervi altre genti e popoli assai.


58

Di Boezia vi venne molta gente,
quali ad Arcita e quali a Palemone,
però che lì ciascuno era possente
e ne' popoli avea iurisdizione;
onde ciascuno in tal punto fervente
a far servigio di sua soiezione
venne ad Attene sanza dimorare,
armati bene e belli a riguardare.

59

Quivi i Dircei, per tema di Teseo
fuggiti già, le spelunche lasciate,
chi venne a Palemon, chi a Penteo;
tra' qua' le genti fur che son bagnate
dalle spumanti ripe d'Ismeneo,
e quelle ch'a Citeron suggiocate
sono e a' monti Ogigii tutti quanti,
o vicini ad Elicona abitanti.

60

E quelli, i quali Esopo, troppo altiero
contra l'iddii per Egina furata,
veggono spesso torbido e sincero,
vi furon tutti, gente bene armata;
e 'l popol d'Antedon tututto intero
con altri molti di quella contrata,
contenti assai de' signor riavuti,
li qua' credean del tutto aver perduti.


Assegna la cagione d'alquanti che vi sarebbono suti, per che non vi furono.


61

Avrebbe quivi Cefiso mandato
Narcisso, se non fosse che in fiore
già ne' campi tespiaci mutato
era, per troppo a sé avere amore,
spesso dal padre in su il lito bagnato,
sì com'io credo, per troppo dolore
d'aver perduto en la sua fanciullezza
il caro figlio per troppa bellezza.

62

E Leandro era già stato raccolto
dalla sua Ero nel lito di Sesto,
sospinto dal dalfin, con tristo volto
e di lagrime pieno amare e mesto,
e da lei pianto con sospiri molto;
il non esservi adunque fu per questo,
né' suoi vi gir, perché perduto aveno
il lor signor cui seguitar doveno.

63

Sarebbevi Erisiton driopeo
similemente a combatter venuto,
ma per la debolezza non poteo,
già magro e sanza forza divenuto
per l'albero lo quale e' tagliar feo,
che era stato a Ceres conceduto;
rimase adunque e non vi poté gire,
ma li convenne di fame morire.

64

Furvi altri assai e popoli e contrade,
tanti che ben non gli saprei contare,
sì gli nasconde in sé la lunga etade;
né li vi fece bisogno menare,
ma de' signori il voler nobiltade
ciascun con le sue genti dimostrare,
vaghi d'acquistar fama con onore,
ciascun secondo fosse il suo valore.


Come tutti coloro che vi vennero furono da tutti onorevolmente ricevuti.


65

Qualunque fu de' possenti signori,
re, duca, prenze o altro d'onor degno,
o qual si fosser piccoli o maggiori,
che di Teseo venisse allor nel regno,
e' fur con sommi e lietissimi onori
ricevuti, ciascun con tutto ingegno;
e per sé prima gli onorava Egeo,
e poi con lieto viso il buon Teseo.

66

Ipolita reina lietamente
quanti ne venner tutti ricevette
con alta festa e graziosamente;
né la giovane Emilia si stette,
ma quanto più poté similemente.
bella tenuta da chi la vedette,
tanto a tututti si mostrava lieta,
d'ogni grazia piena e mansueta.

67

Né furon folli Arcita e Palemone
tenuti da chi seppe i fatti loro,
se l'un s'era fuggito di prigione
e l'altro oltre il mandato a far dimoro
nella vietata bella regione,
per acquistar così fatto tesoro;
né s'amiraron se non voller loco
dar l'uno a l'altro en l'amoroso foco.

68

E ben fu giudicato che 'l suo amore
fosse troppo più caro da comprare,
che pria non fu di Tebe esser signore
o di quantunque cinge il verde mare,
e che bene investito era 'l valore
di tanti probi quanti ivi adunare
avea fatti fortuna a dar sentenza
ultima con lor arme a tale intenza.

69

Se gli alti regi furono onorati
da Palemone e dal gentile Arcita,
non cal ch'i' 'l narri, ché uomini nati
non si crede che mai in questa vita
fossero co' servigi lieti e grati
veduti come questi, a' qua' fornita
era ogni voglia, sol che essi dire
volesser ciò che non potean sentire.

70

Alti conviti e doni a regi degni
s'usavan quivi, e sol d'amor parlare,
e' vizii si biasmavano e li sdegni;
giovenil giuochi e sovente armeggiare
il più del tempo occupavan gl'ingegni,
o in giardin con donne festeggiare;
lieti v'erano i grandi e i minori,
e adagiati da' fini amadori.

71

E certo, poi che Pallade quistione
con Nettunno ebbe a nomar la cittade,
gente adunata d'alta condizione
né tanta né di sì gran nobiltade
non s'era vista per nulla stagione;
il che Teseo in somma dignitade
il si tenea, e fra l'altre sue cose
più degne di memoria questa pose.


Qui finisce il libro sesto del Teseida.



LIBRO SETTIMO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro settimo.

Dimostra il libro settimo il parlare
che fé Teseo a' prencipi adunati,
e dopo quello assai aperto appare
quai d'essi fosser da ciascun de' lati

de' due Tebani, e poscia il loro orare;
quindi le case delli iddii pregati
disegna, appresso lor faccendo andare
u' di milizia furono adornati.

E al teatro quindi li conduce
per vie diverse, ove gli Atteniesi
già eran tutti; quivi, alla lor luce

Emilia miran; ma, nel viso accesi,
i suoi conforta e priega ciascun duce,
ad aspettare il segno poscia attesi.


Incomincia il libro settimo del Teseida. E prima la diceria di Teseo e il partire de' prencipi greci in due parti.


1

Mentre che la fortuna sì menava
in Attene le cose in allegrezza,
il giorno dato alli due s'appressava,
per che con lieta e gran piacevolezza
Teseo i duci, li quali onorava,
raunò insieme tutti e la grandezza
del teatro mostrò loro, e appresso
tutti s'affisser a seder con esso.

2

Stette Teseo con li venuti regi
labdacii nel teatro eminente,
co' quali insieme li baroni egregi
furono alquanto più umilemente,
e tutti gli altri popoli e collegi
nel pian sedettero intentivamente,
sì che Teseo potessero udire,
che, in piè levato, così prese a dire:

3

– Signori, io credo che ciascun sentito
abbia perché tra li Teban quistione
sia nata tale, e ancora 'l partito
che io die' loro e non sanza ragione,
però di ciò c'han contro a me fallito
né della mia pietà qui far menzione
più non intendo, né del loro amore,
non conosciuto da chi non l'ha in core.

4

Ma certo, quand'io loro in pace posi
e nelle man di cento e cento diedi
l'amor di quella ond'eran sì bramosi,
non mi credetti che lance né spiedi
né troppi ferri chiari o rugginosi
né gran cavai né grandi uomini a piedi
dovesser terminar cotanto foco,
ma esser ciò com'un palestral gioco.

5

E non credetti che tutta Lernea
sotto li regi achivi si movesse
per sì poca di cosa, anzi credea
che ciaschedun de' suoi vassalli avesse
a terminar così fatta mislea,
e che con brievi forze li piacesse
l'un contra l'altro questo amore avere,
lo qual mostra sia lor tanto in piacere.

6

Ma essi forse credendosi ch'io
non conoscessi loro esser potenti,
di mostrarlomi lor venne in disio,
e voi han fatto qui con vostre genti
venire per pagar d'amore il fio,
per cui e' son contra 'l dover ferventi;
e io son ben contento che ci siate
e che essi abbian lor forze mostrate.

7

Ma tuttavia la cosa ad altro segno
vi priego che mandiate, com diraggio;
qui non ha zuffa per acquistar regno
o per pigliar perduto ereditaggio,
qui non è tra costor mortale sdegno,
qui non si cerca di commesso oltraggio
vendetta, ma amore è la cagione,
com'ho già detto, di cotal quistione.

8

Dunque amorosa dee questa battaglia
esser, s'io ben discerno, e non odiosa;
l'odiose sien di chi mal far travaglia,
o di chi n'ha ragion per altra cosa,
o degli aspri Centauri di Tesaglia,
i qua' non sanno mai che si sia posa,
e non tra noi che, ben che siam creati
chi qua chi là, pur d'un sangue siam nati.

9

E come poria io mai sofferire
vedere il sangue larisseo versare
e l'un pe' colpi dell'altro morire
come al seme di Cadmo piacque fare?
Oggi non è quel tempo né quelle ire;
però con lor le lasciàn dimorare,
e noi viviam come inseme dovemo,
e leggier per amor ne combattemo.

10

Chi sarà que' che per sì fatta cosa
volesse tanti popoli in periglio
porre di gente tanto valorosa
quant'io qui veggio? E' saria mal consiglio,
e all'iddii saria molto odiosa
veder qui contro al padre uscire il figlio
e ferir l'un contra l'altro parente
co' ferri in man nimichevolemente.

11

Poi ch'a tal fine qui sete adunati,
perché vostra venuta invan non sia,
secondo che più son da voi amati
li due amanti, come ognun disia,
così si tragga, e cento nominati
per parte siate, sì come la mia
sentenzia diè il dì ch'io li trovai
d'affanno, d'ira e d'amor pieni assai.

12

E acciò ch'odio fra voi non nascesse,
le lance più nocive lascerete;
sol con le spade o con mazze l'espresse
forze di voi contenti proverete;
e le bipenni porti chi volesse,
ma altro no: di queste assai avete;
e quelli a cui il bene ovrar vittoria
darà, s'avrà e la donna e la gloria.

13

Questo sarà come un giuoco a Marte,
li sacrifici del qual celebriamo
il giorno dato; e vederassi l'arte
di menar l'armi in che c'esercitiamo;
e perciò ch'io giudice, non parte,
qui esser debbo dove noi seggiamo,
sanza arme i vostri fatti porrò mente;
però di ben portarvi aggiate a mente. –

14

De' nobili e del popolo il romore
toccò le stelle, sì fu alto e forte,
– L'iddii – dicendo, – servin tal signore
che delli amici suoi fugge la morte,
e con pietoso e grazioso amore
dà ne' contrasti men gravosa sorte. –
E in quel loco, sanza dipartirsi,
cento e cento s'elessero e partirsi.

15

Levossi adunque prima in piedi Arcita
e in parte del teatro si trasse;
appresso Palemon d'altra partita
a fronte disse Teseo se n'andasse,
e ciaschedun della gente lì sita
con cui più li piacesse si tirasse.
Avea detto, e però immantanente
se n'andaro ad Arcita questa gente.

16

Il primo fu il fiero Agamenone,
poi Menelao e Polluce e Castore
con la lor gente, e poi Pignaleone;
il re Ligurgo e di Pilos Nestore,
e 'l gran Pelleo col popol mirmodone,
e 'l tirinzio Cromis di valore,
Sicceo e Peritoo ancor vi giro,
e Ippodomo e altri più il seguiro.

17

A Palemone andò Ida pisano,
e dopo lui Ulisse e Diomede,
e Minòs e' fratelli a mano a mano,
e 'l re Evandro, a cui non servar fede
li suoi che 'l fer del suo reame strano
gir per lo mondo, come ancor si crede;
andovvi di Tesaglia il grande Ameto,
e Anchelado, e Niso a lui dirieto.

18

Così divisi, delli suoi elesse
Arcita diece, li qua' caramente
pregò che ciascun nove ne prendesse
con seco della sua più cara gente,
acciò che cento de' migliori avesse;
e essi il fecero assai prestamente,
e scritti furo, e agli altri fu detto
che buon tempo si desser con diletto.

19

Il simil fece ancora Palemone;
e di buoni uomin si trovar sì pari,
ched e' non v'era variazione;
e credesi che non ne fosser guari
rimasi al mondo di tal condizione,
così gentili e per prodezza pari,
quale era quivi l'uno e l'altro cento:
di che Teseo fu assai contento.

20

Adunque, posto sotto grave pena
lo stare in pace per cosa ch'avegna
a tutti gli altri, Teseo ne li mena
seco per via onorevole e degna
per la cittade d'allegrezza piena,
dove col padre insiememente regna;
e come prima insieme assai contenti
li re si stavan tutti e le lor genti.

21

E posto che l'un l'altro conoscea
col qual dovea le sue forze provare,
nulla division vi si vedea
però in alcuno atto adoperare;
anzi ciascuno quanto più potea
a quelli a' qua' doveva incontro andare,
con tutto cuor di piacer s'ingegnava;
così in ben con festa vi si stava.


Come i Tebani andaro a' templi a pregare l'iddii che gli atassero nella battaglia futura;
e prima Arcita in quel di Marte.


22

Già era il dì al quale il dì seguente
combatter si dovea, quando l'iddii
Palemone e Arcita umilemente
giro a pregare, e con affetti pii,
sopra gli altari stando foco ardente,
incensi diero, e con sommi disii
dier prieghi a tutti che ciascun gli atasse
il dì seguente in ciò che bisognasse.

23

Ma pure Arcita ne' templi di Marte,
poscia ch'egli ebbe gli altri visitati
e dati fuochi e 'ncensi in ogni parte,
si ritornò, e quelli alluminati
più ch'altri assai e con più solenne arte
e di liquor sommissimi rorati,
con cuor divoto tale orazione
a Marte fece con gran divozione
Orazione d'Arcita a Marte.

24

– O forte Iddio, che ne' regni nevosi
bistonii servi le tue sacre case,
ne' luoghi al sol nemici e tenebrosi,
de' tuoi ingegni piene per quai rase
d'ardir le fronti furo agli orgogliosi
fi' della Terra, allor ch'ognun rimase
di morte freddo in sul suol per le prove
fatte da te e dal tuo padre Giove,

25

se per alto voler la mia etate
e le mie forze meritan che io
de' tuoi sia detto, per quella pietate
ch'ebbe Nettunno allor che con disio
di Citerea usavi la biltate,
rinchiuso da Vulcano, ad ogni iddio
fatto palese, umilmente ti priego
ch'alli miei prieghi tu non facci niego.

26

Io son, come tu vedi, giovinetto,
e per nuova bellezza tanto Amore
sotto sua signoria mi ten distretto,
che le mie forze e tutto mio valore
conviene ovrarmi, se io vo' diletto
sentir di ciò che più disia il core;
e sanza te io son poco possente,
anzi più tosto non posso niente.

27

Dunque m'aiuta per lo santo foco
che t'arse già, sì come me arde ora,
e nel presente mio palestral gioco
con le tue forze nel pugnar m'onora;
certo sì fatto don non mi fia poco,
ma sommo bene; adunque qui lavora;
s'io son di questa pugna vincitore,
io il diletto e tu n'abbi l'onore.

28

I templi tuoi etterni s'orneranno
dell'arme del mio vinto compagnone,
e ancora le mie vi penderanno,
e fiavi disegnata la cagione;
etterni fuochi sempre v'arderanno,
e la barba e' miei crin, che offensione
di ferro non sentiron, ti prometto,
se mi fai vincer come io ho detto. –


Come l'orazione di Arcita pervenne a Marte, e come e dove sia fatto il tempio suo.


29

Era allor forse Marte in esercizio
di chiara far la parte rugginosa
del grande suo e orribile ospizio,
quando d'Arcita l'Orazion pietosa
pervenne lì per fare il dato ofizio,
tututta nello aspetto lagrimosa;
la qual divenne di spavento muta,
com di Marte ebbe la casa veduta,

30

ne' campi trazii, sotto i cieli iberni,
da tempesta continua agitati,
dove schiere di nimbi sempiterni
da' venti or qua e or là trasmutati
in varii luoghi ne' guazzosi verni,
e d'acqua globi per freddo agroppati
gittati sono, e neve tuttavia
che 'n ghiaccio a mano a man s'indura e cria;

31

e una selva steril di robusti
cerri, dove era, folti e alti molto,
nodosi e aspri, rigidi e vetusti,
che d'ombra etterna ricuoprono il volto
del tristo suolo, e 'ntra gli antichi fusti
di ben mille furor sempre ravolto
vi si sentia grandissimo romore,
né v'era bestia alcuna né pastore:

32

in questa vidde la ca' dello dio
armipotente, questa edificata
tutta d'acciaio splendido e pulio,
dal quale era dal sol riverberata
la luce che abborreva il luogo rio;
tutta di ferro era la stretta entrata,
e le porte eran d'etterno adamante
ferrate d'ogni parte tutte quante.

33

E le colonne di ferro costei
vide che l'edificio sosteneno;
lì l'Impeti dementi parve a lei
veder, che fier fuor della porta uscieno;
e il cieco Peccare, e ogni Omei
similemente quivi si vedieno;
videvi l'Ire rosse come foco,
e la Paura pallida. in quel loco.

34

E con gli occulti ferri i Tradimenti
vide, e le 'nsidie con giusta apparenza;
lì Discordia sedea e sanguinenti
ferri avea in mano, e ogni Differenza;
e tutti i luoghi pareano strepenti
d'aspre Minacce e di Crudele Intenza;
e 'n mezzo il loco la Vertù tristissima
sedea, di degne lode poverissima.

35

Videvi ancora l'allegro Furore,
e oltre a ciò con volto sanguinoso
la Morte armata vide e lo Stupore;
e ogni altar quivi era copioso
di sangue, sol nelle battaglie fore
de' corpi uman cacciato, e luminoso
era ciascun di fuoco tolto a terre
arse e disfatte per le triste guerre.

36

E era il tempio tutto istoriato
da sottil mano e di sopra e dintorno;
e ciò che pria vi vide disegnato
eran le prede, di notte e di giorno
tolte alle terre; e qualunque sforzato
fu, era quivi in abito musorno;
vedeanvisi le genti incatenate,
porti di ferro e fortezze spezzate.

37

Videvi ancor le navi bellatrici,
i voti carri e li volti guastati,
e i miseri pianti e infelici,
e ogni forza con gli aspetti elati;
ogni. fedita ancor si vedea lici,
e' sangui con le terre mescolati;
e in ogni luogo con aspetto fiero
si vedea Marte torbido e altiero.

38

E tal ricetto edificato avea
Mulcifero sottil con la sua arte,
prima che 'l sol gli avesse Citerea
mostrata co' suoi raggi esser con Marte.
Il quale di lontan ciò che volea
colei sentì, e seppe di che parte
ella venia a lui sollecitare;
per che la prese e 'ntese il suo affare.

39

Udita questa adunque di lontano
da Arcita mandata umilemente,
sanza più star sen gio a mano a mano
là dov'era chiamato occultamente;
né prima i templi il loro iddio sovrano
sentiron che tremaron di presente
e rugghiar tutte ad una ora le porte:
di che Arcita in sé temette forte.

40

Li fuochi dieron lume vie più chiaro
e diè la terra mirabile odore,
e' fummiferi incensi si tiraro
a l'imagine lì posta ad onore
di Marte, le cui armi risonaro
tutte in sé mosse con dolce romore;
e segni dierono al mirante Arcita
che la sua orazion era esaudita.

41

Dunque contento il giovinetto stette
con isperanza di vittoria avere;
né quella notte di quel tempio uscette,
anzi la spese tututta in preghiere,
e più segnali in quella ricevette
che gli affermaron più le cose vere;
ma poscia che li apparve il novo giorno,
fecesi armare il giovinetto adorno.


Come Palemone andò ad orare nel tempio di Venere.


42

Palemon similmente fatto avea
ciaschedun tempio d'Attene fummare,
né 'n cielo avea lasciato dio o dea
il qual per sé non facesse pregare;
ma sopra tutti gli altri Citerea
li piacque più il giorno d'onorare
con incensi e con vittime pietose,
e nel suo tempio ad adorar si pose.

43

E fé divoto cotale orazione:
– O bella dea, del buon Vulcano sposa,
per cui s'allegra il monte Citerone,
deh, i' ti priego che mi sii pietosa
per quello amor che portasti ad Adone;
e la mia voglia per te amorosa
contenta, e fa la mia destra possente
doman, per modo ch'io ne sia godente.

44

Nulla persona sa quanto io amo,
niun conosce il mio sommo disio,
nullo poria sentir quant'io la bramo,
la bella Emilia, donna del cor mio,
cui giorno e notte e sempre e ognor chiamo,
se non se tu e 'l tuo figliulo iddio,
li qua' sentite dentro quanto amore
per lei martira me suo servidore.

45

Io non poria con parole l'affetto
mostrar ch'io ho, né dir quanto io sento;
tu sola il ti conosci e al difetto
puoi, dea, dar lontan contentamento
e 'l mio penar ritornare in diletto,
se tu fai ciò di che io qui attento
tanto ti priego, ciò è che io sia
in possession di Emilia, donna mia.

46

Io non ti cheggio in arme aver vittoria
per li templi di Marte d'armi ornare;
io non ti cheggio di portarne gloria
di que' contra de' quai doman provare
mi converrà né cerco che memoria
lontana duri del mio operare;
io cerco sola Emilia, la qual puoi
donarmi, dea, se donar la mi vuoi.

47

Il modo trova tu, ch'io non ne curo;
o ch'io sia vinto o ch'io sia vincitore
m'è poco caro, s'io non son sicuro
di possedere il disio del mio amore;
però, o dea, quel che t'è men duro
piglia, e sì fa che io ne sia signore;
fallo, i' te ne priego, o Citerea,
e ciò non mi negare, o somma dea.

48

Li templi tuoi saran sempre onorati
da me, sì come degni fermamente,
e di mortine spesso incoronati;
e ogni tuo altar farò lucente
di fuoco, e sacrifizii fien donati
quali a tal dea si deon certamente;
e sempre il nome tuo per eccellenza
più ch'altro iddio avrò in reverenza.

49

E se t'è grave ciò ch'io ti domando
far, fa che tu nel teatro la spada
primaia prendi, e il mio cor forando,
costringi che lo spirto for ne vada
con ogni vita, il campo insanguinando;
ché cotal morte troppo più m'agrada
che non farebbe sanza lei la vita,
vedendola non mia, ma sì d'Arcita. –


Come l'orazione pervenne a Venere, e come fatto e dove sia il tempio suo.


50

Come d'Arcita Marte l'orazione
cercò, così a Venere pietosa
se n'andò sopra 'l monte Citerone
quella di Palemon, dove si posa
di Citerea il tempio e la magione
fra altissimi pini alquanto ombrosa;
alla quale appressandosi, Vaghezza
la prima fu che vide in quella altezza.

51

Con la quale oltre andando, vide quello
ad ogni vista soave e ameno,
in guisa d'un giardin fronzuto e bello
e di piante verdissime ripieno,
d'erbette fresche e d'ogni fior novello,
e fonti vide chiare vi surgeno,
e intra l'altre piante onde abondava,
mortine più che altro le sembiava.

52

Quivi sentì pe' rami dolcemente
quasi d'ogni maniera uccei cantare,
e sovra quelli ancor similemente
li vide con diletto i nidi fare;
poscia fra l'erbe fresche prestamente
vide conigli in qua e 'n là andare,
e timidetti cervi e cavriuoli
e altri molti varii bestiuoli.

53

Similemente quivi ogni strumento
le parve udire e dilettoso canto;
onde passando con passo non lento
e rimirando, in sé sospesa alquanto,
dell'alto loco e del bello ornamento,
ripieno il vide quasi in ogni canto
di spiritei, che qua e là volando
gieno a lor posta; a' quali essa guardando,

54

tra gli albuscelli, ad una fonte allato,
vide Cupido fabricar saette,
avendo alli suoi piè l'arco posato
le quai sua figlia Voluttà selette
nell'onde temperava; e assettato
con lor s'era Ozio, il quale ella vedette
che con Memoria poi l'aste ferrava
de' ferri ch'ella prima temperava.

55

Poi vide in quel passando Leggiadria
con Addornezza e Affabilitate,
e la smarrita in tutto Cortesia;
e vide l'Arti c'hanno potestate
di fare altrui a forza far follia,
nel loro aspetto molto sfigurate
da l'imagine nostra; e Van Diletto
con Gentilezza vide star soletto.

56

Poi presso a sé vide passar Bellezza
sanza ornamento alcun, sé riguardando;
e gir con lei vide Piacevolezza,
e l'una e l'altra seco commendando;
poi con lor vide starsi Giovanezza,
destra e adorna, molto festeggiando;
e d'altra parte vide il folle Ardire,
Lusinghe e Ruffiania insieme gire.

57

E 'n mezzo il luogo in su alte colonne
di rame un tempio vide, al qual dintorno
danzando giovinetti vide e donne,
qual da sé bella e qual d'abito adorno,
discinte, scalze, in capelli e in gonne,
e in ciò sol dispendevano il giorno;
poi sopra 'l tempio vide volitare
passere molte e colombi ruccare.

58

E all'entrata del tempio vicina
vide che si sedeva pianamente
madonna Pace, e in mano una cortina
'nanzi alla porta tenea lievemente;
appresso a lei, in vista assai tapina,
Pazienza sedea discretamente,
palida nello aspetto; e d'ogni parte
dintorno a lei vide Promesse e Arte.

59

Poi dentro al tempio entrata, di Sospiri
vi sentì un tumulto che girava
focoso tutto di caldi Disiri;
questo gli altari tutti alluminava
di nuove fiamme nate di Martiri,
de' quai ciascun di lagrime grondava
mosse da una donna cruda e ria,
che vide lì, chiamata Gelosia.

60

E in quel vide Priapo tenere
più sommo luogo, in abito tal quale
chiunque il volle la notte vedere
poté, quando ragghiando l'animale
più pigro destò Vesta, che 'n calere
non poco gli era e 'nver di cui cotale
andava; e simil per lo tempio grande
di fior diversi assai vide ghirlande.

61

Quivi molti archi a' cori di Diana
vide appiccati e rotti, intra' quali era
quel di Calisto, fatta tramontana
Orsa; e le pome v'eran della fiera
Atalanta che 'n correr fu sovrana,
e ancor l'arme di quell'altra altiera
che partorì il bel Partenopeo,
nepote al calidonio Oeneo.

62

Videvi istorie per tutto dipinte,
intra le quai, con più alto lavoro,
della sposa di Nin vide distinte
l'opere tutte; e vide a piè del moro
Piramo e Tisbe, e già le gelse tinte;
e il grande Ercul vide tra costoro
in grembo a Iole, e Biblis dolorosa
andar pregando Cauno pietosa.

63

Ma non vedendo Vener, le fu detto,
né conobbe da cui: – In più secreta
parte del tempio si sta a diletto;
se tu la vuo', per quella porta cheta
te n'entra. – Ond'essa sanz'altro rispetto,
in abito quale era mansueta,
là s'appressò per entrar dentro ad essa,
per l'ambasciata fare a lei commessa.

64

Ma essa lì nel suo primo venire
trovò Ricchezza la porta guardare,
la qual le parve assai da reverire;
e lasciata da lei quiv'entro entrare,
il luogo vide oscur nel primo gire;
ma poca luce poscia per lo stare
vi prese, e vide lei nuda giacere
sopr'un gran letto assai bello a vedere.

65

Ella avea d'oro i crini e rilegati
intorno al capo sanza treccia alcuna;
il suo viso era tal, che' più lodati
hanno a rispetto bellezza nessuna;
le braccia e 'l petto e' pomi rilevati
si vedean tutti, e l'altra parte d'una
veste tanto sottil si ricopria,
che quasi nulla appena nascondia.

66

Oliva il luogo di ben mille odori;
dall'un de' lati Bacco le sedea,
da l'altro Ceres con li suoi savori;
e essa seco per la man tenea
Lascivia e 'l pomo il quale, alle sorori
prelata, vinse nella valle idea.
E tutto ciò veduto, porse il priego,
il qual fu conceduto sanza niego.

67

Di Palemon le voci adunque udite,
subito gì la dea ove chiamata
era, per che allora fur sentite
diverse cose en la casa sacrata,
e sì ne nacque in ciel novella lite
intra Venere e Marte; ma trovata
da lor fu via con maestrevol arte
di far contenti i prieghi d'ogni parte.

68

Stettesi adunque, mentre il mondo chiuso
tenne Appollo di luce, Palemone
dentro dal tempio sagrato rinchiuso
continuo in divota orazione,
sì come forse in quel tempo era in uso
a chi doveva far mutazione
d'abito scuderesco in cavaliere,
come e' doveva che era scudiere.

69

E certo li predetti innamorati
per lor piacevolezza in generale
da tutti gli Atteniesi erano amati;
per che l'iddii da ciascun con equale
animo furon tututti pregati
che li guardasser d'angoscia e di male,
e ciascheduno in modo contentasse
che di lor nullo mai si biasimasse.


Come Emilia sacrificò a Diana.


70

Fra gli altri che all'iddii sacrificaro,
fu l'una Emilia più divotamente;
la qual, sentendo quanto ciascun caro
era de' due amanti alla sua gente,
non sofferse il suo cuor d'esser avaro
di porger prieghi a Diana possente,
in servigio di que' ch'amavan lei
più che gli uomini in terra o 'n cielo i dei.

71

E le serventi sue tutte chiamate,
co' corni pien d'offerte ragunare
le fé davanti a sé e disse: – Andate,
fate di Diana li templi mondare,
e le veste e' liquor m'aparecchiate
e l'altre cose da sacrificare. –
Elle n'andaro, e essa, in compagnia
di molte donne onesta, là seguia.

72

Fu mondo il tempio e di bei drappi ornato,
al quale ella pervenne, e quivi presto
tutto trovò ch'ella avea comandato;
e poi in loco a poche manifesto,
di fontano liquore il dilicato
corpo lavossi, e poi, fornito questo,
di bianchissima porpora vestissi,
e' biondi crin dalli veli scoprissi.

73

Quinci scoperse la sacra figura
di quella dea cui ella più amava,
e con la bianca man la fece pura,
se forse alcuna nebula vi stava;
poi senza avere in sé nulla paura
sovra l'altar soave la posava,
e quindi, di mirifici liquori
rorando, il tempio riempié d'odori.

74

E coronò di quercia cereale,
fatta venire assai pietosamente,
tututto il tempio e 'l suo capo altrettale;
poi fatto il grasso pin minutamente
spezzare a' servi, con misura equale
sopra l'altare, molto reverente
due roghi fece di simil grossezza,
né ebbe l'un più che l'altro d'altezza.

75

Quindi con pia man v'accese il foco;
e quel di vino e di latte inaffiato
per tre fiate temperò un poco;
e poi lo ncenso preso e seminato
sopra di quello, riempié il loco
di fummo assai soave in ogni lato;
e poi si fé più tortole recare,
e 'l sangue lor sopra 'l foco sprizzare.

76

E molte bianche agnellette bidenti,
elette al modo antico e isvenate,
si fé recare avanti alle sue genti;
e tratti loro i cuori e le curate,
ancor li caldi spiriti battenti,
sopra gli accesi fuochi l'ha posate;
e cominciò pietosa nello aspetto
così a dir come appresso fia detto:
L'orazione d'Emilia a Diana.

77

– O dea a cui la terra, il cielo e 'l mare
e' regni di Pluton son manifesti
qualor ti piace di que' visitare,
prendi li miei olocausti modesti
in quella forma che io gli so fare;
ben so se' degna di maggior che questi,
ma qui al più innanzi non sapere
supplisca, dea, lo mio buon volere. –

78

E questo detto, tacque tanto ch'ella
vide ogni parte delli roghi accesa;
poi dinanzi a Diana la donzella
s'inginocchiò e, da pietate offesa,
di lagrime bagnò la faccia bella,
la quale inver la dea avea distesa;
quindi chinata stette assai pensosa,
poi la drizzò tututta lagrimosa;

79

e cominciò con rotta voce a dire:
– O casta dea, de' boschi lustratrice,
la qual ti fai a vergini seguire,
e se' delle tue ire vengiatrice,
sì come Atteon poté sentire,
allora ch'el più giovin che felice,
dalla tua ira ma non dal tuo nervo
percosso, lasso!, si mutò in cervo,

80

odi le voci mie, s'io ne son degna,
e quelle per la tua gran deitate
triforme priego che tu le sostegna;
e se e' non ti fia difficultate,
a lor donar perfezion t'ingegna,
se mai ti punse il casto cor pietate
per vergine nessuna che pregasse
over che grazia a te adomandasse.

81

Io sono ancora delle tue schiere
vergine, assai più atta a la faretra
e a' boschi cercar che a piacere
per amore a marito; e se s'aretra
la tua memoria, bene ancor sapere
dei quanto fosse più duro che petra
nostro voler contra Venere sciolta,
cui più che ragion segue voglia stolta.

82

Per che se 'l mio migliore è che' tuoi cori
seguiti ancora vergin giovinetta,
attuta gli aspri e focosi vapori ,
ch'accendono il disio, che sì m'affetta,
de' giovinetti di me amadori,
di cui gioia d'amor ciascuno aspetta;
e di lor guerra tra lor metti pace,
ché certo molto, e tu il sai, mi dispiace.

83

E se' fati pur m'hanno riservata
a giunonica legge sottostare,
tu mi dei certo aver per iscusata,
né dei però li miei prieghi schifare
e vedi ch'ad altrui son suggiugata,
e quel che i piace, a me convien di fare;
dunque m'aiuta e li miei prieghi ascolta,
s'io ne son degna, dea, questa volta.

84

Coloro i qua' per me ne' ferri aguti
doman non savi s'avilupperanno,
caramente ti priego che gli aiuti;
e' pianti miei, li quai d'ogni lor danno
per merito d'amor sarien renduti,
ti priego cessi, e facci il loro affanno
volvere in dolce pace o in altra cosa
ch'alla lor fama sia più gloriosa.

85

E se l'iddii forse hanno già disposto
con etterna parola che e' sia
da lor seguito ciò c'hanno proposto,
fa che e' venga nelle braccia mia
colui a cui più col voler m'acosto
e che con più fermezza mi disia,
ché io nol so in me stessa nomare,
tanto ciascun piacevole mi pare.

86

E basti a l'altro la vergogna sola,
sanza altro danno, d'avermi perduta;
e, se licita m'è questa parola,
fa che da me, o dea, sia conosciuta
in queste fiamme il cui incenso vola
a la tua deità, da cui tenuta
sarò; che per Arcita ci si pone
l'una, e l'altra poi per Palemone.

87

Almen s'adatterà l'anima trista
a men sospir per la parte perdente,
e più leggiera sosterrà la vista
quando il vedrò del teatro fuggente,
e la mia volontà, ch'è ora mista,
dell'una parte si farà parente;
l'altra con più forte animo fuggire
vedrà sappiendo ciò che dee venire. –


Ciò che ad Emilia orante apparve e come ella si partì del tempio.


88

I fuochi ardean mentre Emilia pregava,
dando soave odor nel tempio adorno,
ne' quali Emilia tuttora mirava,
quasi per quelli sanza alcun sogiorno
veder dovesse ciò che disiava,
quando di Diana il cor l'apparve intorno
infaretrato, e disser: – Giovinetta,
tosto vedrai ciò che per te s'aspetta;

89

e già nel ciel tra l'iddii è fermato
che tu sii sposa dell'un di costoro,
e Diana n'è lieta, ma celato
poco ti sia qual debbia esser di loro,
se ben da te nel tempio fia mirato
ciò che averrà non fuor di questo coro;
però intenta inver gli altar rimira
e vedrai ciò che il tuo cor disira. –

90

E questo detto, sonar le saette
della faretra di Diana bella,
e l'arco per sé mossesi, né stette
più nulla lì di quelle, ma isnella
ciascuna a' boschi ginne onde venette.
Fremiro i cani, e il corno di quella
si sentì mormorar, laonde segni
Emilia prese che' prieghi eran degni.

91

La giovinetta le lagrime spinse
dagli occhi belli, e dimorando attenta
più ver lo foco le luci sospinse;
né stette guari che l'una fu spenta,
poi per sé si raccese, e l'altra tinse
e tal divenne qual talor diventa
quella del solfo, e, le punte menando,
in qua in là gia forte mormorando.

92

E parean sangue gli accesi tizzoni,
da' capi spenti tututti gemendo
lagrime tai, che spegnieno i carboni;
le quali cose Emilia vedendo,
gli atti non prese né le condizioni
debitamente del fuoco, che ardendo
si spense prima e poscia si raccese,
ma sol di ciò quel che le piacque intese.

93

E così nella camera dubbiosa
si ritornò com'ella n'era uscita,
ben che dicesse aver veduta cosa
che le mostrava sua futura vita.
Ella passò quella notte angosciosa
infin che ogni stella fu fuggita,
poi si levò e rifecesi bella
più che non fu mai matutina stella.


Come i due Tebani armati co' lor compagni uscir de' templi.


94

Il ciel tutte le stelle ancor mostrava,
ben che Febea già palida fosse,
e l'orizonte tutto biancheggiava
nell'oriente, e eransi già mosse
l'ore, e col carro in cui la luce stava
giungevano i cavai, vedendo rosse
le membra del celeste bue levato,
dall'amica Titonia accompagnato;

95

per che ne' templi armati i due amanti
li lor compagni quivi convocaro,
e i fatti futuri tutti quanti,
dico del giorno, tra sé ordinaro,
e qua' fosser di dietro e qua' davanti
alla battaglia ancora stanziaro;
poscia con loro armati se n'usciro
de' templi e 'nverso Teseo se ne giro.


Come Teseo co' Tebani andò al tempio di Marte.


96

Il gran Teseo, dagli alti sonni tolto,
ancor le ricche camere tenea
del suo palagio, en la cui corte molto
di popol cittadin vi si vedea;
il qual vi s'era per veder raccolto
che modo per li due vi si tenea
di ciò che e' doveano il giorno fare,
per Emilia la bella conquistare.

97

Quivi destrier grandissimi vediensi
con selle ricche d'ariento e d'oro,
e ispumanti li lor fren rodiensi,
tenuti da chi guardia avea di loro;
ringhiare e anitrir spesso sentiensi,
qual per amor, qual per odio tra loro;
e l'uno in qua e l'altro in là andava
di tali a piè, e alcun cavalcava.

98

Vedeanvisi venire i gran baroni,
di robe strane e varie addobbati,
e intra tutti eran varie quistioni;
qui tre, là quatro, e lì sei adunati,
tra lor mostrando diverse ragioni
di qual credevan dell'innamorati
che rimanesse il dì vittorioso,
faccendo un mormorar tumultuoso.

99

L'aula grande d'alti cavalieri
tutta era piena e di diversa gente;
quivi aveva giullari e ministrieri
di diversi atti copiosamente,
girfalchi, astor, falconi e isparvieri,
bracchi, levrieri e mastin veramente
su per le stanghe e in terra a giacere,
assai a' cuor gentil belli a vedere.

100

Tra queste genti magnifico molto
uscì Teseo con real vestimento,
ov'è con somma reverenza accolto;
e e' con alto e visto portamento
tutti li vide assai con lieto volto,
e domandò se ancora i duecento
eran venuti; a cui e' fu risposto:
– No, signor mio, ma e' verranno tosto. –

101

In questa venner, non per un cammino,
quasi in un punto, li due gran Tebani;
e qual, qualora a Libero divino
fa sacrificio ne' luoghi montani
la dircea plebe, s'ode infino al chino
di quai vi son li vallon più sottani,
di voci e d'altri suoni e di romore,
tal s'udì quivi allora e non minore.

102

Essi, ciascun co' suoi, tratti da parte,
aspettaron Teseo, che prestamente
venuto, inverso del tempio di Marte
con lor n'andò, e là pietosamente
diè sacrificio e con senno e con arte;
poscia levato, sanza star niente,
sopra 'l gran soglio della porta venne
e lì fermato i suoi passi ritenne.


Come i Tebani, fatti cavalieri da Teseo,
n'andarono verso il teatro per combattere.


103

E sanza star, con non piccolo onore,
cinse le spade alli due scudieri;
e ad Arcita Polluce e Castore
calzar d'oro li sproni e volontieri,
e Diomede e Ulisse di core
calzarli a Palemone, e cavalieri
amendun furono allora novelli
l'innamorati teban damigelli.

104

E ciascheduno sotto una bandiera
d'un segnal qual li piacque con sue genti
si ragunò, e con faccia sincera
gir per la terra visti e apparenti;
e già del cielo al terzo salito era
Febo co' suo' cavai fieri e correnti,
quando per loro al teatro fu giunto
quasi ch'a uno medesimo punto.

105

E ben che non avesser ancor vista
di sé alcuna in quel loco, pensando
per che venieno e ciò che vi s'acquista,
e l'un dell'altro le trombe sonando
udendo, e 'l grido della gente mista
che or l'uno or l'altro gien favoreggiando,
quasi dubbiando, dentro al cor sentiro
subitamente men caldo disiro.

106

E ciaschedun per sé divenne tale,
qual ne' getuli boschi il cacciatore,
a' rotti balzi accostatosi, il quale
il leon, mosso per lungo romore,
aspetta e ferma in sé l'animo equale,
e nella faccia giela per tremore,
premendo i teli con forza sudanti,
e li suoi passi trieman tutti quanti;

107

né sa chi venga né quale e' si sia,
ma di fremente orribili segni
riceve nella mente, che disia
di non avere a ciò tesi l'ingegni;
e 'l mormorar che sente tuttavia,
con cieca cura in sé par che disegni,
per quel talora sua tema alleggiando,
e ancora tal volta più gravando.


Disegna l'autore il teatro e come Egeo e molti altri v'andarono.


108

Poco era fuori della terra sito
il teatro ritondo, che girava
un miglio, che non era meno un dito,
del quale il mur marmoreo si levava
inverso il ciel sì alto, con pulito
lavor, che quasi l'occhio si stancava
a rimirarlo, e avea due entrate
con forti porte assai ben lavorate.

109

Delle quai, l'una inverso il sol nascente
sovra colonne grandi era voltata,
l'altra mirava inverso l'occidente,
come la prima apunto lavorata;
per queste entrava là entro ogni gente:
d'altronde no, ché non v'aveva entrata;
nel mezzo aveva un pian ritondo a sesta
di spazio grande ad ogni somma festa,

110

dal quale scale in cerchio si moveno,
e cre' che in più di cinquecento giri
infino all'alto del muro salieno,
con gradi larghi, per petrina miri;
sopra li quali le genti sedeno
a rimirare gli arenarii diri
o altri che facesser alcun gioco,
sanza impedir l'un l'altro in nessun loco.

111

Al qual davanti era venuto Egeo
con pompa grande per voler vedere;
e similmente v'era già Teseo,
che per fuggire scandal me' potere,
del teatro le porte guardar feo
da molti, che là entro forestiere
o cittadin con arme non entrasse:
sanza esse chi volesse sì v'andasse.

112

A questo tutti i popoli lernei,
poscia che' lor maggiori ebber lasciati,
sen venner, tanti che dir nol potrei,
benché v'entrasser tutti disarmati;
e come avean li lor con li Dircei
veduti, così s'eran separati,
tenendo l'un la parte del ponente,
e l'altra incontro tenea l'oriente.

113

Vennervi i citadini e tutte quante
le belle donne, realmente ornate,
e qual per l'uno e qual per l'altro amante
prieghi porgeva, e, così adunate,
dopo tututte con lieto sembiante
Ipolita vi venne, in veritate
più ch'altra bella, e Emilia con lei,
a rimirar non men vaga che lei.


Come i Tebani entraron nel teatro, l'un per l'una porta e l'altro per l'altra.


114

Venuti adunque li due campioni
armati di tutte arme, in esso entraro;
e ciaschedun co' suoi decurioni
l'un dopo l'altro assai ben si mostraro,
seguendo li già detti lor pennoni,
come ne' templi è detto ch'ordinaro;
e dalla porta donde Euro soffia,
Arcita entrò con tutta sua parroffia,

115

tale a veder qual tra giovenchi giunge
non armati di corna il fier leone
libico, e affamato i denti munge
con la sua lingua e aguzza l'unghione,
e col capo alto, quale innanzi punge,
l'occhio girando, fa dilibrazione;
e sì negli atti si mostra rabbioso,
ch'ogni giovenco fa di sé dottoso.

116

Egli era inanzi in su un gran destriere
a tutti i suoi tutto quanto soletto;
e ben mostrava ardito cavaliere,
sì feroce veniva nello aspetto,
quando attraverso e innanzi e arriere
gia senza posa il buon cavallo eletto;
e elli aveva lo scudo imbracciato,
e il forte elmo in testa ben legato.

117

Appresso gli era col pennone in mano
il forte Dria montato da vantaggio,
di cuore ardito e di poder sovrano;
il qual seguiva il nobil baronaggio,
e il primo era Agamenon spartano
e 'l secondo Pelleo nobile e saggio.
Ligurgo il terzo e 'l quarto era Castore,
Menelao il quinto e 'l sesto Nestore;

118

poi Peritoo e Cromis virilmente,
e Ippodamo e poi Pigmaleone,
ciascun co' nove suoi arditamente;
e in quel preser quella porzione
che giustamente lor fu contingente;
ma d'altra parte entrò poi Palemone,
fiero e ardito, il cavallo spronando,
negli atti bene il suo valor mostrando.

119

Qual per lo bosco il cinghiar ruvinoso,
poi c'ha di dietro a sé sentiti i cani,
con le sete levate e isquamoso,
or qua or là per viottoli strani
rugghiando va fuggendo furioso,
rami rompendo e schiantando silvani,
cotale entrò mirabilmente armato
Palemon quivi da ciascun mirato.

120

Il qual col segno in man Panto seguia,
e dopo lui Minòs, fiero a guardare,
e co' suoi Niso di dietro li gia;
poi Sarpedon e Ida seguitare
e Radamanto, appresso il qual venia
Evandro re, poté ciascun mirare;
Anchelado e Ameto vi si vede,
e dietro a tutti Ulisse e Diomede.

121

E come già aveva fatto Arcita,
così e Palemon co' suoi si trasse
e del teatro tenne una partita,
solo aspettando che 'l segno sonasse;
ma guardando Teseo la gente ardita,
comandò che giammai non si trombasse,
se nol dicesse, lor fiso mirando,
ciascun per sé e tututti lodando.


Stando il campo in pace, Arcita, vedendo Emilia, seco medesimo parla.


122

Mentre così mansueta la cosa
si stava attesa dalli circustanti,
Arcita sotto l'elmo l'amorosa
vista levò, e quasi a sé davanti
vide colei che a tanto perigliosa
battaglia gli metteva tutti quanti;
e, sotto l'elmo sospirando molto,
così parlava con levato volto:

123

"Ahi, bella donna, più degna di Giove
che d'uom terren, se moglie non avesse,
e degno guiderdon di maggior prove
che qualunque Ercul al mondo facesse,
o qual pur fu più forte iddio là dove
bisogno fu la rabbia s'abbattesse
de' perfidi giganti, ch'agognaro
il ciel donde venisti, o lume chiaro;

124

tu se' bellezza ineffabile tale,
che 'l mondo mai non vide simigliante,
né credo che il ciel n'abbia altra equale
a te, che vinci Titan luminante
di lungo andar di splendor naturale
e con lui insieme l'altre luci sante;
se' di virtù fontana e d'onestate,
di leggiadria esemplo e d'umiltate.

125

Non isdegnare adunque il mio amore,
ch'a combatter per te fiero m'induce;
ma con preghiere lo sommo Fattore,
che creò te e ciascuna altra luce,
tenta per me e per lo mio onore;
il fin del qual più là non si conduce,
che per premio poterti possedere
e me per tuo in etterno tenere.

126

E' non saprebbe, posto che volesse,
tornare indietro, bella donna e cara,
cosa che la tua bocca li chiedesse;
dunque non m'esser de' tuoi prieghi avara,
alli qua' domandar, se io potesse,
sanza fallo verria; ma tu che rara
savia tra l'altre se', conoscer puoi
ciò ch'i' domando, tacend'io, se vuoi.

127

E ciò che è con prieghi domandato,
donna, non è soverchio da gradire,
però che par venduto e non donato;
adunque, poi che sai il mio disire,
che di te fui pria ch'altro innamorato,
sanza aprirtel, provedi al mio languire
e fammi lieto di sì fatto dono,
ché vaglio sol perciò che di te sono".

128

In cotai prieghi tacito si stava
Arcita, e gli occhi non partia da quella;
e Palemon, ch'ancora la mirava,
quasi con questa medesma favella
tacito sotto l'elmo ragionava,
quasi dea fosse quella damigella;
e così stando fuor di sé ciascuno,
de' suon della battaglia sonò l'uno.

129

E quale è que' che dal sonno disciolto
si leva su di subito stordito
e qua e là va rivolgendo il volto
per conoscer che è quel c'ha sentito,
così ciascun di loro, in sé raccolto,
del pensier fuori si fu risentito,
e del combatter ritornò il furore
per lo già conosciuto trombatore.


Teseo dichiara le condizioni pertinenti alla battaglia.


130

Levossi allor Teseo, e con la mano
silenzio pose al molto mormorare
che nel teatro i popoli faciano,
e sanza troppo lungo dimorare
del loco dove stava scese al piano,
largo alle genti faccendosi fare,
e qui alquanto stette fermo in piede;
seco pensando giudica e provede.

131

Esso li fece avanti sé venire,
ciascun con parte delli suoi armati,
e lor le condizion fé referire
a le quai s'eran davanti obligati;
e poi v'agiunse, cominciando a dire:
– Signor, que' che di voi saran pigliati,
l'arme per mio comando lasceranno,
e staranno a veder se e' vorranno.

132

E qual, forse per caso fortunoso
o per altra cagion, di fuori uscisse
del teatro, da ora non sia oso
che più nella battaglia rivenisse;
della qual chi sarà vittorioso
avrà la donna, e l'altro ciò che disse
la mia prima sentenza. Adunque andate
e valorosamente vi portate. –


Come Arcita parlando confortò i suoi.


133

Poi questo detto, il secondo sonare
fece Teseo sanza tardar niente;
laonde Arcita cominciò a parlare
in cotal guisa, volto alla sua gente:
– Signor, che sete in così dubbio affare
per me venuti com'è il presente,
poco conforto di parole a voi
credo ch'abbiate bisogno da noi.

134

Ma tuttavia, per una antica usanza
servar, m'ascolterete, se vi piace:
in voi è ferma la mia speranza,
in voi la vita e la mia morte giace,
in voi la pena e la mia dilettanza,
in voi è la mia guerra e la mia pace,
in voi sta e nel vostro potere
quanto di bene o male io posso avere.

135

Dunque, per Dio, la vostra virtute
oggi si mostri davanti a Teseo,
acciò ch'io prenda di quella salute
che è il fin che qui venir vi feo;
non risparmiate le vostre ferute,
né la morte, al bisogno, per Penteo,
il qual da morte a vita recherete
e per vostro in etterno il comperrete.

136

Poi potete veder ch'i' ho ragione
di tal battaglia; onde avremo il favore
del forte Marte en la nostra quistione,
e 'l cor mi dice io sarò vincitore,
però ch'io volli già con Palemone
participare amando questo amore
con pace, e e' non volle; ond'io son certo
che dall'iddii n'avrà debito merto.

137

E se non m'ingannaron le calde are
del nostro grande iddio armipotente
ier, quando a lui andai sacrificare,
sanza dubbio niun sarò vincente;
ma se 'l contrario ne dovesse fare
per ira concreata iustamente,
sopra la testa mia priego che caggia,
anzi ch'alcun di voi nessun mal n'aggia.

138

Ma io non sento averla meritata,
sì che pur ben mi promette speranza
insieme con vittoria, ch'acquistata
mi fia non già per mia poca possanza,
ma per la vostra grande e onorata
fama, che 'n ciò mi dà ferma fidanza;
e dello affanno me per vostro avrete,
se ben pugnando per forza vincete.

139

E ben ch'i' non sia premio a tanto affanno,
né per me vi movesse amor né fede
a sostenere il già offerto danno,
ricordivi di cui voi sete erede,
e qual sia il nome che' vostri primi hanno,
se alla prisca fama nessun crede,
e chi voi sete ancora vi pensate:
poi com vi piace, così operate.

140

Hanno l'iddii in mezzo a questo prato
posto della vertù per premio onore,
se più v'agrada ch'io ne sia levato
ch'ancor vi son legato da amore;
e ben sappiate, e' non fia repugnato
da gente vile e sanza alcun valore,
ma ben da tali chenti noi qui siamo,
o miglior forse convien che l'abbiamo.

141

Li qua' se voi vincete, maggior gloria
ne fia che non saria di gente vile;
ella sarà di lor doppia vittoria
quella che d'essi avrem, non gente umile;
e la crescente fama con memoria
etterna a' successor con dritto stile
ci renderà, e sarenne lodati
da tai ch'ancor non sono ingenerati.

142

Dunque di voi vi ricordi, per Dio!
E se ne fu niun mai inamorato,
dimostri qui chente avesse il disio;
voi non avete con duplificato
popolo a ricercar di Marte il fio,
anzi è, come sapete, appareggiato
di numero con voi, e voi il sapete,
e tutti a voi davanti li vedete.

143

Pensate ancora quanti riguardanti
e che persone sono in questo loco;
voi li vedete tutti a voi davanti,
però, come volete, o molto o poco
adoperate omai, ché cotai vanti
avrà la fiamma chente fia il foco;
priegovi pur quant'io posso di bene,
però che male a voi non si convene. –

144

Egli era tale a veder nello aspetto
quando parlava, qual nel cielo avverso
è da mane o da sera nuvoletto
al sol: con parlare alto, assai diverso
dal suo usato, e 'n su le strieve eretto,
con l'una man reggea 'l caval perverso,
ch'anitrendo era sanza alcuna posa,
l'altra la spada nel foder ascosa.

145

Elli avea detto; e Palemone ancora
con alte voci li suoi invitava
a grandi onori, e a ben far l'incora
quanto poteva, e molto glien pregava:
laonde l'una parte e l'altra allora
sì per lo dir de' due incoraggiava,
ch'appena suon volevano aspettare,
tanto disio avean d'avanti andare.


Qui finisce il libro settimo del Teseida.



LIBRO OTTAVO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro ottavo.

L'ottavo libro il fiero incominciare
ne mostra dello stormo primamente,
e il crudele e aspro adoperare
che fé ciascun de' prencipi possente;

di Teseo e de' presi il riguardare
con laude di ciascun combattente
seguita poi, e quindi il favellare
d'Emilia seco tacito e dolente.

Poi finge Marte, in Teseo transformato,
in Arcita raccendere il furore,
che per riposo in parte era tirato;

poi come Palemon con gran dolore
dal gran caval di Cromis fu pigliato,
e quindi Arcita mostra vincitore.


Incomincia il libro ottavo del Teseida. E prima invoca, cominciando poi la battaglia.


1

Taceva tutto il teatro aspettando
il terzo cenno del sonar tireno,
in qua in là in giù in su mirando,
e or dell'uno or dell'altro diceno
ciò che nel cor ne givano stimando,
e qua' con questi e qua' con que' teneno;
e mentre stavano attenti a costoro,
subito udissi il terzo suon fra loro.

2

Ora la Musa a cui più di me cale
per me versi componga, or per me canti,
e noto faccia il gioco marziale
fieramente operato da' due amanti,
con compagnia ciascun di schiera equale
di cavalier valorosi e atanti;
ch'io per me non varria a far sentire
il duro scontro e l'amaro seguire.

3

Se il romore del gonfiato mare
da fieri venti e forti stimolato
e quanto mai ne fero nel pigliare
porto li marinar fosse adunato
o quello insieme che si dovea fare
quando a Pompeo Cesar assembrato
si fu in Tesaglia, non fora ad assai
quanto fu quel, che non si udì più mai;

4

né saria stato, s'agiunto vi fosse
quel che Lipari fé, o Mongibello,
o Strongolo, o Vulcan quando più cosse,
o quando Giove, più crucciato, il fello
Tifeo di spavento più percosse,
tonando forte: omai chente fu quello
pensil ciascun che ha fior d'intelletto;
forse che 'l sentirà qual io ho detto,

5

d'arme, di corni, nacchere e trombette,
di voci messe da' popoli strani,
il qual dicon che 'n Corinto s'udette,
tanto nel ciel si dilatar sovrani:
ciascuno uccello di volar ristette,
e temer tutti gli animai silvani;
e qualunque era quivi non venuto
pensò parte del ciel fosse caduto.

6

E qual là, dove Appennin da Peloro
tronchi si truovan, per li venti avversi
gli alti marosi per forza tra loro
romponsi e bianchi ritornan di persi,
giunsersi sì le schiere di costoro
con corsi più veloci e più perversi,
che d'alto monte, per subita piova,
rabbioso il rivo il pian letto ritrova.

7

Così adunque le schiere animose
li gran destrieri urtaron con li sproni;
sanz'aver lance, co' petti, focose
insieme si ferir de' buon roncioni.
La polver alta tutti li nascose
in un nuvol di sé; e degli arcioni
usciron molti allor, che non montaro
più a caval, né quindi si levaro.

8

E' si sostenner, né poter passare
oltre fra lor, ma ricularsi indietro
per le percosse equal, sì come fare
suol raggio in acqua percosso o in vetro,
che riflettendo i raggi fa tornare
subitamente per lo cammin tetro;
e vigorosi spronar li destrieri,
in sé tornando gli arditi guerrieri.

9

Né credo, quando più la fucina arse
di Vulcan nera ne' regni sicani,
o quando maggior fummo fuori sparse,
tale il facesse qual salivan vani
vapori al cielo, i quai delle riarse
terre nascean dalli cavalli strani
premute, e dagli anari e da' sudori
mossi e dagli spumanti corridori.

10

Nullo dintorno alcun di lor vedea,
se non come per nebbia ne' turbati
tempi si vede, e l'un non conoscea
l'altro di loro, e gran colpi donati
erano in danno, che ciascun credea
dare a color cui aveno scontrati;
per che Arcita – Pegaso! – a gridare
cominciò forte e' suoi a confortare.

11

Ma Palemon solo – Asopo! – gridava,
e con tal voce a sé i suoi raccolse
e di bene operar li confortava;
poi ver gli avversi la testa rivolse
del suo cavallo, e la spada vibrava;
inver di cui il buono Arcita si volse,
avendo lui appena conosciuto
per lo gran polverio che v'era suto;

12

e con li sproni urtato il gran destriere,
li corse adosso con la spada in mano;
e que' ver lui come pro' cavaliere
corse feroce e certo non invano;
ma tal de' petti, in mezzo delle schiere,
si riferiro e de' corpi, ch'al piano
insieme co' cavai che rincularo
amendun cadder sanza alcun riparo.

13

Cremiso quivi, in Elicona nato,
e Parmenon, che l'onde d'Ismeneo
tutte sapeva, e con lor Polimato,
questo vedendo, incontro di Fegeo
d'Antedon sceser, ch'era dismontato,
e con lui il teumesio Alfesibeo,
per lo lor Palemon volere atare
e, se potesser, Arcita pigliare.

14

E cominciar fra loro aspra battaglia
così a piè con le spade impugnate,
e ciaschedun per lo suo si travaglia,
dando alla parte avversa gran collate,
sforzandosi per vincer la puntaglia;
e ben mostravan lor gran probitate
in mantenersi per ispazio molto,
sanza mai volger, l'uno a l'altro volto.

15

Quivi rimase per misera sorte
Artifilo Itoneo, il qual ferio
d'una bipenne il buon Cremiso a morte;
e mentre lui lo suo fratel pio
volea levar, li sopragiunse il forte
Eleno, e orgoglioso il perseguio
e lui uccise ancor similemente
allato al frate dolorosamente.

16

E 'nnanzi si potesser riavere
ciascun da' suoi, vi fur colpi assai dati,
però che l'uno l'altro ritenere
voleva; e dopo molto in ciò provati
e a ciascuno mancato il potere,
amenduni a caval fur rimontati,
mercè de' lor che gli aiutaron bene,
oprando ciò ch'a tal cosa convene.

17

La pressa grande e lo spesso ferire
tolse di sé a questi due la vista;
e cominciaron per lo campo a gire,
dipartendo ove più la gente mista
si combatteva, ciascun con disire;
e andar sen potea l'anima trista
all'infernali iddii di cui giugnea
Arcita: in saldo ta' colpi traea!


Come gli altri baron tutti s'afrontarono.


18

Il gran Minòs il fiero Agamenone
presto nell'arme gì a riscontrare,
e 'l buon Nestor iscontrò Almeone,
e Ida Peritoo nell'afrontare,
e Evandro s'urtò con Sarpedone;
ma Radamanto venne ad ovviare
il fiero Niso, e appetto a Castore
Anchelado s'oppose con valore.

19

E contro Alimedon Pelleo sen venne,
e Menelao si fé incontro ad Ameto;
né il buon Ligurgo di correr si tenne
inver d'Ulisse, il qual non mansueto
andò ver lui ; ma Diomede attenne
al buon Polluce, d'ira assai repleto;
gli altri ciascun secondo che poteo
nella battaglia più innanzi si feo.

20

Chi passò innanzi e chi rimase appresso
de' prencipi primai nella scontrata;
ciascun feriva e era ferito esso,
la battaglia tenendo lunga fiata;
ma per lo in qua e 'n là ferire spesso,
tosto fu tutta in sé rimescolata;
né ordine servossi, anzi correa
ciascun colà dove me' far credea.

21

E' si scontrò Arcita in Almeone
e battaglia aspra insieme incominciaro;
né di lor nullo pareva garzone,
anzi vendea ciascun suo colpo caro;
e d'altra parte il fiero Palemone
e 'l nobile Polluce si scontraro;
quivi Polluce mostrò aspramente
ch'elli era del ciel degno veramente.

22

El feria Palemon con tal valore,
che quasi a forza ritenuto l'ebbe;
se non che Ulisse, buon combattitore,
lasciò Ligurgo, sì di ciò l'increbbe,
e lui riscosse; ma Pollùs di core,
tal contra Ulisse mal voler li crebbe,
col buon Nestore insieme accompagnato
a forza fuor de' suoi l'hanno tirato.

23

Lì Laertin maravigliosa prova
mostrò di sé con Filacide insieme
in riscuotere Ulisse, ma non giova;
ciascun, quantunque pò, sopra lor preme,
e certo egli era a veder cosa nova
ciò che Liarco faceva e Crusteme
per lui raver; ma Acarnan pisano
li facea fatigar del tutto invano.

24

Col quale insieme era 'l buono Agilleo,
dell'ardir del fratel tutto focoso;
e 'l buon Toàs col suo frate Euneo,
ciascun nell'arme forte e poderoso;
de' quali ognun tanto per forza feo,
che 'ndietro si tornò ciascuno iroso
di que' d'Ulisse; e essi della spessa
turba lui trasser con non poca pressa.

25

Quivi, tratteli l'arme, a riguardare
che fesser gli altri il mandaro a sedere.
Fé dunque il dì assai di sé parlare
Polluce, e fece assai chiaro sapere
che sed e' non l'avesse fatto andare
Giove sì tosto il cielo a possedere,
che elli avrebbe per Elena a Troia
al grande Ettor donata molta noia.

26

Ma qual la leonessa negli ircani
boschi, per li figliuo' che nel covile
non trova, sé con movimenti insani
messa in oblio, la sua ira gentile
mugghiando corre e per monti e per piani,
né mai la fa se non affanno umile;
cotal correndo Diomede andava,
veggendo Ulisse preso che si stava.

27

Niuno aveva resistenza a lui;
e' ferì Eris e ferì Sicceo
e Alcion sicionio, e con lui
molto aspramente l'epidaurio Agreo,
né nulla aveva paura d'altrui;
e 'n quello andare il buon Iolao Ianteo
preso, da Niso e da Almeone
atati, lui ritenner per prigione.

28

Poi ritornati valorosamente
alla battaglia, Cefalo scontraro
e lui ferir; ma valorosamente
Cefalo fé a tal corsa riparo;
ma sua prodezza non valse niente:
Alcidamàs e lui insieme pigliaro,
e dello stormo li mandaron fuori,
sicché non fur più il dì feritori.


Come Diomede fu preso.


29

Agamenone di parte lontana
questo vedeva, tuttor combattendo;
per che, chiamata sua gente spartana,
in quella parte se ne gì correndo,
e gridò forte: – O Diomede, appiana;
troppo ci vai di dammaggio faccendo! –
E questo detto, in sul capo il ferio,
ond'elli a terra tramortito gio.

30

Prender lo volle allora Eliodoro
e 'l buon Mefiso, e eran dismontati;
ma ben vi fu chi contradisse loro,
Arbato e Cidoneo quivi arrivati,
li quali a piè s'opposero a costoro,
e tra lor fur di gran colpi donati;
e Diomede, tutto sanguinoso,
fu tratto dello stormo per riposo.


Come Minòs fu preso.


31

Avea Niso ferito il buon Castore
e quasi già che stancato l'avea,
ove Agilleo ancor con gran valore
mostrava ben tutto ciò che valea;
allor Minòs con furia e con furore,
che assai vicino a sé questo vedea,
vi corse e gli assaliti riscotendo
giva, aspramente in qua e 'n là ferendo.

32

A questo venne correndo Pelleo,
mostrando sé degno padre d'Accille,
e in mezza la pressa far si feo
vie più di luogo assai, che se con mille
vi fosse giunto, e il figliuol di Perseo
con lui insieme; e parea che faville
gittasser d'ogni parte, sì ferventi
quivi pervenner con tutte lor genti.

33

E 'ncontro al gran Minòs Pelleo si mise
con un bastone di ferro impugnato,
né mai alcun per colpir li divise,
sì parea ciascheduno inanimato;
e tanto il buon Pelleo s'inframise,
ferendo forte e sostenendo armato,
che mal suo grado ebber Minòs prigione:
egli, e co' suoi, lo buon Mirmodone,

34

Al qual riscuoter Ditteo operava
con quella forza che potea maggiore,
e 'l ciprian Rifeo forte l'atava,
e 'l simile faceva il buon Mintore,
alli quali Astragon alto gridava:
– Deh, riscotiamo il nostro car signore. –
E Piro e Cenis e Tricon sagace,
ciaschedun sopra ciò quanto pò face.

35

Ma Telamone incontro resistenza
aspra facea con Foco suo fratello,
e Fenice con loro, a tale intenza;
Tarso, Cidone, Parmeso e 'l gemello
Arion con Acon la lor potenza
dimostravan nell'armi a tal zimbello;
tra' quali aspra battaglia e angosciosa
fu certo e grande e per tai dolorosa.

36

Quivi Rifeo fu da Talamone
ucciso, il qual gli avea morto davanti
miseramente il dolente Arione,
il qual parole, sangue e tristi pianti
ad una ora nel sen del suo Acone,
alla morte vicin, tra tutti quanti,
gittava; e quivi l'anima rendeo,
perché cacciata star più non poteo.

37

Ma al da sezzo dopo molti danni,
dopo gran colpi e morti dolorose,
dopo molti sudori e molti affanni,
menar sì Foco e Telamon le cose,
che gli uomini Gnosiachi, e gl'inganni
loro e le forze e l'opre mervigliose
quasi per vinte, indietro rincularo
e lì preso Minòs pur vi lasciaro.


Come Evandro e Sicceo furono tratti della battaglia.


38

Quando l'arcado Evandro di lontano
di tal campion si vide rimanere
sol, quasi l'ira il fé tornare insano,
e sanza più di sua vita temere,
la bella spada recatasi in mano,
inver di Sicceo corse e con potere
sommo li fece da presso sentire
come sapeva di spada ferire.

39

Ben si difese il giovinetto accorto
e ben l'ataro i suoi arditamente,
tal che 'l narizio Leles vi fu morto,
e abbattuta d'una e d'altra gente;
ma alla fine Evandro bene scorto,
abbracciato Sicceo fortemente,
giù del cavallo il voleva tirare,
né il potean colpi da lui separare.

40

Tenevasi Sicceo e abbracciato
aveva lui, e 'n qua e 'n là correndo
givan, ciascun dal suo destrier menato;
ultimamente ciascun, pur tenendo,
fu dal cavallo in tal modo portato,
ched e' votaron gli arcioni, e cadendo
si magagnaron di maniera tale,
che più non fero il dì né ben né male.

41

Dintorno a loro era la pressa molta,
chi per pigliare e chi per ritenere;
e sì di genti e d'armi v'era folta,
che fu più volte loro in dispiacere;
e ciascun si sprovò più ch'una volta
di levar su, ma non v'era il potere;
laonde il meglio che essi poteno
dalli menati colpi si coprieno.

42

Era lì Sipil di Menalo monte,
e 'l forte Menfìs, nato in Cinosura,
e d'Azan v'era il crudo Ginodonte,
e di Partenio con vista sicura
v'era Bricol, e con ardita fronte
Croton vi stava, che giammai paura
non si crede ch'avesse, e il nifeo
Nirilo e anche Trofilo tegeo.

43

Questi volean Sicceo del tutto preso,
e in ciò si sforzavan; ma e' v'era
ben gente dalla quale e' fu difeso
quivi Plesippo e Tosea con fiera
vista si videro, e Acasto acceso
di mal talento, il quale in tal maniera
Croton, tegnente allor Sicceo, ferio,
che morto a' piè tramazzato li gio.

44

E con lor fu Linceo e Eurizio
e 'l buon Fenice, figliuol d'Amintore,
e Etion e Pelopeo Narizio,
ciaschedun uom di non piccol valore,
e ancora con loro era Caspizio;
li qua', ben ch'essi avesser le loro ore
più messe in caccie che nell'arme armati,
fer d'arme sì, che ne furo onorati.

45

E 'l buon Sicceo, lor compagno caro,
malgrado di Menfìs, soavemente
fuor della calca fra' suoi il menaro,
e in riposo quivi pianamente,
con li suoi disarmati, lui lasciaro,
e allo stormo tornar fieramente;
e quei d'Evandro fero il simigliante;
poi al ferir seguiron Radamante.


Come Pelleo fu trasportato dal cavallo fuor del teatro.


46

Non si ritenne per questo Pelleo,
ma, tra gli Arcadi fieramente messo,
quasi che 'ndietro rivoltar li feo
sanza signore, e furvi assai appresso;
al quale Alimedon quanto poteo
si fece incontro, e altri assai dop'esso,
e sì d'una bipenne in capo il fiere,
ch'appena si ritenne in sul destriere.

47

Il quale il ne portò tutto stordito
del teatro di fuor, forte correndo,
dove da Tarso e da Cidon seguito
fu, che 'l ritenner, che giva dormendo;
ma nol ritenner pria che risentito
si fu il re, e a caval credendo
esser ancora, voleva tornare
il colpo ricevuto a vendicare.

48

Ma nulla fu, poi si trovò smontato
e al ritondo teatro di fore;
per che conobbe ch'elli era privato
di combattere il dì; onde dolore
intollerabile ebbe e non provato
da altrui mai; onde con tristo core,
co' suoi ch'eran con lui, al suo ostello
se n'andò disdegnoso e tutto fello.

49

E quale, degli armenti ancor bramoso,
sol pien di sangue rimane il leone,
cotal Pelleo, tutto sanguinoso,
sanza trovar né bestie né persone
de' già feriti, sen gia polveroso,
rodendo sé in sé, tutto fellone,
perché non s'era ritornar potuto
com'elli avrebbe volentier voluto.

50

E Telamon, che nel vide portare,
l'aveva richiamato più fiate,
credendol far, gridando, ritornare,
ma non eran le sue voci ascoltate
da lui che non sapea dove s'andare,
sì le sue posse s'eran dileguate
pel ricevuto colpo, duro e forte,
ch'ad altro avria forse data la morte.


Della battaglia che fu tra Ameto e Arcita.


51

Ameto, sovra Foloèn ardito,
del buon Sicceo seguitò la schiera:
con un baston d'acciaio, chiaro e forbito,
si fé conoscer qual nell'armi egli era;
e 'l buono Appollo ben l'aveva udito,
quando li porse l'umile preghiera;
per che fra tutti aspramente correndo,
si fé far luogo col baston ferendo.

52

Esso ferio d'Amintor Fenice
e l'abbatté, e l'ardito Linceo,
e dopo loro Eurizio infelice,
e dop'essi il dolente Pelopeo;
e se ciò che l'antica fama dice
è ver, di Testio ferì il buon Toseo;
e tai cose facea, che ammirazione
a chi 'l vedeva dava con ragione.

53

E 'n poca d'ora tanto fatto avea,
che quasi in volta parte n'avea messi;
di che Arcita molto si dolea,
e quasi che sconfitto allor vedessi;
ma nol sofferse, anzi ver là correa,
aspreggiando 'l caval con sproni spessi,
e fier si mise ad Ameto davanti,
che giva i suoi cacciando tutti quanti.

54

Quivi si cominciò l'aspra battaglia,
e' ferri eran mezzan della tencione.
Ameto con li suoi buon di Tesaglia
facevan forte e buona difensione;
né miga dimostravan che lor caglia
di rivedere o paese o magione,
anzi mostravan lor le morti care
pria che volessero indietro tornare.

55

Né già Arcita dalli suoi Dircei
era peggio d'Ameto seguitato;
onde di parte in parte fra' Lernei
era di molto male adoperato:
quelli il sapevan che gridando omei
cadevan sanguinosi d'ogni lato;
e lungo e aspro tra loro il ferire
fu più assai che io non potrei dire.

56

Quivi era Aschiro, al gran Chiron nepote,
che poi nudrì Acchille piccioletto,
al qual quantunque dii nell'alte rote
con Giove regnano erano in dispetto;
costui con furia qualunque percote,
del viver più non gli ha luogo rispetto.
E del monte Ossa Fillaro crudele
era con lui, e di Pindar Linfele.

57

A lo scontro de' qua' Cremiso venne,
e vennevi Anfion, sopra Permesso
nato, e ciascun per forza li ritenne;
e 'l parnasio Cirreo v'era, e con esso
Decalione, quanto si convenne
armato; e sì in quel bisogno espresso
adoperar, che la foga di quelli
ristette, e furo offesi alquanti d'elli.


Come Ida pisano fu preso.


58

Ma mentre in tal contasto si sudava,
Ida, leggier più ch'altro, destramente
del suo destriere in terra dismontava,
e di dietro ad Arcita prestamente,
sopra la groppa, armato si gittava,
credendo lui ritener fermamente;
e sì faceva el, ma e' fu corto
l'avviso, perché Arcita ne fu accorto.

59

El s'avisava d'Arcita pigliare
di dietro per le braccia molto stretto,
e il cavallo ad una ora spronare,
per portarnel tra' suoi; ma ciò effetto
non ebbe, ché Arcita, nel montare
di lui, l'un braccio alzò, e poi ristretto
con l'altra mano il freno, il buon destriere
rivolger fé inver delle sue schiere;

60

sì ch'Ida dietro per iscudo gli era,
il qual lui forte abbracciato stringendo
volea tirar, con la sua forza fiera,
in terra del caval; ma non potendo
e lui veggendo già nella sua schiera,
per iscampo di sé volle, scendendo,
fuggir di lì e fra' suoi ritornare;
ma non poté, com'elli avvisò, fare.

61

Però che l'un delli suoi spron prese
del destrier la coverta ventilante,
sicché col piè impacciato, quando scese,
rimase e gir non sen poteva avante,
ma in terra cadendo si distese,
onde addosso li furon tutte quante
le genti allor d'Arcita per pigliarlo;
ma' suoi si fero avanti per atarlo.

62

Quivi era Archesto con altri Pisani,
li quali il preser per tirarlo a loro
e a caval riporlo; ma' Tebani
forte il tenean per lo busto fra loro;
onde co' ferri vennero alle mani,
sé percotendo agramente costoro;
altri il tiravan per lui riavere
e altri forte per lui ritenere.

63

E tal rissa era tra costor, qual vene
tra 'l gioviale uccello e il serpente
il quale i parvi nati di lei tene:
quella di riaverli con tagliente
becco ricerca, adiungendoli pene;
questi solo al fuggire sta intendente
con essi; onde la briga cresce ognora,
mentre il serpente li presi divora.

64

Così era tra questi, ma Eleno
gridò: – Signor, se voi nol ci lasciate,
tra noi e voi qui lo straziereno. –
Ma non eran le sue voci ascoltate;
ond'elli insieme col fiero Parmeno,
gravanti scuri nelle man recate,
feriro Archesto e Limaco sì forte,
che ad amendun sentir fecer la morte.

65

Gli altri, per far di se stessi difesa,
lasciarono Ida quivi, e per vengiare
de' lor compagni la crudele offesa
cominciar colpi spietati a menare;
ma poco valse lor focosa impresa,
ché pure ad Ida ne convenne andare,
malgrado suo, per prigione a posarsi
là dove gli altri lì vedeva starsi.


Della battaglia fatta da Ameto per abbattere la bandiera d'Arcita.


66

Poscia che Ameto vide che scampato
quindi era Arcita maestrevolmente
e Ida per prigion n'era mandato;
turbato nello aspetto, fieramente
inverso Drias ha co' suoi spronato,
lo quale la bandiera fortemente
tenea nel campo; e giusto suo potere
s'ingegnò di volerla far cadere.

67

Ma il giovane con anima sicura
non si mutò, ma stretto l'abracciava,
e sostenendo la battaglia dura
de' colpi che Ameto li donava,
a' suoi gridava con solerte cura
ch'atasser lui, e li rincoraggiava;
quivi Ligurgo con li suoi ardito
era a guardarla posto per perito.

68

El tornò il suo caval verso d'Ameto,
e con lui fu il gran Pigmaleone;
né alcun lì si mostrò mansueto,
ma fiero più che mai alcun dragone;
e dieron colpi assai, che pien di fleto
furono a chi sentì tale offensìone;
né si partì in brieve la mislea,
per ciò ch'Ameto pur fare intendea.

69

Quivi di spade e di baston ferrati
era sì grande la batosta e tale,
che molti ve ne furon magagnati,
né stata v'era nel campo cotale;
e' Pegasei quasi erano avanzati;
per che Anchelado, corso a questo male,
co' suoi raccolto, per costa ferio,
e quasi quindi ciascun si fuggio.

70

E' vi rimase Apintos nemeo,
e Faleron che agli aspri cinghiari
già nelli boschi molta guerra feo;
e tra li sparti sangui nelli amari
campi rimase il misero Neseo,
e altri ancora, non delli men cari;
ma non pertanto Ameto non posava,
ma il suo proposto di far s'ingegnava.

71

El ritornò ver Drias banderese,
e solo abbatter il segno volea:
questo con forze e con diverse offese
verso Ligurgo che gliel difendea,
cercava, di cui venne alle difese
Peritoo, tosto che questo vedea;
e iscontrossi con Alimedonte,
figliuolo stato d'Eurimedonte.

72

E' si feriron di tutta lor possa
sugli elmi con le spade, e ispezzaro
parte di quelli; ma qual si move Ossa
per picciol vento, cotal si mutaro
d'in su' destrier; ma quivi si ringrossa
l'ira; per che più volte si toccaro
e fer maravigliar chi li mirava,
tanto d'arme ciascuno adoperava.

73

Corsevi ancora Artofil mirmodone
contro ad Ameto, ma il buon cavallo
li mancò sotto, donde e' fu prigione
dagli altri messo fuor senza intervallo;
e gissene con esso Sarpedone,
il quale aveva quivi lungo stallo
fatto, abbattuto, e scalpitato spesso
da qualunque ivi gli era andato presso.

74

Questo vedendo Giapeto feroce,
che da l'alber fatale aveva tratta
possa durabil, pessima e atroce,
poscia che Egina fu tutta disfatta
e di formiche si rifé veloce,
come Eaco ebbe sua orazion fatta,
corse ferendo tanto furioso
quanto per piova è rivo ruvinoso.

75

E Dromone il seguì il qual solea
di Calidonio le grotte cercare,
e Cinfalio con lui e 'l buon Finea
e 'l fier Cresippo, credendosi fare
ciò che il lor poter non concedea,
ciò era il buono Artofil racquistare;
per che incontro a loro il larisseo
uscì, con molti armati, Dodoneo.

76

Aveva lungamente combattuto
Peritoo, e Ameto, e veramente
l'un di lor due saria stato tenuto,
se e' non fosse per la molta gente
che venne a dare a ciascheduno aiuto;
ma pure a Peritoo massimamente,
perch'era stanco, vie più bisognava
che ad Ameto ch'ancor fresco stava.

77

Lì venne il buon Leonzio Crimione
e l'epidaurio Doricon ancora,
e ciaschedun di ferro un buon bastone
portava, e ben ciascun per sé lavora;
e Amintor di Lelegia a ragione
di Peritoo l'affanno ristora,
e Fizio Filacido; e sì fero
ch'alcuna lena a Peritoo rendero.


Come Arcita valorosamente, dopo alcun riposo, combatté.


78

Così per lungo spazio combattendo
givano alcuni, e altri per vigore
maggior pigliar si givan ritraendo;
tra' quali Arcita, asciugando il sudore
che sanguinoso gli gia trascorrendo
già per lo viso, della calca fore
alquanto s'era tratto e riprendeva
un poco d'aer sì come poteva.

79

Ma mentre che prendeva tal riposo
così nell'arme, alquanto gli occhi alzati
gli venner là dove 'l viso amoroso
vide d'Emilia e' belli occhi infiammati
di luce tanto lieta, che gioioso
facean qualunque a cui eran voltati;
e tutto in sé tornò quale in prima era,
sì come fior per nova primavera.

80

E quale Anteo, quando molto affannato
era da Ercul con cui combattea,
come a la terra, sua madre, accostato
s'era, tutte le forze riprendea,
cotale Arcita, molto faticato,
mirando Emilia forte si facea;
e vie più fiero tornò al ferire
che prima, sì lo spronò il disire.

81

El sì ferì tra la gente più folta,
e con la spada si facea far via;
e questo qua e quello in là rivolta,
costui abbatte e quello altro feria;
e combattendo dimostra la molta
prodezza che Amor nel cor li cria;
el non ne giva nullo risparmiando,
ma, come folgor, tutti spaventando.

82

Egli abbatté Aschiro e Piragmone
e dopo loro il ferrigno Cefeo
e l'etolo Cheron di Pleurone
e 'l gran cavalcatore Erimeteo
e Filon poi, nepote a Palemone,
al qual di morte doglia sentir feo:
tal con la spada in sul capo li diede,
che per morto sel fé cadere a piede.

83

Poi sen gì oltre, e costui istordito
rimase in terra lì villanamente;
ma poi che fu di stordigione uscito,
con voce fioca dolorosamente
disse: – Va oltre, cavaliere ardito,
col primo agurio della nostra gente,
e cotai basci Emilia ti dea spesso,
qual tu m'hai dato! – E giù ricadde addesso.

84

Similemente Erimeteo dicea,
il qual di sangue avea la faccia sozza;
ma le parole più rotte porgea,
però ch'era ferito nella strozza;
laonde forte seco si dolea,
tal di quel colpo sentiva la 'ndozza,
dicendo: – Se te padre raspettasse,
quale hai me concio qui ti ritrovasse! –

85

Maraviglie facea il buono Arcita,
in qua in là per lo campo correndo;
e con gran voci le sue schiere aita,
or questo or quello andando soccorrendo;
e ciascheduno a bene ovrare invita
che vede lui così andar ferendo;
e d'altra parte facea il simigliante
l'ardito Palemon, pro' e atante.
Della disposizione del campo.

86

Dopo il crudele e dispietato assalto,
orribile per suoni e per ferite,
lì fatto prima, sopra il rosso smalto,
si dileguaron le polveri trite:
non tutte, ma tal parte, che da alto
e ancora da basso eran sentite
parimente e vedute di costoro
l'opere e 'l marziale aspro lavoro.

87

Il sangue quivi de' corpi versato
e de' cavalli ancor similemente
aveva tutto quel campo inaffiato,
onde attutata s'era veramente
e la polvere e 'l fummo, e imbragacciato
di sangue era ciascun destrier corrente,
o qualunque omo vi fosse caduto,
ben che a caval poi fosse rivenuto,

88

Ciascuno aveva i ferri sanguinosi,
e 'l viso rotto, e l'armi dispezzate;
e' più morbidi aspetti rugginosi
eran di vero, e le veste squarciate,
e i cavai non erano orgogliosi
come soleano, e le schiere scemate
erano assai e scemavano ognora:
tanto di cuor ciascuno a ciò lavora!


Ciò che Teseo e gli altri riguardanti diceano.


89

Miravali, ammirando, il grande Egeo,
con vista aguta del suo real loco;
e 'l simile faceva ancor Teseo,
tutto nel viso rosso come foco,
tanto 'l disio del combatter poteo,
di che più volte si tenne per poco!
Esso vedeva e conosceva aperto
qual di lor fosse più nell'arme esperto.

90

E similmente assai chiaro notava
l'opere di ciascuno e 'l suo ferire;
e chi la morte per onor cercava,
e chi temeva per gloria morire,
e chi più arte en la battaglia usava,
e chi aveva o più o meno ardire,
e chi schifava e chi facea niente,
tutto vedea in sé tacitamente.

91

E spesso giudicava la dubbiosa
battaglia e 'l fin di quella seco stesso;
ma non poteva fermo di tal cosa
giudicio dar, sì si mutava spesso
il caso d'essa, che non men noiosa
di lontano era che fosse da presso;
e 'n general per prodi e per valenti
lodava seco tutti i combattenti.

92

Elli avea seco li prigion chiamati,
e de' lor casi con lor si ridea;
e, come volle, quivi disarmati
seco ciascun reverente sedea,
tenendo dell'affar diversi piati:
chi questi e chi quegli altri difendea;
ma tututti dicean ch'alcun vantaggio
non vi vedean, ma eran d'un paraggio.

93

Ipolita con animo virile
la doppia turba attenta rimirava,
né già fra sé ne teneva alcun vile,
anzi d'alta prodezza li lodava;
e s'elli avesse il suo Teseo gentile
voluto, arme portarvi disiava,
tanto sentiva ancora di valore
di quella donna il magnifico core!


Come Emilia, rimirando la battaglia, seco parlava.


94

Emilia rimirava similmente
e conosceva ben, tra gli altri, Arcita
e Palemone ancora combattente;
e attonita quasi e ismarrita,
fiso mirava la marzial gente;
e quante volte vedea dar ferita
a nullo, o che el fosse in terra miso,
tante color cangiava il chiaro viso.

95

E sempre in sé dimorava dubbiosa
non colui fosse Arcita o Palemone,
e con voce soave assai pietosa
dava all'iddii divota orazione.
Ciò che vedeva o udiva noiosa
nell'animo le dava mutazione;
e tutta impalidita nello aspetto,
che ella non fosse essa avria l'uom detto.

96

Questa con seco talora dicea:
"Omè, Amor, quant'hai male operato!
Io non ti vidi e non ti conoscea,
né costor similmente, in alcun lato;
né per lor venni, né data dovea
essere a lor, né non l'avea pensato
Teseo giammai; ma tu e la fortuna
a tal m'avete recata qui una.

97

E se tu pur volevi il tuo ardore
in altrui porre per la mia bellezza,
potevil fare, e con lieto colore
adimandarmi far da sua grandezza,
perciò che io non son di tal valore,
che per me si convegna ogni prodezza
mostrar che posson molti. O me amara,
che da vender non fui cotanto cara!

98

Deh, quanto mal per me mi diè natura
questa bellezza di cui pregio fia
orribile battaglia, rea e dura,
che qui si fa sol per la faccia mia!
La quale avanti ch'ella fosse oscura
istata sempre volentier vorria,
che tanto sangue per lei si versasse,
quanto qui veggio nelle parti basse.

99

Omè, Amor, con che agurio omai
nella camera di qual di costoro
entrerò io, se non d'etterni guai?
L'anime dolorose di coloro
ch'a torto per me muoion, non fien mai
sanza disio di mio dolore e ploro,
e sempre attente mi spaventeranno
e faran festa di ciascun mio danno.

100

Oh, quante madri, padri, amici e frati,
figliuoli e altri, me maladicendo,
davanti a l'are staranno turbati,
da' loro iddii i miei danni chiedendo;
e fien da lor con diletto ascoltati
s'egli avverranno, e dell'altro piagnendo;
e sì l'iddii infesteranno forte,
che dannata sarò a crudel morte.

101

Oh, che duro partito è quello a ch'io
misera son venuta per amore,
di cui non mi scaldò giammai disio,
e sanza colpa ne sento dolore!
O sommo Giove, deh, diventa pio
di me, che sol nel tuo sommo valore
ispero per soccorso del mio male,
più ch'altro greve, se di me ti cale.

102

E s'io dovea pur per Marte donata
esser a sposo, vie minore affanno
che questo bisognava, ove assembrata
cotanta gente non è sanza danno.
Andromeda fu sola liberata
da Perseo, quando l'ebbe sanza inganno,
e esso al monstro s'oppose marino,
poi fu atato dal coro divino.

103

Borea sol volò verso Etiopia
e ebbe Orizia, tanto seppe fare!
E Pluto, che patia di moglie inopia,
sol se la seppe in Cicilia furare;
e Orfeo della sua riebbe copia,
tanto sol seppe umilmente pregare!
E Atalanta ancor fu guadagnata
da un da cui fu nel corso avanzata.

104

Io sola son con le forze di molti
chesta da due, mentre ch'io son mia,
e qui dinanzi a me li veggio accolti,
e iracundi la lor fellonia
l'un verso l'altro con colpi disciolti
veggo mostrar per la lor gran follia;
né so ancor di cui esser mi deggia,
tanto di pari par ch'ognun mi cheggia.

105

E or pur fosse la mia mente all'uno
col disio appoggiata e mi piacesse!
Ma tanto è bello e nobile ciascuno,
che io non so qual di lor m'eleggesse,
se e' mi fosse detto da alcuno
che qual volessi in isposo prendesse;
così in amorosa erranza posta
m'ha, lassa!, Amor, perché più non li costa.

106

Io sto di ciascun d'essi sospettosa,
e di ciascuno il mal temo e 'l dammaggio;
e pur son certa che vittoriosa
fia l'una parte, e non so col coraggio
qual io m'aiuti, o di quale io pietosa
diventi, o di qual fosse danno maggio
s'ella perdesse; e l'uno e l'altro miro,
e per ciascuno igualmente sospiro.

107

Né mi vene all'orecchie: "Pegaseo!"
alcuna volta dalli suoi chiamato,
ch'io non divenga qual si fa Rifeo
per le sue nevi dal sol riscaldato;
e il gridare: "Asopo!" ancor mi feo
parer più volte col viso cangiato;
né veggio nullo, e sia qual vuol, cadere,
che non mi paia il suo duol sostenere.

108

Deh, or gli avesse pur Teseo lasciati,
quando noi li trovammo nel boschetto,
combatter soli! Almen diliberati
sariensi in lor di me, e con diletto
avrebbe l'un gli abbracciar disiati
di me, tenendol nel suo cor distretto
sanza scoprirsi; e io non sentiria
per lor né ira né malinconia.

109

Così m'hai fatto, Amore, e più non posso,
e sanza amare innamorata sono:
tu mi consumi, tu mi priemi adosso
per colpa degna certo di perdono;
tu m'hai il cor, dolorosa!, percosso
con disusato e non saputo trono:
e or pur foss'io certa che campasse
l'un d'esti due e sposa men portasse!".

110

Così la giovinetta in sé dicea,
mirando fuor di sé le cose dire
che l'un baron contra l'altro facea
nel campo, acceso di troppo disire;
e l'altro popol, che questo vedea,
chi gioia ne sentiva e chi martire,
e ciaschedun con voci confortava,
alto gridando, quel che più amava.


Come Marte in forma di Teseo, disceso nel campo, raccese in Arcita, che si riposava, l'ardore della battaglia.


111

La battaglia era a pochi ritornata,
chi qua chi là per lo campo scorrendo;
e quasi già sì la gente affannata
era, l'un l'altro per forza ferendo,
che poco potean più; ma spessa fiata
di patto fatto si gian sostenendo,
e quasi pari ciascun del partito,
per istanchezza si ristava attrito.

112

Ma Marte riguardava d'alto loco,
e Venere con lui, i combattenti;
il qual poi vide intiepidire il foco
che facea prima gli animi ferventi,
e le spade chetarsi a poco a poco,
e stanchi vide i buon destrier correnti,
pien d'ira e di coruccio lì discese,
e con parole tali Arcita accese,

113

in forma rivestito di Teseo:
– Ahi, villan cavalier, falso e fellone,
qual codardia qui fermar ti feo?
Non vedi tu combatter Palemone
e per dispetto nomarti Penteo,
dicendo che 'ntendevi, a tradigione,
sotto altro nome Emilia possedere,
la quale elli in aperto crede avere? –

114

E detto questo, trascorse en la schiera
d'Arcita con parole accese d'ira;
e sì focoso fé qualunque v'era,
ch'a veder parve a tutti cosa mira.
E Arcita, infiammato com'elli era,
ogni riposo lasciando, si tira
con la sua spada in man, mostrando ch'esso
non fosse quel che si posava addesso.

115

Agamenone il seguì animoso,
e Menelao e Polluce e Castore,
e Peritoo appresso valoroso,
e con Cromis ancora il buon Nestore;
né cura avendo di nessun riposo,
ver Panto dirizzaro il lor valore,
e lui per forza aspramente pigliaro,
e la bandiera in braccio gli tagliaro.

116

Ma loro uscì incontro Palemone,
fiero e ardito, con Ameto allato,
li qua' seguiva il feroce Almeone,
e Anchelado, e Niso transmutato
in ira di riposo, e Alimedone
che 'n quello incontro fu forte piagato;
e cominciar la battaglia sì fiera,
che tal non fu veduta qual quella era.

117

E ben che fosser fieri e animosi,
e al morir più ch'a vergogna dati,
taciti, alquanto nel cor paurosi,
divenner, poi con lor furo scontrati;
perché augusti più e poderosi
parean lor gli avversarii ritornati;
ma nondimen durava la mislea
crudele e fiera quant'ella potea.

118

Combattea Palemone arditamente
con Menelao, e Cromis combattea
con Almeon, ciascuno assai possente;
Alimedon contra Nestor tenea,
ma il fiero Arcita vigorosamente
vincere Ameto per forza volea;
Ligurgo contro a Niso avea ripresa
battaglia, e e' faceva gran difesa.

119

E così insieme gli altri combatteno,
tutti nel campo raccesi a battaglia,
e lungo assalto fra lor manteneno:
ciascun di cacciar l'altro si travaglia.
E mentre in guisa tal le cose gieno,
cadde di Foloèn quel di Tesaglia,
e Peritoo vi fu abbattuto
e dagli Asopii forte ritenuto.


Come Palemon fu preso dal cavallo di Cromis.


120

Cromis avea sì stancato Almeone,
che non poteva più, ma si tirava
indietro; ma di Cromis il roncione,
ch'ancora che solea si ricordava
gli uomin mangiar, pel braccio Palemone
co' denti prese forte, e sì l'agrava
col duol, che 'l fece alla terra cadere
mal grado ch'e n'avesse, e rimanere.

121

E quale il drago talora i pulcini
dell'aquila ne porta renitenti,
o fa la leonessa i leoncini
per tema degli aguati delle genti,
così faceva quel vibrando i crini,
forte strignendo Palemon co' denti,
cui elli aveva preso in tal maniera,
che merviglia n'avea chiunque v'era.

122

E se non fosse che e' fu atato
da' suoi avversi, il caval l'uccidea,
a cui di bocca appena fu tirato,
e tratto fuor della crudel mislea,
e sanza alcuno indugio disarmato
per Arcita, che l'arme sue volea
per offerire a Marte, s'avenisse
che 'l dì a lui il campo rimanesse.

123

Se Palemone allora fu cruccioso,
soverchio qui saria ciò raccontare,
e però di narrarlo mi riposo:
ottimamente il può ciascun pensare.
Egli era alla sua vita invidioso
e quasi si voleva disperare,
e ben si crede del tutto perduta
aver d'Emilia la speranza avuta.


Parole dell'autore, d'Emilia vedendo preso Palemone.


124

Essa ciò riguardava assai dolente,
e sappiendo qua' patti eran tra loro,
già d'Arcita credendo fermamente
esser, l'animo suo sanza dimoro
a lui voltò, e divenne fervente
dell'amor d'esso, e già, per suo ristoro,
per lui vittoria, pietosa chiedea,
né più di Palemon già le calea:

125

così le fece il subito vedere
di cui esser credea pensier cangiare!
Ciascun si guardi adunque di cadere
e del non presto potersi levare,
se non gli è forse caro di sapere
chi gli è amico o chi amico pare:
colui che 'n dubbio davanti era amato,
ora è con certo cuore abbandonato.

126

Or loda Emilia seco la bellezza
d'Arcita tutta e 'l nobil portamento;
ora le par più somma la prodezza
di lui e troppo maggior l'ardimento;
or crede lui aver più gentilezza,
or più cortese il reputa l'un cento:
là dove prima le parieno equali,
or le paion del tutto disiguali.

127

Or ha preso partito e appagata
dagl'iddii tiensi d'avere il migliore;
e già d'Arcita si dice sposata,
e già li porta non usato amore
occultamente, e già spessa fiata
priega l'iddii per lo suo signore;
e con nuovo disio il va mirando,
l'opere sue sopra tutte lodando.

128

Già le rincresce il combatter che fanno
più lungo, e fine a quel tosto disia;
e già con nuova cura teme il danno
d'Arcita più che non faceva in pria;
e di lui pensier nuovi al cor le vanno,
li quai davanti punto non sentia;
e sol d'Arcita l'imagine prende,
e sé lascia pigliar, né si difende.


Come, preso Palemone, il campo rimase ad Arcita.


129

L'aspra battaglia stata infino allora,
poscia che vider preso Palemone,
e Ameto abbattuto in terra ancora,
e sopra lor più fiero Agamenone
vidono e gli altri, ciascun si discora
e lievemente si dà per prigione;
né valse a Palemone il suo gridare
– Tenete il campo! –, che 'l volesser fare.

130

Laonde Arcita in poca d'ora prese
co' suoi di quelli i tiepidi pugnanti;
il che vedendo tutto si raccese,
sì come soglion sempre far gli amanti,
se dubbiosa speranza mai gli offese,
quando certa ritorna a' disianti
secondo il lor disio; e valoroso
il campo circuia vittorioso,

131

e lieto i suoi andava ricogliendo,
ben che pochi rimasi ve n'avesse;
e con la spada in mano ancor ferendo,
s'alcun vi fosse che contradicesse
alla vittoria sua; e sì faccendo,
d'allegrezza parea tutto godesse:
e già voleva il caval ritenere,
avendo tutto vinto, al suo parere.


Qui finisce il libro ottavo del Teseida.



LIBRO NONO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro nono.

Dimostra il nono libro apertamente
perché e come Arcita vincitore
sotto al caval cadesse, e il dolore
ch'ebbe di ciò Teseo e ogni gente;

ma, com'el puote, poi triunfalmente
in Attene il ne mena con onore.
Quivi Teseo, parlando, ogni signore
contenta ch'era stato il dì perdente.

Libera poi Emilia Palemone,
il qual, pe' patti fatti nel boschetto,
quivi le fu presentato prigione,

e alti don gli dona; e in cospetto
di ciaschedun notabile barone
la sposa Arcita, come 'n fine è detto.


Incomincia il libro nono del Teseida. E prima come Venere, mandata Erinis, infernal furia, a spaventare il cavallo d'Arcita, gliele fé cadere addosso.


1

Già s'appressava il doloroso fato,
tanto più grave a lui a sostenere,
quanto in più gloria già l'avea elato
il sé vittorioso ivi vedere.
Ma così d'esto mondo va lo stato,
ch'allor è l'uom più vicino al cadere
e vie più grieve cade, quanto ad alto
è più montato sovra il verde smalto.

2

Sovra l'alta arce di Minerva attenti
Venere e Marte a rimirar costoro
stavan, fra sé dell'ordine contenti
che preso fu per li prieghi fra loro.
Ma già vedendo Venus che le genti
di Patemon non potean dar ristoro
a la battaglia più, rivolta a Marte,
disse: – Oramai fornita è la tua parte.

3

Bene hai d'Arcita piena l'orazione,
che, come vedi, va vittorioso;
or resta a me quella di Palemone,
il qual perdente vedi star doglioso,
a mio poter mandare a secuzione. –
A la qual Marte, fatto grazioso,
– Amica – disse, – ciò che di' è 'l vero;
fa oramai il tuo piacere intero. –

4

Ell'avea poco avanti visitati
gli oscuri regni dell'ardente Dite
e al re nero aveva palesati
i suoi disii; per che di quella uscite
più furie eran con alti mandati;
ma ella, Erinis presa, a l'altre: – Gite
dove vi piace – disse; e poi a questa
tutta la voglia sua fé manifesta.

5

Venne costei di ceraste crinita,
e di verdi idre li suoi ornamenti
erano a cui in Elisso la vita
riconfortata avea, le quai lambenti
le sulfuree fiamme, che uscita
di bocca le facevan puzzolenti,
più fiera la faceano; e questa Dea
di serpi scuriata in man tenea.

6

La cui venuta diè tanto d'orrore
a chi nel teatro stava a vedere,
ch'ognuno stava con tremante core,
né il perché nessun potea sapere.
Li venti dier non usato romore,
e 'l ciel più ner cominciò a parere;
il teatro tremò, e ogni porta
cigolò forte ne' cardini storta.

7

Costei, nel chiaro dì rassicurata,
non mutò forma né cangiò sembiante;
ma già nel campo tosto se n'è andata,
là dove Arcita correva festante,
e orribil come era, fu parata
al corrente destrier tosto davante,
il qual per ispavento in piè levossi
e indietro cader tutto lasciossi.

8

Sotto il qual cadde il già contento Arcita,
e 'l forte arcione li premette 'l petto
e sì il ruppe, che una fedita
tutto pareva il corpo; e 'l giovinetto,
che fu in forse allora della vita
abbandonar da gran dolor costretto,
per molti, che a lui corsero allora,
atato fu sanz'alcuna dimora.

9

I quali a pena lui disvilupparo
da' fieri arcioni, e con fatica assai
da dosso il caval lasso gli levaro;
il qual, com si sentì libero, mai
non parve faticato, tal n'andaro
le gambe sue fuggendo: tanti guai
li minacciò la Furia con la vista
sua dispettosa, noievole e trista!


Ciò che ad Emilia parve della caduta d'Arcita.


10

Emilia del loco dove stava
chiaro conobbe il caso doloroso,
per che il cor, che più ch'altro l'amava,
di lui dubbiando si fé pauroso;
onde per tema a sé tutte chiamava
le forze sparte nel corpo doglioso;
per che nel viso tal rimase smorta,
quale è colui che al rogo si porta,

11

"O me dogliosa!" in sé trista dicendo,
"Quanto la mia felicitate è breve
istata!" questo caso ora vedendo.
"E ben che il pensier mi fosse greve,
e' pur m'andava dentro il cor dicendo
che non poteva con fatica leve
d'amor passar, più che passar si soglia
per gli altri c'han provata la sua doglia.

12

Ora conosco ciò che volea dire
Bellona sanguinosa, che davanti
oggi m'è stata, senza dipartire,
con atti fieri e morte minaccianti,
quasi io dovessi li danni patire
che si fesser tra lor li due amanti".
E questo detto, sì il dolor la vinse,
ch'errando fuor di sé tutta si tinse.

13

El fu subitamente disarmato,
e il palido viso pianamente
con acqua fredda lì li fu bagnato,
onde e' si risentì subitamente,
e molto fu da' suoi riconfortato;
ma parlar non poteva ancor niente,
sì gli avea 'l petto il suo arcion premuto
mentre il cavallo adosso gli era suto.


Come Agamenone, caduto Arcita, ritenne il campo.


14

Agamenon, con contenenza fiera,
con Menelao per lo campo gia,
e scorrendo per quel con la bandiera,
ciascun de' suoi di dietro li venia;
e a qual fosse della vinta schiera
rimaso quivi, sanza villania
alcuna far, per preso nel mandava,
e vincitor sopra 'l campo si stava.


Come molti vennero per riconfortare Arcita, e del dolore di tutti.


15

Ma poi che fur le cose riposate
e manifesto a tutti il vincitore,
e 'l molto suon delle trombe sonate
e alti gridi mandati in onore
e d'Arcita e de' suoi, e già levate
le genti varie con novo romore,
trassersi i vincitori inverso Arcita
per vedere il sembiante di sua vita.

16

Là discendendo venne il vecchio Egeo,
e 'n grembo la sua testa si fé porre;
e dopo lui vi venne il pio Teseo,
e la reina Ipolita vi corre,
e Emilia ancor quanto poteo;
e ciaschedun lui conforta e soccorre
con pietose parole, stropicciando
le mani e' piè di lui, lui domandando.

17

Ma e' non rispondeva, anzi ascoltava,
e ciò per non potere adivenia;
ma gli occhi erranti in qua e 'n là voltava
or questo or quello con sembianza pia
mirando, e sé quasi non sé mostrava:
tale era il duol che l'anima sentia,
ch'ancora in dubbio di stare o di gire
errava per lo cuor con gran martire.

18

Ma poi ch'Emilia tabefatto il viso
di polvere, di sangue e di sudore
vide, e sentì che 'l capo avea diviso
in parte alcuna, appena il suo dolore
casto ritenne dentro al cor conquiso,
maladicendo in sé il soverchio amore
che lui a tal partito posto avea
e lei vie troppo di novo pungea.

19

Ma sì non seppe la cosa celare,
né ritener le lagrime dolenti,
che spesse volte il suo viso cangiare
visto non fosse da' più delle genti.
Ella non sa come racconsolare
onesta il possa, e i disii ferventi
pur la vi tirano; e così sospesa,
da greve doglia lui rimira ofesa.

20

Quivi era sì dolente Agamenone,
Menelao e Nestore e ciascheduno
altro amico di lui o compagnone,
che non pareva aver vinto a nessuno,
anzi di doglia vie maggior cagione
aver che di pigliar riposo alcuno;
e 'n qua e 'n là si givan lamentando,
l'iddii di tanta offesa biasimando.

21

Palemon tristo d'una e d'altra cosa,
del mal d'Arcita forte li dolea,
ma più assai sua fortuna angosciosa,
che perditor quivi fatto l'avea;
né sa se isperanza graziosa
si prenda quindi, o se l'aspetta rea;
e pur conosce Arcita per parente,
né può fuggir che non ne sia dolente.


Come Teseo fece votare il teatro di genti e medicare Arcita,
il quale, potendo parlare, domandò d'Emilia, la quale Teseo li fé venire;
ond'elli si confortò molto.


22

Fece Teseo il campo a' vincitori
raccoglier tutto, e fece comandare
che qual non fosse de' combattitori
sanza dimoro sen dovesse andare;
li quai poi furo al teatro di fori,
fece quel dentro alle guardie serrare,
e mise cura solenne in Arcita
in rivocar la sua vita smarrita.

23

El fé chiamar più medici e venire
nel loco, i quai di vin tutto il lavaro,
e con loro argomenti fer reddire
a lui il parlar, che l'ebber molto caro;
poi le sue piaghe li fecer coprire
di fini unguenti e tututto il lenzaro;
e poi ch'alquanto fu riconfortato,
a seder lì tra lor si fu levato.

24

E con voce non salda, umilemente
domandò qual di loro era vittore;
a cui Teseo rispose tostamente:
– Amico mio, del campo è tuo l'onore. –
Allor diss'elli: – Adunque la piacente
Emilia ho guadagnata e 'l suo amore? –
Teseo rispose: – Sì, ecco tua sia;
omai ne fa ciò che 'l tuo cor disia. –

25

A cui el disse: – Se io ne son degno,
deh! fammi alquanto la sua voce udire,
a me più cara ch'alcuno altro regno,
e fa ch'io possa en le sue man morire,
per che 'n core ferma oppinion tegno
che' regni neri sanza alcun martire
visiterò, s'io la posso vedere
o dar l'anima mia al suo piacere. –

26

Teseo rispose: – Cotal parlamento
non ha qui luogo, che ora non morrai.
Ecco lei qui al tuo comandamento,
con cui vivendo ancor t'allegrerai. –
E a lei disse: – Deh! fallo contento
di quel ch'e' chiede: deh! perché nol fai?
Non vedi tu quant'elli ha per te fatto,
ch'è a partito d'esserne disfatto? –

27

Emilia più niente disiava,
se non onesta poterli parlare,
e vergognosa così cominciava:
– O signor mio, se vale il mio pregare,
confortati, ché 'l tuo mal sì mi grava,
ch'appena il posso, lassa!, comportare;
io son sempre con teco, o dolce sposo,
oggi stato per me vittorioso. –

28

Quali i fioretti richiusi ne' prati
per lo notturno freddo, tutti quanti
s'apron come dal sol son riscaldati,
e 'l prato fanno con più be' sembianti
rider fra le verdi erbe mescolati,
dimostrandosi lieto a' riguardanti,
cotal si fece vedendola Arcita,
poscia che l'ebbe sì parlare udita.


Come Arcita in su un carro triunfale rientrò in Attene.


29

Passata avea il sol già l'ora ottava,
quando finì lo stormo incominciato
in su la terza; e già sopra montava
il Pincerna di Giove, permutato
in luogo d'Ebe, e col ciel s'affrettava
il Pesce bin di Vener lo stellato
polo mostrar; però parve ad Egeo
di partirsi indi, e 'l simile a Teseo.

30

E già Arcita ne volea pregare,
quando Teseo comandò che venisse
un carro triunfal, che apparecchiare
aveva fatto a chiunque vincesse;
e lì il fé molto riccamente ornare,
e Arcita pregò che su vi gisse
fino all'ostier, se non li fosse noia.
Rispose Arcita che anzi gli era gioia.

31

E certo, quando Roma più onore
di carro triunfale a Scipione
fece, non fu cotal; né di splendore
passato fu da quello il qual Fetone
abbandonò per soverchio tremore,
quando Libra si cosse e Iscorpione,
e e' da Giove nel Po fulminato
cadde, e lì l'ha l'epitafio mostrato.

32

E ben che fosse ancor molto stordito
per la caduta del fiero destriere,
non era elli ancor sì indebolito,
che non vi stesse ben suso a sedere
di drappi triunfal tutto vestito
e coronato, secondo 'l dovere,
di verde alloro; e su vi gì con esso
la bella Emilia, sedendoli appresso.

33

Così volle Teseo che ella andasse,
per più piacere al grazioso Arcita,
e acciò ch'ella ancora il confortasse,
se sua sembianza tornasse smarrita
per accidente che 'n lui si mutasse;
di che Arcita la penosa vita
riconfortò, non poco disioso
mirando spesso il bel viso amoroso.

34

Cromis ancora, tutto quanto armato,
vi gì, con forte mano i fren reggendo
de' cavai da cui 'l carro era tirato;
e gli avversarii, quello antecedendo,
girono a piè, ma ciascun disarmato,
e certo non costretti ma volendo,
come gli avea pregati Palemone,
per ad Arcita dar consolazione,

35

ben ch'ella fosse assai dovuta cosa
e ab antico ne' triunfi usata.
Poi di dietro veniva la pomposa
turba de' suoi così come era armata,
e con sembianza assai vittoriosa;
e da molti era, da ciascun, portata
o spada o scudo o mazza o scuricella
bipenne, tolta en la battaglia fella;

36

e altri ne menavano i roncioni
donde i signor furono scavallati,
coverti tutti, ma con voti arcioni;
e ta' dell'altrui armi gieno armati,
chi elmo e chi barbuta e chi tronconi
d'altre armadure nel campo trovati,
e chi toraca e chi caro balteo,
secondo che trovar quivi poteo.

37

Ma tra gli altri più nobili davante
giva di Palemon tutto l'arnese,
a Marte già botato, e simigliante
quel v'era con che Arcita si difese.
Da' lati al carro gia gente festante,
giovini e donne in abito cortese,
con dolci suoni e canti festeggiando
diversamente con arte danzando.

38

Questo ordinato, fé il teatro aprire
Teseo, e 'n cotal guisa n'uscì fore
Arcita triunfando, al cui venire
ciascun faceva mirabile onore;
e fé quelle armi al gran Marte offerire,
e ringraziollo con pietoso core
della vittoria ch'avea ricevuta;
poi fé dal tempio presta dipartuta.

39

E circuì la terra, triunfando
in questa guisa con molta allegrezza,
la sua Emilia sovente mirando
e più lodando che mai sua bellezza;
e ben mill'anni ognor li parea quando
quella dovesse goder con lietezza;
e l'avenuto caso biasimava
e molto seco se ne contristava.

40

Ella si giva onesta e vergognosa,
con gli occhi bassi, da ciascun mirata,
in guisa tal qual suol novella sposa
per vergogna nel viso colorata;
a tututti piacente e graziosa
e da ciascuno igualmente lodata;
e simile era ancora il buono Arcita,
ben ch'elli avesse sembianza smarrita.

41

Nulla persona in Attene rimase,
giovane, vecchio, zita overo sposa,
che non corresse là con l'ale spase
onde venia la coppia gloriosa.
Le vie e' campi e i tetti e le case
tutt'eran pien di gente letiziosa;
e in gloria d'Arcita ognun cantava
e della nuova sposa che menava.

42

E spesse volte, le prede mirando,
le guaste veste e i voti destrieri,
li givan l'uno a l'altro dimostrando,
dicendo: – Quel fu del tal cavalieri,
e questo del cotale –; e, ammirando,
le cose state più che volentieri
recitavan fra lor, ch'avean vedute
il dì, com'eran gite e come sute.

43

Ma ciò che più maravigliar facea
e con attenta vista riguardare,
era de' regi la turba lernea,
che giva innanzi in abito dispare
troppo da quel nel quale andar solea
e che 'l mattin si vider cavalcare;
li quali, a capo chino e disarmati,
a piè venien, nell'aspetto turbati.

44

E chi bene avvisava Palemone,
detto averia che el seco dicesse:
"Ben vive ancora l'ira di Giunone
ver me, e certo, se Giove volesse,
operar non poria ch'io di prigione
o di mortal periglio fuori stesse;
e io vi voglio stare e avvilirmi,
poi che le piace sì di perseguirmi".

45

Molto era ancor mirato disdegnoso
Minòs da chi 'l vedea, e in dispetto
parea la vita avesse, sì stizzoso
andando si mostrava nello aspetto.
E 'l tesalico Ameto, assai doglioso,
parea di Febo, a lui stato suggetto,
si ramarcasse, perché operato
aveva bene e era mal mertato.

46

Ida, Evandro e Alimedonte,
Ulisse e Diomede e ciascheduno
degli altri ancora, con chinata fronte,
si vedean tutti, e con aspetto bruno,
più che se al lito tristo d'Acheronte
se ne vedesse per passare alcuno;
e vie più tristi li facea il parlare
che udieno a' circunstanti di sé fare.

47

Ne' colli lor non sonavan catene,
però ch'Arcita del tutto, pregando,
il tolse via; e così per Attene
disciolti, al picciol passo innanzi andando
al carro, tristi di sì fatte pene,
in questo loco e ora in quel restando,
quasi scherniti tutti si teneano
per gli atti delle genti che vedeano.


Come, pervenuti al real palagio, Arcita dismontò.


48

In cotal guisa, con alto romore
d'infiniti strumenti e di gridare
che' popoli facean lì per onore
del grande Arcita e del suo operare,
giunsero al gran palagio del signore,
e a lor piacque quivi dismontare;
e di fuor fatta restar la più gente,
gir nella real sala pianamente.

49

Sovr'un gran letto, quivi fatto allora,
posato fu il faticato Arcita;
allato a cui Ipolita dimora,
bella vie più che gemma margherita,
e di conforto sovente il rincora
con ornata parola e con ardita;
e 'l simil fa Emilia, sua sorella,
con altre molte, ciascheduna bella.

50

E tutto ciò Palemon ascoltava,
che con li suoi in abito dolente
davanti al vincitor diritto stava
sanza alzare occhio; e nella trista mente
ogni parola con doglia notava,
imaginando ch'omai per niente
pace daria a sé con isperanza,
poi che perduta avea sua disianza.


Diceria di Teseo a Palemone e a' compagni.


51

Teseo, per pace dare agli affannati
re, si levò e, con sereno aspetto,
con cenni i mormorii ebbe chetati,
che quivi eran per doglia o per diletto
forse da molti fra sé susurrati,
e degli onor veduti e del dispetto;
e con piacevol voce il suo disire
incominciò in cotal guisa a dire:

52

– Signori, e' non m'è nuova la credenza,
la quale alcuni afferman che sia vera,
cioè che la divina provedenza,
quando creò il mondo, con sincera
vista conobbe il fin d'ogni semenza
razionale e bruta che 'n quell'era,
e con decreto etterno disse stesse
quel che di ciò in sé veduto avesse.

53

Se ciò è ver non so; ma se ver fosse,
noi siam guidati dal piacer de' fati,
la cui potenza sempre mai si mosse
col giro etterno delli ciel creati;
dunque contra di lor l'umane posse
invan s'affannano, e sono ingannati
chi per senno o per forza contastare
volesson contra il loro adoperare.

54

E ciò non dico sanza alta cagione,
però che oggi la vostra virtute
ho rimirata e ogni operazione,
e come date e come ricevute
abbiate le percosse e l'offensione
del gridar, sanza stordir, sostenute;
e dico certo che, al mio vivente,
non vidi insieme tanta buona gente,

55

né tanto ardita, né con tal fortezza
non saggia d'arme, né di tanto affanno
sostenitrice, né di tal fierezza
meno infingarda, né che men di danno
mettesse cura, sol che sua prodezza
mostrar potesse, sì come i buon fanno,
com'io ho oggi tutti voi veduti,
e d'una parte e d'altra conosciuti.

56

Le prodezze de' quai s'ad uno ad uno
volessi raccontar, ben le saprei;
ma troppo saria lungo, e ciascheduno
le vide sì com'io; dunque direi
ciò che non fa bisogno, ma ognuno
per valente uomo al mondo approverei;
e se tai fosser quei della mia terra,
per forza vincerei ogni mia guerra.

57

Perché se oggi non vi fu donata
vittoria, ciò non fu vostro difetto,
ma cosa fu avanti assai pensata
nel chiaro e santo divino intelletto;
il quale Emilia mostra abbia servata
al piacevole Arcita e lui eletto
per isposo di lei: di che dovete
esser contenti, poi più non potete.

58

Né vi dovete di voi biasimare
che non abbiate bene adoperato;
ma sol gl'iddii ne dovete incolpare,
se degno è ciò ch'egli han diliberato
di potere altra volta permutare,
ched e' non l'hanno per voi permutato;
ma credo che deggiate esser contenti
a lor piacer, poi di noi sono attenti.

59

Questo ch'è stato, non tornerà mai
per alcun tempo che stato non sia;
però vi priego quanto posso assai,
amici car, per vostra cortesia,
che l'abito, ch'avete pien di guai
vestito per dolor, cacciate via,
e nel pristino stato ritornate,
e con noi insieme tutti festeggiate.

60

Liberi sete omai, poi ch'adempiuto
avete del triunfo la ragione;
ben vo' però che sia fermo tenuto
ciò che nel bosco dissi a Palemone;
il qual dee esser da noi ritenuto
e servato ad Emilia per prigione,
e ella faccia di lui il suo volere,
poco e assai, come l'è in piacere. –


Come i compagni di Palemone partiti ritornarono.


61

Piacque a costoro il parlar di Teseo,
ben che 'n parte non ver tenesser quello;
per che lieto ciascun quanto poteo,
sanza dimor, tornò al suo ostello;
quivi d'abito nuovo si rifeo,
sì come prima, piacevole e bello,
e a cui fu bisogno medicare,
tosto fur fatti medici trovare.

62

Gli altri, che non curavan di riposo,
tornaro a corte con fronte cangiata;
e 'nsieme si rivider con gioioso
aspetto, come se fra loro stata
non fosse il dì battaglia; e grazioso
sollazzo insieme ciascuna brigata
faceva quivi, per amor d'Arcita,
che si desse conforto e buona vita.


Come, dopo le parole di Teseo, Palemone si presentò per prigione ad Emilia,
e le parole che disse.


63

Andonne adunque presto Palemone,
con tristo aspetto, molto umilemente,
ad Emilia davanti, e 'n ginocchione,
con voce e con sembianza assai dolente,
disse: – Madonna, io son vostro prigione,
e sono stato continuamente
poi ch'io vi vidi: fate che vi piace
di me, che mai non spero sentir pace.

64

Poi che l'iddii m'hanno tolta vittoria
e voi insieme in questo dì meschino,
troppo mi fia la morte maggior gloria,
che per lo mondo più viver tapino;
per ch'io vi priego, se di voi memoria
etterna di ben duri e d'amor fino,
dannate me sanza indugio alla morte,
ch'io la disio, vie più che vita, forte. –


Come Emilia liberò Palemone, datili grandissimi doni.


65

Con pietoso occhio Emilia riguardava
ver Palemone, e 'n piè il fece drizzare,
e le parole sue fissa ascoltava,
né che risponder si sa consigliare,
anzi appena le lagrime servava
che nel cor le facea pietà destare;
ma dopo alquanto pure in sé dispose
di far risposta, e così li rispose:

66

– S'io fossi dall'iddii stata data
al mondo sol per tua sola speranza,
in guisa che dal tuo veder levata
fosse ogni altra lieta dimostranza,
mentr'io fui mia, io avrei reputata
essere stata soverchia fallanza
il non averti amato; ché t'amai,
mentre mi si convenne, pur assai.

67

Ma veggo che come io il santo amore
potea sperar di molti giustamente,
così molti sperar nel mio valore
potevan; ma un solo apertamente
considerar dovien ch'al mio onore
si riserbava della molta gente;
il qual, qual volle, m'ha mandato Iddio:
e tu tel vedi così ben com'io.

68

E però più a l'amorose pene
di te conforto non posso donare,
né dei voler, né a me si convene,
né ben faria, se i 'l volessi fare;
ma le greche città, che tutte piene
son di bellezze assai più da lodare
che e' non è la mia, dar ti potranno
giusto ristoro all'amoroso danno,

69

e te riporre in più lieto disio
che io non fui, allor ch'ancor dubbioso
istesti di dover divenir mio.
Dunque di te medesmo sie pietoso,
ch'io non intendo esserne crudele io;
ma poi che se' cavalier valoroso
sotto il giudicio di me incappato,
per me sarai in tal guisa dannato.

70

Per me ti sia donata libertate
e a tua posta lo stare e il gire;
e per l'amor che per la mia biltate
già di soverchio t'arse nel disire,
questo anel porterai, che spesse fiate
forse di me ti farà sovenire.
e priegoti, qualora ten sovene,
pensi d'amare un'altra donna bene. –

71

Non si dee creder che valesse poco
cotale anel, cui tutta fiammeggiante
era la pietra assai vie più che foco;
appresso una cintura, simigliante
a quella per la qual si seppe il loco
là dove Anfiorao era latitante,
lietali diè, dicendo: – Porterai
questa a qualunque festa tu sarai; –

72

quinci li diede una spada tagliente
e ricca e bella d'alto guarnimento,
e un turcasso, che nobilemente
lavorato era, di gran valimento,
pien di saette lizie veramente;
e uno scitico arco, non contento
di poca forza a volerlo operare.
Poscia li fé altro dono arrecare,

73

e ciò fu un destrier maraviglioso,
tutto guarnito qual si convenia
al nobil cavaliere e valoroso,
con armi nelle quai la maestria
di Vulcan s'operò mastro ingegnoso;
e uno scudo bel quanto potia,
con un gran pin delle sue frondi orbato,
d'un chiaro ferro e forte bene armato.

74

E a lui disse dopo alquanto spazio:
– O valoroso e nobil cavaliere,
del mio amore omai dei esser sazio,
e di qualunque con cotal mestiere
s acquista, di se stesso tristo strazio
faccendo, quale in questo puoi vedere
che s'è fatto per me, che trista sono
per tanto sangue e miserabil dono.

75

Ma perciò che tu dei vie più a Marte
che a Cupido dimorar suggetto,
ti dono queste, acciò che, se in parte
avvien che ti bisogni, con effetto
adoperar le puoi; esse con arte
son fabricate, che sanza sospetto
le puoi portar: forse l'adoperrai
dove vie più che me n'acquisterai. –


La risposta di Palemone ad Emilia.


76

Prese il dono Palemone allora,
e disse: – Donna, io tengo la mia vita
tanto più cara ch'io non faceva, ora,
poi ch'io da voi la sento gradita,
che con migliore agurio ciascun'ora
la guarderò infino alla finita,
sperando che in ciel fermato sia
ciò che dite per vostra cortesia.

77

E voi ringrazio pietosa di quella,
quanto io più posso, e del libero stato
ch'io ho per voi, o matutina stella,
sì graziosamente racquistato;
e ciascheduna d'este gioie bella
m'è più che d'esser nel ciel coronato,
e guarderolla sempre per amore
del vostro alto ineffabile valore.

78

Che io aspetti più d'amor saetta
per altra donna, questo tolga Iddio:
da me amata sarete soletta,
né mai fortuna cangerà disio.
Se' fati v'hanno per altrui eletta,
in ciò non posso più contrastare io;
ma che io v'ami esser non mi pò tolto,
né fia mentre sarò in vita volto. –

79

Quinci sen gì pensoso a rivestire
e a lavarsi, ch'era rugginoso
tutto, per poscia quivi rivenire;
e ben che 'n sé non trovasse riposo,
pur s'ingegnò di sua noia coprire;
e con più lieto viso e grazioso
nell'aula tornò a rivedere
il suo diletto e 'l suo sommo piacere.

80

La donna fu assai quivi lodata
da' circunstanti re e da Arcita:
e ben li piacque ch'ella avea donata
a Palemon libertà espedita;
e Similmente ancora fu pregiata
di Palemone la risposta ardita,
il qual da tutti accolto lietamente
fu, ma più da Arcita veramente.


Come Arcita sposò Emilia.


81

Ma poi ch'alquanto si fu riposato,
Arcita ver Teseo cominciò a dire:
– Signore, adempiuto è il tuo mandato
con non poco di me greve martire,
e per quel credo d'aver meritato
Emilia e perdono al mio fallire;
la qual dimando, se e' t'è in piacere,
se elli è tempo ch'io la deggia avere –.

82

A cui Teseo con voce graziosa
rispose: – Dolce amico, ciò m'è caro,
né disio tanto nessuna altra cosa;
e però in quel modo che lasciaro
a noi i nostri primi, quando sposa
essi ne l'età lor prima pigliaro,
vo' che solennemente ti sia data
e in presenza delli re sposata. –

83

Adunque lì li baron ragunati
e' sacrificii fatti degnamente
sì come egli erano in quel tempo usati,
Arcita Emilia graziosamente
quivi sposò, e furon prolungati
li dì delle lor nozze veramente,
infin ch'el fosse forte e ben guarito.
e così fu fermato e stabilito.


Qui finisce il libro nono del Teseida.



LIBRO DECIMO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro decimo.

Nel decimo l'uficio funerale
fanno li greci re a' morti loro;
e Teseo chiama Itmon sanza dimoro,
il qual d'Arcita il mal dice mortale.

Poi Arcita a Teseo racconta quale,
dopo la morte sua, del suo tesoro
il testamento sia; e poi con ploro
quasi con Palemon fa altretale.

Poscia, presente Emilia, seco stesso
del suo morir si dole, e poi con lei;
e ella dopo lui, porgendo ad esso

gli estremi basci con dolenti omei.
Quindi a Mercurio lita e piange appresso,
poi l'alma rende all'immortali iddei.


Incomincia il libro decimo del Teseida. E prima come li re greci andarono di notte a dare sepoltura a' morti loro.


1

Il gran nido di Leda ogni bellezza
in molte luci di sé dimostrava
e già propinqua a sua maggior cortezza
tacitamente la notte n'andava,
forse due ore vicina all'altezza
dov'ella il suo mezzo cerchio toccava,
quando da corte i Greci si partiro
e alli proprii loro ostier reddiro.

2

E acciò che per lor non si impedisse
la lieta festa della nuova sposa,
anzi che più della notte sen gisse,
presa con loro ciascheduna cosa
degna da pirra far, ciaschedun disse
a' suoi: – Mentre la gente si riposa,
piani al teatro grande ve n'andate
e quivi con silenzio ci aspettate.

3

E' morti corpi delli nostri amici
tutti con diligenzia troverete,
e acciò che non sien forse mendici
d'onor di sepultura, laverete
lor tutti quanti, e' roghi fate lici,
ne' quai con degno onor li metterete,
poi venuti sarem; ma chetamente
si vuol far ciò, che nol senta la gente. –

4

Mossersi allor con l'urne i servidori
e 'nverso del gran teatro n'andaro;
e, come avean comandato i signori,
li morti corpi tutti ritrovaro,
e quei con odoriferi liquori
e con lagrime molte ancor lavaro;
poi fatte pire per sé a ciascuno,
sovra catune d'esse poserne uno.

5

Vennervi i regi, e la tuba dolente
con tristo suono fu apparecchiata,
e 'ntorniarle tutte con lor gente;
e poi ch'egli ebber ciascuna onorata
d'arme e di ghirlande e di lucente
porpora, fu la tromba comandata
a sonare; e dier voce i tristi guai
de' dolenti, che quivi erano assai.

6

Allora i re, addimorati un poco,
dentro alle pire fatte con dolore
ciascuno al morto suo accese foco,
e poi a Giove Stigio di core
fer sacrificio, acciò che 'n pio loco
ponesse que' che per lo lor valore
erano il giorno morti combattendo,
l'anime lor per altrui offerendo.

7

I grassi fuochi e grandi e bene ardenti
consumar tosto i corpi lor donati;
li qua' con vino dalle greche genti
pietosamente fur morticati;
e ricolte le ceneri candenti
ne' vasi furon messe, apparecchiati
con pia mano e con dolente verso,
durante ancora assai dei tempo perso.

8

E quanto Niobè in Sifilone,
allor che' figli di Latona fero
vendetta della sua alta orazione,
ne portò urne, e quivi in sasso vero
si trasmutò, cotante è oppinione
di quivi al tempio del gran Marte altiero
segnate gisser del nome di quelli
la cenere de' quai messa era in elli.

9

Poi ricercarono i lasciati ostieri
sì come bisognosi di riposo,
e a dormire i regi e' cavalieri
e qualunque altro, el tempo tenebroso,
tutti quanti ne giron volontieri,
infino al novo giorno luminoso;
quindi levati a corte ritornaro,
dove Teseo levato già trovaro.


Come tutti gli altri Greci fediti guarivano; Arcita solo peggiorava.


10

Tutti li Greci i qual avean difetto
eran con somma cura medicati,
e lor donato sollazzo e diletto,
e ne' bisogni lor bene adagiati;
tal che di morte e d'ogni altro sospetto
forono in pochi giorni liberati,
e come prima si rifecer sani
così i cittadin come gli strani.

11

Ma solo Arcita non potea guarire,
tanto era dentro rotto pel cadere.
Fevvi Teseo il grande Itmon venire
d'Epidauria ad Arcita vedere;
il qual si mise segreto a sentire
del mal ch'Arcita in sé potesse avere,
e sanza fallo se n'avide tosto
come Arcita dentro era disposto.

12

Per che a Teseo rispose di presente
in cotal guisa: – Nobile signore,
il vostro Arcita è morto veramente,
né luogo ci ha di medico valore;
Giove potrebbe in vita solamente
servarlo, se volesse, ch'è maggiore
che la natura e puote adoperare
assai più che natura non può fare.

13

Ma lasciando i miracoli in lor loco,
dico che Esculapio non varrebbe
per sanità di lui molto né poco;
né 'l chiaro Appollo, ancora che tutta ebbe
l'arte con seco e seppe il ghiaccio e 'l foco
e l'umido e 'l calor e che potrebbe
ciascuna erba o radice; però ch'esso
per lungo e per traverso è dentro fesso.

14

Dunque fatica per sua guarigione
saria perduta, per quel ch'io ne senta.
Fateli festa e consolazione,
sì che ne vada l'anima contenta,
il più si può, all'etterna prigione
dove ogni luce Dite tiene spenta,
e dove noi di dietro a lui andremo,
quando di qua più viver non potremo. –

15

Molto cotal parlar dolfe a Teseo,
però ch'Arcita sommamente amava;
e a chi ciò udiva il simil feo,
però ch'ognuno alte cose sperava
della sua vita, se 'l superno Deo
vivo nelle parti attiche il lasciava;
né sapevan di ciò nulla che farsi,
se non ciascun di Giove lamentarsi.


Come Arcita, fatto chiamare Teseo, dispose delle cose sue.


16

Adunque, ciascun giorno piggiorando,
il buono Arcita in sé si fu accorto
che 'l suo valor del tutto gia mancando,
e che sanza alcun fallo egli era morto;
né di ciò trarre il potea ragionando
alcun giammai o dandoli conforto;
per che volle di sé ciò che potesse
disporre, sol ch'al buon Teseo piacesse.

17

E fello a sé sanza indugio chiamare
e cominciò con lagrime ver lui
pietosamente così a parlare:
– O nobile signor caro e a cui,
mille volte morendo, meritare
l'onor del qual giammai degno non fui
non potre' mai, io mi veggo venire
al passo il qual nessuno uom può fuggire.

18

Al qual s'io vengo, che vi son, contento
ne vado mal, pensando che l'amore
il qual m'ha dato già tanto tormento
per la giovane donna, che nel core
ancora come mai per donna sento,
lascio infinito, e te, caro signore,
cui io appresso lei più disiava
servir che Giove, e più mi dilettava.

19

Ma più non posso, e far lo mi convene;
per ch'io ti priego per ultimo dono,
se lungamente Iddio ti guardi Attene,
che, poi del mondo dipartito sono
e sarò gito a riguardar le pene
de' miseri che priegan per perdono,
quel ch'io dirò tu facci sia fornito,
se tu da Marte sempre sii udito.

20

Signor, tu sai che, poi che di Creonte
il giusto Marte ti diede vittoria,
io, che con lui t'era uscito a fronte,
per prigion preso, fui della tua gloria
picciola parte, e certo non isponte,
e Palemone ancor, come in memoria
esser ti dee; li qua' festi guardare,
forse temendo del nostro operare.

21

Ma poi che quindi fummo liberati,
per tua bontà e per tua cortesia
li nostri ben, donde eravàn privati,
ci fur renduti, e ogni baronia,
come ti piacque, avemmo, e onorati
fummo quale eravam giammai in pria;
de' quali a Palemon tutta mia sorte
ti priego doni appresso la mia morte.

22

Similemente ancor t'è manifesto
quanto amor m'abbia per Emilia stretto,
il quale al tuo servigio sol per questo
ad esser venni, né ciò che sospetto
mi doveva esser mi fu mai molesto,
anzi con fe' serviva e con diletto;
né credo mai ti trovassi ingannato
di cosa che di me ti sii fidato.

23

El m'insegnò a divenire umile,
esso mi fé ancor sanza paura,
esso mi fé grazioso e gentile,
esso la fede mia fé santa e pura,
esso mostrò a me che mai a vile
io non avessi nulla creatura,
esso mi fé cortese e ubidente,
esso mi fé valoroso e servente.

24

Tanto mi diede ancor di pronto ardire,
che sotto nome stran nelle tue mani
mi misi, a rischio di dover morire;
e certo a ciò non mi furon villani
l'iddii, anzi facevan ben seguire
i miei pensieri interi e tutti sani;
né mi vergogno che in tuo onore
io ti sia stato lungo servidore.

25

Febo si fece servidor d'Ameto,
mosso da quella medesma cagione
che io mi mossi, e sì dolce e quieto
servì, ch'egli ebbe la tua intenzione;
e certo io il seguiva mansueto,
se el non fosse stato Palemone;
né dubito che ciò ch'io disiava
m'avessi dato, s'io mi palesava.

26

Or così va: e' non si può tornare
ciò che è stato; ond'io sono a tal punto
qual tu mi vedi, e sentomi scemare
ognor la vita, e già quasi consunto
del tutto son, né mi posso aiutare;
a tal partito m'ha ora Amor giunto,
a cui i' ho servito il tempo mio
con pura fede e con sommo disio.

27

Né 'l merito di ciò ch'io attendea
goder non posso, ben che mi sia dato:
veggio, di me, che ciascun fato avea
che così fosse in sé diliberato,
e che del mio servir voglion ch'io stea
contento che per merito onorato
istato sia della data vittoria,
che a' futuri fia sempre in memoria.

28

E io perciò che più non posso avante,
voglio aver questo per buon guiderdone;
e que' che fu così com'io amante
e la sua vita ha messa in condizione
di morte e di periglio simigliante
a me, io dico del buon Palemone,
per merito del suo amar riceva
la donna ch'io per mia aver doveva.

29

Io te ne priego per quella salute
che tu a lui e a me parimente
donasti già, e per la tua virtute
nota agl'iddii e all'umana gente,
e per l'opere tue che conosciute
sono e saranno al mondo etternalmente,
e per la fede che io ti portai
mentre nel tuo servigio dimorai.

30

Questa mi fia tra l'ombre gran letizia,
che Palemon, cui io molto amo, sia
tratto per me d'amorosa tristizia,
possedendo elli ciò che più disia;
pensando ancora ch'elli abbia divizia
di ciò ch'elli ama, per tua cortesia:
almeno Emilia, mentre fia in vita,
vedendo lui avrà a mente Arcita. –

31

E questo detto, forte sospirando,
tacque con gli occhi alla terra bassati,
tacito seco stesso lagrimando;
né quelli ardiva di tener levati:
onde Teseo un poco attese, e quando
vide che' suoi parlari eran posati,
quasi piangendo, assai di lui pietoso,
disse così con viso doloroso:


Come Teseo rispose ad Arcita.


32

– Tolgan l'iddii, Arcita, amico caro,
che Lachesìs il fil poco tirato
ancora tronchi, e cessin questo amaro
dolor da me, se io l'ho meritato,
che non si dia a tua vita riparo;
e già in ciò Alimeto ha pensato
insieme con Itmon, e sì faranno
che vivo e sano a noi ti renderanno.

33

Ma pur se dell'iddii fosse piacere
di torti a me che più che luce t'amo,
a forza ciò ne converria volere,
però che isforzarli non possiamo.
Ciò che m'hai detto, puoi certo sapere
che, poi ti piace, sì come te il bramo,
e sanza fallo tutto fia fornito,
se tu venissi a sì fatto partito.

34

Ma tu, come sì forte ti sgomenti
pensando che così notabil cosa,
come è Emilia, che faria contenti
qualunque iddii di sé, tanto amorosa
si fa vedere, e' suoi occhi lucenti
pur te disian con vista lagrimosa,
e essa è tua? Deh! prendi conforto,
ch'ancor verrai a grazioso porto.

35

Ben ci ha da render alto guiderdone
delle fatiche da lui ricevute:
io dico al tuo amico Palemone,
del quale a me domandi la salute.
Sol che tu sani, i' ho oppinione
di porvi in parte, per vostra virtute,
dove di voi tra voi ancor sarete
contenti, sì che lieti viverete. –


Come Arcita si fé chiamar Palemone e ciò che li disse.


36

Arcita nulla a questo rispondeva,
sì lo stringeva l'angoscia d'amore;
e il suo stato assai ben conosceva,
posto che i conforti del signore
divoto udisse quanto più poteva;
e già l'ambascia s'appressava al core
della misera morte, onde si volse
in altra parte e a Teseo si tolse.

37

E poi che fu alquanto dimorato
sanza mostrare o dire alcuna cosa,
come era prima si fu rivoltato,
e 'n voce rotta assai e angosciosa
priega che Palemon li sia chiamato
anzi che lasci esta vita noiosa;
il qual lì venne, sanza dimorare,
con altri molti per lui visitare.

38

Il qual poi vide innanzi a sé venuto,
e rimirato l'ebbe lungamente
con luci acute, quasi conosciuto
pria non l'avesse, con voce dolente
disse: – O Palemone, egli è voluto
nel ciel che più qui non istea niente;
però innanzi il mio tristo partire,
veder ti volli, toccare e udire.

39

Tanto n'ha sempre avversata Giunone,
che del seme di Cadmo solo Arcita
n'è conosciuto e tu, o Palemone:
or mi conviene angosciosa partita
da te, parente, amico e compagnone,
far, poi le piace, che alla mia vita
stata è invidiosa allor ch'ella poteva
più contentarla, se ella voleva.

40

In quella entrata ch'io doveva fare
ad esser delli suoi raccomandati,
fa ella il mondo lieto a me lasciare
per congiugnermi a' nostri primi andati.
Or m'avesse ella pur lasciato entrare
per tre giornate ne' suoi disiati
luoghi! E appresso in pace avria sofferto
ch'ella m'avesse morto o vuo' diserto.

41

Non l'è piaciuto, e io non posso avanti;
dunque tu sol, che a me se' rimaso
del sangue altiero degli avoli tanti,
quando verrà il doloroso caso
ch'io lascerò la vita e' tristi pianti,
gli occhi e la bocca e l'anelante naso
priegoti che mi chiuda, e facci ch'io
tosto trapassi d'Acheronte il rio.

42

E perché tu, sì come io, amato
hai lungamente Emilia graziosa,
io ho Teseo a mio poter pregato
che la ti doni per etterna sposa:
priegoti che da te non sia negato
perché tu sappi che di me pietosa
ella sia stata e a me porti amore,
ch'ell'ha suo dover fatto e suo onore.

43

E giuroti, per quel mondo dolente
al quale io vado sanza ritornata,
che, a dire il ver, giammai al mio vivente
di lei niuna cosa t'ho levata,
se non forse alcun bascio solamente,
al che tale è qual tu te l'hai amata;
ond'io ti priego, per tua cortesia,
che tu la prenda e che cara ti sia.

44

E lei con quello amor che tu solevi
portarle più che ad altra creatura,
s'egli era ver ciò che tu mi dicevi,
onora e guarda; e sì d'operar cura,
che 'l tuo valore usato si rilevi
a ricrear la nostra fama oscura
per lo dolente seme, ch'è ispento
s'a rilevarlo non dai argomento.

45

Certo quest'è manifesta cagione
che ciaschedun dell'operato affanno
ricever deggia degno guiderdone;
dunque sarà per merito del danno
c'hai già avuto e desolazione,
come io so e ancor molti sanno,
ricever lei, che credo più che 'l regno
di Giove l'avrai cara, e senne degno.

46

E s'ella forse per la morte mia
pietosa desse alcuna lagrimetta,
sì la raccheta che contenta sia,
perciò che la sua vista leggiadretta
fatta ha l'anima mia di lei sì pia,
che 'l riso suo più me che lei diletta,
e così il pianto suo più me attrista,
ond'io mi cambio come la sua vista.

47

In questa guisa, se l'anima sente
poi la morte del corpo alcuna cosa
di queste qua, tra la turba dolente
andrà con più ardire e men dogliosa. –
E questo detto, più oltre niente
allora disse; donde con pietosa
sembianza e voce appresso Palemone
incominciò così fatto sermone:


Come Palemone rispose ad Arcita.


48

– O luce etterna, o reverendo onore
del nostro sangue, poderoso Arcita,
sed e' non è in te spento il valore
usato, aiuta la tua cara vita
con conforto sperando, ché 'l signore
del ciel soccorre a chi se stesso aita;
né far ragion che 'n giovinetta etate
Antropòs ora pigli podestate.

49

Cessin gl'iddii che io ultimo sia
di tanto sangue, se tu te ne vai,
né che Emilia mai diventi mia:
tu l'acquistasti e tu per tua l'avrai;
né l'uficio che chiedi fatto fia
con la mia man, per mia voglia, giammai;
ma la tua prole e tu gli chiuderete
a me, e sopra me vivi sarete.

50

Confortati: per que' celesti regni
che t'ha il tuo valore apparecchiati
allor che' membri tuoi saranno degni
per età lunga d'esser transmutati
in cenere, io ti priego ti sostegni,
sì che tu usi i ben già guadagnati;
e me tapino per lo mondo andare
lascia, che' fati me voglion provare. –

51

Arcita disse: – E' fia com'io t'ho detto;
il che s'avien, ti priego quant'io posso
che 'l mio disio in ciò mandi ad effetto,
e questo sia, ogn'altro affar rimosso.
Così disio, così mi fia diletto,
così d'ogni gravezza sarò scosso. –
E quinci tacquero amendun piangendo,
e chi vi stava ancor pianger faccendo.


Come Arcita, vedendo Emilia sopravenuta, parlò.


52

A cotal pianto Ipolita piacente
vi sopravenne, e Emilia con lei;
e quando vider sì pietosamente
piangegli Achivi e li duci dircei,
d'Arcita dubitarono, e dolente
ciascuna domandò i re lernei
che era ciò, che' due Teban piangeno
e tutti loro ancor pianger faceno.

53

E' fu lor detto; onde ognuna di loro
più ad Arcita si fecero appresso,
e cominciaron sanz'alcun dimoro
a ragionar di più cose con esso
e a darli conforto con costoro
insieme ch'eran lì venuti ad esso
e elli alquanto prese d'allegrezza
poi che d'Emilia vide la bellezza.

54

Ma poi ch'Arcita l'ebbe rimirata
con occhio attento, sì come potea,
e ebbe bene in sé considerata
la gran bellezza che la donna avea,
cominciò con sembianza transmutata
a parlare in tal guisa qual potea,
premessi avanti dolenti sospiri,
caldo ciascun d'amorosi disiri:

55

– Piangemi Amor nel doloroso core,
là onde morte a forza il vuol cacciare;
né vi può star, né uscir ne pò fore,
sì ch'io il sento in me ramaricare
con pianti e con parole di dolore
accese più ch'i' non poria narrare,
in forma che di sé mi fa pietoso,
e di me, lasso!, oltre il dover doglioso.

56

Gli spiriti visivi assai sovente
mostrano a lui l'angelica figura
per la qual esso nel core è possente,
dicendo: "Deh! fie tal nostra sciagura,
che ci convenga teco insiememente
abandonar sì nobil creatura?".
Esso risponde loro e sì gli abraccia,
dicendo: "Sì, ché morte me ne caccia:

57

io me ne vo con l'anima smarrita,
la quale io presi col piacer di quella
che da voi è nel mondo più gradita".
Dunque nelle sue man ricevami ella,
quand'io farò la dogliosa partita
della presente vita tapinella. –
E questo detto, forte lagrimando,
gli occhi bassò, in terra riguardando.


Come Emilia parlò ad Arcita.


58

Queste parole gli angelici aspetti
di quelle donne conturbavan molto
e con dolore offendevano i petti
dilicati in maniera che nel volto
si parea loro; e ben sentieno i detti
quali erano e che fosse in lor raccolto;
e ben l'occulta morte conosceno
nel viso a lui, che già veniva meno.

59

Per che Emilia disse: – O signor mio,
poscia che tu del viver ti disperi,
deh, dimmi, o lassa!, e come farò io?
Io ne verre' con teco volentieri,
e già ciò appetisce il mio disio,
perch'io non so che fuor di te mi speri.
Tu eri solo il mio bene e la gioia,
sanza di te non spero altro che noia. –


Come Arcita rispose ad Emilia.


60

A cui Arcita disse: – Bella amica,
prendi conforto, e del mio trapassare
non prender nel tuo animo fatica;
ma per amor di me di confortare
ti piaccia, se giammai cosa ch'io dica
intendi nel futuro d'operare;
io ho trovato a tua consolazione
modo assai degno e con giusta ragione.

61

Palemon, caro e stretto mio parente,
non men di me t'ha lungamente amata,
e per lo suo valor veracemente
è più degno di me che isposata
li sii, e questo vede tutta gente;
ché, posto che vittoria a me donata
foste l'altrier, non fu già dirittura,
ma sola fu la sua disaventura.

62

Di che l'iddii errarono, e per certo
credetter lui atare e me ataro;
ma poi che il loro error fu discoperto,
ciò ch'avean fatto indietro ritornaro
e me recaron a sì fatto merto
quale ora piango con dolore amaro,
acciò che tu ti rimanessi ad esso,
com'essi avean diliberato espresso.

63

E io che tu sii sua me ne contento
più che d'altrui, poi esser non puoi mia.
Ferma in lui il tuo intendimento
e quel pensa di far che el disia;
e io son certo ch'ogni piacimento
di te per lui sempre operato fia:
egli è gentile e bello e grazioso;
con lui avrai e diletto e riposo.

64

Io muoio, e già mi sento intorno al core
quella freddezza che suole arrecare
con seco morte, e ogni mio valore
sanza alcun dubbio in me sento mancare;
però quel ch'io ti dico, per amore
farai, poi più non posso teco stare;
i fati t'hanno riserbata a lui,
me' sarai sua non saresti d'altrui.

65

Ma non pertanto l'anima dolente,
che se ne va pel tuo amor piangendo,
ti raccomando, e priegoti ch'a mente
ti sia tuttora, mentre che vivendo
qui starai sotto del bel ciel lucente,
a te contenta l'aure traendo;
ch'i' me ne vo, né so se tu verrai
là dov'io sia, ch'i' ti rivegga mai.

66

Gli ultimi basci solamente aspetto
da te, o cara sposa, i quai mi dei
ti priego molto; questo sol diletto
in vita omai attendo, ond'io girei
isconsolato con sommo dispetto
s'i' non gli avessi, e mai non oserei
gli occhi levar tra' morti innamorati,
ma sempre li terrei tra lor bassati. –


Come Emilia rispose ad Arcita e dielli gli ultimi basci.


67

Fatti erano i begli occhi rilucenti
d'Emilia due fontane, lagrimando
e fuor gittando sospiri cocenti,
del suo Arcita il parlar ascoltando;
e ben vedeva per chiari argomenti
che, come esso dicea, venia mancando;
per ch'ella in voce rotta e angosciosa
così rispose tutta lagrimosa:

68

– O caro sposo a me più che la vita,
non verso te son crucciati l'iddii;
io sola son cagion di tua partita,
io nocevole sono a' tuoi disii;
questa è vecchia ira incontro a me nutrita
ne' petti lor, sì com'io già sentii,
i qua' del tutto lo mio matrimonio
negano, e io ne veggo testimonio.

69

Il gran Teseo m'avea serbato Acate,
col quale io giovinetta mi crescea:
bello era e fresco nella nova etate,
e nelli primi amori assai piacea
a me; ma la innata crudeltate
c'ha contro al nostro sangue Citerea,
mel tolse, già al maritar vicina,
ben che io fossi ancora assai fantina.

70

Questa, non sazia del primo operare
contra di me, già te veggendo mio,
similemente te mi vuol levare.
Dunque non altri t'uccide che io;
io, lassa!, colpa son del tuo passare;
il mio agurio tristo e 'l mio disio
ti noccion, lassa!, e io rimango in pene
e in tormento, non qual si convene.

71

Omè, sovra di me andasse l'ira
che altrui nuoce per la mia bellezza!
Che colpa ci ha colui che mi disira,
se la spietata Vener mi disprezza?
Perché or contra te diventa dira?
Perché in te discovre sua fierezza?
Maladetta sia l'ora ch'io fui nata,
e a te prima giammai palesata!

72

O bello Arcita mio, sanza ragione
or foss'io morta il dì che 'n questo mondo
venni, poi ti doveva esser cagione
di morte e torti di stato giocondo!
Donde giammai sentir consolazione
non credo in me, ma sempre di profondo
cor mi dorrò dopo la tua partita,
se dietro a te rimango, caro Arcita.

73

Ora conosco i dolorosi ardori
che oscuri mi mostrò l'altrier Diana;
or so quai fosser l'aure che di fori
n'uscian con vista e con voce profana,
e quel che della fiamma li furori
a me mostravan con mente non sana;
ché se allor conosciuti gli avessi,
non credo come stai che tu istessi.

74

Io mi sarei dolorosa parata
a te allor ch'al teatro ne gisti,
e di pietà e d'amor colorata
avrei voltati li tuoi passi tristi,
e la dolente battaglia sturbata
per la qual morte e per me ora acquisti;
ma io non li conobbi, anzi sperai
tutto il contrario di ciò che tu hai.

75

Or più non posso; ond'io morrò dogliosa
né so veder chi di morir mi tene,
vedendo, sposo, tua vista angosciosa
istar per me e in cotante pene.
O me isventurata dolorosa!
Quanto mal vidi, e tu ancora, Attene!
E quanto mal per te mi riguardasti,
il giorno che di me t'innamorasti!

76

Omè, che' fior ch'io allora cogliea,
e 'l canto, anzi fu pianto, ch'io cantava.
Erinis, lassa!, tutto ciò movea;
e i' 'l senti', che talora tremava
pavida, e la cagion non conoscea,
né le future cose imaginava:
or le conosco che non nel periglio,
né posso ad ente porre alcun consiglio.

77

E ora, caro sposo, mi comandi
che, tu mancato, io prenda Palemone.
Certo le tue parole mi son grandi,
e debbo quelle per ogni ragione
servar più che gli eccelsi e venerandi
iddii che or m'offendon, né cagione
non hanno; e io così le serveraggio,
in quella guisa che io ti diraggio.

78

Io so che Palemon m'ha tanto amata
quanto uom gentil nessuna donna amasse;
di che io non gli voglio essere ingrata,
eziandio se Giove il comandasse.
Chiaro conosco ch'a chiunque data
fossi, se esso di grazia abondasse
d'ogni vivente, ch'io nel priverei,
tanto gli agurii miei conosco rei.

79

E s'io a te sono or cagion di morte,
e ad Acate fui, aver nociuto
al mondo tanto assai gravosa sorte
m'è a pensar; né quinci spero aiuto
che possa sostener mia vita forte,
che poi lo spirto tuo sarà partuto,
che dietro a te per soverchio dolore
io non ne venga, seguendo 'l tuo amore.

80

E se pur fia la mia disaventura
di vivere oltre a te, non vo' donare
a Palemon della mia sciagura,
laddove esso per fedele amare
ha meritato; ma sola mia cura
ne' boschi fia Diana seguitare,
e ne' suoi templi, vergine vestita,
serverò sempre mai celebe vita.

81

E se Teseo vorrà pur che io sia
d'alcuno sposa, alli nemici sui
mi mandi, acciò che la sciagura mia
ad essi noccia e sia utile a lui;
e Palemone è tal, che se el disia
d'avere sposa, e' troverà altrui,
che li sarà, più non sarei, felice;
e ciò il cuor manifesto mi dice.

82

Li stremi basci, omè!, li quai dolente
mi cerchi, ti darò volonterosa,
e prenderolli ancora parimente
a mio poter; dopo li quai mai cosa
non fia ch'io basci più certanamente;
ma la mia bocca sempre come sposa
di te co' basci che le donerai
guarderò mentre in vita sarò mai. –

83

E quinci quasi furiosa fatta,
piangendo con altissimo romore,
sopra lui corse in guisa d'una matta,
dicendo: – Caro e dolce mio signore,
ecco colei che per te fia disfatta,
ecco colei che per te trista more;
prendi li basci estremi, dopo i quali
credo finire i miei etterni mali. –

84

E pose il viso suo su quel d'Arcita,
palido già per la morte vicina;
né 'l toccò prima, ch'ella tramortita
in su la faccia cadde risupina;
ma, poi appresso si fu risentita,
piangendo cominciò: – O me tapina!
son questi i basci che io aspettava
d'Arcita, il qual vie più di me amava?

85

A le nemiche mie cotal basciare,
o dispietati iddii, sia riserbato. –
Arcita, che nel cielo esser li pare,
il bianco collo teneva abbracciato,
dicendo: – Omai non credo male andare,
tal viso al mio sentito ho accostato;
qualora piace omai a l'alto Giove,
di questa vita mi tramuti altrove. –


Il dolor di coloro che vedevano Arcita.


86

Quivi era sì gran pianto e sì doglioso
di donne e di signori e d'altra gente
che vedean questo, onde ciascun pietoso
era assai più che distretto parente,
che non si crede sì fosse noioso
allor che Febo si mostrò dolente
tornando adietro, nel tempo che Atreo
mangiare i figli al suo Tieste feo.

87

Essa allora, sì com'esso volle
e come volle Ipolita, drizzossi;
e sé e lui aveva tutto molle
di lagrimari, da' belli occhi mossi,
né più né men come 'l Menalo colle,
quando da Ariete riscaldossi,
che, consumata sua veste nevosa,
mostra la faccia sua tutta guazzosa.

88

E quel dì tutto quanto si posaro
sanza più rinovare altro dolore,
ben che nel cor l'avesser sì amaro
quanto potesser più a tutte l'ore;
e con le parole assai riconfortaro
Emilia e Arcita, e il furore
lor temperaron con soavi detti,
lena rendendo a' desolati petti.


Come Arcita, sentendosi vicino alla morte, domandò di volere sacrificare a Mercurio.


89

Nove fiate s'era dimostrato
il sole e altrettante sotto l'onde
d'Esperia s'era co' carri tuffato,
poi si mutaron le cose gioconde
per lo cader d'Arcita in tristo stato,
quando nel tempo che tutto nasconde,
d'Emilia avendo il dì li basci avuti,
parlò Arcita a' suoi più conosciuti:

90

– Amici cari, i' me ne vo di certo;
per ch'io vorrei a Mercurio litare,
acciò che esso, per sì fatto merto,
in luogo amen li piaccia di portare
lo spirito mio, poi che li fia offerto;
e ciò vorre' i' domattina fare:
però vittime degne e olocausti
m'aparecchiate, a lui decenti e fausti. –

91

Palemon, ch'era a questo dir presente,
come quel che da lui mai non partia,
fece apprestar tutto ciò immantanente
che a cotal mestier si convenia:
e sangue e latte nuovo e di bidente
gregge e d'armenti, quali a l'ara pia
sì richiedea di così fatto iddio,
ad adempiere d'Arcita il disio.


Come Arcita sacrificò a Mercurio.


92

Il giorno venne oscuro e nebuloso,
e questi Febo s'avea messi avanti
al viso, acciò che 'l morire angoscioso
d'Arcita non vedesse e' tristi pianti
d'Emilia bella, a' quali assai pietoso
si mostrò il giorno, li suoi luminanti
raggi celando infra le nebbie oscure,
vedendo chiaro le cose future.

93

Allora l'ara fu apparecchiata,
e' fuochi accesi, e l'incensi donati,
e ciascuna altra offerta a ciò parata,
e' sacerdoti i versi ebber cantati
con voce assai da l'altre transmutata,
e' fummi furo tutti al cielo andati;
Arcita piano incominciò a dire,
in guisa tal che si poté sentire:


L'orazione d'Arcita a Mercurio.


94

– O caro iddio, di Proserpina figlio,
a cui sta via l'anime portare
de' corpi, e quelle secondo 'l consiglio
che da te prendi le puoi allogare,
piacciati trarmi di questo periglio
soavemente, per le tue sante are
le quali ancora calde per me sono
che a te in su quelle offersi eletto dono.

95

E quinci me intra l'anime pie,
le quai sono in Eliso, mi trasporta;
ché, se tu miri ben, l'opere mie
non m'hanno fatto dell'aura morta
degno, sì come fur l'anime rie
de' miei maggiori, a' quai crudele scorta
fece Giunon, adirata con loro
con ragion giusta, a lor donando ploro.

96

Io non uccisi il sacrato serpente
all'alto Marte ne' campi dircei,
come fé Cadmo, della nostra gente
avol primaio; né nelli baccei
sacrificii tolsi fieramente
la vita al mio figliuol, come colei
che dopo il danno riconobbe il fallo
né poté poi con lagrime emendallo;

97

né, come Semelè, contra Giunone
mai operai; né, sì come Atamante,
contra la prole divenni fellone;
né il mio padre uccisi, né amante
della mia madre fui, la nazione
ne' sen materni indietro ritornante,
sì come Edippo; né mio frate uccisi;
né mai regno occupai, né mal commisi;

98

né di Creonte l'aspra crudeltate
mi piacque mai, né in altrui l'usai.
Se arme furon già per me pigliate
incontro a Palemon, male operai,
e io ben n'ho le pene meritate;
e certo i' non l'avrei prese giammai,
se esso non m'avesse a ciò recato,
perch'era, sì com'io, innamorato.

99

Dunque tra' neri spiriti non deggio,
o pio iddio, ciò credo, dimorare,
e del ciel non son degno, e i' nol cheggio.
E' m'è sol caro in Eliso di stare:
di ciò ti priego e di ciò ti richeggio,
se esser può che tu mel deggi fare;
so che 'l farai, se così se' pio
come suogli esser, venerando iddio. –


Come Arcita, dette queste parole, si cominciò a dolere della morte.


100

Detto ch'ebbe così, con più dogliosa
voce parole mosse dove stava
Ipolita e Emilia valorosa,
e' greci re, e ciascun l'ascoltava,
e Palemon con anima angosciosa,
tanto del tristo caso li pesava;
e esso con parola vinta e trista
dicea così con dolorosa vista:

101

– Or mancherà la vita, ora il valore
d'Arcita finirà, ora avrà fine
l'acerbo e inespugnabil suo amore;
or vederà d'Acheronte vicine
le triste ripe, ora saprà 'l furore
delle nere ombre, misere, tapine;
or se ne va Arcita innamorato,
del mondo a forza sbandito e cacciato.

102

Ahi, lasso me! che l'étà giovinetta
lascio sì tosto, en la quale sperava
ancor mostrar di me virtù perfetta:
tale speranza l'ardir mi prestava.
Omè, che troppo la morte s'affretta,
e più che 'n alcuno altro in me è prava;
in me si sforza, in ver me la sua ira
mostra quant'ella puote, e mi martira.

103

Dove è, Arcita, tua forza fuggita?
Dove son l'armi già cotanto amate?
Come non l'hai, per la dolente vita
dalla morte campare, ora pigliate?
Oimè, ch'ella s'è tutta smarrita,
né più porian da me esser guidate;
per ch'io per vinto omai mi rendo, lasso!,
e per più non potere oltre trapasso.

104

O bella Emilia, del mio cor disio,
o bella Emilia, da me sola amata,
o dolce Emilia, cuor del corpo mio,
ora sarai da me abandonata!
Ohimè lasso! I' non so quale iddio
in ciò mi noccia con voglia turbata;
per te sola m'è noia il mio morire,
per te non sarò mai sanza languire.

105

Deh, che farò allora che vedere
più non potrotti, donna valorosa?
Seconda morte io non potrò avere,
ben ch'io la cheggia per men dolorosa;
né so ancor che luogo me tenere
debba di là nella vita dubbiosa;
ma se con Giove sanza te istessi,
non credo che giammai gioia sentissi.

106

Dunque angoscioso ovunque io n'anderaggio
sempre sarò, sanza te, luce chiara;
né mi sarà il secondo viaggio
a qui tornar concesso, donna cara,
come Pelleo, che fu mio signor maggio,
già mel concesse, allora che amara
vita traeva in Egina, lontano
dal tuo valor, bella donna, sovrano.

107

Lagrime sempre e amari sospiri
omai attende l'anima dolente
per giunta, lasso!, alli nuovi martiri
ch'io avrò forse intra la morta gente;
li quai tanti non fien, che' miei disiri
di te veder faccian cessar niente;
ma sempre te nell'etterna fornace
per donna chiamerò della mia pace.

108

Omè, dove lascio io i cari amici?
Dove le feste e il sommo diletto?
Ove i cavalli, omai fatti mendici
del lor signore? Ove quel ben perfetto
ch'amor mi dava, qualora i pudici
occhi d'Emilia vedeva e l'aspetto?
Dove lascio io Palemon grazioso,
meco d'amor parimente focoso?

109

E Peritoo ancor, cui similmente
più che la vita, con ragione, amava?
Ove li regi e l'altra buona gente,
che loro a' miei servigi seguitava?
Ove Teseo, nobil signor possente,
che più che caro frate m'onorava?
Ove lascio io il reverendo Egeo?
Dove il mio caro e buon signor Pelleo?

110

Certo io gli lascio dove rimanere,
s'esser potesse, vorria volentieri,
e in gioco e in festa e in piacere
con prencipi e con donne e cavalieri,
sì che, del rimaner di lor, mestiere
non m'è dolermi; ma sol mi son fieri
gli aspri pensier ch'a me ne mostran tanti
perder dovere, e e' me tutti quanti. –


Come Arcita trapassò di questa vita.


111

Poscia ch'egli ebbe queste cose dette,
di cuor gittò un profondo sospiro
amaramente e di parlar ristette,
e 'nverso Emilia i suoi occhi s'apriro
mirando lei, e mirandola stette
un poco e poscia li rivolse in giro;
e ciascun vide che piangeva forte,
però ch'a lui s'appressava la morte.

112

La quale in ciascun membro era venuta
da' piedi in su venendo verso il petto,
e ancor nelle braccia era perduta
la vital forza; sol nello 'ntelletto
e nel cuore era ancora sostenuta
la poca vita; ma già sì ristretto
gli era il tristo cuor dal mortal gielo,
ch'agli occhi fé subitamente velo.

113

Ma poi ch'egli ebbe perduto il vedere
con seco cominciò a mormorare,
ognor mancando più del suo potere;
né troppo fece in ciò lungo durare,
ma 'l mormorio transmutato in vere
parole, con assai basso parlare,
– A Dio, Emilia! – e più oltre non disse,
ché l'anima convenne si partisse.


Qui finisce il libro decimo del Teseida.



LIBRO UNDECIMO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro undecimo.

Nell'undecimo Emilia primamente
l'uficio imposto fa con Palemone;
poi mostra il pianto della greca gente,
dintorno al corpo ornato per ragione.

Quinci tagliata una selva eminente,
un ricco rogo fanno più persone,
sovra 'l qual posto Arcita eccelsamente,
vi mette Emilia l'acceso tizzone.

Le ceneri del rogo consumato
racoglie Egeo, e merita coloro
che 'n varii giuochi onore hanno acquistato.

Quindi fa far con subito lavoro
un tempio Palemone istoriato,
là dove Arcita loca in urna d'oro.


Incomincia il libro undecimo del Teseida. E prima come l'anima d'Arcita, uscita del corpo, loda le cose superne, e queste qua gioe biasima.


1

Finito Arcita colei nominando
la qual nel mondo più che altro amava,
l'anima leve se ne gì volando
ver la concavità del cielo ottava,
degli elementi i convessi lasciando;
quivi le stelle ratiche ammirava,
l'ordine loro e la somma bellezza,
suoni ascoltando pien d'ogni dolcezza.

2

Quindi si volse in giù a rimirare
le cose abandonate, e vide il poco
globo terreno, a cui intorno il mare
girava e l'aere e di sopra il foco,
e ogni cosa da nulla stimare
a rispetto del ciel; ma poi al loco
là dove aveva il suo corpo lasciato
gli occhi fermò alquanto rivoltato;

3

e seco rise de' pianti dolenti
della turba lernea, la vanitate
forte dannando dell'umane genti,
li quai, da tenebrosa cechitate
mattamente oscurati nelle menti,
seguon del mondo la falsa biltate,
lasciando il cielo; e quindi se ne gio
nel loco che Mercurio li sortio.


Come Emilia e Palemone chiusero gli occhi ad Arcita morto.


4

A la voce d'Arcita dolorosa
quanti v'eran gli orecchi alti levaro,
aspettando che più alcuna cosa
dovesse dir; ma poi che rimiraro
l'alma partita, con voce angosciosa
pianse ciascuno e con dolore amaro;
ma sopra tutti Emilia e Palemone,
la qual così rispose a tal sermone:

5

– O signor dolce, dove m'abandoni?
Dove ne vai? Perché non vengh'io teco?
Dimmi quai sieno quelle regioni
che ora cerchi; poi non se' con meco,
io vi verrò, e con giuste cagioni! –,
dicendo: – Poi non volle in vita seco
Giove ch'io sia, e i' 'l seguirò morto,
colui che è il mio bene e 'l mio conforto. –

6

Ma poi che vide lui tacente e muto
e l'alma sua aver mutato ospizio
da lui non stato mai più conosciuto,
con Palemon piangendo il tristo ofizio
fecero, e gli occhi travolti al transuto
chiusero, per suppremo benefizio,
e il naso e la bocca; poi ciascuno
si tirò indietro con aspetto bruno.


Come Arcita fu pianto da tutti.


7

Non fer tal pianto di Priam le nuore,
la moglie e le figliuole, allor che morto
fu lor recato il comperato Ettore,
lor ben, lor duca e lor sommo diporto,
quale Ipolita fé per lo dolore
ch'ella sentì, e certo non a torto;
e Emilia con lei, e altre molte
attiche donne lì con loro accolte.

8

Piangeno i re offesi da pietate
e da dolore, e piangea Palemone;
piangevan gli altri d'ogni qualitate,
o d'età vecchio o giovane garzone;
e come Attene davanti occupate
erano in feste, ora in desolazione
tututte si vedevan lagrimose
e d'alti guai oscure e tenebrose.

9

Niun potea racconsolar Teseo,
sì avea posto in lui perfetto amore,
il simile avveniva di Pelleo
e del buon Peritoo e di Nestore
e d'altri assai, e ancora d'Egeo;
il qual la bianca barba per dolore
tutta bagnata aveva per Arcita,
allor passato della trista vita.

10

Ma come savio e uom che conoscea
i mondan casi e le cose avvenute,
sì come quei ch'assai veduto avea,
il dolor dentro strinse con virtute,
per dare esemplo a chiunque il vedea
di confortarsi delle cose sute;
e poi s'asise Palemone allato,
il qual faceva pianto ismisurato;

11

e ingegnossi con parole alquanto,
con quel silenzio ch'el poté avere,
di voler temperare il tristo pianto,
ricordando le cose antiche e vere:
le morti e' mutamenti e 'l duolo e 'l canto
l'un dopo l'altro spesso ogn'uom vedere;
ma mentre che parlava, ognun piangeva,
poco intendendo a ciò che el diceva.

12

Anzi così l'udivan, come 'l mare
Tiren turbato ascolta i navicanti,
o come folgor, che scenda dall'are,
pe' nuvoletti teneri ovvianti
da l'impeto suo cura di ristare,
ma gli apre e scinde e lor lascia fumanti
e quel dì e la notte in duolo amaro,
sanza punto ristar, continuaro.


Come Teseo, ordinato che un rogo si facesse nel boschetto, fece vestire il corpo d'Arcita e recarlo nella corte.


13

Quinci Teseo con sollecita cura
con seco cerca per solenne onore
fare ad Arcita nella sepoltura;
né da ciò il trasse angoscia né dolore,
ma pensò che nel bosco, ov'e' rancura
aver sovente soleva d'amore,
faria comporre il rogo dentro al quale
l'uficio si compiesse funerale.

14

E comandò ch'una selva che stava
a quel bosco vicina, vecchia molto,
fosse tagliata, e ciò che bisognava
per lo solenne rogo fosse accolto
dentro al boschetto, nel qual comandava
una area si facesse da tal colto:
mossersi allora li ministri tosto,
per far ciò che Teseo loro avea 'mposto.

15

El fece poi un feretro venire
reale a sé davanti, e tosto fello
d'un drappo ad or bellissimo fornire;
e similmente ancor fece di quello
il morto Arcita tutto rivestire;
e poi il fece a giacer porre in ello,
incoronato di frondi d'alloro,
con ricco nastro rilegate d'oro.

16

E poi che fu d'ogni parte lucente
il nuovo giorno, elli il fece portare
nella gran corte, ove tutta la gente
come voleva il potea riguardare;
né crede alcun che sì fosse dolente
di Tebe allora il popolo a mirare,
quando li sette e sette d'Anfione
figli fur morti en la trista stagione,

17

come d'Attene si vide quel giorno,
nel quale altro che pianger non si udia:
nessuno andava per a terra attorno,
o el della sua casa non uscia,
in quella stando sì come musorno;
o, se ne uscisse, a la corte sen gia
per rimirar l'esequie dolorose,
nate dell'aspre battaglie amorose.


Come fu tagliata la selva e fatto il rogo.


18

Alta fatica e grande s'aparecchia,
ciò è voler l'antico suol mostrare
a l'alto Febo della selva vecchia;
la qual Teseo comandò a tagliare
s'andasse, acciò ch'una pirra parecchia
alla stata d'Ofelte possan fare,
o se si puote, ancor la vuol maggiore,
in quanto fu più d'Arcita il valore.

19

Essa toccava con le cime il cielo,
e' bracci sparti e le sue come liete
aveva molto, e di quelle alto velo
alla terra facea; né più quiete
ombre aveva Acaia; né giammai telo
l'aveva ofesa, o altro ferro sete
n'aveva avuta; ma la lunga etate
d'essa tenean per degna deitate.

20

La qual non si credea che solamente
gli uomini avesse per età passati,
ma si credea che le ninfe sovente
e' fauni e le lor greggi permutati
fosser da lei, che continuamente
di sterpi nuovamente procreati
si ristorava, in etterno durando,
e degli antichi suoi pochi mancando.

21

Al miserabil loco soprastava
tagliamento continuo, del quale
ogni covil si vide che vi stava;
e fuggì quindi ciascuno animale,
e ogni uccello i suoi nidi lasciava,
temendo il mai più non sentito male;
e alla luce, in quel giammai non stata,
in poca d'ora si diè larga entrata.

22

Quivi tagliati cadder gli alti faggi
e i morbidi tigli, i qua' ferrati
sogliono spaventare i fier coraggi
nelle battaglie, molto adoperati;
né si difeser dalli nuovi oltraggi
gli esculi e i caonii, ma tagliati
furono ancora, e 'l durante cipresso
ad ogni bruma e il cerro con esso,

23

e gli orni pien di pece, nutrimento
d'ogni gran fiamma, e gli ilici soprani,
e 'l tasso, li cui sughi nocimento
soglion donare, e' frassini che' vani
sangui ber soglion del combattimento,
col cedro, che per anni mai lontani
non sentì tarlo né isgombrò sito
per sua vecchiezza dove fosse unito.

24

Tagliato fuvvi l'audace abete,
e 'l pin similemente, che odore
dà dalle tagliature, com sapete;
il fragil corilo e il bicolore
mirto, e con questi l'alno senza sete,
del mare amico; e, d'ogni vincitore
premio, la palma fu tagliata ancora,
e l'olmo che di viti s'innamora.

25

Donde la Terra sconsolato pianto
ne diede; e quindi ciascuno altro iddio
de' luoghi amati si partì intanto,
dolente certo e contra suo disio,
e l'albitro dell'ombre Pan che tanto
quel luogo amava, e ciascun semidio;
e lor partenti ancor piangea la selva,
che forte lì mai più non si rinselva.

26

Adunque fu degli alberi tagliati
un rogo fatto mirabilemente;
poco più furo i monti accumulati
sopra Tesaglia dalla folle gente,
inverso il ciel mattamente elevati,
che fosse quivi quel rogo eminente;
il qual dalli ministri fu tessuto
velocemente e con ordin dovuto.

27

El fu di sotto di strame salvaggio
agrestamente fatto e di tronconi
d'alberi grossi, e fu il suo spazio maggio;
poi fu di frondi di molte ragioni
tessuto, e fatto con troppo più saggio
avvedimento, e di più condizioni
di ghirlande e di fior fu pitturato:
e questo suolo assai fu elevato.

28

Sopra di questi l'arabe ricchezze
e quelle d'oriente con odori
mirabil fero delle lor bellezze
il terzo suol composto sopra i fiori;
quivi lo 'ncenso, il qual giammai vecchiezze
non conobbe, vi fu dato agli ardori,
e il cennamo più ch'altro durante,
e il legno aloè di sopra stante.

29

Poi fu la sommità di quella pira
d'un drappo in ostro tirio con oro
tinto coperto, a veder cosa mira
sì per valore e sì per lo lavoro;
e, questo fatto, indietro ognun si tira
e con tacito aspetto fa dimoro,
quelli attendendo che dovean venire
col morto corpo a tal cosa finire.


Come li greci re vennero per portare Arcita al rogo, e il pianto che vi fu, e come el fu ornato da Teseo.


30

Già ogni parte era piena di pianto,
e già l'aula regia mugghiava,
tale che di lontan bene altrettanto
nelle valli Eco trista risonava;
e Palemone, di lugubre manto
coperto, nella corte si mostrava
con rabbuffata barba e tristo crine
e polveroso e aspro sanza fine.

31

E sopra 'l corpo misero d'Arcita,
non men dolente Emilia piangea,
tutta nel viso palido smarrita,
e' circunstanti più pianger facea,
né dal corpo poteva esser partita,
con tutto che Teseo gliele dicea;
anzi parea che sommo suo diporto
fosse mirare il suo Arcita morto.

32

Quando gli Achivi in abito doglioso
entraron dentro a l'aula piangente,
allora il pianto assai più doloroso
incominciò e d'una e d'altra gente,
più forte che non fu quando il dubbioso
mondo lasciò quell'anima dolente;
e rintegrossi più volte e ristette
dentro le menti da dolor costrette.

33

Né dal tumulto tacque alcuna volta
la stupefatta casa, che Egeo
a Palemone con parola molta
non desse alcun conforto, se 'l poteo,
a lui mostrando in quanto male involta
fosse la vita d'esto mondo reo
e le cose durissime occorrenti
miseramente ogni giorno a' viventi.

34

E ben che Palemon forse tacesse,
e' non l'udia, se non come Atteone
si crede che la sua turba intendesse:
anzi piangeva in sé, né orazione
esser potea che da ciò il traesse,
tanta nel core avea compassione
al trapassato suo più caro amico,
a cui ingiustamente fu nemico.

35

Quivi cavalli altissimi, guardati
per lui, furon coverti nobilmente,
e su vi fur, delle sue armi armati,
sopra ciascuno un giovane sergente;
quivi l'esuvie de' suoi primi nati
furono apparecchiate parimente,
quivi faretre e archi con saette,
e più sue veste nobili e elette.

36

E acciò che Teseo intero segno
di nobil sangue desse di costui,
tutti vi fé gli ornamenti da regno
venir presenti, e adornarne lui;
lì le veste purpuree, con ingegno
fatte, sì videro addosso a colui;
lo scettro e 'l pomo e l'eccelsa corona
per lui al fuoco del suo rogo dona.


Come Arcita fu portato al rogo.


37

Li più nobili Achivi i vasi cari,
di mel, di sangue e di latte novello
pieni, portaron con lamenti amari
sopra le braccia, precedendo quello;
né si studiavano i lor passi guari,
anzi soavi, con l'aspetto bello
cambiato, andavan l'uno a l'altro appresso,
come l'ordine dato avea concesso.

38

Sopra le spalle, de' Greci i maggiori
il feretro levarsi lagrimando,
e con esso d'Attene usciron fori,
con alto pianto la gente gridando,
l'iniqui iddii e li loro errori
con alte voci spesso bestemiando;
e 'nfino al loco per la pira eletto
portaro i duci il miserabil letto.

39

La qual già fatta in quel loco trovata
e d'ogni legno ricca, sopra d'essa
ebbero la lettiera riposata,
la qual fu tosto dalla gente spessa
che li seguiva tutta intorniata,
per ciò veder, con disoluta presa;
e poi li duci indietro si tiraro
e gli altri che venivano aspettaro.

40

Là venne Palemone, al quale Egeo
dolente andava dal suo destro lato.
e dal sinistro li venia Teseo,
poi d'altri Greci tututto fasciato;
Emilia poi appresso si vedeo,
cui più debole sesso sconsolato
accompagnava, e essa in mano il foco
feral recava al doloroso loco.


Come Emilia mise il foco nel rogo d'Arcita, e quel ch'ella disse.


41

Nel qual poi ched e' furon pervenuti,
Emilia lassa cominciò piangendo:
– O dolce Arcita, e' non furon creduti
da me tai casi, che a te venendo
fosser li visi da dolor premuti,
con piagnevoli voci quali intendo;
né 'n questa guisa mi credetti entrare
ne le camere tue ad abitare.

42

Assai è, lassa!, duro a sostenere
ciò che io veggo, che le prime tede
al rogo tuo mi convenga tenere.
O dispietati iddii, sanza merzede,
or che è questo che v'è in piacere?
Dove è l'amore antico, ov'è la fede
che solavate portare a' mondani?
Ella n'è gita con lì venti vani.

43

O caro Arcita, più non posso avanti:
prendi le fiamme da me concedute
al rogo tuo, e' dolorosi pianti
per la tua alma in loco di salute. –
E mentre ch'essa ne' dolenti canti
stava così, da lei fur conosciute
le voci funeral che in usanza
erano allor per pelopea mostranza.

44

Per che ella, al rogo fatta più vicina,
con debil braccio le fiamme vi mise,
e per dolore indietro risupina
tra le sue donne cadde, in quelle guise
che fan talor, poi tagliata è la spina,
le bianche rose per lo sol succise;
e semiviva fece dubitare
di morte a chi la potea rimirare.

45

Ma, sanza lungo indugio risentita,
si levò in piè e l'anella si tolse,
le quai donate già l'aveva Arcita,
e con suoi altri ornamenti gli accolse,
e 'n su la pira, subita e smarrita,
le gittò presta, sì come altri volse,
dicendo: – Te': non si convene omai
che io m'adorni, poi lasciata m'hai. –

46

E quinci, rotti li tristi lamenti,
muta ricadde, e il chiaro colore
fuggì del viso, e' belli occhi lucenti
perdér la luce, sì ne giro al core
subitamente tutti i sentimenti
per lui soccorrer, che già dal dolore
soverchio con fierezza era assalito,
laonde ogni valor l'era fuggito.


Come Palemone, tondutasi la barba, la gittò sopra 'l rogo, e quel che disse.


47

Da l'altra parte, Palemon s'avea
la barba e' crin tutti quanti tagliati
e posti sopra Arcita, e sì dicea
con sommo pianto: – O iddii spietati,
con altro patto certo mi credea
che questi crini vi fosser litati;
ma poi nell'are, iddii, non li volete,
nelle dolenti esequie li prendete. –

48

E poi ch'egli ebbe la barba e' capelli
così donati, a sé fece venire
militari armi con altri gioielli,
e tutti su li vi fece salire;
e altre cose assai ancor con quelli
care li fur, piangendo, d'offerire
e di far ricca la pira dolente,
dove giacea il suo caro parente.


Quale ordine fosse servato per li circunstanti, ardendo la pira.


49

Già istrepivan per lo messo foco
le prime frondi, e la fiamma pigliava
con le sue lingue parte in ogni loco,
e ognora più ricca diventava;
e certo in lungo tempo né in poco
più ricca pira non si ricordava,
che quella fu quivi fatta ad Arcita
per lo suppremo onor della sua vita.

50

Le gemme crepitavano, e l'argento,
che ne' gran vasi e negli ornamenti era,
si fondea tutto, e ogni vestimento
sudava d'oro nella anima fiera;
e ciascun legno d'assirio unguento
si facea grasso e con maggior lumiera;
e' meli ardenti stridivano in esse,
con l'altre cose in quelle allora messe.

51

E le cratere de' vini spumanti
e dello scuro sangue, e 'l grazioso
candido latte, tututti fumanti
sentieno ancora il fuoco poderoso;
e' maggior Greci intorno tutti quanti
stavano a Palemon per lo noioso
rogo dagli occhi torli, e 'l simigliante
stavan le donne ad Emilia davante.

52

Allora Egeo fé far di cavalieri
ischiere sette, di diece per una,
armati tutti sopra gran destrieri;
e ciascheduno indosso aveva alcuna
sua sopravesta, quale era mestieri
di vestirlasi a quella festa bruna;
delle quai sette de' Greci maggiori
furono allora li conducitori.

53

E a sinistra man, con tondo giro,
tre volte il rogo tutto intorniaro;
e la polvere alzata il salir diro
delle fiamme piegava, e risonaro
le lance che alle lance si feriro
per lo sovente intorniarsi amaro,
che quivi si facea intorno intorno,
sopra 'l piè presti e sanza alcun sogiorno.

54

Dieder quelle arme orribile fragore
quattro fiate, e altrettante pianto
le donne dier con misero dolore
e con le palme ripercosse alquanto;
poi, dietro ciascheduno al suo rettore,
come l'ordine usato dava intanto,
sul destro braccio si voltaron tutti,
con nuovo giro e con dolore e lutti.

55

E ciò che essi sopra l'arme aveno
forse portato lì per covertura,
tututti quanti insieme si traeno,
quelle gittando nella calda arsura;
e i cavalli ancora discoprieno
di lor coverte e di lor armadura;
e così il quarto giro fu fornito
per quella gente, come avete udito.

56

E oltre a questo, chi vi gittò freno,
chi lancia, chi iscudo e qual balteo;
chi elmo e qual barbuta, e altri pieno
di saette turcasso; e chi vi dieo
archi e chi spade, come me' poteno;
e qual toraca ancor metter vi feo,
chi carri da triunfi e chi cavalli,
tanto lor piacque a tutti onor di falli.


Come, consumato il rogo d'Arcita, le ceneri sue furono ricolte da Egeo.


57

Il giorno inverso della notte andava,
e Vulcan lasso in ceneri recate
le cose avea che ciascun li donava;
per che con acque per ciò ordinate
da' Greci il rogo già si soporava,
e fine era alle cose, che lasciate
appena fur, l'ombre sopravenute:
tanto le fecer d'ogni onor compiute!

58

Egeo vi ritornò il dì seguente,
e con pietosa man tutte raccolse
le ceneri, da capo prima spente
con molto vino, e di terra le tolse,
e in una urna d'oro umilemente
le mise, e quella in cari drappi involse
e nel tempio di Marte fé guardare,
fin ch'altro luogo le potesse dare.


Come de' giuochi fatti furono i vincitori guiderdonati.


59

E acciò che l'onor fosse maggiore,
molti giuochi vi furono ordinati,
ne' quali i re mostrar molto valore;
ma intra gli altri nel corso onorati
i primi furono e Ida e Castore,
sì come molto in ciò esercitati;
costoro adunque di vertute equali,
di lor vittoria pari ebber segnali,

60

perciò che fu a ciaschedun donato
per premio del valore un dono caro:
ciò fu per uno un caval covertato
di nobili coverte, u' si mostraro
da uom, d'ingegno altissimo dotato,
di Pallade gli onor, quando pigliaro
nome novello i Cicropi, e ancora
v'era il palude ove pria fé dimora.

61

Vedeasi ancor le fistule sonare,
le quali ella trovò primieramente;
poi con Aragne folle disputare,
e di Vulcan vi si vedea vincente;
e altre istorie assai, le quai contare
non è ben convenevol al presente.
Adunque l'Oebalio e 'l Pisano
furo onorati di don sì sovrano.

62

Ma poi nell'unta palestra Teseo
per virtù propria meritò l'onore,
però ch'al tempo suo me' ch'altro il feo,
e ben lo seppe Elena; e per maggiore
gloria li fece lì recare Egeo
un bello scudo e di molto valore,
nel qual vedeasi Marsia sonando,
sé con Appollo nel sonar provando.

63

Vedeasi appresso superar Fitone,
e quindi sotto l'ombre graziose,
sopra Parnaso, presso a l'Elicone
fonte seder con le nove amorose
Muse e cantar maestrevol canzone;
e oltre a queste v'eran molte cose,
tutte in onor di Febo, con molto oro,
belle a vedere e care per lavoro.

64

Poi al cesto giucando assai più degno
Polluce si mostrò, che avanzato
aveva Ameto, pien d'alto disdegno,
da Febo male in ogni cosa atato;
onde per la gran forza e per lo 'ngegno
il quale aveva ne' giuochi operato,
li fé venire Egeo due nappi grandi,
per oro cari e per arte ammirandi.

65

In essi con non poca sottigliezza
era scolpito Alcide nella cuna
ancor giacente prender con fierezza
le serpi a lui mandate e ad ognuna
la morte dare; e quindi la fortezza
ch'egli usò nella nemea selva bruna
contra 'l fiero leone, e quindi appresso
l'altre fatiche sue v'eran con esso.

66

Ebbevi ancora Evandro molto onore
con Sarpedone al desco allor giucando,
a cui per merto del suo gran valore
uno elmo venne, d'Egeo al comando,
e forte e bello e 'n forma di pastore
su vi sedeva Pan iddio sonando,
in quella vera forma che gli danno
gli Arcadi allor che figurar lo fanno.

67

Molti altri ancor che con costor giucaro,
li quai sarebbe lungo il raccontare,
ne' fatti giuochi assai ben si portaro,
alli quai tutti fece Egeo donare
solenni doni, onde si contentaro
lieti non poco di tale operare,
di lor vertù sovente contendendo,
l'un dell'altro i difetti riprendendo.

68

Né ne' giuochi olimpiaci giammai
d'ulivo fu ghirlanda conceduta,
over ne' fizii delli pennei mai,
o d'appio ne' nemei ricevuta,
o di pin negli stimii, ch'ad assai
fosse al ricevitor così dovuta,
come 'n quel giuoco detto cereale
di quercia l'ebbe Agamenon aguale.


Come Palemone fece fare un tempio, nel quale elli fece istoriare tutti i casi d'Arcita,
e mettervi le ceneri sue.


69

Poi fé subitamente Palemone,
là dove il rogo d'Arcita era stato,
edificar con mira operazione
un tempio grande, bello e elevato,
il qual sacrò alla santa Giunone;
e in quel volle che 'l cener guardato
fosse d'Arcita, in etterna memoria
del suo valore e della sua vittoria.

70

Era il tempio grande, come è detto,
e per più cose molto da lodare,
ne quale el fece per propio diletto
tutti i casi d'Arcita istoriare
e adornar di lavorio perfetto
da tal che ottimamente il seppe fare:
il quale i Greci rimirando spesso,
con giusto cuor pietà avevan d'esso.

71

El si vedeva lì, nel primo canto,
Teseo di Scizia tornar vincitore,
e delle donne achive il tristo pianto
e le lor voci e lor greve dolore
quasi sentia chi le mirava alquanto,
sì fu sovrano e buon l'operatore;
e ciascheduna v'era conosciuta
da chi l'avesse altra volta veduta.

72

Vedeasi appresso il sanguinoso Ismeno,
e il superbo Asopo, e ciascun lito
di corpi morti quasi tutto pieno;
e similmente si vedeva il sito
di Tebe qual el fu né più né meno,
e' monti ancor donde era circuito,
nel quale ancora con superba fronte
vi si vedea regnare il gran Creonte.

73

Né molto poi, li gran duci armati,
Teseo con Creonte e la lor gente
in gran battaglia insieme mescolati
vi si vedeano, e quale era valente
e qual codardo assai bene avvisati
eran da chi mirava fisamente;
e 'l campo v'era vinto da Teseo,
con quanto lì per lui poscia si feo.

74

E per li monti si vedean fuggire
le dolorose madri co' figliuoli;
pareanvisi le voci ancor sentire
de' lor dolenti e dispietati duoli;
e vedeansi le donne achive gire
nell'alte torri, con diversi stuoli,
e ardere ogni cosa, poscia ch'esse
ebber le corpor nelle fiamme messe,

75

e quella tutta nel fuoco avampare;
poi v'era il campo tutto ricercato
da chi dovea cotale uficio fare,
nel qual tra gli abbattuti era trovato
Arcita tutto sanguinoso stare,
e Palemone ancor presso pigliato,
e a Teseo menati per prigioni,
perché parevan nobili baroni.

76

Poi ciascheduno tristo e doloroso
al carro avanti a Teseo triunfante
vi si vedeva e in atto pensoso;
e rimirando un poco più avante,
in prigion si vedeano, e l'amoroso
giardino ancora allato a loro stante,
tutto vestito pel tempo novello
di nuove frondi, grazioso e bello.

77

Nel qual la lieta e bella giovinetta
gir si vedeva in su li nuovi albori,
e lietamente cantando soletta
frondi cogliendo e bellissimi fiori,
e a sé far leggiadra ghirlandetta;
e quivi a finestrella gli amadori
erano in guisa che chi li mirava
diceva che ciascun di loro amava.

78

Vedeansi poi i lor grevi sospiri
e' rotti sonni e l'amorosa vita,
e quali e chenti fosser lor martiri;
e quivi appresso ancora come Arcita,
da Peritoo con sommi disiri
disprigionato, faceva partita;
e vedevasi in Corinto arrivare,
quindi in Mecena e poi in Egina andare.

79

Poscia d'Egina ad Attene tornato,
e dipartito dallo re Pelleo,
e il gran tempio d'Appollo lasciato,
vi si vedeva servire a Teseo;
e mentre stette in così fatto stato,
ciò ch'el fé v'era, e sì come Penteo
dir si faceva, e sì come soletto
se n'andava tal volta nel boschetto,

80

là dove il chiaro rivo il dilettava
e 'l venticel che le frondi battea
e ciascheduno uccel che lì cantava:
e lui dormente tutto si vedea;
e Panfil v'era ancor come ascoltava
infra le frasche ciò che el dicea,
e riportava ciò a Palemone,
signor di lui, ch'ancora era 'n prigione.

81

Di Panfil poscia v'era la malizia
che elli usò, quando fece Alimeto
quivi venire, e simil la letizia
di Palemon, quando si vedea lieto
fuor di prigion, dov'elli avea dovizia
vie più che d'allegrezza, d'amar fleto;
e lui armato vedevasi andare
nel tempo oscuro ad Arcita trovare.

82

Poscia vedeasi nel boschetto sceso,
che attendeva Arcita ancor dormente;
poi come, desto, era fra lor conteso
dell'amor della donna pianamente;
poscia cascuno, di furore acceso,
nell'arme si vedeva parimente
combatter fieri con aspra battaglia,
e come ognun di vincer si travaglia;

83

là dove Emilia si vedea venuta,
che per lo bosco con Teseo cacciando
s'andava, né alcuno avea sentuta
questa battaglia; e vedeavisi quando
quivi Teseo con parole partuta
l'avea, e come con lor ragionando
li riconobbe, e il dato partito
preso da loro, e poi bene ubidito.

84

Vedeanvisi le feste de' Dircei,
che e' facevan costretti d'amore;
e quivi ancora li duci lernei,
venir ciascun con sommissimo onore,
vi si vedevano, acciò che colei
sola ristesse dell'uno amadore;
e poi le 'nsegne a' suoi da ciascun date,
e come armati in esse fur mostrate.

85

Eranvi i templi d'incensi fumanti,
e il pigliar di lor prima milizia:
poi nel teatro insieme tutti quanti,
e di diversi strumenti letizia
vi si vedea, e tutti i lor sembianti,
e come la battaglia lor' s'inizia;
e ciò che poi vi si fé quel giorno
tututto v'era di lavoro adorno.

86

E la gran festa ancor vi si parea,
e sacrifici e 'l chiamato Imeneo
ch'allor si fé, quando Arcita prendea
pria per isposa davanti a Teseo
Emilia bella; e poi vi si vedea
il duol dolente ch'ogni Greco feo
nella partita della trista vita,
che fé il valoroso e buono Arcita.

87

E il feretro suo di sopra a' regi
con alti pianti si vedea portato,
e similmente da tutti gli egregi
baron che v'eran da ciaschedun lato;
e 'l lamento de' popoli e collegi
che 'nfino in ciel parea fosse ascoltato;
poi sopra il rogo si vedeva ardente
il corpo ornato molto riccamente.

88

Sola la sua caduta da cavallo
gli uscì di mente né vi fu segnata:
credo che' fati voller senza fallo,
acciò che mai non fosse ricordata;
ma non potè la gente amenticallo,
sì nel cor era di ciascuno entrata
con greve doglia, sì era in amore
di ciascheduno il giovane amadore.

89

Era 'n tal guisa tututto dipinto
il nobil tempio, dentro al quale el pose
di sacerdoti numero distinto,
li uaì le trierterie dolorose,
il dì che Arcita fu da' fati estinto,
dovesser celebrar maravigliose;
e riccamente il tempio fé dotare
e d'ornamenti nobili adornare.

90

E 'n mezzo d'esso fece prestamente
una colonna di marmo pulita
drizzar, sopra la qual d'oro lucente
una urna fu discretamente sita,
dentro la qual la cenere tepente
fece servar del suo amico Arcita;
e adornolla di sequenti versi,
in guisa tal che ben legger potersi:


L'epitafio d'Arcita.


91

«Io servo dentro a me le reverende
del buono Arcita ceneri, per cui
debito sacrificio qui si rende;
e chiunque ama, per esemplo lui
pigli, s'amor di soverchio l'accende;
perciò che dicer può: "Qual se', io fui;
e per Emilia usando il mio valore
mori': dunque ti guarda da amore."».


Qui finisce il libro undecimo del Teseida.



LIBRO DUODECIMO

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro duodecimo.

In questo duodecimo libello
disegna primamente l'autore
come e perché si lasciasse il dolore
da tutti avuto del morto donzello;

quindi l'aspetto grazioso e bello
d'Emilia disegna, e con onore
la fa sposare al tebano amadore,
chiamato prima Imineo nel sacello.

Poi le sue nozze magnifiche pone,
e, il partir de' regi dimostrato,
debito fine fa al suo sermone,

avendo prima al suo libro parlato
quasi per modo di conclusione,
dicendo sé nel porto disiato

esser con venti diversi arrivato.


Incomincia il libro duodecimo e ultimo del Teseida. E prima qual fosse la vita d'Emilia, mentre le predette cose si facevano.


1

Quanto fosse crudele e aspra vita
quella d'Emilia, mentre queste cose
lì si facevano in onor d'Arcita,
coloro il pensin che sì dolorose
cose sentiron mai; essa, vestita
di nero, con le guancie lagrimose,
sanza prender volere alcun conforto,
solo piangeva il suo Arcita morto.

2

E del bel viso il vermiglio colore
s'era fuggito, e era divenuta
palida e magra, e il chiaro splendore
delle sue luci non avea paruta;
e sì poteva in lei il fier dolore,
che stata appena saria conosciuta,
per sol conforto notte e dì chiamando
Arcita suo, piangendo e lagrimando.


Come Teseo, fatta una lunga diceria,
comandò che Palemone sposasse Emilia e che i neri vestimenti si lasciassero.


3

Ma poi che furon più giorni passati
dopo lo sventurato avvenimento,
con lui essendo li Greci adunati,
parve di general consentimento
che' tristi pianti omai fosser lasciati,
e il voler d'Arcita a compimento
fosse mandato: cioè che l'amata
Emilia fosse a Palemon sposata.

4

Per che Teseo, chiamato Palemone,
con molti di quei re accompagnato
non sappiendo esso però la cagione,
di ner vestito e così tribolato
com'era, lui seguì in quella stagione;
e esso con quanti era se n'è entrato
dove con molte donne si sedea
Emilia, la quale ancor piangea.

5

E quivi, poi ch'ogni uom tacitamente
si fu posto a seder, Teseo stette
per lungo spazio sanza dir niente;
ma già vedendo di tututti erette
l'orecchie pure a lui umilemente,
dentro tenendo le lagrime strette
ch'agli occhi per pietà volean venire,
così parlando incominciò a dire:

6

– Così come alcun che mai non visse
non morì mai, così si pò vedere
ch'alcun non visse mai che non morisse;
e noi che ora viviam, quando piacere
sarà di quel che 'l mondo circunscrisse,
perciò morremo: adunque sostenere
il piacer dell'iddii lieti dobbiamo,
poi ch'ad esso resister non possiamo.

7

Le quercie, ch'han sì lungo nutrimento
e tanta vita quanta noi vedemo,
hanno pure alcun tempo finimento;
le dure pietre ancor, che noi calchemo,
per accidenti varii mancamento
ancora avere, aperto le sapemo;
e i fiumi perenni esser seccati
veggiamo e altri nuovi esserne nati.

8

Degli uomini non cal di dir, ch'assai
è manifesto a quel che la natura
li tira e ha tirati sempre mai
de' due termini a l'uno: o ad oscura
vecchiezza piena d'infiniti guai,
e questa poi da morte più sicura
è terminata; overo a morte, essendo
giovani ancora e più lieti vivendo.

9

E certo io credo ch'allora migliore
la morte sia quando di viver giova;
il modo e dove l'uom che ha valore
nol de' curar, ché dovunque el si trova,
fama li serba il suo debito onore;
e 'l corpo che riman, nulla altra prova
fa in un loco che in altro morto,
né l'alma n'ha più pena e men diporto.

10

Del modo ancora dico il simigliante,
ché, come che alcuno anneghi in mare,
alcun si muoia in sul suo letto stante,
alcun per lo suo sangue riversare
nelle battaglie, o in qual vuoi di quante
maniere om pò morir, pur arrivare
ad Acheronte a ciaschedun convene,
muoia come si vuole o male o bene.

11

E però far della necessitate
virtù, quando bisogna, è sapienza,
e il contraro è chiara vanitate,
e più in quel che n'ha esperienza
che 'n quel che mai non l'ha ancor provate;
e certo questa mia vera sentenza
può luogo aver tra noi, i qua' dolenti
viviam di cose sempre contingenti;

12

anzi più tosto necessarie in tutto:
cioè d'alcun la morte il cui valore
fu tanto e tal, che grazioso frutto
di fama s'ha lasciato dietro al fiore;
il che se ben pensassomo, al postutto
lasciar dovremmo il misero dolore,
e intender a vita valorosa
che ci acquistasse fama gloriosa.

13

Vero è che il voler dentro serrare
in cota' punti la tristizia e 'l pianto,
appena par che si possa ben fare,
onde conceder pur si dee alquanto;
ma dopo quel, si dee poscia ristare,
ché il voler soprabondare in tanto
può nuocere a chi 'l fa, e è follia,
né si rià quel ch'uom però disia.

14

E certo s'el fu giammai lagrimato
in Grecia nessuno uom valoroso,
sì è debitamente Arcita stato
da molti re e popol copioso;
e con onor magnifico onorato
è stato ancora al suo rogo pomposo,
e ben solvuto gli è ogni dovere
che morto corpo dee potere avere.

15

E è ancor, sì come noi veggiamo,
durato il pianto più giorni in Attene;
e ciascheduno ancora abito gramo
portato n'ha quale a ciò si convene,
e noi massimamente che qui siamo,
da cui agli altri prender s'apartiene
essemplo in ciascuno atto e seguitare
massimamente nel bene operare.

16

Dunque da poi parimente ci more
ciò che ci nasce, e sia pur che si voglia,
e è fatto per noi il debito onore
a colui per lo quale ora avem doglia,
estimo con ragion che sia il migliore
se questo abito oscur da noi si spoglia,
e lascisi il doler, ch'è feminile
atto più tosto che non è virile.

17

Se io credessi che raver per pianti
Arcita si potesse, io dicerei
che dovessomo pianger tutti quanti,
e caramente ve ne pregherei;
ma non varria: però da mo' in avanti
ciascun festeggi, e 'l piangere e l'omei
si lasci star, se piacer mi volete,
ché 'n questo tanto pur far lo dovete.

18

E oltre a ciò, quel ch'esso ultimamente
pregò, si pensi mettere ad effetto;
però che Foroneo, che primamente
ne donò leggi, disse che il detto
estremo di ciascun solennemente
doveva con ragione esser perfetto;
e el pregò ch'Emilia fosse data
a Palemon, che l'avea tanto amata.

19

Però diposte queste nere veste
e il pianto lasciato e il dolore
comincerén le liete e chiare feste;
e prima che si parta alcun signore,
de' due già detti nozze manifeste
celebrerem con debito splendore.
Disponetevi adunque, io ve ne priego,
a quel ch'io vo' facciate sanza niego. –


Come Palemone rispose alle parole di Teseo.


20

Poscia che Teseo tacque, confermate
fur le parole sue per molti allora
e con più detti ancor fortificate;
ma Palemon pur tacito dimora,
e fortemente gli sarebber grate
se publica vergogna, che l'acora,
non contra stesse; e dopo molto stare
disse così, veggendosi aspettare:

21

– Caro signor, da me più degnamente
che la mia vita amato, manifesto
conosco vero il vostro dir presente,
e possibile ancor con tutto questo
(ben che sia assai rado contingente)
poter dal cor cacciar caso molesto
con allegrezza; e però questo fia
quando a Dio piacerà, che n'ha balia.

22

Ma in quanto voi dite che ad effetto
volete vada quel che fu lasciato
da Arcita nel suo ultimo detto,
così vi dico: che se postergato
fosse il dover da me e il diletto
preposto, già ve n'averei pregato,
però ch'al mondo non fu cosa mai
che io amassi cotanto ad assai.

23

Ma questo cessi Iddio, che, se m'è tolta
felicità, che in me almen ragione
più che 'l voler non possa alcuna volta;
e ben che in me tra lor sia gran quistione,
che 'l dover vinca ho isperanza molta;
il che s'avien, per lieta possessione
il guarderò, mentre l'iddii vorranno,
e sosterrò leggiere ogn'altro danno.

24

Io son di tante infamie solo erede
de' miei primi rimaso, che s'io posso,
questa, che assai grande si vede,
io non mi vo' con l'altre porre adosso;
la donna è bella, e credo ch'el si crede
che di qui infin nel reame molosso
simile a lei non sia; ben troverete
a cui, vie me' che a me, dar la potrete.

25

E sì come l'iddii testimonianza,
che sol degli uomin conoscono i cuori,
render porien sanza alcuna fallanza,
e' non fur mai tra due ferventi amori,
o per istretto sangue o per usanza,
ched e' non fosser per certo minori
che quel che io ho portato ad Arcita,
poscia ch'io nacqui in questa trista vita.

26

E se alcun forse opporre volesse
a questa verità, ver me dicendo
se fosse ver ch'io amato l'avesse
non l'avrei incitato combattendo,
risponderei che quella mi movesse
a tal follia, ch'è sempre ita accendendo
de' nostri primi i cuori, ond'io saraggio
sempre mai tristo ch'io ci viveraggio.

27

Per che se io Emilia pigliassi,
altro non fora che questo negare;
né per segno maggior, ch'io disiassi
la morte sua potrei altrui mostrare;
la qual quanto mi doglia, credo sassi
per tutti voi. Non voglio adunque fare
cosa che il contrario se ne vegga,
né di ciò priego ch'alcun mi richegga.

28

Se Arcita morendo questo disse,
volle ver me usar sua cortesia;
né perciò legge a me in ciò prescrisse
che, s'io non la volessi, fosse mia;
ben mi cred'io che s'io vi consentisse,
per cortesia renderei villania,
e però intendo che mentre ad altrui
che a me non si dà, sia pur di lui. –


Come Teseo replicando disse a Palemone.


29

E questo detto, gli occhi lagrimosi
bassò in terra; al qual disse Teseo:
– I tristi pianti e' sospiri angosciosi
già molto sconfortati da Egeo,
tutti ci fanno certi de' pietosi
affetti li qua' tu verso Penteo
portasti; né potresti, per dolerti
mentre vivessi, noi farne più certi.

30

Né fia, faccendo ciò che dicevamo,
infamia alcuna, né lieto mostrarsi
de l'altrui morte, poi che noi vogliamo;
né sarà da ragion questo allungarsi,
però che 'l simil tutto dì veggiamo
dell'un fratel la sposa a l'altro darsi,
se morte quel previen; né ch'el contento
del morto sia, è però argomento.

31

Qui si può dir che tutta Grecia sia
nelli suoi regi, davanti alli quali
tal matrimonio per mia voglia fia
mandato a compimento; essi son tali,
che se ciò si dicesse villania
di te in alcun luogo o altri mali,
sì come consapevoli, saranno
per te per tutto, e sì ti scuseranno.

32

Pon dunque giù lo stolto imaginare
e segui il mio voler, che so ti piace;
e vogli innanzi, mentre vivi, stare
in lieta vita e in contenta pace,
che te con tristo pianto consumare,
il quale innanzi tempo l'uom disface;
così mi piace e voglio che a te piaccia,
né parola di ciò incontro si faccia. –


Quel che Palemone, da molti a ciò confortato, consentendo dicesse.


33

A questo fu da molti Palemone,
il qual taceva, molto confortato,
ora uno ora altro usando suo sermone
chente usar suolsi a così fatto piato,
assegnando una e ora altra ragione
che da lui non doveva esser negato;
laonde Palemone, il viso alzando
al ciel, s'udì in tal guisa parlando:

34

– O Giove pio, che con ragion governi
la terra e 'l cielo e doni parimente
a ciascheduna cosa ordini etterni,
volgi gli occhi ver me e sii presente
e con giustizia il mio voler discerni,
il quale ora si fa consenziente
a quel del mio signor: nel che s'io sono
peccator, priego che mi dei perdono.

35

E tu, sacra Diana e Citerea,
delli cui cori il numero minore
far mi convien, ben che io non volea,
e quindi appresso dell'altra maggiore,
siate presenti, e ciascun'altra dea
che ha ne' matrimonii valore;
e testimonio etterno renderete
di ciò ch'io ho nel cuor, ché 'l conoscete.

36

E tu, o ombra pietosa d'Arcita,
dovunque se', perdona s'io offendo,
né odio por per ciò alla mia vita,
se la cosa la qual tu già morendo
dicesti che volevi, fia compita
per me, del gran Teseo ancor seguendo
più il piacer che 'l mio contentamento:
che or foss'io in una ora teco spento!

37

E voi, o alti regi, i qua' presenti
sete colà ov'io debbo seguire
ora del mio signore i mandamenti,
testimon siate: più per ubidire
che per seguire i miei disii ferventi,
fo quel ch'io fo, e disposto a servire
te, o Teseo: comanda, ch'io son presto
a ogni cosa fare e anche questo. –


Come Teseo parlò verso Emilia.


38

Allor Teseo ad Emilia voltato,
la quale intra le donne sospirava dolente molto, col capo chinato,
e le parole tututte ascoltava
con animo da nulla ancor piegato,
tanto più duol che altro l'ansiava,
a cui el disse: – Emilia, hai tu udito?
Quel che io vo' farai che sia fornito. –


Quello che Emilia dicesse a Teseo.


39

A questa voce tutta lagrimosa
levò Emilia la testa, dicendo:
– Caro signore, el non è nulla cosa
che io non faccia, te voler sentendo;
ma per l'amor che tu alla pietosa
ombra d'Arcita porti, ancor sedendo
m ascolta un poco, e poi, se tu vorrai,
io farò ciò che comandato m'hai.

40

Sì come tu hai potuto udir dire,
tutte le donne scitiche botate
furo a Diana, allor che in disire
ebber primieramente libertate;
e tu sai ben quel ch'è contravenire
o non servare alla sua deitate
le cose a lei promesse, che vendetta
subita fa, qual sa quei che l'aspetta.

41

E io di quelle fui; contra la quale,
perciò che 'l boto non volea servare,
ha ella usato il già veduto male,
prima contra d'Acate a cui donare
tu mi dovevi, e l'altro, a quello equale,
contra d'Arcita, come ancora pare
a l'abito di noi, che or ne siamo
di ner vestiti e ancor ne piagniamo.

42

Se tuo nemico fosse Palemone
come fu già, volentier lo farei;
ma, non vedendo agual nulla cagione
per che odiar lo debbi, crederei
che fosse il me', sanza più provazione
fare oramai del poter dell'iddei,
che mi lasciassi a Diana servire
e ne' suoi templi vivere e morire. –


Come Teseo rispose ad Emilia.


43

A cui Teseo: – Questo dire è niente;
ché se Diana ne fosse turbata,
sopra di te verria l'ira dolente,
non sopra quelli alli quai se' donata;
e perciò fa che lieta immantanente
di cuor ti vegga e d'abito tornata;
la forma tua non è atta a Diana
servir ne' templi né 'n selva montana. –


Come Teseo e ciascuno altro cambiò abito,
e comandossi che per tutta Attene si facesse festa.


44

Detto così, con gli altri gran baroni
della camera usciro e ritornaro,
come li piacque, alle proprie magioni,
e 'l dì vegnente tututti cangiaro
abito, vestimento e condizioni,
e quel che ciascuno era dimostraro;
e Palemone il simigliante feo:
e così ritornarono a Teseo.

45

Teseo similemente avea cambiato
con tutti i suoi i vestir dolorosi,
e in sembiante lieto era tornato,
festa faccendo; e già suoni amorosi
e canti e allegrezza in ogni lato
d'Attene si sentia, tutti gioiosi
del lor signor ch'avea mutata vesta
per la futura magnifica festa.

46

E Ipolita il simil fatto avea
e l'altre donne e anche Emilia bella
a cui a forza ancora ciò piacea,
ma non poteva più, e però ella
faceva quel ch'allor Teseo volea;
ma dopo pochi dì la damigella
nello stato primaio fu ritornata,
tanto fu dalle donne confortata.


Come, stabilito il dì che Emilia si sposasse e venuto,
i re con Teseo e con Palemone andarono al tempio di Venere,
dove era ordinato di fare le sposalizie.


47

Diliberò Teseo con li suoi quando
le sposalizie si dovesson fare,
e per Attene mandò comandando
che ciascun s'apprestasse a festeggiare.
Indi venendo il giorno appressimando,
ciascun si cominciò ad apprestare,
secondo il suo stato, a fare onore
alla giovane Emilia di buon core.

48

E già Arcita era uscito di mente
a ciaschedun, né più si ricordava;
ognuno a festa intendea solamente
e delle nozze lo giorno aspettava.
Il qual venuto bello e rilucente
ad allegrezza ciascun confortava;
per che Teseo fece il tempio aprire
di Venere per quivi voler gire.

49

E in quel simigliantemente feo
li sacerdoti andar, li qua' portaro
la imagine bella d'Imeneo;
e el con un vestir nobile e caro,
di dietro seguitando il vecchio Egeo
con tutti gli altri re a quel n'andaro;
e Palemon con loro, allegro tanto
che mai non si potrebbe mostrar quanto.

50

Chi poria mai con soluto parlare
l'oro e le pietre e li cari ornamenti,
che' greci re aveano, dimostrare?
Egli eran tanti e sì belli e lucenti,
che il volerlo al presente narrare
nol crederebbono il più delle genti;
i quali al tempio giunti di gioia pieno,
aspettaron le donne che venieno.


Come Ipolita con altre donne e con Emilia andarono al tempio.


51

Ipolita da molte accompagnata
quella mattina con solenne cura
aveano Emilia nobilmente ornata,
avvegnadio che sì di sua natura
d'ogni bellezza fosse effigiata,
che poco agiugner vi potea cultura;
e 'n cotal guisa del palagio usciro,
e lente inver lo tempio se ne giro.


Disegna l'autore la forma e la bellezza di Emilia,
e prima invoca l'aiuto delle Muse.


52

O sante donne, le quali Anfione
ataste a chiuder Tebe, or fa mestiere
che da voi sia atato il mio sermone,
acciò ch'io possa dimostrar le vere
bellezze che mostrò 'n quella stagione
Emilia a cui le piacque di vedere:
voi le vedeste, e so che le sapete;
adunque qui la mia penna reggete.

53

Era la giovinetta di persona
grande e ischietta convenevolmente,
e, se il ver l'antichità ragiona,
ella era candidissima e piacente;
e i suoi crin sotto ad una corona
lunghi e assai, e d'oro veramente
si sarian detti, e 'l suo aspetto umile,
e il suo moto onesto e signorile.

54

Dico che i suoi crini parean d'oro,
non con treccia ristretti, ma soluti,
e pettinati sì, che infra loro
non n'era un torto, e cadean sostenuti
sopra li candidi omeri, né foro
prima né poi sì be' giammai veduti;
né altro sopra quelli ella portava
ch'una corona ch'assai si stimava.

55

La fronte sua era ampia e spaziosa,
e bianca e piana e molto dilicata,
sotto la quale in volta tortuosa,
quasi di mezzo cerchio terminata,
eran due ciglia, più che altra cosa
nerissime e sottil, tra le qua' lata
bianchezza si vedea, lor dividendo,
né 'l debito passavan, sé stendendo.

56

Di sotto a queste eran gli occhi lucenti
e più che stella scintillanti assai;
egli eran gravi e lunghi e ben sedenti,
e brun quant'altri che ne fosser mai;
e oltre a questo egli eran sì potenti
d'ascosa forza, che alcun giammai
non gli mirò né fu da lor mirato,
ch'amore in sé non sentisse svegliato.

57

Io ritraggo di lor poveramente,
dico a rispetto della lor bellezza,
e lasciogli a chiunque d'amor sente
che immaginando vegga lor chiarezza;
ma sotto ad essi non troppo eminente
né poco ancora e di bella lunghezza
il naso si vedea affilatetto
qual si voleva a l'angelico aspetto.

58

Le guance sue non eran tumorose
né magre fuor di debita misura,
anzi eran dilicate e graziose,
bianche e vermiglie, non d'altra mistura
che intra' gigli le vermiglie rose;
e questa non dipinta, ma natura
gliel'avea data, il cui color mostrava
perciò che 'n ciò più non le bisognava.

59

Ella aveva la bocca piccioletta,
tutta ridente e bella da basciare,
e era più che grana vermiglietta
con le labbra sottili, e nel parlare
a chi l'udia parea una angioletta;
e' denti suoi si potean somigliare
a bianche perle, spessi e ordinati
e piccolini, ben proporzionati.

60

E oltre a questo, il mento piccolino
e tondo quale al viso si chiedea;
nel mezzo ad esso aveva un forellino
che più vezzosa assai ne la facea;
e era vermiglietto un pocolino,
di che assai più bella ne parea;
quinci la gola candida e cerchiata
non di soperchio e bella e dilicata.

61

Pieno era il colto e lungo e ben sedente
sovra gli omeri candidi e ritondi,
non sottil troppo e piano e ben possente
a sostenere gli abbracciar giocondi;
e 'l petto poi un pochetto eminente
de' pomi vaghi per mostranza tondi,
che per durezza avean combattimento,
sempre pontando in fuor, col vestimento.

62

Eran le braccia sue grosse e distese,
lunghe le mani, e le dita sottili,
articulate bene a tutte prese,
ancor d'anella vote, signorili;
e, brievemente, in tutto quel paese
altra non fu che cotanto gentili
l'avesse come lei, ch'era in cintura
sotile e schietta con degna misura.

63

Nell'anche grossa e tutta ben formata,
e il piè piccolin; qual poi si fosse
la parte agli occhi del corpo celata,
colui sel seppe poi cui ella cosse
avanti con amor lunga fiata;
imagino io ch'a dirlo le mie posse
non basterieno avendol'io veduta:
tal d'ogni ben doveva esser compiuta!

64

Né era ancor, dopo 'l suo nascimento,
tre volte cinque Appollo ritornato
nel loco donde allor fé partimento,
ben che da molti forse giudicato
ne saria altro, prendendo argomento
dalla sua forma che oltre l'usato
in piccol tempo era cresciuta assa
forse più ch'altra ne crescesse mai.

65

Quando costei apparve primamente
ornata, come noi creder dovemo
che ella fosse allora, riccamente,
d'un drappo verde di valor suppremo
vestita, ciaschedun generalmente
ch'allor la vide, dal primo al postremo,
Venere la credette, né saziare
si potea nullo di lei rimirare.

66

I teatri, le vie, piazze e balconi,
per li quali essa andando gir dovea
al tempio là dov'erano i baroni,
tutt'eran piene; e ogn'uom vi correa,
femine e maschi e vecchi con garzoni
per veder questa mirabile dea;
la qual ciascuno oltre ogn'altra lodava,
e per lo ben di lei Giove pregava.


Come Emilia, pervenuta al tempio, invocato prima l'aiuto di Giunone e d'Imeneo,
fu sposata da Palemone.


67

Ma dopo certo spazio pervenuta
al gran tempio di Vener, con onore
magnifico da' re fu ricevuta,
i quai la sua bellezza e il valore
lodaron più che d'altra mai veduta;
e Menelao, veggendola in quelle ore,
la reputò sì di bellezza piena,
che la prepose con seco ad Elena.

68

Quivi non fu alcuno indugio dato;
ma fatto cerchio intorno dell'altare
ch'era di fiori e di frondi adornato,
fecero a' preti lì sacrificare;
e con voci pietose fu chiamato
l'aiuto d'Imeneo, sì come fare
era usato in Attene a la stagione,
e dopo quel l'altissima Giunone.

69

E poi in presenza di quella santa ara
il teban Palemon gioiosamente
prese e giurò per sua sposa cara
Emilia bella, a tutti i re presente;
e essa, come donna non già gnara,
simil promessa fece immantanente;
poi la basciò sì come si convenne
e ella vergognosa sel sostenne.


Come, tornati al palagio, si celebrarono le nozze.


70

Questo fornito, al palagio tornaro
con somma festa dinanzi e dintorno;
li greci re Emilia intorniaro,
non sanz'ordine debito e adorno
come si convenia, con passo raro;
e l'ora quinta già venia del giorno,
quando, venuti nel palagio, messe
trovar le mense, e assisersi ad esse.

71

E quai fossero a quelle i servidori
e quanti ancora, saria lungo a dire,
che furon pur de' giovani maggiori,
né si porian per numero finire;
e' ricchi arnesi non furon minori
che l'altre cose, magnifiche e mire;
delle vivande mi taccio infinite,
che vi fur, dilicate e ben compite.

72

Quivi fur sonatori e istrumenti
di varie condizioni, e tai ch'Orfeo,
per lo giudicio di molti esistenti,
con lor perduto avrebbe, e 'l gran Museo
con tutti i suoi non usati argomenti,
e Lino ancora, e Anfion tebeo;
e canti tai che sarebbero stati
belli a Caliopè, e ben notati.

73

Di mille modi e di piedi e di mani
vi si poté il dì veder ballare
gli Atteniesi e ancora li strani,
giovani e donne, chi me' sapea fare;
e mescolati gentili e villani,
ciaschedun si vedeva festeggiare;
e 'n cotal guisa spendevano il giorno,
per la città, in qua e 'n là, attorno.

74

Li greci re con li lor cavalieri
fer nuovi giuochi assai, e cavalcando
sopra coverti e adorni destrieri,
e con ischiere varie armeggiando,
per le gran piazze e ancor pe' sentieri,
la lor letizia a tutti dimostrando,
poi ritornando al palagio gioioso
quando eran disiosi di riposo.


Come Palemone dormì con Emilia.


75

Il giorno, troppo lungo giudicato
da Palemon, sen giva inver la sera;
e essendo già il ciel tutto stellato,
in una ricca camera, quale era
quella dove fu il letto apparecchiato
qual possiam creder a così altiera
isponsalizia, invocata Iunone,
Emilia se n'entrò con Palemone.

76

Qual quella notte fosse all'amadore
qui non si dice; quelli il può sapere,
che già trafitto da soverchio amore
alcuna volta fu, se mai piacere
ne ricevette dopo lungo ardore.
Credom'io ben che estimando vedere
il possa quei che nol provò giammai,
che lieta fu più ch'altra lieta assai.

77

Vero è che per l'offerte che andaro
poi la mattina a' templi, s'argomenta
che Venere, anzi che 'l dì fosse chiaro,
sette volte raccesa e tante spenta
fosse nel fonte amoroso, ove raro
buon pescator con util si diventa:
el si levò, venuta la mattina,
più bello e fresco che rosa di spina.

78

E poi si fece Panfilo chiamare,
e, sì com'esso già promesso avea,
così li fé eccelsi don portare
al tempio della bella Citerea,
e con gran lode la fece onorare,
lei ringraziando per cui el tenea
la bella Emilia, da lui molto amata
e così lungo tempo disiata.

79

Quindi sen venne con allegro aspetto
nella gran sala riccamente ornata,
dove con gioia somma e con diletto
era la festa già ricominciata;
e li re greci li vennero impetto,
con lieti motti della trapassata
notte qual fosse suta domandando,
molto di ciò insieme sollazzando.

80

Durò la festa degli alti baroni
più giorni poi continuatamente;
dove si dieder grandissimi doni
a ciascheduna maniera di gente;
ricchi vi fur ministrieri e buffoni,
e qualunque altro prese parimente;
ma dopo il dì quindecimo si pose
fine alle feste liete e graziose.


Come li greci re, preso commiato, tornarono nelle loro contrade.


81

Già due fiate era stata cornuta
la sorella di Febo, e tante piena
similemente era suta veduta,
poi che la nobil baronia in Attena
delle contrade sue era venuta;
onde parve a ciascun, poi che la amena
festa era fatta, di tornare omai
ne' suoi paesi, quivi stati assai.

82

Onde ciaschedun re prese commiato
dal vecchio Egeo e ancor da Teseo,
e dalle donne ancor l'hanno pigliato,
e poi da Palemone; il qual rendeo
a tutti grazie, e sé disse obligato
a ciaschedun, per sé e per Penteo,
in tutto ciò ch'egli operar potesse,
mentre che esso nel mondo vivesse.

83

Partirsi adunque i re, e ciascun prese
quanto poté il cammin suo più corto,
per tosto ritornare in suo paese;
e Palemone in gioia e in diporto
con la sua donna nobile e cortese
lì si rimase e con sommo conforto,
quel possedendo che più li piacea
e a cui el tutto 'l suo ben volea.


Parole dell'autore al libro suo.


84

Poi che le Muse nude cominciaro
nel cospetto degli uomini ad andare,
già fur di quelli i quai l'esercitaro
con bello stilo in onesto parlare,
e altri in amoroso l'operaro;
ma tu, o libro, primo a lor cantare
di Marte fai gli affanni sostenuti,
nel volgar lazio più mai non veduti.

85

E perciò che tu primo col tuo legno
seghi queste onde, non solcate mai
davanti a te da nessuno altro ingegno,
ben che infimo sii, pure starai
forse tra gli altri d'alcuno onor degno;
intra li qual se vieni, onorerai
come maggior ciaschedun tuo passato,
materia dando a cui dietro hai lasciato.

86

E però che i porti disiati
in sì lungo peleggio già tegnamo,
da varii venti in essi trasportati,
le vaghe nostre vele qui caliamo,
e le ghirlande e i don meritati,
con l' ancore fermati, qui spettiamo,
lodando l'Orsa che con la sua luce
qui n'ha condotti, a noi essendo duce.

Qui finisce il duodecimo e ultimo libro del Teseida delle nozze d'Emilia. Deo gratias. Amen.


SONETTO

nel quale l'autore priega le Muse che il presente libro presentino a la donna a cui istanzia è fatto, acciò che ella secondo il suo piacere lo 'ntitoli.


O sacre Muse, le quali io adoro
e con digiuni onoro e vigilando,
di voi la grazia in tal guisa cercando
qual l'acquistaron palidi coloro

a' quai poi deste il grazioso alloro
in sul fonte castalio poetando,
i versi lor sovente esaminando
col vostro canto sottile e sonoro,

io ho ricolte della vostra mensa
alcune miche da quella cadute,
e come seppi qui l'ho compilate;
le quai vi priego che voi le portiate

liete alla donna in cui la mia salute
vive, ma ella forse nol si pensa,
e con lei insieme il nome date e 'l canto
e 'l corso ad esse, se ne le cal tanto.


RISPOSTA DELLE MUSE

al soprascritto sonetto, nel quale esse li significano il titolo dato al libro suo.


Portati abbiam tuoi versi e bel lavoro,
o caro alunno, di Teseo cantando,
e i due Teban, l'un preso e l'altro in bando,
combatter per Emilia donna loro.

La più tua donna ch'essa di costoro,
gli altrui riletti amori a sé recando,
fra sé soletta disse sospirando:
« Ahi, quante d'amor forze in costor foro! ».

Poi di fiamma d'amor tututta accensa,
ci porse priego che non fosser mute
le ben scritte prodezze e la biltate;

« Teseida di nozze d'Emilia », o vate,
nomar li piacque; e noi con note argute
darenli in ogni etate fama immensa.

Così gli abbiam, rorati al fonte santo,
licenziati a gire in ogni canto.



EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Tutte le opere di Giovanni Boccaccio - Volume II", a cura di Vittore Branca, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1964







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