Giovanni Boccaccio - Opera Omnia >>  Filocolo




 

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LIBRO QUARTO


[1]

Il volonteroso giovane, abandonate le sue case con poco dolore, sollecita i passi de' compagni, seguendo quelli d'Ascalion, ammaestratissimo duca del loro cammino: ma i fati da non poter fuggire volsero in arco la diritta via. E primieramente venuti alla guazzosa terra ove Manto crudissima giovane lasciò le sue ossa con etterno nome, passarono oltre per lo piacevole piano. Ma, poi che dietro alle spalle s'ebbero le chiare onde di Secchia lasciate, e saliti sopra i fronzuti omeri d'Appennino, e discesi di quelli, essi si trovarono nel piacevole piano del fratello dello imperiale Tevero, vicini al monte donde gli antichi edificatori del superbo Ilion si dipartirono. Quivi s'apersero gli occhi d'Ascalion, e forte si maravigliò della travolta via, ignorando ove i fortunosi casi li portassero; ma sanza parlarne a' compagni, passando allato alle disabitate mura di Iulio Cesare e da' compagni costrutte negli antichi anni, per uno antico ponte passarono l'acqua. Né però verso Alfea diritto cammino presero, avvegna che picciolo spazio la loro via forse per più sicurtà elessero più lunga, o che gl'iddii, a cui niuna cosa si cela, volonterosi a tal cammino li dirizzassero; e pervennero nella solinga pianura, vicina al robusto cerreto nel quale fuggito s'era il misero Fileno. E quivi trovandosi, l'acque venute per subita piova dalle vicine montagne, ruvinosa avanzò i termini del picciolo fiume che a piè dell'alto cerreto correa, e di quelli abondevolmente uscì allagando il piano: onde costretti furono a tirarsi sopra il cerruto colle, forse di maggiore pericolo dubitando. E quivi tirandosi, di lontano videro tra gli spogliati rami antichissime mura, alle quali, forse imaginando che abitazione fosse, s'accostarono, e entrarono in quelle; né più tosto vi furono, che il luogo essere stato tempio degli antichi iddii conobbero. Quivi piacque a Filocolo di fare sacrificii a' non conosciuti e strani iddii, poi che i fati nel tempio recati li aveano: e fatte levare l'erbe e le fronde e' pruni, cresciute per lungo abuso sopra il vecchio altare, e similemente le figure degl'iddii con pietosa mano ripulire e adornare di nuovi ornamenti, domandò che un toro gli fosse menato. E vestito di vestimenti convenevole a tale uficio, fece sopra l'umido altare accendere odorosi fuochi; e con le propie mani ucciso il toro, le interiora di quello per sacrificio nell'acceso fuoco divotamente offerse; e poi inginocchiato davanti all'altare, con divoto animo incominciò queste parole: -- O sommi iddii, se in questo luogo diserto n'abita alcuno, ascoltate i prieghi miei, e non ischifi la vostra deità il modo del mio sacrificare, il quale non forse con quella solennità che altre volte ricevere solavate, è stato fatto; ma, riguardando alla mia purità e alla buona fede, il ricevete, e a' miei prieghi porgete le sante orecchi. Io giovane d'anni e di senno, oltre al dovere innamorato, pellegrinando cerco d'adempiere il mio disio, al quale sanza il vostro aiuto conosco impossibile di pervenire, onde meriti la divozione avuta nel vecchio tempio, e l'adornato altare, e gli accesi fuochi con gli offerti doni, che io da voi consiglio riceva del mio futuro cammino, e, con quello, aiuto alla mia fatica --. Egli non aveva ancora la sua orazione finita, ch'egli sentì un mormorio grandissimo per lo tempio, soave come pietre mosse da corrente rivo, il quale dopo picciolo spazio si risolveo in soave voce, né vide onde venisse, e così disse: -- Non è per lo insalvatichito luogo mancata la deità di noi padre di Citerea abitatore di questo tempio, a cui tu divotamente servi, e dalla quale costretti siamo di darti risponso; e però che con divoto fuoco hai i nostri altari riscaldati, lungamente dimorati freddi, molto maggiormente meriti d'avere a' tuoi divoti prieghi vera risponsione de' futuri tempi, e però ascolta. Tu, partito domane di questo luogo, perverrai ad Alfea: quivi la mandata nave t'aspetta, nella quale dopo gravi impedimenti perverrai nell'isola del fuoco, e quivi novelle troverai di quello che vai cercando. Poi, quindi partitoti, perverrai dopo molti accidenti nel luogo ove colei cui tu cerchi dimora, e là non sanza gran paura di pericolo, ma sanza alcun danno, la disiderata cosa possederai. Onora questo luogo, però che quinci ancora si partirà colui che i tuoi accidenti con memorevoli versi farà manifesti agli ignoranti, e 'l suo nome sarà pieno di grazia --. Tacque la santa voce; e Filocolo, d'ammirazione e di letizia pieno, tornò a' compagni, e loro il consiglio degl'iddii ordinatamente recitò; e di questo contenti tutti a prendere il cibo nel salvatico luogo si disposero.



[2]

Era nel non conosciuto luogo davanti al vecchio tempio un pratello vestito di palida erba per la fredda stagione, nel quale una fontana bellissima si vedea, alle cui onde la piovuta acqua niente aveva offeso, ma chiarissime dimoravano, e nel mezzo di quella a modo di due bollori si vedea l'acqua rilevare. Alla quale Filocolo, uscito del tempio, e appressandosili, gli piacque, così chiara vedendola, e divenne disideroso di bere di quella, e fecesi un nappo d'argento apportare; e con quello dall'una delle parti si bassò sopra la fontana per prenderne, e, bassato, col nappo alquanto le chiare onde dibatté. E questo faccendo, vide quelle gonfiare, e fra esse sentì non so che gorgogliare, e dopo picciolo spazio il gorgogliare volgersi in voce e dire: -- Bastiti, chi che tu sii che le mie parti molesti con non necessario ravolgimento, che io sanza essere molestato, o molestarti, mitigo la tua sete, né perisca il fraternale amore per che io, che già fui uomo, sia ora fonte --. A questa voce Filocolo tutto stupefatto tirò indietro la mano, e quasi che non cadde, né i suoi compagni ebbero minore maraviglia; ma dopo alquanto spazio, Filocolo rassicuratosi così sopra la chiara fonte parlò: -- O chi che tu sii, che nelle presenti onde dimori, perdonami se io t'offesi, ché non fu mio intendimento, quando per le tue parti sollazzandomi menava il mio nappo, d'offendere ad alcuno. Ma se gl'iddii da tal molestia ti partano e le tue onde lungamente chiare conservino, non ti sia noia la cagione per che qui relegato dimori narrarci, e chi tu se', e come qui venisti e onde, acciò che per noi la tua fama risusciti, e, i tuoi casi narrando, di te facciamo ancora molte anime pietose, se pietà meritano i tuoi avvenimenti --.



[3]

Tacque Filocolo, e l'onde tutte s'incominciarono a dimenare, e dopo alquanto spazio, una voce così parlando uscì del vicino luogo a' due bollori: -- Io non so chi tu sii, che con così dolci parole mi costringi a rispondere alla tua domanda; ma però che maravigliare mi fai della tua venuta, non sarà sanza contentazione del tuo disio, solo che ad ascoltarmi ti disponghi. E però che più mia condizione ti sia manifesta, dal principio de' miei danni ti narrerò i miei casi. E sappi ch'io fui di Marmorina, terra ricchissima e bella e piena di nobilissimo popolo, posseduta da Felice, altissimo re di Spagna, e il mio nome fu Fileno, e giovane cavaliere fui nella corte del detto re. Nella quale corte una giovane di mirabilissima bellezza, il cui nome era Biancifiore, con la luce de' suoi begli occhi mi prese in tanto il cuore del suo piacere, che mai uomo di piacere di donna non fu sì preso. Niuna cosa era che io per piacerle non avessi fatto, e già molte cose feci laudevoli per amor di lei. Io ricevetti da lei, un giorno che la festività di Marte si celebrava in Marmorina, un velo col quale ella la sua bionda testa copriva, e quello per sopransegna portato nella palestra, sopra tutti i compagni per forza ricevetti l'onore del giuoco. E da Marmorina partitomi andai a Montoro, dove un figliuolo del detto re chiamato Florio dimorava; e quivi in sua presenza i miei amorosi casi narrai, ignorando che esso Biancifiore più che altra cosa amasse, come poi detto mi fu che esso facea: per le quali cose narrate meritai a torto d'essere da lui odiato. Queste furono principali cagioni de' miei mali, però che, se io fossi taciuto, ancora in Marmorina dimorerei, contentandomi di poter vedere quella bellezza per la quale ora lontano in altra forma dimoro. Ma non essendo io ancora di Marmorina partito, poco tempo appresso della fatta narrazione, Diana, pietosa del crudele male che mi si apparecchiava, in sonno mi fece vedere infinite insidie poste da Florio alla mia vita, e similemente mi fece sentire i colpi che la sua spada e quelle de' suoi compagni s'apparecchiavano di dovermi dare. Le quali cose vedute, narrandole poi io ad un mio amico, il quale de' segreti di Florio alcuna cosa sentiva, m'avverò quello che veduto aveva essermi sanza alcun fallo apparecchiato, se io di Marmorina non mi partissi. Seguitai adunque il consiglio del mio amico, e abandonata Marmorina, e cercati molti luoghi, e pervenuto qui, mi piacque qui di finire la mia fuga e di pigliare questo luogo per etterno essilio: e ancora mi parve solingo e rimoto molto, onde io imaginai di poterci sanza impedimento d'alcuni nascosamente piangere l'abandonato bene; e così lungamente il piansi. Ma per le mie lagrime, non per l'essere lontano, mancava però il verace amore ch'io portava e porto in colei che più bella che altra mi parea, anzi più ciascun giorno mi costringeva e molestava molto. Laonde io un giorno incominciai con dolenti voci a pregare gl'iddii del cielo e della terra e qualunque altri che i miei dolori terminassero, e infinite volte domandai e chiamai la morte, la quale impossibile mi fu di potere avere. Ma pure pietà del mio dolore vinse gl'iddii, li quali chiamando, come io ho detto che faceva, sedendo in questo luogo, mi sentii sopra subitamente venire un sudore e tutto occuparmi, e, dopo questo, ciò che quello toccava in quello medesimo convertiva, e già volendomi con le mani toccare e asciugare quello, né la cosa disiderata toccava, né la mano sentiva l'usato uficio adoperare, ma mi sentiva nel muovere de' membri e nel toccarsi insieme né più né meno come l'onde cacciate l'una dal vento e l'altra dalla terra insieme urtarsi: per che io incontanente me conobbi in questi liquori trasmutato, e mi sentii occupare questo luogo, il quale io poi con la gravezza di me medesimo ho più profondo occupato. E così trasmutato, solo il conoscimento antico e il parlare dagl'iddii mi fu lasciato. Né mai mancarono lagrime a' dolenti occhi, i quali nel mezzo di questa posti, da essi, come da due naturali vene, surge ciò che questa fontana tiene fresca, come voi vedete. E quella verdura sottile, che in alcuna parte cuopre le chiare onde, fu il velo della bella giovane col quale io coperto m'era quel giorno che con tanto effetto la morte disiderava, acciò che sotto la sua ombra, pensando di cui era stato, mi fosse più dolce il morire: e, come vedete, ancora mi cuopre, e emmi caro. Ora hai per le mie parole potuto tutto il mio stato comprendere, il quale io quanto più brievemente ho potuto t'ho dichiarato: non ti sia dunque grave manifestarmi a cui io mi sia manifestato --.



[4]

Ascoltando Filocolo le parole di Fileno, si ricordò lui di tutto dire la verità, e cominciò quasi per pietà a lagrimare, e così gli rispose: -- Fileno, pietà m'ha mosso de' tuoi casi a lagrimare; e certo io soverrò al tuo domando, poi che al mio se' stato cortese, e non sanza consolazione delle tue lagrime ascolterai le mie parole. E primieramente ti sia manifesto che io mi chiamo Filocolo, e sono di paese assai vicino alla tua terra, nato di nobili parenti, e per quello signore per lo quale tu in lagrime abondi e in dolore, io similemente pellegrinando d'acerbissima doglia pieno vo per lo mondo. Quel Florio, il quale tu mi nomini, io il conosco troppo bene, e non ha guari che io il vidi, e con lui parlai, e tanto dolente per le parole sue essere il compresi, che mai sì doloroso uomo non vidi. Ma certo egli, per quello ch'io intendessi, ha ben ragione di vivere dolente, però che il re suo padre quella bella giovane Biancifiore, la quale tu già amasti, vendé a' mercatanti sì come vilissima serva. I quali mercatanti lei sopra una loro nave trasportarono via, e dove non si sa: per la qual cosa egli, non sappiendo che si fare, muore a dolore. Onde se egli a te nuocere voleva, di tale ingiuria gl'iddii l'hanno ben pagato, avvegna che la tua fuga gli spiacque e fugli noia. E però non pur crescere in angoscia, ma, con ciò sia cosa che a te siano molti compagni e in simiglianti affanni, e io sia uno di quelli, confortati, sperando che quella dea che dalle insidie di Florio ti levò, così come agevole le fu a rendere lo sbranato Ipolito vivo con intera forma, così te nel pristino stato potrà a' suoi servigi recandoti, rintegrare --.



[5]

La chiara fonte, finite le parole di Filocolo, tutta enfiò, e con le sue onde passò gli usati termini, producendo un nuovo soffiare, ma più a Filocolo non parlò, il quale lungamente alcuna parola attese. Ma poi che per lungo spazio fu dimorato, e quella riposata vide sì come quando prima col nappo mossa l'avea, egli si dirizzò, e con li compagni suoi, di questa cosa tutti maravigliando si, incominciarono a ragionare, dolendo a ciascuno del misero avvenimento di Fileno, dicendo: -- O quanto è dubbiosa cosa nella palestra d'Amore entrare, nella quale il sottomesso arbitrio è impossibile da tal nodo slegare, se non quando a lui piace. Beati coloro che sanza lui vita virtuosa conducono, se bene guardiamo i fini a' quali egli i suoi suggetti conduce. Chi avrebbe ora creduto nel salvatico paese trovare Fileno convertito in fontana di lagrime, il quale fu il più gaio cavaliere e il più leggiadro che la nostra corte avesse? Chi potrebbe pensare Filocolo, figliuolo unico dell'alto re di Spagna, essere per amore divenuto pellegrino, e andare cercando le strane nazioni poste sotto il cielo, e ora in questo luogo trovarsi in questo tempo? --. A questo rispose Filocolo dicendo: -- L'essere venuto qui m'è assai caro; né per alcuna cosa vorrei non esserci stato, però che mirabile cosa e da notare abbiamo veduta nel diserto luogo, il quale n'è stato dagl'iddii comandato d'onorare, e detto il perché. E certo io non so in che atto io il possa avanti di più onore accrescere che io m'abbia fatto, rinnovando il santo tempio e il suo altare --. A cui Ascalion disse: -- Noi andremo secondo il santo consiglio, e fornito il nostro cammino e ricevuta la cercata cosa, nel voltare de' nostri passi il tornar qui non ci falla, e allora quello onore che in questo mezzo avremo ne' nostri animi diliberato di fare, faremo agl'iddii e al luogo, però che gl'iddii, solleciti a' beni dell'umana gente niuna utilità per i nostri doni ci concedono; ma poi ch'elli hanno le dimandate cose a' dimandanti concedute, dilettansi e è loro a grado che i ricevitori in luogo di riconoscenza offerino graziosi doni e rendano debiti onori alle loro deità, mostrandosi grati del ricevuto beneficio. E però, come dissi, nel nostro tornare, ricevute le disiate cose, ci mostreremo conoscenti del ricevuto consiglio, onorandolo come si converrà --.



[6]

Questo consiglio a tutti piacque, e tutto quel giorno e la notte quivi dimorarono sanza più molestare la misera fontana; e la vegnente mattina, secondo l'ammaestramento dello strano iddio, mancate l'abondanti acque che il solingo piano aveano il preterito giorno allagato, presero il cammino, per lo quale sollecitamente pervennero ad Alfea e a' suoi porti, avanti che l'occidentale orizonte fosse dal sole toccato. Quivi la mandata nave quasi in un'ora con loro insieme trovarono essere venuta: di che contenti, sperando per quello le cose più prospere nel futuro, su vi montarono sanza alcuno indugio, e a' prosperevoli venti renderono le sanguigne vele, comandando che all'isola del fuoco il cammino della nave si dirizzasse. Eolo aiutava con le sue forze il nuovo legno, e lui con Zeffiro a' disiati luoghi pingeva, e Nettunno pacificamente i suoi regni servava: onde Filocolo e' suoi compagni contenti al loro cammino sanza affanno procedeano. Ma la misera fortuna, che niuno mondano bene lascia gustare sanza il suo fele, non consentì che lungamente questa fede fosse a' disiosi giovani servata; ma, avendo già costoro dopo il terzo giorno assai vicini al luogo ove, quando nella nave entrarono, aveano diliberato di riposarsi, riposti, le bocche di Zeffiro richiuse e diede a Noto ampissima via sopra le salate acque: e Nettunno in se medesimo tutto si commosse con ispiacevol mutamento. Onde dopo poco spazio i giovani, non usi di queste cose, quasi morti in tale affanno, sanza ascoltare alcun conforto, nella nave si riputavano.



[7]

Erasi Noto con focoso soffiamento d'Etiopia levato, volendo già il giorno dare luogo alla notte, e avea l'emi sperio tutto chiuso d'oscurissimi nuvoli, minacciando noiosissimo tempo: e i marinari di lontana parte vedeano il mare aver mutato colore. Ma poi che il giorno fu partito, i marinari, da doppia notte occupati, non vedeano che si fare. Elli s'argomentavano quanto potevano di prendere alto mare e di resistere alla sopravegnente tempesta per li veduti segni; ma mentre che gli argomenti utili alla loro salute si prendeano, subitamente incominciò da' nuvoli a scendere un'acqua grandissima, e 'l vento a multiplicare in tanta quantità, che levate loro le vele e spezzato l'albero, non come essi voleano, ma come a lui piaceva, li guidava. E li mari erano alti a cielo e da ogni parte percoteano la resistente nave, coprendo quella alcuna volta dall'un capo all'altro: e già tolto avea loro l'uno de' timoni, e dell'altro stavano in grandissimo affanno di guardare. E il cielo s'apriva sovente mostrando terribilissimi e focosi baleni con pestilenziosi tuoni, i quali, in alcuna parte colti della nave, n'aveano tutte le bande mandate in mare: laonde tutti i marinari dopo lunga fatica, e combattuti dal vento e dalla sopravegnente acqua e da' tuoni, il potersi aiutare, o loro o la nave, aveano perduto, e chi qua e chi là quasi morti sopra la coperta della nave prostrati giaceano vinti; e quasi ogni speranza di salute, per lo dire de' padroni e per le manifeste cose, era perduta. Né ancora la notte mezze le sue dimoranze avea compiute, né il tempo facea sembianti di riposarsi, ma ciascuna ora più minaccevole proffereva maggiori danni con le sue opere: onde niuno conforto né a Filocolo né ad alcuno che vi fosse era rimaso, se non aspettare la misericordia degl'iddii.



[8]

Multiplicava ciascuna ora alla sconsolata nave più pericolo, e ancora che il romore e del mare e de' venti e de' tuoni e dell'acque fosse grandissimo, ancora il faceano molto maggiore le dolenti voci de' marinari, le quali alcune in ramarichii, altre in prieghi agl'iddii che gli dovessero atare dolorosissime delle loro bocche procedeano, conoscendo il pericolo in che erano. Le quali cose Filocolo per lungo spazio avendo vedute, e a quelle e conforto e aiuto co' suoi compagni avea porto quanto potuto avea, vedendo la loro salute ognora più fuggire, con gli altri insieme quasi disperato piangendo s'incominciò a dolere, dicendo così: -- O fortuna, sazia di me omai la tua iniqua volontà. Assai ti sono stato trastullo, assai hai di me riso, ora in alto e ora in basso stato. Non penare più di recarmi a quell'ultimo male che continuamente hai disiderato: fallo tosto. Non m'indugiare più la morte, poi che tu la mi disideri: ma se esser puote, io solo la morte riceva, acciò che costoro, i quali per me ingiustamente i tuoi assalti ricevono, non sofferiscano sanza peccato pena. I tuoi innumerabili pericoli tutti, fuori che questo, m'hai fatti provare, e in questo, il quale ancora non avea provato, ogni tua noia si contiene: sia adunque questo, sì come maggiore, a me per fine riserbato nelle mie miserie. A questa niuna cosa peggiore mi può seguire se non morte. Io la disidero: mandalami, acciò che gli altri campino, e la tua voglia s'adempia e i miei dolori si terminino. Sazisi ora ogni tua voglia, e in questo finiscano le tue fatiche e i miei danni. O miseri parenti rimasi sanza figliuolo, confortatevi, ché più aspro fine gli seguita che voi non gli dimandavate: egli è ora nelle reti tese da voi miseramente incappato. Le vostre operazioni questa notte avranno fine e la vostra letizia non vedrà il morto viso, il quale vivo invidiosi lagrimato avete. Solo in questo m'è benigna la fortuna, e in questo la ringrazio, che sì incerta sepoltura mi donerà, che né vivo né morto mai a' vostri occhi mi ripresenterò: per che se mi odiate, come le vostre operazioni hanno mostrato, sanza consolazione in dubbio viverete della mia vita; se mi amate, come figliuolo da' parenti dee essere amato, la fortuna, rapportatrice de' mali, morto mi vi paleserà sanza indugio, e allora potrete conoscere voi debita pena portare del commesso male. Ma la mia oppinione sola questa consolazione ne porterà con l'anima al leggero legnetto d'Acheronte, pensando che la vostra vecchiezza in dolore si consumerà, la quale non consentì che io lieti usassi i miei giovani anni. O Nettunno, perché tanto t'affanni per avere la mia anima? Cuopri la trista nave se possibile è, e me solo in te ne porta. Finisci il tuo disio e le mie pene a un'ora: non nuoccia il mio infortunio agl'innocenti compagni --. E poi ch'egli aveva per lungo spazio così detto, e egli con più pietosa voce alzava il viso mirando il turbato cielo, e diceva: -- O sommo Giove, venga la tua luce alla sconsolata gente, per la quale i non conosciuti cammini del tuo fratello ci si manifestino, e aiuta il tuo popolo che solo in te spera, e, sanza guardare a' nostri meriti, con pietoso aspetto alla nostra necessità ti rivolgi, e se licito non ci è di potere la dimandata isola prendere con le nostre ancore, prenda la già non nave, sanza pericolo di noi, qualunque altro porto. Umilia il tuo fratello a cui niuna ingiuria facemmo mai, muovasi la tua pietà a' nostri prieghi, né resistano i commessi difetti, i quali sì come uomini continui adoperiamo. E tu, o santo iddio, a cui non ha tre dì passati, o forse quattro, feci debiti sacrificii, aiutaci, e la 'mpromessa fatta dalla santa bocca non la mettere in oblio. Non si conviene agl'iddii essere fallaci, né possibile è che siano; ma cessi che così la tua promessa mi sia attenuta, come quella di Giove fu a Palinuro. Io non men tosto disidero di prendere altri liti, se possibile non è d'avere questi, che per tal maniera la promessione ricevere. O santa Venus, aiutami nel tuo natale luogo. Non mi far perire là ove tu nascesti e dove tu più forza che in altra parte dei avere. Ricordati della mia diritta fede. Cessino per lo tuo aiuto questi venti, e manifestisici la bellezza del bel nido di Leda e la figliuola di Latona, e i mari, che di sé fanno spumose montagne, nelle sue usate pianezze riduci. Vedi che niuno di noi non può più; solo il vostro soccorso sostiene le nostre speranze: quello solo attendiamo. Non si 'ndugi: l'albero, le vele, i timoni e le sarte da' venti e dall'onde ci sono state tolte. E i tuoni e le spaventevoli corruscazioni e le gravi acque cadenti da cielo e mosse da' venti ci hanno i nocchieri e i marinari e noi vinti, e renduti impossibili a più aiutarci: in tempestoso mare, sanza guida e in isconosciuto luogo, abandonato da ogni speranza, per li tuoi servigi così mi ritruovo --.



[9]

Gli altri compagni di Filocolo tutti piangeano, e nulla salute speravano, ma del fiero colpo d'Antropos, il quale vicino si vedeano, impauriti, mezzi morti giaceano tutti bagnati, e quasi ogni potenza corporale perduta, si conduceano secondo i disordinati movimenti della nave. Ma il vecchio Ascalion, il quale altre volte di simiglianti avversitadi provate avea, ancora che pauroso fosse, non gli parea cosa nuova, e con migliore speranza viveva che alcuno degli altri, e tutti li giva riconfortando con buone parole come cari figliuoli. E mentre queste cose così andavano, la nave portata da' poderosi venti sanza niuno governamento, avanti che il giorno apparisse da nulla parte, ne' porti dell'antica Partenope fu gittata da' fieri venti, quasi vicina agli ultimi suoi danni: e quivi da' marinari, che vedendosi in porto ripresero conforto, così spezzata dalle bande e fracassata, in sicuro luogo dall'ancore fu fermata, e aspettarono il nuovo giorno ringraziando gl'iddii, non sappiendo in che parte la fortuna gli avesse balestrati.



[10]

Poi che il giorno apparve e il luogo fu conosciuto da' marinari, contenti d'essere in sicuro e grazioso luogo, discesero in terra. E Filocolo co' suoi compagni, a' quali più tosto della sepoltura risuscitati parea uscire che della nave, scesi in terra, e rimirando verso le crucciate acque, ripetendo in se medesimi i passati pericoli della presente notte, appena parea loro potere essere sicuri, e ringraziando gl'iddii che da tal caso recati gli avea a salute, offersero loro pietosi sacrificii e incominciaronsi a confortare. E da un amico d'Ascalion onorevolemente ricevuti furono nella città, e quivi la loro nave fecero racconciare tutta, e di vele e d'albero e di timoni migliori che i perduti la rifornirono; e incominciarono ad aspettar tempo al loro viaggio, il quale molto più si prolungò che 'l loro avviso non estimava. Per la qual cosa Filocolo più volte volle per terra pigliare il cammino, ma, sconfortato da Ascalion, se ne rimase, aspettando il buon tempo in quel luogo.



[11]

Videro Filocolo e' suoi compagni Febeia cinque volte tonda e altretante cornuta, avanti che Noto le sue impetuose forze abandonasse: né quasi mai in questo tempo videro rallegrare il tempo. Per la qual cosa gravissima malinconia e ira la desiderosa anima di Filocolo stimolava, dolendosi della ingiuria che da Eolo ricevere gli pareva. E più volte la sua ira con voti e con pietosi sacrificii e con umili prieghi s'ingegnò di piegare, ma venire non ne poté al disiderato fine, anzi parea che quelli più nocessero; onde egli spesso di ciò si doleva dicendo: -- Oimè, che ho io verso gl'iddii commesso, che i miei sacrificii puramente fatti non sono accettati? Io non sacri lego, io non invido de' loro onori, io non assalitore de' loro regni, né tentatore della loro potenza, ma fedelissimo e divoto servidore di tutti: adunque che mi nuoce? --. Egli dopo le lunghe malinconie andava alcuna volta a' marini liti, e in quella parte, verso la quale egli imaginava di dovere andare, si volgeva e rimirava, dicendo: -- Sotto quella parte del cielo dimora la mia Biancifiore. Quella parte è testé da lei veduta, e io la voglio rimirare. Io sento la dolcezza ch'ella adduce seco, presa dalla luce de' begli occhi di Biancifiore. E poi bassati gli occhi sopra le salate onde, e vedendole verdi e spumanti biancheggiare nelle sue rotture con tumultuoso romore, e similmente il vento con sottili sottentramenti stimolare quelle, turbato in se medesimo dicea: -- O dispietata forza di Nettunno, perché commovendo le tue acque impedisci il mio andare? Forse tu pensi ch'io un'altra volta porti il greco fuoco alla tua fortezza, come fecero coloro a' quali se tu così crudele, come a me se', fossi stato, ancora le sue mura vedresti intere e piene di popolo sanza essere mai state ofese. Io non porto insidie, ma come umile amante, col cuore acceso di fiamma inestinguibile, per lo piacere d'una bellissima giovane, sì come tu già avesti, cerco mediante la tua pace di ritrovare lei, allontanata per inganni d'alcuni dalla mia presenza. Di che meritarono più coloro nel tuo cospetto, che portandonela da me la divisero, che meriti io? Che ho io verso di te offeso, che commesso più che li ausonici mercatanti? Niuna cosa: con continui sacrificii ho la tua deità essaltata cercandola di pacificare verso me. Alla quale s'io forse mai offesi, ignorantemente il male commisi: e che che io m'avessi commesso, ben ti dovrebbe bastare, pensando quello che mi facesti, non è lungo tempo passato, quando me e' miei compagni per morti quasi in questo luogo ci gittasti sopra lo spezzato legno. Adunque perché sanza utilità pìù avanti mi nuoci? Certo, se i tuoi regni fossero da essere cercati brieve quantità come da Leandro erano, con la virtù dell'anello ricevuto dalla pietosa madre, mi metterei a cercare il disiato luogo oltre al tuo piacere e crederei poter fornire quello che a lui fornire non lasciasti; ma sì lungo cammino per quelli ho ad andare, che più tosto la forza mi mancherebbe che il tuo potere m'offendesse: e per questo la tua pace cerco, e quella disidero; non la mi negare, io te ne priego per quello amore che già per Esmenia sentisti. E tu, o sommo Eolo, spietato padre di Cannace, tempera le tue ire, ingiustamente verso me levate. Apri gli occhi, e conosci ch'io non sono Enea, il gran nemico della santa Giunone: io sono un giovane che amo, sì come tu già amasti. Pensi tu forse per nuocermi avere da Giunone la seconda impromessa? Raffrena le tue ire, racchiudi lo spiacevole vento sotto la cavata pietra: io non sono Macareo, né mai in alcuna cosa t'offesi. Sostieni ch'io compia lo incominciato viaggio, e quello compiuto, quando nel disiato luogo sarò con la mia donna, quanto ti piace soffia: graziosa cosa mi sarà di quel luogo mai non partirmi. Allora mostrerai le tue forze, quando noioso non mi sarà il dimorare. Ma ora che con angoscia perdo tempo, mitiga la tua furia, e sostieni che 'l mio disio io il possa fornire, ché se tu non fossi, ben conosco che Nettunno priega di starsi in pace --. Poi diceva: -- Oimè, ove mi costrigne amore di perdere i prieghi? Alle sorde onde e a' dissoluti soffiamenti, ne' quali niuna fede, sì come in cosa sanza niuna stabilità, si truova! --.



[12]

Con tali parole più volte si dolea lo innamorato giovane sopra i salati liti, e da malinconia gravato tornava al suo ostiere. Ma essendo già Titan ricevuto nelle braccia di Castore e di Polluce, e la terra rivestita d'ornatissimi vestimenti, e ogni ramo nascoso dalle sue frondi, e gli uccelli, stati taciti nel noioso tempo, con dolci note riverberavano l'aere, e il cielo, che già ridendo a Filocolo il disiderato cammino promettea con ferma fede, avvenne che Filocolo una mattina, pieno di malinconia e tutto turbato nel viso, si levò dal notturno riposo. Il quale vedendolo, i compagni si maravigliarono molto per che più che l'altre fiate turbato stesse. Al quale Ascalion disse: -- Giovane, caccia da te ogni malinconia, ché il tempo si racconcia, per lo quale, sanza dubbio di più ricevere sì noioso accidente come già sostenemmo, ci sarà licito il camminare --. A cui Filocolo rispose: -- Maestro, certamente quello che dite, conosco, ma ciò alla presente malinconia non m'induce --. -- E come -- disse Ascalion -- è nuovo accidente venuto, per lo quale tu debbi dimorare turbato? --. -- Certo -- disse Filocolo -- l'accidente della mia turbazione è questo, che nella passata notte io ho veduta la più nuova visione che mai alcuno vedesse, e in quella ho avuta gravissima noia nell'animo, veggendo le cose ch'io vedeva: per la qual cosa la turbazione, poi ch'io mi svegliai, ancora da me non è partita, ma sanza dubbio credo che meco non lungamente dimorerà --. Pregaronlo Ascalion e' compagni che, cacciando da sé ogni malinconia, gli piacesse la veduta visione narrare loro, nella quale tanta afflizione sostenuta avea. A' quali Filocolo con non mutato aspetto rispose che volentieri, e così cominciò a parlare:



[13]

-- A me parea essere da tutti voi lasciato e dimorare sopra lo falernese monte, qui a questa città sopraposto, e sopra quello mi parea che un bellissimo prato fosse, rivestito d'erbe e di fiori dilettevoli assai a riguardare, e pareami di quello potere vedere tutto l'universo; né mi parea che alli miei occhi alcuna nazione s'occultasse. E mentre che io così rimirando intorno le molte regioni dimorava, vidi di quello cerreto ove noi la misera fontana trovammo, uno smeriglione levarsi e cercare il cielo; e poi che egli era assai alzato, pigliando larghissimi giri il vidi incominciare a calare, e dietro a una fagiana bellissima e volante molto, che levata s'era d'una pianura fra selvatiche montagne posta, non guari lontana al natale sito del nostro poeta Naso: e nel già detto prato a me assai appresso mi parea ch'egli la sopragiungesse, e ficcatasela in piedi sopra la schiena, forte ghermita la tenea. Poi appresso, assai vicino di quel luogo onde levata s'era la fagiana, mi parve vedere levare quello uccello che a guardia dell'armata Minerva si pone, e con lui uno nerissimo merlo, e volando quella seguire, e nel suo cospetto e dello smeriglione posarsi. Poi, volti gli occhi in altra parte di quella isola la quale noi cerchiamo, il semplice uccello, in compagnia di Citerea posto, vidi di quindi levare e insieme con un cuculo in quel luogo ancora porsi. E mentre che io in giro gli occhi volgeva, vidi tra l'ultimo ponente e i regni di Trazia di sopra a Senna levarsi uno sparviere bellissimo e uno gheppo, e seguitare un girfalco e un moscardo e un rigogolo e una grua, che di sopra alla riviera del Rodano levati s'erano, e dintorno alla fagiana posarsi. Poi, in più prossimana parte tirati gli occhi, vidi delle guaste mura, lasciate da noi nel piano del fratello del Tevero, uscire un terzuolo, e con forte volo aggiungersi agli altri sopradetti, di dietro al quale la misera reina, ancora de' suoi popoli nimica, levata di presso al luogo onde lo smeriglione levare vidi, volando seguiva: e di non molto lontano alla nostra Marmorina surse il padre d'Elena, e quivi venne, e d'una costa d'una di queste montagne vicine venne uno avoltoio e con gli altri nel bel prato si pose. E mentre che io della adunazione di questi uccelli in me medesimo mi maravigliava, e io guardai e vidi di questa piaggia molti e diversi altri levarsi, e con gli sopradetti giugnersi: e' mi parea, se bene estimai, un nibbio e un falcone e un gufo vedere agli altri precedere, e, a loro dietro, una delle figliuole di Piero conobbi, e una ghiandaia che pigolando forte volava; e, dopo loro, quelli da cui Apollo è accompagnato, e il mirifico tiratore de' carri di Giunone, e una calandra, e un picchio e poi un grande aghirone con la misera Filomena e con Tireo, a' quali dietro volava un indiano pappagallo e un frisone, e con gli altri accolti, fatto di loro un cerchio dintorno alla fagiana, da' piè di Niso sopr'essa. Io maravigliandomi incominciai ad attendere che questi volessero fare. E come ciò rimirava, tutti incominciarono a dare gravissimi assalti alla fagiana, e alcuni allo smerlo, gridando e stridendo, quale tirandosi adietro e quale mettendosi avanti; e chi penne e chi la viva carne di quella ne portava; ma lo smeriglione gridando, sanza ghermirla punto, quanto potea da tutti la difendea; e in questa battaglia per lungo spazio dimorò, e quasi io più volte fui mosso per andare ad aiutarlo, poi ritenendomi fra me dicea: « Veggiamo la fine di costui, se egli avrà tanto vigore che da tutti la difenda ». E così attendendo, delle montagne vicine a Pompeana vidi un gran mastino levarsi e correre in questo luogo, e tra tutti gli uccelli ficcatosi, con rabbiosa fame il capo della fagiana prese, e quello divorato, per forza l'altro busto trasse degli artigli di Niso: il quale poi che voti della presa preda si trovò gli artigli, gridando il vidi non so come in tortola essere trasmutato, e sopra un vicino albero, nel quale fronda verde il nuovo tempo non avea rimessa, posarsi, e sopra quello a modo di pianto umano quasi la sentiva dolere. E così stando, mi parve vedere il cielo chiudersi d'oscuri nuvoli, molto peggio che quella notte, che noi di morire dubitammo, non fece. E picciolo spazio stette ch'egli ne cominciò a scendere un'acqua pistolenziosa con una grandine grossa, con venti e con tempesta simile mai non veduta: e i tuoni e' lampi erano innumerabili e grandissimi. E certo io dubitava non il mondo un'altra volta in caos dovesse tornare! E tutta questa pistolenzia parea che sopra il dolente uccello cadesse: la quale dolendosi con l'alie chiuse tutta la sostenea. La terra e 'l mare e 'l cielo crucciati e minacciando peggio, pareano contra a quella commossi, né parea che luogo fosse alcuno ove essa per sua salute ricorso avere potesse. E così di questa visione in altre, le quali alla memoria non mi tornano, mi trasportò la non stante fantasia, infino a quell'ora che io poco inanzi mi svegliai, trovandomi ancora nella mente turbato della compassione avuta al povero uccello --.



[14]

-- Strane cose ne conta il tuo parlare -disse Ascalion, -- né che ciò si voglia significare credo che mai alcuno conoscerebbe: e però niuna malinconia te ne dee succedere. Manifesta cosa è che ciascuno uomo ne' suoi sonni vede mirabili cose e impossibili e strane, dalle quali poi isviluppato si maraviglia, ma conoscendo i principii onde muovono, quelle sanza alcun pensiero lascia andare: e però quelle cose che ne conti che vedute hai, sì come vane, nella loro vanità le lascia passare. E poi che il tempo si rallegra, e de' nostri disiderii lieto indizio ci dimostra, e noi similmente ci rallegriamo; andiamo e la piacevole aere su per li salati liti prendiamo: e ragionando, del nostro futuro viaggio ci proveggiamo passando tempo --. Così Filocolo col duca e con Parmenione e con gli altri compagni si mosse, e con lento passo, di diverse cose parlando, verso quella parte ove le reverende ceneri dell'altissimo poeta Maro si posano, dirizzano il loro andare. I quali non furono così parlando guari dalla città dilungati, che essi pervenuti allato ad un giardino, udirono in esso graziosa festa di giovani e di donne. E l'aere di varii strumenti e di quasi angeliche voci ripercossarisonava tutta, entrando con dolce diletto a' cuori di coloro a' cui orecchi così riverberata venia: i quali canti a Filocolo piacque di stare alquanto a udire, acciò che la preterita malinconia, mitigandosi per la dolcezza del canto, andasse via. Ristette adunque ad ascoltare: e mentre che la fortuna così lui e i compagni fuori del giardino tenea ad ascoltare sospesi, un giovane uscì di quello, e videli, e nell'aspetto nobilissimi e uomini da riverire gli conobbe. Per che egli sanza indugio tornato a' compagni, disse: -- Venite, onoriamo alquanti giovani, ne' sembianti gentili e di grande essere, i quali, forse vergognandosi di passare qua entro sanza essere chiamati, dimorano di fuori ascoltando i nostri canti --. Lasciarono adunque i compagni di costui le donne alla loro festa, e usciti del giardino se ne vennero a Filocolo, il quale nel viso conobbero di tutti il maggiore, e a lui, con quella reverenza che essi avevano già negli animi compresa che si convenisse, parlarono, pregandolo che in onore e accrescimento della loro festa gli piacesse co' suoi compagni passare con loro nel giardino, con più prieghi sopra questo strignendolo che esso loro questa grazia non negasse. Legarono i dolci prieghi l'animo gentile di Filocolo, e non meno quello de' compagni; e così a' preganti fu da Filocolo risposto: -- Amici, in verità tal festa da noi cercata non era, né similemente fuggita, ma sì come naufragi gittati ne' vostri porti, per fuggire gli accidiosi pensieri che l'ozio induce, andavamo per questi liti le nostre avversità recitando; e come che la fortuna ad ascoltare voi c'inducesse non so, ma disiderosa, pare, di cacciare da noi ogni noia, pensando che voi, in cui cortesia infinita conosco, ci ha parati davanti: e però a' vostri prieghi satisfaremo, ancora che forse parte della cortesia, che da noi procedere dovrebbe, guastiamo --. E così parlando insieme nel bel giardino se n'entrarono, ove molte belle donne trovarono; dalle quali graziosamente ricevuti furono, e con loro insieme accolti alla loro festa.



[15]

Ma poi che Filocolo per grande spazio ebbe la festa di costoro veduta, e festeggiato con essi, a lui parve di partirsi. E volendo prendere congedo da' giovani e ringraziarli del ricevuto onore, una donna più che altra da riverire, piena di maravigliosa bellezza e di virtù, venne dov'egli stava, e così disse: -- Nobilissimo giovane, voi per la vostra cortesia questa mattina a questi giovani avete fatta una grazia, per la quale essi sempre vi sono tenuti, cioè di venire ad onorare la loro festa: piacciavi, adunque, all'altre donne e a me la seconda grazia non negare --. A cui Filocolo con soave voce rispose: -- Gentil donna, a voi niuna cosa giustamente si poria negare; comandate: io e' miei compagni a' vostri piaceri tutti siamo presti --. A cui la donna così disse: -- Con ciò sia cosa che voi, venendo, in grandissima quantità la nostra festa multiplicaste, io vi voglio pregare che partendovi non la manchiate, ma qui con noi questo giorno, in quello che cominciato avemo, infino alla sua ultima ora consumate --. Filocolo rimirava costei parlante nel viso, e vedea i suoi occhi pieni di focosi raggi sintillare come matutina stella, e la sua faccia piacevolissima e bella; né poi che la sua Biancifiore non vide, gli parea sì bella donna avere veduta. Alla cui domanda così rispose: -- Madonna, disposto sono a più tosto il vostro piacere che 'l mio dovere adempiere: però quanto a voi piacerà, tanto con voi dimorerò, e' miei compagni con meco --. Ringraziollo la donna, e ritornando all'altre, con esse insieme s'incominciò a rallegrare.



[16]

In tal maniera dimorando Filocolo con costoro, prese intima dimestichezza con un giovane chiamato Caleon, di costumi ornatissimo e facundo di leggiadra eloquenza, a cui egli parlando così disse: -- Oh, quanto voi agl'iddii immortali siete tenuti più che alcuni altri, i quali in una volontà pacifici vi conservano di far festa! --. -- Assai loro ci conosciamo obligati -- rispose Caleon; -- ma quale cagione vi muove a parlare questo? --. Filocolo rispose: -- Certo niuna altra cosa se non il vedervi qui così assembrati tutti in un volere --. -- Certo -- disse Caleon -- non vi maravigliate di ciò, ché quella donna, in cui tutta leggiadria si riposa, a questo ci mosse e tiene --. Disse Filocolo: -- E chi è questa donna? --. Caleon rispose: -- Quella che vi pregò che voi qui rimaneste, quando partire poco inanzi vi volevate --. -- Bellissima e di gran valore mi pare nel suo aspetto -- disse Filocolo, -- ma se ingiusta non è la mia domanda, manifestimisi per voi il suo nome, e donde ella sia e di che parenti discesa --. A cui Caleon rispose: -- Niuna vostra domanda potrebbe essere ingiusta; e però che di così valorosa donna niuno è che apertamente parlando non deggia palesare la sua fama, al vostro dimando interamente sodisfarò. Il suo nome è da noi qui chiamato Fiammetta, posto che la più parte delle genti il nome di Colei la chiamino, per cui quella piaga, che il prevaricamento della prima madre aperse, richiuse. Ella è figliuola dell'altissimo prencipe sotto il cui scettro questi paesi in quiete si reggono, e a noi tutti è donna: e, brievemente, niuna virtù è che in valoroso cuore debbia capere, che nel suo non sia; e voi, sì come io estimo, oggi dimorando con noi, il conoscerete --. -- Ciò che voi dite -- disse Filocolo -- non si può ne' suoi sembianti celare: gl'iddii a quel fine, che sì singulare donna merita, la conducano; e certo quello e più che voi non dite, credo di lei. Ma queste altre donne chi sono? --. Disse Caleon: -- Queste donne sono alcune di Partenope, e altre altronde in sua compagnia, sì come noi medesimi, qui venute --. E poi che essi ebbero per lungo spazio così ragionato, disse Caleon: -- Deh, dolce amico, se a voi non fosse noia, a me molto sarebbe a grado di vostra condizione conoscere più avanti che quello che il vostro aspetto ripresenti, acciò che forse, conoscendovi, più degnamente vi possiamo onorare: però che tal fiata il non conoscere fa negli onoranti il debito dell'onorare mancare --. A cui Filocolo rispose: -- Niuno mancamento dalla vostra parte potrebbe venire in onorarmi, ma tanto n'avete fatto avanti, che soprabondando avete i termini trapassati. Ma poi che della mia condizione disiderate sapere, ingiusto saria di ciò non sodisfarvi, e però, quanto licito m'è di scoprirne, ve ne dirò. Io sì sono un povero pellegrino d'amore, il quale vo cercando una mia donna a me con sottile inganno levata da' miei parenti: e questi gentili uomini i quali con meco vedete, per loro cortesia nel mio pellegrinaggio mi fanno compagnia: e il mio nome è Filocolo, di nazione spagnuolo, gittato da tempestoso mare ne' vostri porti, cercando io l'isola de' siculi --. Ma tanto coperto parlare non gli seppe, che il giovine di sua condizione non comprendesse più avanti che Filocolo disiderato non avrebbe: e de' suoi accidenti compassione avendo, il riconfortò alquanto con parole che nel futuro vita migliore gli promettevano. E da quell'ora inanzi multiplicando l'onore, non come pellegrino e come uomo accettato a quella festa, ma come maggiore e principale di quella, a tutti il fece onorare, e la donna massimamente comandò che così fosse, poi che da Caleon la sua condizione intese, in sé molto caro avendo tale accidente.



[17]

Era già Appollo col carro della luce salito al meridiano cerchio e quasi con diritto occhio riguardava la rivestita terra, quando le donne e' giovani in quel luogo adunati, lasciato il festeggiare, per diverse parti del giar dino cercando, dilettevoli ombre e diversi diletti per diverse schiere prendevano, fuggendo il caldo aere che li dilicati corpi offendeva. Ma la gentil donna, con quattro compagne appresso, prese Filocolo per la mano dicendoli: -- Giovane, il caldo ci costringe di cercare i freschi luoghi: però in questo prato, il quale qui davanti a noi vedi, andiamo, e quivi con varii parlamenti la calda parte di questo giorno passiamo --. Andò adunque Filocolo, lodando il consiglio della donna, dietro a' passi di lei, e con lui i suoi compagni, e Caleon e due altri giovani con loro: e vennero nel mostrato prato, bellissimo molto d'erbe e di fiori, e pieno di dolce soavità d'odori, dintorno al quale belli e giovani albuscelli erano assai, le cui frondi verdi e folte, dalle quali il luogo era difeso da' raggi del gran pianeto. E nel mezzo d'esso pratello una picciola fontana chiara e bella era, dintorno alla quale tutti si posero a sedere; e quivi di diverse cose, chi mirando l'acqua chi cogliendo fiori, incominciarono a parlare. Ma però che tal volta disavvedutamente l'uno le novelle dell'altro trarompeva, la bella donna disse così: -- Acciò che i nostri ragionamenti possano con più ordine procedere e infino alle più fresche ore continuarsi, le quali noi per festeggiare aspettiamo, ordiniamo uno di noi qui in luogo di nostro re, al quale ciascuno una quistione d'amore proponga, e da esso a quella debita risposta prenda. E certo, secondo il mio avviso, noi non avremo le nostre quistioni poste, che il caldo sarà, sanza che noi il sentiamo, passato, e il tempo utilmente con diletto sarà adoperato --. Piacque a tutti, e fra loro dissero: -- Facciasi re --. E con unica voce tutti Ascalion, per che più che alcuno era attempato, in re eleggevano. A' quali Ascalion rispose sé a tanto uficio essere insofficiente, però che più ne' servigi di Marte che in quelli di Venere avea i suoi anni spesi; ma, se a tutti piacesse di rimettere in lui la elezione di tal re, egli si credea bene tanto conoscere avanti delle qualità di tutti, che egli il costituirebbe tale che vere risposte a tali dimande renderebbe. Consentirono allora tutti che in Ascalion fosse liberamente la elezione rimessa, poi che assumere in lui tale dignità non volea.



[18]

Levossi allora Ascalion, e colti alcuni rami d'un verde alloro, il quale quasi sopra la fontana gittava la sua ombra, di quelli una bella coronetta fece, e quella recata in presenza di tutti costoro, così disse: -- Da poi che io ne' miei più giovani anni cominciai ad avere conoscimento, giuro per quelli iddii che io adoro, che non mi torna nella memoria di avere veduta o udita nomare donna di tanto valore, quanto questa Fiammetta, nella cui presenza Amore di sé tutti infiammati ci tiene, e da cui noi questo giorno siamo stati onorati in maniera da mai non doverlo dimenticare. E però che ella, sì come io sanza fallo conosco, è d'ogni grazia piena e di bellezza, e di costumi ornatissima e di leggiadra eloquenza dotata, io in nostra reina la eleggo; e molto meglio, per la sua magnificenza, la imperiale corona le si converrebbe! A costei di reale stirpe ancora discesa, e a cui le occulte vie d'amore sono tutte aperte, sarà lieve cosa nelle nostre quistioni contentarci --. E appresso questo, alla valorosa donna davanti umilemente le si inchinò, dicendo: -- Gentile donna, ornate la vostra testa di questa corona, la quale non meno che d'oro è da tener cara a coloro che degni sono per le loro opere di tali coprirsi la testa --. Alquanto il candido viso della bella donna si dipinse di nuova rossezza, dicendo: -- Certo non debitamente avete di reina proveduto all'amoroso popolo, che di sofficientissimo re avea bisogno, però che di tutti voi, che qui dimorate, la più semplice e con meno virtù sono, né alcuno di voi è a cui meglio che a me investita non fosse. Ma poi che a voi piace, né alla vostra elezione posso opporre, e acciò che io alla fatta promessa non sia contraria, io la prenderò, e spero che dagl'iddii e da essa l'ardire dovuto a tanto uficio prenderò: e con l'aiuto di colui a cui queste frondi furono già care, a tutti risponderò secondo il mio poco sapere. Nondimeno io divotamente il priego che egli nel mio petto entri, e muova la mia voce con quel suono, col quale egli già l'ardito uomo vinto fece meritare d'uscire della guaina de' suoi membri. Io, per via di festa, lievi risposte vi donerò, sanza cercare le profondità delle proposte questioni, le quali andare cercando più tosto affanno che diletto recherebbe alle nostre menti --. E questo detto, con le dilicate mani prese l'offerta ghirlanda, e la sua testa ne coronò, e comandò che, sotto pena d'essere dall'amorosa festa privato, ciascuno s'apparecchiasse di proporre alcuna quistione, la quale fosse bella e convenevole a quello di che ragionare intendeano, e tale, che più tosto della loro gioia fosse accrescitrice, che per troppa sottigliezza o per altro guastatrice di quella.



[19]

Dalla destra mano di lei sedea Filocolo, a cui ella disse: -- Giovane, cominciate a proporre, acciò che gli altri ordinatamente come noi qui seggiamo, più sicuramente dopo voi proponga --. A cui Filocolo rispose: -- Nobilissima donna, sanza alcuno indugio al vostro comandamento ubidirò --; e così disse: -- Io mi ricordo che in quella città dov'io nacqui si faceva un giorno una grandissima festa, alla quale cavalieri e donne erano molti ad onorarla. Io che similemente v'era, andando con gli occhi intorno mirando quelli che nel luogo stavano, vidi due giovani graziosi assai nel loro aspetto, i quali amenduni una bellissima giovane rimiravano, né si saria per alcuno potuto conoscere chi più stato fosse di loro acceso della bellezza di costei. E quando essi lungamente costei ebbero riguardata, non faccendo essa all'uno migliori sembianti che all'altro, elli incominciarono fra loro a ragionare di lei: e fra l'altre parole che io del loro ragionamento intesi, si fu che ciascuno diceva sé essere più amato da lei, e in ciò ciascuno diversi atti dalla giovane per adietro fatti allegava in aiuto di sé. E essendo per lungo spazio in tale quistione dimorati, e già quasi per le molte parole venuti a volersi oltraggiare, si riconobbero che male faceano, però che in tale atto danno e vergogna di loro e dispiacere della giovane adoperavano; ma mossi con iguale concordia, amenduni davanti alla madre della giovane se n'andarono, la quale similemente a quella festa stava, e così in presenza di lei proposero che, con ciò fosse cosa che sopra tutte l'altre giovani del mondo a ciascuno di loro la figlia di lei piaceva e essi fossero in quistione quale d'essi due piacesse più a lei, che le piacesse di concedere loro questa grazia, acciò che maggiore scandolo tra loro non nascesse, cioè che alla figlia comandasse che o con parole o con atti loro dimostrasse qual di loro da lei più fosse amato. La pregata donna ridendo rispose che volentieri; e chiamata la figliuola a sé, le disse: « Bella figlia, ciascuno di questi due più che sé t'ama, e in quistione sono quale da te più sia amato, e cercano, di grazia, che tu o con segno o con parola ne li facci certi; e però, acciò che d'amore, di cui pace e bene sempre dee nascere, non nasca il contrario, falli di ciò contenti, e con cortesi sembianti mostra inverso del quale più il tuo animo si piega ». Disse la giovane: « Ciò mi piace ». E rimiratili amenduni alquanto, vide che l'uno avea in testa una bella ghirlanda di fresche erbette e di fiori, e l'altro sanza alcuna ghirlanda dimorava. Allora la giovane, che similmente in capo una ghirlanda di verdi frondi avea, levò quella di capo a sé, e a colui che sanza ghirlanda davanti le stava la mise in ca po; appresso, quella che l'altro giovane in capo avea ella la prese e a sé la pose, e, loro lasciati stare, si ritornò alla festa, dicendo che il comandamento della madre e il piacere di loro avea fatto. I giovani rimasi così, nel primo quistionare ritornarono, ciascuno dicendo che più da lei era amato; e quelli la cui ghirlanda la giovane prese e posela sopra la sua testa, diceva: « Fermamente ella ama più me, però che a niuno altro fine ha ella la mia ghirlanda presa, se non perché le mie cose le piacciono, e per avere cagione d'essermi tenuta; ma a te ha ella la sua donata quasi in luogo d'ultimo congedo, non volendo, come villana, che l'amore che tu l'hai portato sia sanza alcuno merito; ma quella ghirlanda donandolati, ultimamente t'ha meritato ». L'altro dicendo il contrario, così rispondeva: « Veramente la giovane le tue cose ama più che te, ciò si può vedere, ché ella ne prese; ma ella ama più me che le mie cose, in quanto ella delle sue mi donò: e non è segno d'ultimo merito il donare, come tu di', ma è principio d'amistà e d'amore. E fa il dono colui che 'l riceve suggetto al donatore: però costei, forse di me incerta, acciò che più certa di me avere per suggetto fosse, con dono mi volle alla sua signoria legare, se io legato forse non vi fossi. Ma tu, come puoi comprendere che se ella dal principio ti leva, ch'ella mai ti debbia donare? ». E così quistionando dimorarono per grande spazio, e sanza alcuna diffinizione si partirono. Ora, dico io, grandissima reina, se a voi fosse l'ultima sentenza in tale questione domandata, che giudichereste voi? --.



[20]

Con occhi d'amorosa luce sfavillanti, alquanto sorridendo si rivolse la bella donna a Filocolo, e dopo un lieve sospiro così rispose: -- Nobilissimo giovane, bella è la vostra quistione, e certo saviamente si portò la donna, e ciascun de' giovani assai bene la sua parte difendea; ma acciò che ne richiedete quello che ultimamente di ciò giudicheremo, così vi rispondiamo. A noi pare, e così dee parere a ciascuno che sottilmente riguarda, che la giovane ami l'uno, e l'altro non abbia in odio; ma, per più il suo intendimento tener coperto, fece due atti contrarii, come appare, e ciò non sanza cagione fece, ma acciò che l'amore di colui cui ella amava più fermo acquistasse è quello dell'altro non perdesse: e ciò fu saviamente fatto. E però venendo alla nostra quistione, la quale è a quale de' due sia più amore stato mostrato, diciamo che colui a cui ella donò la sua ghirlanda è più da lei amato. E questa ne pare la ragione: qualunque uomo o donna ama alcuna persona, per la forza di questo amore portato è ciascuno sì forte obligato alla cosa amata, che sopra tutte le cose a quella disidera di piacere, né a più legarla bisognano o doni o servigi; e questo è manifesto. Ma veggiamo che chi ama, la cosa amata, in qualunque maniera puote, di farsela benigna e suggetta s'ingegna in diversi modi, acciò che quella possa a' suoi piaceri recare, o con più ardita fronte il suo disio dimandare. E che questo sia come noi parliamo, assai la infiammata Dido con le sue opere cel palesa, la quale, già dell'amore d'Enea ardendo, infino a tanto che essa con onori e con doni non gliele parve aver preso, non ebbe ardire di tentare la dubbiosa via del dimandare. Dunque la giovane colui cui essa più amò, quello di più obligarsi cercò: e così diremo che quelli che 'l dono della ghirlanda ricevette, colui sia più dalla giovane amato --.



[21]

Rispose Filocolo poi che la reina tacque: -- Discreta donna, assai è da lodare la vostra risposta, ma non per tanto molta d'ammirazione mi porge, però che di ciò che diffinito avete della proposta quistione, io terrei che il contrario fosse da giudicare, con ciò sia cosa che generalmente tra gli amanti soglia essere questa consuetudine, cioè disiderare di portare sopra sé alcuna delle gioie della cosa amata, però che di quelle le più volte più che di tutto il rimanente si sogliono gloriare, e, quella sentendo sopra sé, nell'animo si rallegrano. E come voi potete avere udito, Paris rade volte o nulla entrava nell'aspre battaglie contra i Greci sanza soprasegnale donatogli dalla sua Elena, credendosi per quello molto meglio, che sanza quello, valere: e certo, secondo il mio giudicio, il suo pensiero non era vano. Per la qual cosa io così direi che, sì come voi diceste, saviamente fece la giovane, non diffinendo però come voi faceste, ma in questa maniera: conoscendo la giovane che da' due giovani era molto amata e ella più che l'uno amare non potesse, però che amore indivisibile cosa si truova, ella l'uno dell'amore che le portava volle guiderdonare, acciò che tale benivolenza non rimanesse da lei inguiderdonata, e donogli la sua ghirlanda in merito di ciò. All'altro, cui ella amava, volle porgere ardire e ferma speranza del suo amore, levandogli la sua ghirlanda e ponendola a sé: nel quale levare gli mostrò sé essergli obligata per la presa ghirlanda; e però, a mio giudicio, più costui a cui tolse, che quello a cui donò amava --.



[22]

Al quale la gentil donna rispose: -- Assai il tuo argomentare ci piacerebbe, se tu te stesso nel tuo parlare non dannassi. Guarda come perfetto amore insieme col rubare può concorrere: come mi potrai tu mai mostrarne che io ami quella persona la quale io rubo più che quella a cui io dono, con ciò sia cosa che tra più manifesti segni d'amare alcuna persona è il donare? E secondo la quistione proposta, ella all'uno donò la ghirlanda, all'altro la tolse, non le fu dall'altro donata: e quello che noi tutto giorno per essemplo veggiamo può qui per essemplo bastare, che si dice volgarmente coloro essere da' signori più amati i quali le grazie e' doni ricevono, che quelli che di quelli privati sono. E però noi ultimamente tegnamo, conchiudendo, che quegli sia più amato a cui è donato, che a cui è tolto. Ben conosciamo che alla presente questione molto contro alla nostra diffinizione si potrebbe opporre e alle opposte ragioni rispondere; ma ultimamente tale determinazione rimarrà vera. Ma però che il tempo non è da porre in una cosa sola, sanza più sopra questa parlare, gli altri ascolteremo, se vi piace --. A cui Filocolo disse che assai gli piacea, e che bene bastava tale soluzione alla sua domanda; e qui si tacque.



[23]

Sedea appresso Filocolo un giovane cortese e grazioso nello aspetto, il cui nome era Longanio, il quale, sì tosto come Filocolo tacque, così cominciò a dire: -- Eccellentissima reina, tanto è stata bella la prima questione, che la mia appena piacerà, ma non per tanto, per non essere fuori di sì nobile compagnia cacciato, io dirò la mia --. E così parlando seguì:-- E' non sono molti giorni passati, che io soletto in una camera dimorando, involto negli affannosi pensieri porti dagli amorosi disii, i quali con aspra battaglia il cuore assalito m'aveano, sentii un pietoso pianto, al quale, perché vicino a me la stimativa il giudicava, porsi intentivamente gli orecchi e conobbi che donne erano. Laond'io, per vedere chi fossero e dove, subito mi levai, e, rimirando per una finestra, vidi a fronte alla mia camera in un'altra dimorare due donne sanza più, le quali erano carnali sorelle, di bellezza ine stimabile ornate, le quali vidi che questo pianto solette facevano. Onde io in segreta parte dimorando, sanza essere da loro veduto, lungamente le riguardai; né però potei comprendere tutte le parole che per dolore con le lagrime fuori mandavano, se non che l'effetto di tale pianto, secondo quello che compresi, per amore mi parve. Per che io sì per la pietà di loro, sì per la pietà di sì dolce cagione, a piangere incominciai così nascoso. Ma dopo lungo spazio, perseverando queste pure nel loro dolore, con ciò fosse cosa che io fossi assai dimestico e parente di loro, proposi di volere più certa la cagione del loro pianto sapere, e ad esse andai. Le quali non prima mi videro, che vergognandosi ristrinsero le lagrime ingegnandosi d'onorarmi. A cui io dissi: « Giovani donne, per niente v'affannate di ristringere dentro il vostro dolore per la mia venuta, con ciò sia cosa che tutte le vostre lagrime mi sieno state, già è gran pezza, manifeste. Non vi bisogna di guardarvi da me né di celarmi per vergogna la cagione del vostro pianto, la quale io sono venuto qui per sapere, però che da me mal merito in niuno atto ne riceverete, ma aiuto e conforto quant'io potrò ». Molto si scusarono le donne dicendo sé di niuna cosa dolersi; ma poi che pure scongiurandole mi videro disideroso di sapere quello, la maggiore di tempo così cominciò a parlare: « Piacere è degl'iddii che a te li nostri segreti si manifestino: e però sappi che noi, più che altre donne mai, fummo crude e aspre resistenti agli aguti dardi di Cupido, il quale, lunga stagione saettandoci, mai ne' nostri cuori alcuno ne poté ficcare. Ma egli ultimamente più infiammato, avendo proposto di vincere la sua puerile gara, aperse il giovane braccio, e con la più cara saetta, nel macerato per li molti colpi avanti ricevuti, ci ferì con sì gran forza, che i ferri passarono dentro e maggiore piaga fecero, che, se agli altri colpi fatta non avessimo resistenza, non avriano fatta: e per lo piacere di due nobilissimi giovani alla sua signoria divenimmo suggette, seguendo i suoi piaceri con più intera fede e con più fervente volere che mai altre donne facessero. Ora ci ha la fortuna e amore di quelli, come io ti dirò, sconsolate. Io, che prima che costei, amai, con ingegno maestrevolemente credendo il mio disio terminare, feci sì che io ebbi al mio piacere l'amato giovane, il quale io trovai altrettanto di me quanto io di lui essere innamorato. Ma certo già per tale effetto l'amorosa fiamma non mancò, né menomò il disio, ma ciascuno crebbe, e più che mai arsi e ardo: il quale fuoco, tenendo lui nelle braccia e tal volta vedendolo, come io poteva il meglio mitigava tenendolo dentro nascoso. Avvenne, non si rivide poi la luna tonda, che costui commise disavedutamente cosa, per la quale etterno essilio della presente città gli fu donato: ond'egli, dubitando la morte, di qui s'è partito, sanza speranza di ritornare. E io, sopra ogni altra femina, ardendo più che mai, sanza lui sono rimasa disperata, onde io mi dolgo; e quella cosa che più la mia doglia aumenta è che io da tutte parti mi veggo chiusa la via di poterlo seguire: pensa oramai se io ho di dolermi cagione ». Dissi io allora: « E quest'altra perché si duole? ». Quella rispose: « Questa similmente com'io innamorata d'un altro, e da lui similmente sanza fine amata, acciò che i suoi disii non passassero sanza parte d'alcun diletto, per gli amorosi sentieri più volte s'è ingegnata di volergli recare ad effetto, a' cui intendimenti gelosia ha sempre rotte le vie e occupate: per che mai a quelli non poté pervenire, né vede di potere, onde ella si consuma stretta da ferventissimo amore, come tu puoi pensare se mai amasti. Trovandoci noi, adunque, qui solette, de' nostri infortunii cominciammo a ragionare, e conoscendoli più che d'alcuna altra donna maggiori, non potemmo ritenere le lagrime, ma piangendo ci dolavamo, sì come tu potesti vedere ». Assai mi dolfe di loro udendo questo, e con quelle parole che al loro conforto mi parvero utili le sovenni, e da loro mi partii. Ora mi s'è più volte per la mente rivolto il loro dolore, e alcuna volta ho fra me pensato qual doveva essere maggiore, e l'una volta consento quello dell'una, l'altra quello dell'altra: e le molte ragioni per le quali ciascuna mi pare che abbia da dolersi non mi lasciano fermare ad alcuna, onde io ne dimoro in dubbio. Piacciavi che per voi io di questa erranza esca, dicendomi quale maggiore doglia vi pare che sostenga --.



[24]

-- Greve dolore era quello di ciascuna -- disse la reina, -- ma considerando che a colui è gravissima l'avversità che nelle prosperità è usato, noi terremo che quella che 'l suo amante ha perduto senta maggior dolore e sia più dalla fortuna offesa. Fabrizio mai i casi della fortuna non pianse, ma Pompeo sì. E manifesta cosa è che se dolci cose mai non si fossero gustate, ancora sarebbero a conoscere l'amare. Medea non seppe mai, secondo il suo dire, che prosperità si fosse mentre essa amò, ma, abandonata da Giansone, si dolfe della avversità. Chi piangerà quello ch'egli mai non ebbe? Non alcuno, ma più tosto il disidererà. Seguasi dunque che l'una per dolore, l'altra per disio piangeva delle due donne --.



[25]

-- Molto m'è duro a pensare, graziosa donna, ciò che voi dite -- disse il giovane, -- con ciò sia cosa che chi il suo disio ha d'una cosa disiderata avuto, molto si debbia più nell'animo contentare, che chi disidera e non può il suo disio adempiere. Appresso, niuna cosa è più leggiere a perdere che quella la quale speranza avanti più non promette di rendere. Ivi dee essere lo smisurato dolore, ove iguale volere e 'l non potere quello recare ad effetto impedisce. Quivi hanno luogo i ramaricamenti, quivi i pensieri e l'affanno, però che se le volontà non fossero iguali, per forza mancherebbero i disii: ma quando gli animi si veggono davanti le disiderate cose, e a quelle pervenire non possono, allora s'accendono e dolgonsi più che se da loro i loro voleri stessero lontani. E chi tormenta Tantalo in inferno se non le pome e l'acque, che quanto più alla bocca gli si avvicinano tanto più fuggendosi poi multiplicano la sua fame? Veramente io credo che più dolore sente chi spera cosa possibile ad avere, né a quella per avversarii impedimenti resistenti pervenire puote, che chi piange cosa perduta e inrecuperabile --.



[26]

Disse allora la donna: -- Assai seguita bene la vostra risposta, là ove di lungo dolore fosse vostra dimanda stata; ben che a cotesto ancora si potrebbe dire, così esser possibile per dimenticanza il dolore breviarsi nelle cose disiderate, ove continuo impedimento si vede da non poterle adempiere, come nelle perdute, ove speranza non mostra di doverle mai riavere. Ma noi ragioniamo quale più si dolea, quando dolendo le vedeste: però, seguendo il proposto caso, giudicheremo che maggior dolore sentiva quella che il suo amante avea perduto sanza speranza di riaverlo, ché, posto che agevole sia perdere cosa impossibile da riavere, nondimeno e' si suol dire: « Chi bene ama mai non oblia »; ché l'altra, se ben riguardiamo, poteva sperare d'adempiere per inanzi quello che per adietro non avea potuto fornire. E gran mancamento di duoli è la speranza: ella ebbe forza di tenere casta e meno trista lungamente in vita Penolope --.



[27]

Alla destra mano di Longanio sedea una bellissima donna piacevole assai, la quale, come quella questione sentì per la loro reina essere terminata, così con dolce favella cominciò a parlare: -- Inclita reina, diano le vostre orecchie alquanto audienzia alle mie parole, e poi per quelli iddii che voi adorate, e per la potenza del nostro giuoco, vi priego che utile consiglio diate a' miei dimandi. Io di nobili parenti discesa, sì come voi sapete, nacqui in questa città, e fui di nome pieno di grazia nominata, avegna che il mio sopranome Cara mi rapresenti agli uditori. E sì come nel mio viso si vede, io ricevetti dagl'iddii e dalla natura di bellezza singulare dono, la quale, il mio nome seguendo più che il mio sopranome, l'ho adornata d'infinita piacevolezza, benigna mostrandomi a chi quella s'è dilettato di rimirare: per la qual cosa molti si sono ingegnati d'occupare gli occhi miei del loro piacere, a' quali tutti ho con forte resistenza riparato, tenendo il cuore fermo a tutti i loro assalti. Ma però che ingiusta cosa mi pare che io sola la legge, da tutte l'altre servata, trapassassi, cioè di non amare, essendo da molti amata, ho proposto d'innamorarmi. E posponendo dall'una delle parti molti cercatori di tale amore, de' quali alcuno di ricchezze avanza Mida, altri di bellezza trapassa Ansalon, e tali di gentilezza, secondo il corrotto volgare, più che altri sono splendenti, ho scelti tre, che igualmente ciascuno per sé mi piace: de' quali tre, l'uno di corporale fortezza credo che avanzerebbe il buono Ettore, tanto è ad ogni pruova vigoroso e forte; la cortesia e la liberalità del secondo è tanta, che la sua fama per ciascun polo credo che suoni: il terzo è di sapienza pieno tanto, che gli altri savi avanza oltra misura. Ma però che, come avete udito, le loro qualità sono diverse, io dubito di pigliare, trovando nell'antica età ciascuna di queste cose avere diversamente i coraggi delle donne e degli uomini piegati, sì come Deianira d'Ercule, Clitemestra d'Egisto, e di Lucrezia Sesto. Consigliatemi, adunque, a quale io più tosto, per meno biasimo e per più sicurtà, io mi deggia di costoro donare --.



[28]

La piacevole donna avendo di costei la proposta udita, così rispose: -- Nullo de' tre è che degnamente non meriti di bella e graziosa donna l'amore; ma però che in questo caso non sono a combattere castella, o a donare i regni del grande Alessandro, overo i tesori di Tolomeo, ma solamente con discrezione è da servare lungamente l'amore e l'onore, li quali né forza né cortesia serveranno, ma solo il sapere, diciamo che da voi e da ciascuna altra donna è più tosto da donare il suo amore al savio che ad alcuno degli altri --.



[29]

-- Oh, quanto è il mio parere dal vostro diverso! --, rispose appresso la proponente donna. A me parea che qualunque l'uno degli altri fosse più tosto da prendere che il savio: e la ragione mi par questa. Amore, sì come noi veggiamo, ha sì fatta natura, che, multiplicando in un cuore la sua forza, ogni altra cosa ne caccia fuori, quello per suo luogo ritenendo, movendolo poi secondo i suoi pareri: né niuno avvenimento può a quelli resistere, che pur non si convengano quelli seguitare da chi è, com'io ho detto, signoreggiato. E chi dubita che Blibide conoscea essere male ad amare il fratello? Chi disdirà che a Leandro non fosse manifesto il potere annegare in Elesponto ne' fortunosi tempi, se vi si mettea? E niuno non negherà che Pasife non conoscesse più bello essere l'uomo che 'l toro: e pur costoro, ciascuno vinto da amoroso piacere, ogni conoscimento abandonato, seguivano quello. Dunque, se egli ha potenza di levare il conoscimento a' conoscenti, levando al savio il senno, niuna cosa gli rimarrà; ma se al forte o al cortese il loro poco senno leverà, egli li aumenterà nelle loro virtù, e così costoro varranno più che il savio, innamorati. Appresso, ha amore questa propietà: egli è cosa che non si può lungamente celare, e nel suo palesarsi suole spesso recare gravosi pericoli: a' quali che rimedio darà il savio che avrà già il senno perduto? Niuno ne darà! Ma il forte con la sua forza sé e altrui potrà in un pericolo atare; il cortese potrà per la sua cortesia avere l'animo di molti preso con cara benivolenza, per la quale atato e riguardato potrà essere, e egli e altri per amore di lui. V'edete omai come il vostro giudicio è da servare --.



[30]

Fu a costei così dalla reina risposto: -- Se cotesto che tu di' fosse, chi sarebbe savio? Niuno! Ma già colui che tu proponi savio, e innamorato di te, sarebbe pazzo, e da non prendere: gl'iddii cessino che ciò che tu parli avvenisse. Ma noi non negheremo però che i savi non conoscano il male, e pur lo fanno; ma diremo che essi per quello non perdono il senno, con ciò sia cosa che, qualora essi vorranno, con la ragione ch'elli hanno, la volontà raffrenare, elli nell'usato senno si rimarranno, guidando i loro movimenti con debito e diritto stile. E in questa maniera o sempre o lungamente fieno i loro amori celati, e così sanza alcuna dubbiosa sollecitudine quello che d'uno poco savio, non tanto sia forte o cortese, non avverrà: e se forse avviene che pure tale amore si palesi, con cento avvedimenti o riturerà il savio gli occhi e gl'intendimenti de' parlanti, o provederà al salvamento dell'onore della donna amata e del suo. E se mestieri fia alla salute, l'aiuto del savio non può fallire. Quello del forte viene meno con l'aiutante, e gli amici per liberalità acquistati sogliono nelle avversità ritornare nulli. E chi sarà quella con sì poca discrezione che a tal partito si rechi, che sì manifesto aiuto le bisogni, o che se il suo amore si scuopre, domandi fama d'avere amato un uomo forte overo liberale? Niuna credo ne fosse. Amisi adunque il più savio, sperando lui dovere essere in ciascuno caso più utile che alcuno degli altri --.



[31]

Era nella vista contenta la gentil donna, quando Menedon, che appresso di lei sedea, disse: -- Altissima reina, ora viene a me la volta del proporre nel vostro cospetto, ond'io con la vostra licenza dirò. E da ora, se io troppo nel mio parlare mi stendessi, a voi e appresso agli altri circunstanti dimando perdono, però che quello ch'io intendo di proporre interamente dare non si potrebbe a intendere, se a quello una novella, che non fia forse brieve, non precedesse --. E dopo queste parole così cominciò a parlare: -- Nella terra là dov'io nacqui, mi ricorda essere un ricchissimo e nobile cavaliere, il quale di perfettissimo amore amando una donna nobile della terra, per isposa la prese. Della quale donna, essendo bellissima, un altro cavaliere chiamato Tarolfo s'innamorò; e di tanto amore l'amava, che oltre a lei non vedeva, né niuna cosa più disiava, e in molte maniere, forse con sovente passare davanti alle sue case, o giostrando, o armeggiando, o con altri atti, s'ingegnava d'avere l'amore di lei, e spesso mandandole messaggieri, forse promettendole grandissimi doni, e per sapere il suo intendimento. Le quali cose la donna tutte celatamente sostenea, sanza dare o segno o risposta buona al cavalie re, fra sé dicendo: « Poi che questi s'avedrà che da me né buona risposta né buono atto puote avere, forse elli si rimarrà d'amarmi e di darmi questi stimoli ». Ma già per tutto questo Tarolfo di ciò non si rimanea, seguendo d'Ovidio gli amaestramenti, il quale dice l'uomo non lasciare per durezza della donna di non perseverare, però che per continuanza la molle acqua fora la dura pietra. Ma la donna, dubitando non queste cose venissero a orecchie del marito, e esso pensasse poi che con volontà di lei questo avvenisse, propose di dirgliele; ma poi mossa da miglior consiglio disse: « Io potrei, s'io il dicessi, commettere tra costoro cosa che io mai non viverei lieta: per altro modo si vuole levare via »; e imaginò una sottile malizia. Ella mandò così dicendo a Tarolfo, che se egli tanto l'amava quanto mostrava, ella volea da lui un dono, il quale come l'avesse ricevuto, giurava per li suoi iddii, e per quella leanza che in gentile donna dee essere, che essa farebbe ogni suo piacere; e se quello che domandava, donare non le volesse, ponessesi in cuore di non stimolarla più avanti, se non per quanto egli non volesse che essa questo manifestasse al marito. E 'l dono il quale ella dimandò fu questo. Ella disse che volea del mese di gennaio, in quella terra, un bel giardino e grande, d'erbe e di fiori e d'alberi e di frutti copioso, come se del mese di maggio fosse, fra sé dicendo: « Questa è cosa impossibile: io mi leverò costui da dosso per questa maniera ». Tarolfo, udendo questo, ancora che impossibile gli paresse e che egli conoscesse bene perché la donna questo gli domandava, rispose che già mai non riposerebbe né in presenza di lei tornerebbe, infino a tanto che il dimandato dono le donerebbe. E partitosi della terra con quella compagnia che a lui piacque di prendere, tutto il ponente cercò per avere consiglio di potere pervenire al suo disio; ma non trovato lui, cercò le più calde regioni, e pervenne in Tesaglia, dove per sì fatta bisogna fu mandato da discreto uomo. E quivi dimorato più giorni, non avendo ancora trovato quello che cercando andava, avvenne che essendosi egli quasi del suo avviso disperato, levatosi una mattina avanti che 'l sole s'apparecchiasse d'entrare nell'aurora, incominciò tutto soletto ad andare per lo misero piano che già tinto fu del romano sangue. E essendo per grande spazio andato, egli si vide davanti a' piè d'un monte un uomo, non giovane né di troppa lunga età, barbuto, e i suoi vestimenti giudicavano lui dovere essere povero, picciolo di persona e sparuto molto, il quale andava cogliendo erbe e cavando con un picciolo coltello diverse radici, delle quali un lembo della sua gonnella avea pieno. Il quale quando Tarolfo il vide, si maravigliò e dubitò molto non altro fosse; ma poi che la stimativa certamente gli rendé lui essere uomo, egli s'appressò a lui e salutollo, domandandolo appresso chi egli fosse e donde, e quello che per quello luogo a così fatta ora andava faccendo. A cui il vecchierello rispose. « Io sono di Tebe, e Tebano è il mio nome, e per questo piano vo cogliendo queste erbe, acciò che de' liquori d'esse faccendo alcune cose necessarie e utili a diverse infermità, io abbia onde vivere, e a questa ora necessità e non diletto mi ci costringe di venire; ma tu chi se' che nell'aspetto risembri nobile, e quinci sì soletto vai? ». A cui Tarolfo rispose: « Io sono dell'ultimo ponente assai ricco cavaliere, e da' pensieri d'una mia impresa vinto e stimolato, non potendola fornire, di qua, per meglio potermi sanza impedimento dolere, mi vo così soletto andando ». A cui Tebano disse: « Non sai tu la qualità del luogo come ella è? Perché inanzi d'altra parte non pigliavi la via? Tu potresti di leggieri qui da furiosi spiriti essere vituperato ». Rispose Tarolfo: « In ogni parte puote Iddio igualmente: così qui come altrove gli è la mia vita e 'l mio onore in mano; faccia di me secondo che a lui piace: veramente a me sarebbe la morte un ricchissimo tesoro ». Disse allora Tebano: « Quale è la tua impresa, per la quale, non potendola for nire, sì dolente dimori? ». A cui Tarolfo rispose: « È tale che impossibile mi pare omai a fornire, poi che qui non ho trovato consiglio ». Disse Tebano: « Osasi dire? ». Rispose Tarolfo: « Sì, ma a che utile? ». « Forse niuno » disse Tebano, « ma che danno? ». Allora Tarolfo disse: « Io cerco di potere aver consiglio come del più freddo mese si potesse avere un giardino pieno di fiori e di frutti e d'erbe, bello sì come del mese di maggio fosse, né trovo chi a ciò aiuto o consiglio mi doni che vero sia ». Stette Tebano un pezzo tutto sospeso sanza rispondere, e poi disse: « Tu e molti altri il sapere e le virtù degli uomini giudicate secondo i vestimenti. Se la mia roba fosse stata qual è la tua, tu non m'avresti tanto penato a dire la tua bisogna, o se forse appresso de' ricchi prencipi m'avessi trovato, come tu hai a cogliere erbe; ma molte volte sotto vilissimi drappi grandissimo tesoro di scienza si nasconde: e però a chi proffera consiglio o aiuto niuno celi la sua bisogna, se, manifesta, non gli può pregiudicare. Ma che doneresti tu a chi quello che tu vai cercando ti recasse ad effetto? ». Tarolfo rimirava costui nel viso, dicendo egli queste parole, e in sé dubitava non questi si facesse beffe di lui, parendogli incredibile che, se colui fosse stato Iddio, ch'egli avesse potuto fare virtù. Non per tanto egli li rispose così: « Io signoreggio ne' miei paesi più castella, e con esse molti tesori, i quali tutti per mezzo partirei con chi tal piacere mi facesse ». « Certo » disse Tebano « se questo facessi, a me non bisognerebbe d'andare più cogliendo l'erbe ». « Fermamente » disse Tarolfo « se tu se' quelli che in ciò mi prometti di dare vero effetto, e davelo, mai non ti bisognerà più affannare per divenire ricco; ma come o quando mi potrai tu questo fornire? ». Disse Tebano: « Il quando fia a tua posta, del come non ti travagliare. Io me ne verrò teco fidandomi nella tua parola della promessa che mi fai, e quando là dove ti piacerà saremo, comanderai quello che tu vorrai: io fornirò tutto sanza fallo ». Fu di questo accidente tan to contento in se medesimo Tarolfo, che poca più letizia avria avuta se nelle sue braccia la sua donna allora tenuta avesse, e disse: « Amico, a me si fa tardi che quello che imprometti si fornisca: però sanza indugio partiamo e andiamo là ove questo si dee fornire ». Tebano, gittate via l'erbe, e presi i suoi libri e altre cose al suo maesterio necessarie, con Tarolfo si mise al cammino, e in brieve tempo pervennero alla disiderata città, assai vicini al mese del quale era stato dimandato il giardino. Quivi tacitamente e occulti infino al termine disiderato si riposarono; ma entrato già il mese, Tarolfo comandò che 'l giardino s'apprestasse, acciò che donare lo potesse alla sua donna. Come Tebano ebbe il comandamento, egli aspettò la notte, e, venuta, vide i corni della luna tornati in compiuta ritondità, e videla sopra l'usate terre tutta risplendere. Allora egli uscì della città, lasciati i vestimenti, scalzo, e con i capelli sparti sopra li nudi omeri, tutto solo. I vaghi gradi della notte passavano, gli uccelli, le fiere e gli uomini riposavano sanza niuno mormorio, e sopra i monti le non cadute frondi stavano sanza alcuno movimento, e l'umido aere in pace si riposava: solamente le stelle luceano, quando egli, più volte circuita la terra, pervenne al luogo, il quale gli piacque d'eleggere per lo giardino, allato ad un fiume. Quivi stese verso le stelle le braccia, tre volte rivoltandosi ad esse, e tante i bianchi capelli nella corrente acqua bagnò, domandando altretante volte con altissima voce il loro aiuto; poi poste le ginocchie sopra la dura terra, cominciò così a dire: « O notte, fidatissima segreta dell'alte cose, e voi, o stelle, le quali al risplendente giorno con la luna insieme succedete, e tu, o somma Ecate, la quale aiutatrice vieni alle cose incominciate da noi, e tu, o santa Cerere, rinnovatrice dell'ampia faccia della terra, e voi qualunque versi, o arti, o erbe, e tu qualunque terra producente virtuose piante, e voi aure, e venti, e monti, e fiumi, e laghi, e ciascuno iddio de' boschi o della se greta notte, per li cui aiuti io già rivolsi i correnti fiumi faccendogli tornare nelle loro fonti, e già feci le correnti cose stare ferme, e le ferme divenire correnti, e che già deste a' miei versi potenza di cacciare i mari e di cercare sanza dubbio i loro fondi, e di rischiarare il nuvoloso tempo, e il chiaro ciclo riempiere a mia posta d'oscuri nuvoli, faccendo i venti cessare e venire come mi pareva, e con quelli rompendo le dure mascelle degli spaventevoli dragoni, faccendo ancora muovere le stanti selve e tremare gli eccelsi monti, e ne' morti corpi tornare da' paduli di Stige le loro ombre e vivi uscire de' sepolcri, e tal volta tirare te, o luna, alla tua ritondità, alla quale per adietro i sonanti bacini ti soleano aiutare venire, faccendo ancora tal volta la chiara faccia del sole impalidire: siate presenti, e 'l vostro aiuto mi porgete. Io ho al presente mestiere di sughi e d'erbe, per li quali l'arida terra, prima d'autunno, ora dal freddissimo verno, de' suoi fiori, frutti e erbe spogliata, faccia in parte ritornare fiorita, mostrando, avanti il dovuto termine, primavera ». Questo detto, molte altre cose tacitamente aggiunse a' suoi prieghi. Poi tacendo, le stelle non dieron luce invano, ma più veloce che volo d'alcuno uccello un carro da due dragoni tirato gli venne avanti, sopra il quale egli montò, e, recatesi le redine de' posti freni a' due dragoni in mano, suso in aria si tirò. E pigliando per l'alte regioni il cammino, lasciò Spagna e cercò l'isola di Creti: di quindi Pelion, e Ocris e Ossa, e 'l monte Nero, Pacchino, Peloro e Appennino in brieve corso cercò tutti, di tutti svellendo e segando con aguta falce quelle radici e erbe che a lui piacevano, né dimenticò quelle che divelte avea quando da Tarolfo fu trovato in Tesaglia. Egli prese pietre d'in sul monte Caocaso, e dell'arene di Gange e di Libia recò lingue di velenosi serpenti. Egli vide le bagnate rive del Rodano, di Senna, d'Amprisi e di Ninfeo, e del gran Po, e dello imperial Tevero, e d'Arno, e di Tanai, e del Danubio, di sopra da quelle ancora prendendo quelle erbe che a lui pareano necessarie, e queste aggiunse all'altre colte nelle sommità de' salvatichi monti. Egli cercò l'isola di Lesbos e quella de' Colchi e Delfos e Patimos, e qualunque altra nella quale sentito avesse cosa utile al suo intendimento. Con le quali cose, non essendo ancora passato il terzo giorno, venne in quel luogo onde partito s'era: e i dragoni, che solamente l'odore delle prese erbe aveano sentito, gittando lo scoglio vecchio per molti anni, erano rinnovellati e giovani ritornati. Quivi smontato, d'erbosa terra due altari compose, dalla destra mano quello d'Ecate, dalla sinistra quello della rinnovellante dea. I quali fatti, e sopr'essi accesi divoti fuochi, co' crini sparti sopra le vecchie spalle, con inquieto mormorio cominciò a circuire quelli: e in raccolto sangue più volte intinse le ardenti legne. Poi riponendole sopra gli altari e tal volta con esse inaffiando quel terreno il quale egli avea al giardino disposto, dopo questo, quello medesimo tre volte di fuoco e d'acqua e di solfo rinnaffiò. Poi, posto un grandissimo vaso sopra l'ardenti fiamme, pieno di sangue, di latte e d'acqua, quello fece per lungo spazio bollire, aggiungendovi l'erbe e le radici colte negli strani luoghi, mettendovi ancora con esse diversi semi e fiori di non conosciute erbe, e aggiunsevi pietre cercate nello estremo oriente, e brina raccolta le passate notti; insieme con carni e ali d'infamate streghe, e de' testicoli del lupo l'ultima parte, con isquama di cinifo e con pelle del chelidro, e ultimamente un fegato con tutto il polmone d'un vecchissimo cervio: e, con queste, mille altre cose, o sanza nomi o sì strane che la memoria nol mi ridice. Poi prese un ramo d'un secco ulivo e con esso tutte queste cose cominciò a mescolare insieme. La qual cosa faccendo, il secco ramo cominciò a divenire verde e in brieve a mettere le frondi, e, non dopo molto, rivestito di quelle, si poté vedere carico di nere ulive. Come Tebano vide questo, egli prese i boglienti liquori, e sopra lo eletto terreno, nel quale di tan ti legni avea fatti bastoni quanti alberi e di quante maniere voleva, e quivi quelli liquori incominciò a spandere e ad inaffiare per tutto: la qual cosa la terra non sentì prima, ch'ella cominciò tutta a fiorire, producendo nuove e belle erbette, e i secchi legni verdi piantoni e fruttiferi divennero tutti. La qual cosa fatta, Tebano rientrò nella terra tornando a Tarolfo, il quale quasi pauroso d'essere stato da lui beffato per la lunga dimoranza dimorava, e trovollo tutto pensoso. A cui egli disse: « Tarolfo, fatto è quello che hai dimandato, e è al piacere tuo ». Assai piacque questo a Tarolfo, e dovendo essere il seguente giorno nella città una grandissima solennità, egli se n'andò davanti alla sua donna, la quale già era gran tempo che veduta non l'avea, e così le disse: « Madonna, dopo lunga fatica io ho fornito quello che voi comandaste: quando vi piacerà di vederlo e di prenderlo, egli è al vostro piacere ». La donna, vedendo costui, si maravigliò molto, e più udendo ciò che egli diceva; e non credendolo, rispose: « Assai mi piace; faretecelo vedere domane ». Venuto il seguente giorno, Tarolfo andò alla donna, e disse: « Madonna, piacciavi di passare nel giardino, il quale voi mi dimandaste nel freddo mese ». Mossesi adunque la donna da molti accompagnata, e pervenuti al giardino, v'entrarono dentro per una bella porta, e in quello non freddo come di fuori, ma uno aere temperato e dolce si sentiva. Andò la donna per tutto rimirando e cogliendo erbe e fiori, de' quali molto il vide copioso: e tanto più ancora avea operato la virtù degli sparti liquori, che i frutti, i quali l'agosto suole producere, quivi nel selvatico tempo tutti i loro alberi facevano belli: de' quali più persone, andate con la donna, mangiarono. Questo parve alla donna bellissima cosa e mirabile, né mai un sì bello ne le pareva avere veduto. E poi che essa in molte maniere conobbe quello essere vero giardino, e 'l cavaliere avere adempiuto ciò che ella avea domandato, ella si voltò a Tarolfo e disse: « Sanza fallo, cavaliere, guadagnato avete l'amore mio, e io sono presta d'attenervi ciò che io vi promisi; veramente voglio una grazia, che vi piaccia tanto indugiarvi a richiedermi del vostro disio, che 'l signore mio vada a caccia o in altra parte fuori della città, acciò che più salvamente e sanza dubitanza alcuna possiate prendere vostro diletto ». Piacque a Tarolfo, e lasciandole il giardino, quasi contento da lei si partì. Questo giardino fu a tutti i paesani manifesto, avvegna che niuno non sapesse, se non dopo molto tempo, come venuto si fosse. Ma la gentil donna, che ricevuto l'avea, dolente di quello si partì, tornando nella sua camera piena di noiosa malinconia. E pensando in qual maniera tornare potesse adietro ciò che promesso avea, e non trovando licita scusa, in più dolore cresceva. La quale vedendo il marito più volte, si cominciò molto a maravigliare e a domandarla che cosa ella avesse: la donna dicea che niente avea, vergognandosi di scoprire al marito la fatta promissione per lo dimandato dono, dubitando non il marito malvagia la tenesse. Ultimamente non potendosi ella a' continui stimoli del marito, che pur la cagione della sua malinconia disiderava di sapere, tenersi, dal principio infino alla fine gli narrò perché dolente dimorava. La qual cosa udendo il cavaliere lungamente pensò, e conoscendo nel pensiero la purità della donna, così le disse: « Va, e copertamente serva il tuo giuramento, e a Tarolfo ciò che tu promettesti liberamente attieni: egli l'ha ragionevolmente e con grande affanno guadagnato ». Cominciò la donna a piangere e a dire: « Facciano gl'iddii da me lontano cotal fallo; in niuna maniera io farò questo: avanti m'ucciderei ch'io facessi cosa che disonore o dispiacere vi fosse ». A cui il cavaliere disse: « Donna, già per questo io non voglio che tu te n'uccida, né ancora che una sola malinconia tu te ne dia: niuno dispiacere m'è, va e fa quello che tu impromettesti, ch'io non te ne avrò di meno cara; ma questo fornito, un'altra volta ti guarderai di sì fatte impromesse, non tanto ti paia il domandato dono impossibile ad avere ». Vedendo la donna la volontà del marito, ornatasi e fattasi bella, e presa compagnia, andò all'ostiere di Tarolfo, e di vergogna dipinta gli si presentò davanti. Tarolfo come la vide, levatosi da lato a Tebano con cui sedea, pieno di maraviglia e di letizia le si fece incontro, e lei onorevolmente ricevette, domandando della cagione della sua venuta. A cui la donna rispose: « Per essere a tutti i tuoi voleri sono venuta; fa di me quello che ti piace ». Allora disse Tarolfo: « Sanza fine mi fate maravigliare, pensando all'ora e alla compagnia con cui venuta siete: sanza novità stata tra voi e 'l vostro marito non può essere; ditemelo, io ve ne priego ». Narrò allora la donna interamente a Tarolfo come la cosa era tutta per ordine. La qual cosa udendo, Tarolfo più che prima s'incominciò a maravigliare e a pensare forte, e a conoscere cominciò la gran liberalità del marito di lei che mandata a lui l'avea, e fra sé cominciò a dire che degno di gravissima riprensione sarebbe chi a così liberale uomo pensasse villania; e parlando alla donna così disse: « Gentil donna, lealmente e come valorosa donna avete il vostro dovere servato, per la qual cosa io ho per ricevuto ciò che io di voi disiderava; e però quando piacerà a voi, voi ve ne potrete tornare al vostro marito, e di tanta grazia da mia parte ringraziarlo, e scusarglimi della follia che per adietro ho usata, accertandolo che mai per inanzi più per me tali cose non fiano trattate ». Ringraziò la donna Tarolfo molto di tanta cortesia, e lieta si partì tornando al suo marito, a cui tutto per ordine disse quello che avvenuto l'era. Ma Tebano ritornato a lui, Tarolfo domandò come avvenuto gli fosse; Tarolfo gliele contò; a cui Tebano disse: « Dunque per questo avrò io perduto ciò che da te mi fu promesso? ». Rispose Tarolfo: « No, anzi, qualora ti piace, va, e le mie castella e i miei tesori prendi per metà, come io ti promisi, però che da te interamente servito mi tengo ». Al quale Tebano rispose: « Unque agl'iddii non piaccia che io, là dove il cavaliere ti fu della sua donna liberale, e tu a lui non fosti villano, che io sia meno che cortese. Oltre a tutte le cose del mondo mi piace averti servito, e voglio che ciò che in guiderdone del servigio prendere dovea, tuo si rimanga sì come mai fu »: né di quello di Tarolfo volle alcuna cosa prendere. Dubitasi ora quale di costoro fosse maggiore liberalità, o quella del cavaliere che concedette alla donna l'andare a Tarolfo, o quella di Tarolfo, il quale quella donna cui egli avea sempre disiata, e per cui egli avea tanto fatto per venire a quel punto che venuto era, quando la donna venne a lui, se gli fosse piaciuto, rimandò la sopradetta donna intatta al suo marito; o quella di Tebano, il quale, abandonate le sue contrade, oramai vecchio, e venuto quivi per guadagnare i promessi doni, e affannatosi per recare a fine ciò che promesso avea, avendoli guadagnati, ogni cosa rimise, rimanendosi povero come prima --.



[32]

-- Bellissima è la novella e la dimanda -- disse la reina, -- e in verità che ciascuno fu assai liberale, e, ben considerando, il primo del suo onore, il secondo del libidinoso volere, il terzo dell'acquistato avere fu cortese: e però volendo conoscere chi maggiore liberalità overo cortesia facesse, conviene considerare quale di queste tre cose sia più cara. La qual cosa veduta, manifestamente conosceremo il più liberale, però che chi più dona più liberale è da tenere. Delle quali tre cose l'una è cara, cioè l'onore, il quale Paulo, vinto Persio re, più tosto volle che i guadagnati tesori. Il secondo è da fuggire, cioè il libidinoso congiugnimento, secondo la sentenza di Sofoldeo e di Senocrate, dicenti che così è la lussuria da fuggire come furioso signore. La terza non è da disiderare, ciò sono le ricchezze, con ciò sia cosa che esse sieno le più volte a virtuosa vita noiose, e possasi con moderata povertà vivere virtuosamente, sì come Marco Curzio e Attilio Regolo e Valerio Publicola nelle loro opere manifestarono. Adunque, se solo l'onore è in queste tre caro, e l'altre no, dunque quelli maggiore liberalità fece che quello donava, avvegna che meno saviamente facesse. Egli ancora fu nelle liberalità principale, per la cui l'altre seguirono: però, secondo il nostro parere, chi diè la donna, in cui il suo onore consisteva, più che gli altri fu liberale --.



[33]

-- Io -- disse Menedon -- consento che sia come voi dite, in quanto da voi è detto, ma a me pare che ciascuno degli altri fosse più liberale, e udite come. Egli è ben vero che 'l primo concedette la donna, ma in ciò egli non fece tanta liberalità quanto voi dite; però che se egli l'avesse voluta negare, giustamente egli non poteva, per lo giuramento fatto dalla donna, che osservare si convenia: e chi dona ciò che non può negare ben fa, in quanto se ne fa liberale, ma poco dà. E però, sì com'io dissi, ciascuno degli altri più fu cortese, però che, come io già dissi, Tarolfo avea già lungo tempo la donna disiderata e amata sopra tutte le cose, e per questa avere avea lungamente tribolato, e mettendosi per satisfazione della dimanda di lei a cercare cose quasi impossibili ad avere, le quali pure avute, lei meritò di tenere per la promessa fede: la quale, sì come noi dicemmo, tenendo, non è dubbio che nelle sue mani l'onore del marito, e il rimetterle ciò che promesso gli avea, stava. La qual cosa egli fece: dunque dell'onore del marito, del saramento di lei, del suo lungo disio fu liberale. Gran cosa è l'avere una lunga sete sostenuta, e poi pervenire alla fontana e non bere per lasciare bere altrui. Il terzo ancora fu molto liberale, però che, pensando che la povertà sia una delle moleste cose del mondo a sostenere, con ciò sia cosa ch'ella sia cacciatrice d'allegrezza e di riposo, fugatrice d'onori, occupatrice di virtù, adducitrice d'amare sollecitudini, ciascuno naturalmente quella s'ingegna di fuggire con ardente disio. Il quale disio in molti per vivere splendidamente in riposo s'accende tanto, che essi a disonesti guadagni e a sconce imprese si mettono, forse non sappiendo o non potendo in altra maniera il lor disio adempiere: per la qual cosa tal volta meritano morire, o avere delle loro terre etterno essilio. Dunque, quanto deono elle piacere e essere care a chi in modo debito le guadagna e possiede! E chi dubiterà che Tebano fosse poverissimo, se si riguarda ch'egli, abandonati i notturni riposi, per sostentare la sua vita, ne' dubbiosi luoghi andava cogliendo l'erbe e scavando le radici? E che questa povertà occupasse la sua virtù ancora si può credere, udendo che Tarolfo credeva da lui essere gabbato, quando di vili vestimenti il riguardava vestito; che egli fosse vago di quella miseria uscire e divenire ricco, sappiendo ch'egli di Tesaglia infino in Ispagna venne, mettendosi per li dubbiosi cammini e incerti dell'aere alle pericolose cose per fornire la 'mpromessa fatta da lui e per ricevere quella d'altrui, in sé si può vedere: chi a tante e tali cose si mette per povertà fuggire, sanza dubbio si dee credere che egli quella piena d'ogni dolore e d'ogni affanno essere conosce. E quanto di maggiore povertà è uscito e entrato in ricca vita, tanto quella gli è più graziosa. Adunque, chi di povertà è in ricchezza venuto, e con quella il vivere gli diletta, quanta e quale liberalità è quella di chi quella dona, e nello stato, ch'egli ha con tanti affanni fuggito, consente di ritornare? Assai grandissime e liberali cose si fanno, ma questa maggiore di tutte mi pare: considerando ancora alla età del donatore che era vecchio, con ciò sia cosa che ne' vecchi soglia continuamente avarizia molto più che ne' giovani avere potere. Però terrò che ciascuno de' due seguenti aggia maggiore liberalità fatta che 'l primo, e 'l terzo maggiore che niuno --.



[34]

-- Quanto meglio per alcuno si potesse la vostra ragione difendere, tanto la difendete ben voi -- disse la reina; -- ma noi brievemente intendiamo dimostrarvi come il nostro parere deggiate più tosto che il vostro tenere. Voi volete dire che colui niuna liberalità facesse concedendo la mogliere, però che di ragione fare gliele convenia per lo saramento fatto dalla donna: la qual cosa saria così, se il saramento tenesse; ma la donna, con ciò sia cosa ch'ella sia membro del marito, o più tosto un corpo con lui, non potea fare quel saramento santa volontà del marito, e se 'l fece, fu nullo, però che al primo saramento licitamente fatto niuno subsequente puote derogare, e massimamente quelli che per non dovuta cagione non debitamente si fanno; e ne' matrimoniali congiungimenti è usanza di giurare d'essere sempre contento l'uomo della donna, e la donna dell'uomo, né di mai l'uno l'altro per altra cambiare; dunque la donna non poté giurare, e se giurò, come già detto avemo, per non dovuta cosa giurò; e contraria al primo giuramento, non dee valere, e non valendo, oltre al suo piacere non si dovea commettere a Tarolfo, e se vi si commise, fu egli del suo onore liberale, e non Tarolfo, come voi tenete. Né del saramento non poté liberale essere rimettendolo, con ciò sia cosa che il saramento niente fosse: adunque solamente rimase liberale Tarolfo del suo libidinoso disio. La qual cosa di propio dovere si conviene a ciascuno di fare, però che tutti per ogni ragione siamo tenuti d'abandonare i vizi e di seguire le virtù. E chi fa quello a che egli è di ragione tenuto, sì come voi diceste, in niuna cosa è liberale, ma quello che oltre a ciò si fa di bene, quello è da chiamare liberalità dirittamente. Ma però che voi forse nella vostra mente tacito ragionate: « che onore può essere quello della casta donna al marito che tanto debbia esser caro? », noi prolungheremo alquanto il nostro parlare, mostrandolvi, acciò che più chiaramente veggiate Tarolfo né Tebano, di cui appresso intendiamo di parlare, niuna liberalità facessero a rispetto del cavaliere. Da sapere è che castità insieme con l'altre virtù niuno altro premio rendono a' posseditori d'esse se non onore, il quale onore, tra gli altri uomini meno virtuosi, li fa più eccellenti. Questo onore, se con umiltà il sostengono, gli fa amici di Dio, e per consequente felicemente vivere e morire, e poi possedere gli etterni beni. La quale se la donna al suo marito la serva, egli vive lieto e certo della sua prole, e con aperto viso usa infra la gente, contento di vedere lei per tale virtù dalle più alte donne onorata, e nell'animo gli è manifesto segnale costei essere buona, e temere Iddio, e amare lui, che non poco gli dee piacere, sentendo che per etterna compagnia indivisibile, fuor che da morte, gli è donata. Egli per questa grazia ne' mondani beni e negli spirituali si vede continuo multiplicare. E così, per contrario, colui la cui donna di tale virtù ha difetto, niuna ora può con consolazione passare, niuna cosa gli è a grado, l'uno la morte dell'altro disidera. Elli si sentono per lo sconcio vizio nelle bocche de' più miseri esser portati, né gli pare che sì fatta cosa non si debbia credere a chiunque la dice. E se tutte l'altre virtù fossero in lui, questo vizìo pare ch'abbia forza di contaminarle e di guastarle. Dunque grandissimo onore è quello che la castità della donna rende all'uomo, e molto da tener caro. Beato si può chiamare colui a cui per grazia cotal dono è conceduto, avvegna che noi crediamo che pochi sieno quelli a' quali di tal bene sia portato invidia. Ma ritornando al nostro proposito, vedete quanto il cavaliere dava: ma egli non ci è della mente uscito quanto diceste, Tebano essere stato più che gli altri liberale, il quale con affanno arricchito, non dubitò di tornare nella miseria della povertà, per donare ciò che acquistato avea. Apertamente si pare che da voi è mal conosciuta la povertà, la quale ogni ricchezza trapassa se lieta viene. Tebano già forse per l'acquistate ricchezze gli pareva esser pieno d'amare e di varie sollecitudini. Egli già imaginava che a Tarolfo paresse avere mal fatto, e trattasse di ucciderlo per riavere le sue castella. Egli dimorava in paura non forse da' suoi sudditi fosse tradito. Egli era entrato in sollecitudine del governamento delle sue terre. Egli già conoscea tutti gl'inganni apparecchiati da' suoi parzionali di farli. Egli si vedea da molti invidiato per le sue ricchezze, egli dubitava non i ladroni occultamente quelle gli levassero. Egli era ripieno di tanti e tali e sì varii pensieri e sollecitudini, che ogni riposo era da lui fuggito. Per la qual cosa ricordandosi della preterita vita, e come sanza tante sollecitudini la menava lieta, fra sé disse: « Io disiderava d'arricchire per riposo, ma io veggo ch'elli è accrescimento di tribulazioni e di pensieri, e fuggimento di quiete ». E tornando disideroso d'essere nella prima vita, quelle rendé a chi gliele avea donate. La povertà è rifiutata ricchezza, bene non conosciuto, fugatrice di stimoli, la quale fu da Diogene interamente conosciuta. Tanto basta alla povertà quanto natura richiede. Sicuro da ogni insidia vive chi con quella pazientemente s'accosta, né gli è tolto il potere a grandi onori pervenire, se virtuosamente vive come già dicemmo; e però se Tebano si levò questo stimolo da dosso, non fu liberale, ma savio. In tanto fu grazioso a Tarolfo in quanto più tosto a lui che ad un altro gli piacque di donarlo, potendolo a molti altri donare. Fu adunque più liberale il cavaliere, che il suo onore concedea, che nullo degli altri. E pensate una cosa: che l'onore che colui donava è inrecuperabile, la qual cosa non avviene di molti altri, sì come di battaglie, di pruove e d'altre co se, le quali se una volta si perdono, un'altra si racquistano, e è possibile. E questo basti sopra la vostra dimanda aver detto --.



[35]

Poi che la reina tacque, e Menedon fu rimaso contento, un valoroso giovane chiamato Clonico, il quale appresso Menedon sedeva, così cominciò a parlare: -- Grandissima reina, tanto è stata bella e lunga la novella di questo nobile giovane, che io, acciò che gli altri nel brieve tempo possano ad agio dire, quanto potrò, il mio intendimento brievemente vi narrerò: e dico che, con ciò fosse cosa che io ancora molto giovane conoscesse la vita de' suggetti del nostro signore Amore piena di molte sollecitudini e d'angosciosi stimoli con poco diletto, lungamente a mio potere la fuggii, schernendo più tosto coloro che lui seguivano, che commendandoli; e ben che io molte volte già fossi tentato, con forte animo resistetti, cessando i tesi lacciuoli. Ma però che io a quella forza, alla quale Febo non poté resistere, non era forte a contrastare, avendosi Cupido pur posto in cuore di recarmi nel numero de' suoi suggetti, fui preso, né quasi m'accorsi come, però che un giorno già per lo rinnovellato tempo lieto andando io su per li salati liti, conche marine con diletto prendendo, avvenne che voltando io gli occhi verso le nitide onde, per quelle vidi subita venire una barchetta, nella quale quattro giovani con un solo marinaio veniano, tanto belle, che mirabile cosa il vederle sì belle mi parve. E essendosi esse già verso di me appropinquate assai, né io però avessi i miei occhi da' loro visi levati, vidi in mezzo di loro un lustrore grandissimo, nel quale, secondo che la stimativa mi porse, mi parve vedere una figura d'uno angelo giovanissimo, e tanto bella quanto alcuna cosa mai da me veduta. Il quale rimirando io, mi parve ch'egli dicesse così verso di me con voce assai dalla nostra diversa: « O giovane, stolto perseguitore della nostra potenza, ora se' giunto! Io sono qui con quattro belle giovinette venuto: piglia per donna quella che più piace agli occhi tuoi! ». Io, questa voce udendo, tutto rimasi stupefatto, e col cuore e con gli occhi cercava di fuggire quello che io molte volte già fuggito avea; ma ciò era niente, però che alle mie gambe era tolta la possa, e egli avea arco e ali da giugnermi assai tosto. Onde io tra quelle mirando, vidi l'una di loro tanto bella e graziosa nell'aspetto e ne' sembianti pietosa, ch'io imaginai di volere lei per singulare donna, fra me dicendo: « Costei agli occhi miei sì umile si presenta, che fermamente ella non sarà a' miei disii nimica, come molte altre sono a quelli i quali io, vedendoli pieni d'affanni, ho già scherniti, ma sarà delle mie noie cacciatrice ». E questo pensato, subito risposi: « La graziosa bellezza di quella giovane che alla vostra destra siede, o signor mio, mi fa disiderare d'essere a voi e a lei fedelissimo servidore; e però io sono qui a' vostri voleri presto: fate di me quello che a voi piace ». Io non avea ancora compiuto di parlare, ch'io mi sentii il sinistro lato piagare d'una lucente saetta venuta dall'arco che egli portava, la quale io estimai che d'oro fosse. E certo io non vidi quando egli, voltato a lei, essa ferì d'una di piombo: e in questa maniera preso rimasi ne' lacci da me lungamente fuggiti. Questa giovane piacque e piace tanto agli occhi miei, che ogni altro piacere fora per comparazione a questo scarso. Della qual cosa ella avedendosene, lungamente si mostrò contenta; ma poi ch'ella conobbe me sì preso del suo piacere, che impossibile mi sarebbe il non amarla, ella incontanente il suo inganno con non dovuto sdegno verso me scoperse, mostrandosi ne' sembianti a me crudelissima nimica, sempre gli occhi torcendo in altra parte a quella contraria dove me veduto avesse, e con non dovute parole continuo dispregiandomi. Per la qual cosa, avendo io in molte maniere con prieghi e con umiltà ingegnatomi di raumiliare la sua acerbità, né pote' mai, io sovente piango e dolgomi d tanto infortunio, né in maniera niuna posso d'amarla tirarmi indietro: anzi quanto più crudele verso di me la sento, tanto più pare che la fiamma del suo piacere m'accenda il tristo cuore. Delle quali cose dolendomi io un giorno tutto soletto in un giardino con infiniti sospiri accompagnati da molte lagrime, sopravenne un mio singulare amico, al quale parte de' miei danni era palese, e quivi con pietose parole m'incomincìò a volere riconfortare; i cui conforti non ascoltando io niente, ma rispondendogli che la mia miseria ogni altra passava, egli così mi disse: « Tanto è l'uomo misero quanto egli medesimo si fa o si riputa; ma certo io ho molto maggiore cagione di dolermi che tu non hai ». Io allora quasi turbato mi rivolsi a lui, dicendo: « Come? Chi la può maggiore di me avere? Non ricevo io mal guiderdone per ben servire? Non sono io odiato per lealmente amare? Così come me può alcuno essere dolente, ma più no ». « Certo » rispose l'amico « io ho maggiore cagione di dolermi che tu non hai, e odi come. A te non è occulto che io lungo tempo abbia una gentil donna amata e amo sì come tu fai, né mai niuna cosa fu che io credessi che a lei piacesse, che io con tutto il mio ingegno e potere non mi sia messo a farla. E certo essa di questo conoscente, di ciò che io più disiderava mi fece grazioso dono, il quale avendo io ricevuto, e ricevendo qualora mi piacea, per lunga stagione non mi parea alla mia vita avere in allegrezza pari. Solo uno stimolo avea, che io non le potea far credere quanto io perfettamente l'amava: ma di questo, sentendomi amarla com'io dicea, leggermente mi passava. Ma gl'iddii, che niuno bene mondano vogliono sanza alcuna amaritudine concedere, acciò che i celestiali siano più conosciuti, e per consequente più disiderati, a questo m'aggiunsero un altro a me sanza comparazione noioso; ch'elli avvenne che dimorando io un giorno soletto con lei in segreta parte, veggendo chi davanti a noi passava sanza essere veduti, un giovane grazioso e di piacevole aspetto passò per quella parte, il quale io vidi ch'ella riguardò e poi un pietoso sospiro gittò. La qual cosa vedendo, io dissi: "Oimè, sonvi io sì tosto rincresciuto, che per la bellezza d'altro giovane sospiriate?". Ella tornata nel viso di nuova rossezza dipinta, con molte scuse, giurando per la potenza de' sommi iddii, s'incominciò ad ingegnare di farmi scredere ciò che io per lo sospirare avea pensato: ma ciò fu niente, però che nel cuore mi s'accese una ira sì ferocissima, che quasi con lei non mi fece allora crucciare, ma pur mi ritenni. E certamente mai dell'animo partire non mi si poté che costei colui o altrui non amasse più di me: e tutti quelli pensieri, i quali altra volta in mio aiuto recava, cioè ch'ella più ch'altro me amasse, ora tutti in contrario li estimo, imaginando che fittiziamente abbia detto e fatto ciò che per adietro ha operato; di che dolore intollerabile sostengo. Né a ciò alcuno conforto vale; ma però che vergogna sovente raffrena il volere ch'io ho di dolermi più che di rallegrarmi, non continuo il mio dolore sì ch'io ne faccia alcuni avedere, ma, brievemente, io mai sanza sollecitudine e pensieri non sono, i quali molta più noia mi danno ch'io non vorrei. Adunque appara a sostenere le minori cose, poi che a me le maggiori vedi con forte animo portare nascose ». Al quale io risposi che non mi parea che in niuno modo il suo dolore, ben che fosse grande, si potesse al mio agguagliare. E egli mi rispondea il contrario: e così in lunga quistione dimorammo, partendoci poi sanza niuna diffinizione. Priegovi ne diciate quello che di questo voi terreste --.



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-- Giovane -- disse la reina, -- gran pena è la vostra, e torto ha la donna di non amarvi; ma tutta fiata il vostro dolore può essere da speranza aiutato: quello che del vo stro compagno non avviene, però che, poi ch'egli è una volta entrato in sospetto, niuna cosa nel può cacciare. Dunque continuamente sanza conforto si dorrà mentre l'amore durerà: e però, secondo il nostro giudicio, ne pare maggiore doglia quella del geloso che quella di chi ama e non è amato --.



[37]

Disse Clonico allora: -- O nobile reina, che è ciò che voi dite? Aperto pare che sempre siete stata amata da cui amato avete, per la qual cosa la mia pena male conoscete. Come si potrebbe mostrare che gelosia porgesse maggiore pena che quella ch'io sento, con ciò sia cosa che colui la disiderata cosa possiede, e puote, quella tenendo, prendere in una ora più diletto di lei che in un lungo tempo sentirne pena, e nientemeno da sé per esperienzia può cacciare tal gelosia, se avviene che truovi falso il suo parere? Ma io, di focoso disio acceso, quanto più mi truovo lontano ad adempierlo, tanto più ardo, e assalito da mille stimoli mi consumo; né a ciò mi può aiutare alcuna speranza, però che per le molte volte ch'io ho riprovata costei, e trovatala ognora più acerba, io vivo disperato. Per che la vostra risposta mi pare che alla verità sia contraria: che io non dubito che non sia molto meglio dubitando tenere, che piangendo disiare --.



[38]

-- Quella amorosa fiamma che negli occhi ne luce e il nostro viso ognora adorna di più bellezza, come voi dite, mai non consentì che invano amassimo, ma non per tanto non ci si occulta quanta e quale sia la pena dell'uno, e quella dell'altro --, rispose la reina; seguendo: -- e però, come la nostra risposta sia con la verità una cosa, vi mostreremo. Egli è manifesto che quella cosa che più la quiete dell'animo impedisce è la sollecitudine, delle quali alcune a lieto fine vanno, alcune a dolente fuggire intendono. Delle quali quanto più n'ha l'animo, tanto più ha affanno, e massimamente quando noiose sono: e che il geloso più di voi n'abbia è manifesto, però che voi a niuna cosa intendete se non solamente ad acquistare l'amore di quella donna cui voi amate, il quale non potendolo avere v'è gravissima noia. Ma certo e' potrebbe di leggiere avvenire, con ciò sia cosa che i cuori delle femine sieno mobili, che subitamente voi, non pensandoci, vi trovereste averlo acquistato: o forse che v'ama, ma, per provare se voi lei amate, dimostra il contrario, e mostrerà forse infino a quel tempo ch'ella fia bene del vostro amore accertata. Con questi pensieri può molto speranza mitigare la vostra doglia: ma il geloso ha l'animo pieno d'infinite sollecitudini, alle quali né speranza né altro diletto può porgere conforto, o alleviare la sua pena. Egli sta intento di dare legge a' vaghi occhi, a' quali il suo posseditore non la può donare. Egli vuole e s'ingegna di porre legge a' piedi e alle mani, e a ogni altro atto della sua donna. Egli vuole essere provido conoscitore e de' pensieri della donna e della allegrezza, ogni cosa interpretando in male di lui, e crede che ciascuno disideri e ami quello che egli ama. Similemente s'imagina che ogni parola sia doppia e piena d'inganno; e se egli mai alcuna detrazione commise, questo gli è mortal pensiero imaginando che per simile o modo esso debba essere ingannato. Egli vuol chiudere con avvisi le vie dell'aere e della terra, e, brievemente, ne' suoi pensieri gli nocciono il cielo e la terra, gli uccelli e gli animali, e qualunque altra creatura: e a questo levarli non ha luogo esperienza, però che se la fa e trovi che lealmente la donna si porti, egli pensa che aveduta si sia di ciò ch'egli ha fatto, e però guardatasene. S'e' trova quello che cerca e trovare non vorria, chi è più doloroso di lui? Se forse estimate che il tenerla in braccio gli sia tanto diletto che queste cose debbia mitigare, il parere vostro è falso, però che quello tenere gli porge noia pensando che altri così l'abbi tenuta. E se la donna forse amorevolemente l'accoglie, credesi che per torlo da tal pensiero il faccia, e non per buono amore ch'ella gli porti. Se malinconica la trova, pensa che altrui ami e di lui non si contenti: e infiniti altri stimoli potremmo de' gelosi narrare. Dunque che diremo della costui vita, se non ch'ella sia la più dolente che alcun vivente possa avere? Egli vive credendo e non credendo, e sé e la donna stimolando: e le più volte suole avvenire che di quella malattia di che i gelosi vivono paurosi, elli ne muoiono, e non sanza ragione, però che con le loro riprensioni molte fiate mostrano a' loro danni la via. Considerando adunque le predette cose, più ha il vostro amico, che è geloso, cagione di dolersi che voi non avete, però che voi potete sperare d'acquistare, colui con paura vive di perdere quella cosa che egli appena tiene sua. E però s'egli ha più materia da dolersi di voi, e confortasi il meglio che elli puote, molto maggiormente voi vi dovete confortare e lasciare stare il piagnere, che è atto di pusillanima feminella, e sperare del buono amore, che voi alla vostra donna portate, non perdere merito: ché, ben che ella si mostri verso voi acerba al presente, e' non può essere ch'ella non vi ami, però che amore mai non perdonò l'amare a niuno amato, e a' robusti venti si rompono più tosto le dure querce che le consenzienti canne --.



[39]

Vestita di bruni vestimenti sotto onesto velo sedea appresso costui una bella donna, la quale, come sentì la reina alle sue parole aver posto fine, così cominciò a di re: -- Graziosa reina, e' mi ricorda che, essendo io ancora picciola fanciulla, un giorno io dimorava con un mio fratello, bellissimo giovane e di compiuta età, in un giardino, sanza alcuna altra compagnia. Dove dimorando, avvenne che due giovani donzelle, di sangue nobili e di ricchezze copiose, e della nostra città natie, amando questo mio fratello e sentendolo essere in quel giardino, amendue là se ne vennero, e lui, che di queste cose niente sapeva, di lontano cominciarono a riguardare. Dopo alquanto spazio, vedendolo solo, fuori che di me, di cui elle poco curavano però che era picciola, così fra loro cominciarono a dire: « Noi amiamo questo giovane sopra tutte le cose, né sappiamo s'egli ama noi, né convenevoli è che amendune ci ami; ma qui n'è al presente licito di prendere di lui parte del nostro disio, e di conoscere se di noi egli ama alcuna, o quale egli ama più; e quella che egli più ama, poi sua si rimanga sanza esserle dall'altra impedito: però ora ch'egli dimora solo e che noi abbiamo tempo, corriamo, e ciascuna l'abbracci e baci: egli quale più gli piacerà, poi prenderà ». Determinatosi a questo, le due giovani cominciarono a correre sopra la verde erba verso il mio fratello: di che egli si maravigliò vedendole, e vedendo come veniano. Ma l'una di loro ancora assai lontana, vergognosa quasi piangendo ristette, l'altra infino a lui corse e l'abbracciò e baciollo e poseglisi a sedere allato raccomandandoglisi. Ma poi che l'ammirazione che costui ebbe dell'ardire di colei fu alquanto cessata, egli la pregò che per quello amore ch'ella gli portava, ella gli dovesse di questa cosa dire intera la verità. Essa niente ne gli celò: la qual cosa questi udendo, e dentro nella mente essaminando ciò che l'una e l'altra avea fatto, fra sé conoscere non sapea qual più l'amasse, né qual più egli dovesse amare. Ma venuto accidente che di queste parole il convenne partire, di questo a più amici domandò consiglio, né mai alcuno il sodisfece al suo piacere di tal dimanda: per la qual cosa io priego voi, da cui veramente credo la vera diffinizione avere, che mi diciate quale di queste due dee essere più dal giovane amata --.



[40]

A questa donna così la reina rispose: -- Certo delle due giovani quella ne pare che più il vostro fratello ami, e più da lui deggia essere amata, che dubitando vergognosa rimase sanza abbracciarlo: e per che questo ne paia, questa è la ragione. Amore, sì come noi sappiamo, sempre fa timidi coloro in cui dimora, e dove maggior parte è d'esso, similmente maggiore temenza. E questo avviene per che lo 'ntendimento della cosa amata non si può intero sapere; che se si potesse sapere, molte cose, temendo di non spiacere, non si fanno che si farebbono, però che ciascuno sa che spiacendo si toglie cagione d'essere amato: e con questa temenza e con amore sempre dimora vergogna, e non sanza ragione. Adunque, tornando alla nostra quistione, diciamo che atto di veramente innamorata fu quello di quella che timida si mostrò e vergognosa. Quello dell'altra, più tosto di scelerata libidinosa che d'innamorata fu sembiante: e però essendo egli più da colei amato, più dee lei, secondo il nostro giudicio, amare --.



[41]

Rispose allora la donna: -- Gentil reina, vera cosa è che amore, ov'egli moderatamente dimora, temenza e vergogna conviene che ci sia, ma là ove egli in tanta quantità abonda, che agli occhi dei più savi leva la vista, come già qui per adietro si disse, dico che temenza non ci ha luogo, ma i movimenti di chi ciò sente sono secon do che egli sospigne: e però quella giovane, vedendosi inanzi il suo disio, tanto s'accese, che, abandonata ogni vergogna, corse a quello di che era sì forte stimolata, che avanti sostenere non potea. L'altra, non tanto infiammata, servò più gli amorosi termini, vergognandosi, e rimanendo come voi dite. Dunque quella più ama e più dovrà essere amata --.



[42]

-- Savia donna -- disse la reina, -- veramente a' più savi leva amore soperchio la veduta e ogni altro debito sentimento, quanto alle cose che sono fuori di sua natura; ma in quelle che a sé appartengono, come egli cresce così crescono. Adunque, quanta maggior quantità d'esso in alcuno si truova, e così del timore, come davanti dicemmo. Che questo sia vero, lo scelerato ardore di Blibide il ci manifesta, la quale quanto amasse si dimostrò nella sua fine, vedendosi abandonata e rifiutata: né già per questo ebbe ella ardire di scoprirsi con le propie parole, ma scrivendo il suo sconvenevole disio palesò. Similemente Fedra più volte tentò di volere ad Ipolito, al quale, come a domestico figliuolo, poteva arditamente parlare, di dirli quanto ella l'amava, né era prima la sua volontà pervenuta alla bocca per proffererla, che, temendo, su la punta della lingua le moria. O quanto è temoroso chi ama! Chi fu più possente che Alcide, al quale non bastò la vittoria delle umane cose, ma ancora a sostenere il cielo si mise! E ultimamente non di donna, ma d'una guadagnata giovane s'innamorò tanto, che come umile suggetto, temendo, a' comandamenti di lei facea le minime cose! E ancora Paris, quello che né con gli occhi né con la lingua ardiva di tentare, col dito avanti alla sua donna del caduto vino scrivendo prima il nome di lei, appresso scriveva: "io t'amo"! Quanto ancora so pra tutti questi ci porge debito essemplo di temenza Pasife, la quale ad una bestia sanza razionale intelletto non ardiva d'esprimere il suo volere, ma con le propie mani cogliendo le tenere erbe s'ingegnava di farlo a sé benigno, ingannando se medesima sovente allo specchio per piacergli e per accenderlo in tal disio quale era ella, acciò ch'egli si movesse a cercare ciò che ella non ardiva di domandare a lui! Non è atto di donna innamorata, né d'alcun'altra, l'essere pronta, con ciò sia cosa che sola la molta vergogna, la quale in noi dee essere, è rimasa del nostro onore guardatrice. Noi abbiamo voce tra gli uomini, e è così la verità, di sapere meglio l'amorose fiamme nascondere che gli uomini: e questo non genera altro che la molta temenza, la quale le nostre forze, non tante quante quelle degli uomini, più tosto occupa. Quante ne sono già state, e forse noi d'alcune abbiamo saputo, le quali s'hanno molte volte fatto invitare di pervenire agli amorosi effetti, che volentieri n'avrebbero lo invitatore invitato prima che egli loro, se debita vergogna o temenza ritenute non l'avesse! E non per tanto, ogni ora che il no è della loro bocca uscito, hanno avuto nell'animo mille pentute, dicendo col cuore cento volte sì. Rimanga questo scelerato ardire nelle pari di Semiramis e di Cleopatra, le quali non amano, ma cercano d'acquetare il loro libidinoso volere, il quale chetato, non avanti d'alcuno più che d'un altro non si ricordano. I savi mercatanti mal volentieri arrischiano tutti i loro tesori ad un'ora a' fortunosi casi: e non per tanto una picciola parte non si curano di concedere loro, non sentendo di quella nell'animo alcuno dolore, se avviene che la perdano. Amava dunque la giovane, che abbracciò il vostro fratello, poco, e quel poco concedette alla fortuna, dicendo: « Se costui per questo acquisto, bene sta; se mi rifiuta, non ci sarà più che prendersene un altro ». L'altra, che vergognandosi rimase, con ciò fosse cosa che ella lui amasse sopra tutte le cose, dubitò di mettere tanto amo re in avventura, imaginandosi: « Se questo forse gli spiacesse e rifiutassemi, il mio dolore sarebbe tanto e tale ch'io ne morrei ». Sia adunque più la seconda che la prima amata --.



[43]

Feriva del sole un chiaro raggio passando fra le verdi frondi sopra il nitido fonte, il quale la sua luce rifletteva nel bel viso della adorna reina, la quale di quel colore era vestita che il cielo ne dimostra, quando, amenduni i figliuoli di Latona a noi nascosi, lucido solo con le sue stelle ne porge luce. E oltre allo splendore del bel viso, quello tanto lucente facea, che mirabile lustro a' dimoranti in quel luogo porgeva fra le fresche ombre: e tal volta il riflesso raggio si distendea infino al luogo dove la laurea corona d'una parte con la candida testa, dall'altra con gli aurei capelli terminava, tra quelli mescolata con non maestrevole ravolgimento: e quando quivi pervenia, nel primo sguardo si saria detto che fra le verdi frondi uscisse una chiara fiammetta d'ardente fuoco, e tanto si dilatasse, quanto i biondi capelli si dimostravano a' circunstanti. Questa mirabile cosa, forse più tosto o meglio avvedutosene che alcuno degli altri, mirava Caleon intentivamente quasi come d'altro non gli calesse, il quale per opposito a fronte alla reina sedeva in cerchio, dividendoli l'acqua sola: né movea bocca alla quistione che a lui veniva, perché taciuto avesse la reina già per alquanto spazio, avendo contentata la savia donna. A cui la reina così disse: -- O solo disio forse della cosa che tu miri, dinne, qual è la cagione che così sospeso ti tiene, che, seguendo l'ordine degli altri, non parli, solamente, come noi crediamo, mirando la nostra testa, come se da te mai vista non fosse avanti? Dilloci, e appresso, come gli altri hanno proposto, e tu proponi --. A questa voce, Caleon, levata l'anima da' dolci pensieri, in sé la tornò alquanto riscotendosi, come tal volta colui, che per paura rompe il dolce sonno, suole fare, e così disse: -- Alta reina, il cui valore impossibile saria a narrare, graziosi pensieri in loro teneano la mia mente involta, quando io sì fiso mirava la vostra fronte, che mi parve, allora che il chiaro raggio giunse nella bella acqua, riflettendo nel vostro viso, che dell'acqua uscisse uno spiritello tanto gentile e grazioso a vedere, ch'egli si tirò dietro l'anima mia a riguardare ciò che facesse, forse sentendo i miei occhi insofficienti a tanta gioia mirare, e salì per lo chiaro lume negli occhi vostri, e quivi per lungo spazio fece mirabile festa adornandoli di nuova chiarezza. Poi salendo più su questa luce, lasciando ne' begli occhi i suoi vestigii, il vidi salire sopra la vostra corona, sopra la quale, come egli vi fu, insieme con i raggi parve che nuova fiamma vi s'accendesse, forse qual fu già quella che fu da Tanaquila veduta a Tulio piccolo garzone dormendo: e dintorno a questa saltando di fronda in fronda, come uccelletto che amoroso cantando visita molte foglie, s'andava, e i vostri capelli con diversi atti movendo, e intorniando a quelle, tal volta in essi nascondendosi e poi più lieto ogni fiata uscendo fuori; e pareami ch'egli fosse tanto allegro in se medesimo, quanto alcuna cosa mai esser potesse, e gisse cantando, overo con dolci voci queste parole dicendolo:

« Io son del terzo ciel cosa gentile,
sì vago de' begli occhi di costei,
che s'io fossi mortal me ne morrei.

E vo di fronda in fronda a mio diletto,
intorniando gli aurei crini,
me di me accendendo:

e 'n questa mia fiammetta con effetto
mostro la forza de' dardi divini,
andando ogn'uom ferendo

che lei negli occhi mira, ov'io discendo
ciascuna ora ch'è piacer di lei,
vera reina delli regni miei ».

E con queste, molte altre ne dicea, andando com'io v'ho detto, quando mi chiamaste; ma non prima la voce moveste, che egli subito si tornò ne' vostri occhi, i quali come matutine stelle sintillano di nuova luce, questo luogo lustrando: udito avete da che gioia con nuovo pensiero m'avete alquanto separato --. Di questo si maravigliò assai Filocolo e gli altri, e rivolti gli occhi verso la loro reina, videro quello che a udire loro parea impossibile. E ella, vestita d'umiltà, ascoltando le vere parole di lei dette, stette con fermo viso sanza alcuna risposta. E però Caleon così parlando seguì: -- Graziosa reina, io disidero di sapere se a ciascuno uomo, a bene essere di se medesimo, si dee innamorare o no. E questo a dimandare mi muovono diverse cose vedute e udite e tenute dalle varie oppinioni degli uomini --.



[44]

Lungamente riguardò la reina Caleon nel viso, e poi dopo alcun sospiro così rispose: -- Parlare ci conviene contra quello che noi con disiderio seguiamo. E certo a te dovria bene essere manifesto ciò che tu in dubbio domandando proponi. Serverassi, rispondendo a te, lo 'ncominciato ordine, e colui a cui suggetta siamo, le parole, le quali, costretta dalla forza del giuoco, diciamo contra la sua deità, più tosto che volontarie, le ci perdoni: né però la sua indegnazione caggia sopra di noi. E voi, che similemente come noi suggetti gli siete, con forte animo l'ascoltate, non mutandovi per quelle dal vostro proponimento. E acciò che meglio e con più aperto intendimento le nostre parole si prendano, alquanto fuori della materia ci stenderemo, a quella quanto più brievemente potremo tornando, e così diciamo: amore è di tre maniere, per le quali tre, tutte le cose sono amate; alcuna per la virtù dell'uno, alcuna per la potenza dell'altro, secondo che la cosa amata è, e similmente l'amante. La prima delle quali tre si chiama amore onesto: questo è il buono e il diritto e il leale amore, il quale da tutti abitualmente dee esser preso. Questo il sommo e primo creatore tiene lui alle sue creature congiunto, e loro a lui congiunge. Per questo i cieli, il mondo, i reami, le province e le città permangono in istato. Per questo meritiamo noi di divenire etterni posseditori de' celestiali regni. Sanza questo è perduto ciò che noi abbiamo in potenza di ben fare. Il secondo è chiamato amore per diletto, e questo è quello al quale noi siamo suggetti. Questo è il nostro iddio: costui adoriamo, costui preghiamo, in costui speriamo che sia il nostro contentamento, e che egli interamente possa i nostri disii fornire. Di costui è posta la quistione se bene è a sommetterlisi: a che debitamente risponderemo. Il terzo è amore per utilità: di questo è il mondo più che d'altro ripieno. Questo insieme con la fortuna è congiunto: mentre ella dimora, e egli similmente dimora; quando si parte, e elli. Elli è guastatore di molti beni: e più tosto, ragionevolmente parlando, si dovria chiamare odio che amore. Ma però che alla proposta quistione né del primo né dell'ultimo è bisogno di parlare, del secondo diremo, cioè amore per diletto: al quale, veramente, niuno, che virtuosa vita disideri di seguire, si dovria sommettere, però che egli è d'onore privatore, adducitore d'affanni, destatore di vizii, copioso donatore di vane sollecitudini, indegno occupatore dell'altrui libertà, più ch'altra cosa da tenere cara. Chi, dunque, per bene di sé, se sarà savio, non fuggirà tale signore? Viva chi può libero, seguendo quelle cose che in ogni atto aumentano libertà, e lascinsi i viziosi signori a' viziosi vassalli seguire --.



[45]

-- Io non pensava -- disse allora Caleon -- con le mie parole dar materia di mancamento alla nostra festa, né la potenza del nostro signore Amore, né le menti d'alcuno perturbare; anzi imaginai che, diffinendolo voi, secondo la intenzione mia e di molti altri, dovesse quelli che gli sono suggetti con forte animo a ciò confermarli, e quelli che non gli sono con disideroso appetito chiamarlivi. Ma veggio che la vostra intenzione alla mia è tutta contraria, però che voi tre maniere d'amore nelle vostre parole essere mostrate. Delle quali tre, la prima e l'ultima come voi dite consento che sia, ma la seconda, la quale rispondendo alla mia dimanda dite che è tanto da fuggire, tengo che da seguire sia da chi glorioso fine disidera, sì come aumentatrice di virtù, com'io credo appresso mostrare. Questo amore di cui noi ragioniamo, sì come a tutti può essere manifesto, però che il proviamo, adopera questo ne' cuori umani, poi ch'egli ha l'anima alla piaciuta cosa disposta: egli d'ogni superbia spoglia il cuore e d'ogni ferocità, faccendolo umile in ciascun atto, sì come manifestamente ci appare in Marte, il quale troviamo che, amando Venere, di fiero e aspro duca di battaglie, tornò umile e piacevole amante. Egli fa i cupidi e gli avari, liberali e cortesi: Medea, carissima guardatrice delle sue arti, poi che le costui fiamme sentì, liberamente sé e 'l suo onore e le sue arti concedette a Giansone. Chi fa più solliciti gli uomini all'alte cose, di lui? Quanto egli li faccia, rimirisi a Paris e a Menelao. Chi spegne più gl'iracundi fuochi, che fa costui? Quante volte fu l'ira d'Achille quetata da' dolci prieghi di Pulisena cel mostra. Questi, più ch'altri, fa gli uomini audaci e forti, né so qual maggiore essemplo ci si potesse dare che quello di Perseo, il quale per Andromaca mirabile pruova di virtuosa fortezza. Questi adorna di belli costumi, d'ornato parlare, di magnificenza, di graziosa pia cevolezza tutti coloro che di lui si vestono. Questi di leggiadria e di gentilezza a tutti i suoi suggetti fa dono. Oh quanti sono i beni che da costui procedono! Chi mosse Vergilio, chi Ovidio, chi gli altri poeti a lasciare di loro etterna fama ne' santi versi, i quali mai a' nostri orecchi pervenuti non sarieno se costui non fosse, se non costui? Che direm noi più della costui virtù, se non ch'egli ebbe forza di mettere tanta dolcezza nella cetera d'Orfeo, che, poi ch'egli a quel suono ebbe chiamate tutte le circunstanti selve, e fatti riposare i correnti fiumi, e venire in sua presenza i fieri leoni insieme co' timidi cervi con mansueta pace, e tutti gli altri animali similemente, egli fece quetare le infernali furie e diede riposo e dolcezza alle tribulate anime: e dopo tutto questo, fu di tanta virtù il suono, ch'egli meritò di riavere la perduta mogliere. Dunque costui non è cacciatore d'onore, come voi dite, né donatore di sconvenevoli affanni, né citatore di vizii, né largitore di vane sollecitudini, né indegno occupatore dell'altrui libertà: però con ogni ingegno, con ogni sollecitudine dovrebbe ciascuno, che di lui non è conto e servidore, procacciare e affannare d'avere la grazia di tanto signore e essergli suggetto, poi che per lui si diviene virtuoso. Quello che piacque agl'iddii e alli più robusti uomini, similemente a noi dee piacere: seguasi, amisi, servasi, e viva sempre nelle nostre menti cotal signore! --.



[46]

-- Molto t'inganna il parer tuo -- rispose la reina -- e di ciò non è maraviglia, però che tu se', secondo il nostro conoscimento, più ch'altro innamorato, e sanza dubbio il giudizio degli innamorati è falso, però che il lume degli occhi della mente hanno perduto, e da loro la ragione come nimica hanno cacciata. Adunque, a noi converrà alquanto, oltre al nostro volere, d'amore parlare: di che ci duole, sentendoci a lui suggetta, ma per trarti d'errore il licito tacere in vere parole rivolgeremo. Noi voglianio che tu sappi che questo amore niun'altra cosa è che una inrazionabile volontà, nata da una passione venuta nel cuore per libidinoso piacere che agli occhi è apparito, nutricato per ozio da memoria e da pensieri nelle folli menti: e molte fiate in tanta quantità ca, che egli leva la 'ntenzione di colui in cui dimora dalle necessarie cose, e disponlo alle non utili. Ma però che tu essemplificando ti 'ngegni di dimostrarne da costui ogni bene e ogni virtù procedere, a riprovare i tuoi essempli procederemo. Non è atto d'umiltà l'altrui cose ingiustamente a sé recare, ma è arroganza e sconvenevole presunzione: e certo queste cose usò Marte, cui tu sai per amore divenuto umile, a levare a Vulcano Venere sua legittima sposa. E sanza dubbio quella umiltà che nel viso appare agli amanti, non procede da benigno cuore, ma da inganno prende principio. Né fa questo amore i cupidi liberali, ma quando in tanta copia, quanta poni che in Medea fu, abonda ne' cuori, quelli del mentale vedere priva, e delle cose, per adietro debitamente avute care, stoltamente diventa prodigo, non quelle con misura donando, ma disutilmente gittando: crede piacere, e dispiace a' savi. Medea, non savia, della sua prodigalità assai in brieve tempo sanza suo utile si penté, e conobbe che se moderatamente i suoi cari doni avesse usati non saria a sì vile fine venuta. E quella sollecitudine, la quale in danno de' sollecitanti s'acquista o s'adopera, non ci pare per alcuno dovere essere cercata: molto vale meglio ozioso stare che male adoperare, ancora che né l'uno né l'altro sia da lodare. Paris fu sollecito alla sua distruzione, se 'l fine di tale sollecitudine si riguarda. Menelao non per amore, ma per racquistare il perduto onore, con ragione divenne sollecito, come ciascuna persona discreta dee fare. Né è ancora questo amore cagione di mitigata ira; ma benignità d'animo, passato l'impeto che induce quella, la fa tornare nulla, e rimettesi l'offesa a chi contro s'adira: ben che gli amanti, e ancora i discreti uomini, sogliono usare di rimettere l'offese a preghiera di cosa amata o d'alcuno amico, per mostrarsi di ciò che niente loro costa, cortesi, e obligarsi i pregatori: e per questa maniera Achille più volte già mostrò di cacciare da sé la concreata ira. Similemente ne mostri che costui fa gli uomini arditi e valorosi; ma di ciò il contrario si può mostrare. Chi fu più valoroso uomo d'Ercule, il quale innamorato mise le sue forze in oblio, e ritornò vile, filando l'accia con le femine di Iole? Veramente, alle cose ove dubbio non corre, gente arditissima sono gl'innamorati; e se dove dubbio corre si mostrano arditi, e mettonvisi, non amore, ma poco senno a ciò li tira, per avere poi vanagloria nel cospetto delle sue donne, avvegna che questo rade volte avviene, che dubitano tanto di perdere il diletto della cosa amata, che essi consentono avanti d'essere tenuti vili. E non ancora dubitiamo che questi mise ogni dolcezza nella cetara d'Orfeo: questo consentiamo che sia come tu porgi, ché veramente, al generale, amore empie le lingue de' suoi suggetti di tanta dolcezza e di tante lusinghe, che essi molte fiate farieno con le loro lusinghe volgere le pietre, non che i cuori mobili e incostanti; ma di vile uomo è atto il lusingare! Come adunque diremo che tal signore si deggia seguire per bene propio del seguitore? Certo questi coloro in cui dimora fa dispregiare i savi e utili consigli: e male per li troiani non furono da Paris uditi quelli di Cassandra. Non fa costui similmente a' suoi sudditi dimenticare e dispregiare la loro fama buona, la quale dee da tutti, come etterna erede della nostra memoria, rimanere in terra dopo le nostre morti? Quanto la contaminasse Egisto basti per essemplo, avvegna che Silla non meglio operasse che Pasife. Non è costui cagione di rompere i santi patti e la pura fede promessa? Certo sì. Che aveva fatto Adriana a Teseo, per la quale cosa rompendo i matrimoniali patti, dando a' venti sé con la donata fede, misera la dovesse ne' diserti scogli abandonare? Un poco di piacere, veduto negli occhi di Fedra dallo scelerato, fu cagione di tanto male, e di cotal merito del ricevuto onore. In costui ancora niuna legge si truova: e che ciò sia vero, mirisi all'opere di Tireo, il quale, ricevuta Filomena dal pietoso padre, a lui carnale cognata, non dubitò di contaminare le sacratissime leggi tra lui e Progne, di Filomena sorella, matrimonialmente contratte. Questi ancora, chiamandosi e faccendosi chiamare iddio, le ragioni degli iddii occupa. Chi porria mai con parole le iniquità di costui narrare appieno? Egli, brievemente, ad ogni male mena chi 'l segue: e se forse alcune virtuose opere fanno i suoi seguaci, che avviene rado, con vizioso principio le incominciano, disiderando per quelle più tosto venire al disiderato fine del laido lor volere. Le quali non virtù ma vizio più tosto si possono dire, con ciò sia cosa che non sia da riguardare ciò che l'uomo fa, ma con che animo, e quello vizio o virtù riputare, secondo la volontà dell'operante: però che già mai cattiva radice non fece buono arbore, né cattivo arbore buon frutto. Adunque questo amore è reo, e se egli è reo, è da fuggire: e chi le malvage cose fugge, per consequente segue le buone, e così è buono e virtuoso. Il principio di costui niuna altra cosa è che paura, il suo mezzo peccato e il suo fine dolore e noia: deesi adunque fuggire e per riprovarlo e temere d'averlo in sé, però che egli è impetuosa cosa, né in niuno suo atto sa aver modo, e è sanza ragione. Egli è sanza dubbio guastatore degli animi, e vergogna e angoscia e passione e dolore e pianto di quelli; e mai sanza amaritudine non consente che stia il cuore di chi il tiene. Dunque chi loderà che questi sia da seguire, se non gli stolti? Certo, se licito ne fosse, volentieri sanza lui viveremmo, ma tardi di tal danno ci accorgiamo; convienci, poi nelle sue reti siamo incappati, seguire la sua vita, in fino a tanto che quella luce, la quale trasse Enea de' tenebrosi passi, fuggendo i pericolosi incendii, apparisca a noi, e tirici a' suoi piaceri --.



[47]

Alla destra mano di Caleon una bella donna sedea, il cui nome era Pola, piacevole sotto onesto velo, la quale così cominciò a parlare, poi che la reina tacque: -- O nobile reina, voi avete al presente determinato che alcuna persona questo nostro amore seguire non dee, e io 'l consento; ma impossibile mi pare che la giovane età degli uomini e delle donne, sanza questo amore sentire, trapassare possa. Però al presente lasciando con vostro piacere la vostra sentenza, terrò che licito sia l'innamorarsi, prendendo il mal fare per debito adoperare. E questo seguendo, voglio da voi sapere quale di due donne deggia più tosto da un giovane essere amata, piacendo igualmente a lui amendune, o quella di loro che è di nobile sangue, e di parenti possente, e copiosa d'avere molto più che il giovane, o l'altra la quale né è nobile né ricca né di parenti abondevole quanto il giovane --.



[48]

Così rispose la reina a costei: -- Bella donna, ponendo che l'uomo e la donna deggia amore seguire, come avanti diceste, noi giudicheremmo che quantunque la donna sia ricca, grande e nobile più che il giovane, in qualunque grado o dignità si sia, ch'ella deggia più tosto dal giovane essere amata che quella che alcuna cosa è meno di lui, però che l'animo dell'uomo a seguire l'alte cose fu creato, dunque avanzarsi e non avvilirsi dee. Appresso ne dice un volgare proverbio: « Egli è meglio ben desiare che mal tenere ». Però amisi la più nobile donna, e la meno nobile con giusta ragione si rifiuti per nostro giudicio --.



[49]

Disse allora la piacevole Pola: -- Reina, altro giudicio sarebbe per me di tal quistione donato come udirete. Noi naturalmente tutti più i brievi che i lunghi affanni disideriamo: e che minore e più brieve affanno sia ad acquistare l'amore della meno nobile che quello della più, è manifesto: dunque si dee seguire, con ciò sia cosa che già si possa della minore dire acquistato quello che della maggiore è ad acquistare. Appresso, amando un uomo una donna di maggiore condizione che egli non è, molti pericoli ne gli possono seguire: né però ultimamente n'ha maggior diletto che d'una minore. Noi veggiamo ad una gran donna avere molti parenti, molta famiglia, e tutti riguardare ad essa sì come solleciti guardatori del suo onore, de' quali se alcuno di questo amore s'avvedesse, com'io già dissi, all'amante grave pericolo ne può seguire: quello che della meno nobile non potrebbe così di leggiere avvenire. I quali pericoli ciascuno a suo potere dee fuggire, con ciò sia cosa che chi riceve s'ha il danno, e chi 'l sa se ne ride, dicendo: « Ben gli sta; dove si metteva egli ad amare? ». Né ancora si muore più che una volta, per che ciascuno dee ben guardare come quella una viene a morire, e dove, e per che cagione. E ancora è credibile cosa che la gentil donna poco il prezzerà, però che essa medesima disidererà d'amare sì alto uomo o maggiore com'ella è donna, e non minore di sé: e così costui tardi o non mai al suo disio perverrà. E della minore gli avverrà il contrario, però ch'ella si glorierà d'essere amata da tanto amante, e ingegnerassi di piacergli per nutricare l'amore. E dove questo non fosse, la potenza dell'amante potrà sanza paura fare il suo disio adempiere: però io terrei che amare si dovesse la minore più tosto che l'altra --.



[50]

-- E' v'inganna il parere -- disse la reina alla bella donna, -- però che amore ha questa natura, che quanto più si ama, più si disidera d'amare: e questo per quelli che per lui maggiore doglia sentono si può comprendere, i quali, avvegna che quella molto gli molesti, ognora più amano, né alcuno col cuore tosto la sua fine disidera, ben che 'l mostri con le parole. Dunque, ben che i piccoli affanni si cerchino da' pigri, da' savi sono le cose, che con più affanno s'acquistano, più graziose e dilettevoli tenute: però la minore donna amare ad acquistarla saria, come voi dite, poco affanno, e però poco cara, e brieve l'amore, e seguiriasi che amando si disiderasse di meno amare, che è contro alla natura d'amore, come di sopra dicemmo. Ma della grande, che con affanno s'acquista, avviene il contrario, però che, sì come in cara cosa e con fatica acquistata, ogni sollecitudine si pone a ben guardare il guadagnato amore, e così ognora più si ama, e più il diletto e 'l piacere dura. Ma se volete dire che il dubbio, de' parenti ci sia, noi nol neghiamo, e questa è una delle cagioni perch'elli è affanno ad avere l'amore d'una gran donna: ma i discreti con occulta via procedono in tali bisogne, ché non è dubbio che delle grandi e delle piccole donne, ciascuna secondo il suo potere, è amato e guardato l'onore da' parenti, e così poria il folle nella mala ventura incappare amando basso come in alto luogo. Ma chi sarà colui che Fisistrato di crudeltà trapassi, offendendo chi le cose sue ama, sanza pensare avanti quello che poi farà a chi l'avrà in odio? Dite ancora mai costui di maggior donna di sé potere venire a fine del suo disio amandola: dicendo che la donna maggiore di sé disidererà d'amare e lui niente pregerà, mostra che ignoto vi sia che il più picciolo uomo, quanto alla naturale virtù, sia di maggiore condizione e di migliore che la maggiore donna del mondo. Dunque, qualunque uomo ella disidererà, di maggiore condizione di sé il disidererà. Fa bene però il virtuoso vivere e 'l vizioso i piccioli grandi, e' grandi piccioli molte volte: non per tanto qualunque donna sarà da qualunque uomo con debito stile sollecitata, sanza dubbio a disiderato fine se ne perviene, ben che con più affanno d'una grande che d'una piccola. E noi veggiamo che per continua caduta la molle acqua rompe e fora le dure pietre: però nullo d'amare alcuna si disperi. Tanto di bene seguirà a chi maggiore donna di sé amerà, che egli s'ingegnerà, per piacerle, belli costumi avere, di nobili uomini compagnia, ornato e dolce parlare, ardito alle 'mprese e splendido di vestire. E se l'acquisterà, più gloria nell'animo n'avrà e più diletto: e similemente nel parlare della gente sarà essaltato, se non ne gli misviene. Seguasi adunque la più nobile, come avanti dicemmo --.



[51]

Ferramonte, duca di Montoro, appresso la piacevole Pola sedea, e così, poi che la loro reina ebbe parlato, a lei cominciò a dire: -- Consentendo a questa donna che amare si convenga, risposto le avete alla sua quistione che più tosto nobile donna, più di sé che meno, si dee amare. La qual cosa assai bene si può consentire per quelle ragioni che mostrate n'avete. Ma con ciò sia cosa che ancora delle gentili donne siano alcune diverse maniere, cioè in diversi abiti dimoranti, le quali, per quello che si crede, diversamente amano, qual più qual meno, qual più fervente qual più tiepidamente, disidero di sapere da voi, di cui più tosto un giovane, per più felicemente il suo di sio ad effetto conducere, si dee innamorare di queste tre, o di pulcella o di maritata o di vedova --.



[52]

Al quale la reina rispose così: -- Delle tre l'una, cioè la maritata, in niun modo è da disiderare, però ch'ella non è sua, né sta in sua libertà il potersi donare o concedersi ad alcuno: e il volerla o prenderla è commettere contra le divine leggi, e eziandio contra le naturali e positive. Alle quali offendere è un commuovere sopra di sé la divina ira, e per consequente grave giudicio: avvegna che sovente a chi tanto adentro non mira con la coscienza fa migliore amarle che alcuna dell'altre due, cioè o pulcella o vedova, quanto è per dovere avere de' suoi disii l'effetto, avvegna che alcuna volta tale amore con molto pericolo sia. E il perché tale amore a' suoi disii sovente rechi l'amante più tosto che gli altri, è questa la cagione. Manifesto è che quanto più nel fuoco si soffia più s'accende, e sanza sonarvi s'amorta; e quasi tutte l'altre cose usandole mancano: la libidine quanto più s'usa più cresce. La vedova per essere lungamente stata sanza tale effetto, quasi come se non fosse il sente, e più con la memoria che con la concupiscenza si riscalda. La zita che ciò si sia ancora non conosce, se non con imaginazione: però tiepidamente disia. E però la maritata, sovente in tali cose raccesa più ch'altra, tali effetti disidera; e tal volta le maritate sogliono da' mariti oltraggiose parole e fatti ricevere, delle quali volentieri prenderieno vendetta se potessero, e niuna via più presta è loro rimasa che donare il suo amore a chi le stimola di volerlo, in dispetto del marito. E avvegna che in tale maniera la vendetta sia e convenga essere molto occulta per non crescere l'onta, nondimeno elle sono nell'animo contente. Poi il sempre usare un cibo è tedioso, e sovente abbiamo veduto i dili cati per li grossi cibi lasciare, tornando poi a quelli quando l'appetito degli altri è contentato. Ma però che, come dicemmo, licito non è l'altrui cose con ingiusta cagione disiderare, le maritate lasceremo a' loro mariti, e prenderemo dell'altre, delle quali copiosa quantità ci para davanti agli occhi la nostra città, e più tosto le vedove seguiremo amando che le pulcelle, però che le pulcelle, rozze e grosse a tale mestiere, non sanza molto affanno si recano abili a' disiderii dell'uomo: quello che nelle vedove non bisogna. Appresso, se le pulcelle amano, esse non sanno che si disiderare, e però con intero animo non seguono i vestigii dell'amante come le vedove, in cui già l'antico fuoco riprende forze, e falle disiderare quello che per lungo abuso aveano obliato, e è loro tardi di venire a tale effetto, piangendo il perduto tempo, e le solinghe e lunghe notti che hanno trapassate ne' vedovi letti: però queste siano amate più tosto, secondo il nostro parere, da coloro in cui libertà il sommettersi dimora --.



[53]

Rispose allora Ferramonte: -- Reina, ciò che della maritata diceste, aveva io nell'animo diliberato che così dovesse essere, e più ora da voi udendolo ne sono certo; ma delle pulcelle e delle vedove tengo contraria oppinione, lasciando le maritate andare per le ragioni da voi poste: però che mi pare che più tosto le pulcelle che le vedove si dovriano seguire, con ciò sia cosa che l'amore della pulcella più che quello della vedova paia fermo. La vedova sanza dubbio ha già altra volta amato, e ha vedute e sentite molte cose d'amore, e i suoi dubbii, e quanta vergogna e onore seguiti di quello; e però, queste cose meglio che la pulcella conoscendo, o ama lentamente e dubitando, o, non amando fermo, disidera ora questo ora quello, e non sappiendo a quale per più diletto e onore di lei s'aggiunga, talora né l'uno né l'altro vuole, e così per la mente di lei la deliberazione vacilla, né vi può amorosa passione prendere fermezza. Ma queste cose alla pulcella sono ignote, e però, come a lei è avviso che ella molto piaccia a uno de' molti giovani, così sanza più essaminazione quello per amante elegge, e a lui solo il suo amore dispone sanza saper mostrare alcuno atto contrario al suo piacere per più fermo l'amante legare: niuna altra deliberazione è da lei al suo innamorare cercata. Dunque tutta è pura a' piaceri di colui che le piace semplicemente, e tosto si dispone, lui per signore solo servando nel ferito cuore; quello che, come già dissi, della vedova non avviene: però più da seguire. Appresso, di quelle cose che mai alcuno non ha vedute, udite o provate, con più efficacia l'aspetta, e le disidera di vedere, udire o provate, che chi molte fiate vedute, udite o provate l'ha. E questo è manifetto, tra l'altre cagioni per le quali il vivere molto ci diletta, e è disiato lungo da noi, è per vedere cose nuove, cioè ancora da noi non state vedute: e ancora, più che per nuove cose vedere, ci è diletto di correre con sollicito passo a quello che noi più che altro ci ingegnamo e disideriamo di fuggire, cioè la morte, ultimo fine de' nostri corpi. La pulcella mai quel dilettoso congiungimento per lo quale noi vegnamo nel mondo non conobbe, e naturale cosa è d'ogni creatura a quello essere dal disio tirato. Appresso, ella molte fiate, da quelle che sanno quello che è, ha udito quanta dolcezza in quello consista, le quali parole hanno aggiunto fuoco al disio, e però, tiratavi dalla natura e dal disio di provare cosa da lei non provata dalle parole udite, ardentemente e con acceso cuore questo congiungimento disidera: e d'averlo, con cui è da presumere, se non con colui il quale ella ha già fatto signore della sua mente? Questo ardore non sarà nella vedova, però che provandolo la prima volta e sentendo quello che era, si spense: dunque la pulcella amerà più e più sollecita sarà, per le ragioni dette, a' piaceri dell'amante che la vedova. Che andremo dunque più inanzi cercando che amare non si debbia più tosto la pulcella che la vedova? --.



[54]

-- Voi -- disse la reina -- argomentate bene al vostro parere difendere; ma noi vi mostreremo con aperta ragione come voi dovete quello che noi di questa quistione tegnamo similemente tenere, se alla natura d'amore con diritto occhio si mira, così nella pulcella come nella vedova. E così nella vedova come nella pulcella il vedremo potere essere fermo e forte e costante: e in ciò Dido e Adriana ci porgono con le loro opere questo essere vero. E dove questo amore e nell'una e nell'altra non sia, niuna delle predette operazioni ne seguirà: dunque conviene che ciascuna ami, se quello che voi e noi già dicemmo vogliamo che ne segua. E però amando e la pulcella e la vedova, sanza andar cercando chi più distrattamente s'innamora, ché siamo certa della vedova, vi mostreremo che la vedova più sollecita è a' piaceri dell'amante che la pulcella. E' non è dubbio che tra l'altre cose che la femina ha sopra tutte cara è la sua virginità: e ciò è ragione, però che in quella tutto l'onore della seguente sua vita vi consiste, e sanza dubbio ella non sarà mai tanto da amore stimolata che ella volentieri ne sia cortese, se non a cui ella per matrimoniale legge si crederà per isposo congiungere. E questo noi non l'andiamo cercando, ché non è dubbio che chi vuole amare per isposa avere, che egli più tosto pulcella che vedova dee amare: dunque tarda e negligente sarà a donarsi a chi per tale effetto non l'amerà, e ella il sappia. Appresso, le pulcelle al generale sono timide, né sono astute a trovare le vie e' modi per le quali i furtivi diletti si possono prendere: di queste cose la vedova non dubita, però che ella già donò onorevolemente quello che costei aspetta di donare, e è sanza, e però non dubita che, se se medesima dona ad altrui, quel segnale l'accusi. Poi ella, come più arrischiante, perché, come è detto, la maggiore cagione che porge dubbio non è con lei, conosce meglio le occulte vie, e così le mette in effetto. Vero è che voi dite che la pulcella, sì come disiderosa di cosa che mai non provò, a questo più fia sollicita che la vedova, che quello che è conosce: ma egli è di ciò che voi dite il contrario. Le pulcelle a tale effetto per diletto non corrono le prime volte, però che egli è loro più noia che piacere, avvegna che a quella cosa che diletta quante più fiate si vede o ode o sente, più piace, e più è sollicito ciascuno a seguirla: questa cosa di che noi ragioniamo non segue l'ordine e la maniera di molte altre, che, vedute una volta o due, più non si cercano di vedere, anzi quante più volte in effetto si mette, tante e con più affezione è cercato di ritornarvi, e più disidera colui la cosa a cui ella piace, che colui a cui ella dee piacere, né ancora n'ha gustato. Però la vedova, con ciò sia cosa che ella doni meno, e più le sia il donare agevole, più sarà liberale e più tosto che la pulcella, che donare dee la più cara cosa ch'essa ha. E ancora sarà più la vedova tirata, come mostrato avemo, a tale effetto che la pulcella: per le quali cagioni amisi più tosto la vedova che la pulcella.



[55]

Convenne, appresso a Ferramonte, ad Ascalion proporre, il quale in cerchio dopo lui sedea, e così disse: -- Altissima reina, io mi ricordo che già fu nella nostra città una bella e nobile donna rimasa di valoroso marito vedova, la quale per le sue mirabili bellezze era da molti nobili giovani amata, e, oltre a molti, due gentili e valo rosi cavalieri, ciascuno quanto potea l'amava. Ma per accidente avvenne che ingiusta accusa di costei fu posta da' suoi parenti nel cospetto del nostro signore, e, appresso, per iniqui testimoni provata: per le quali inique prove ella meritò d'essere al fuoco dannata. Ma però che la coscienza del dannatore era perplessa, però che le inique prove quasi conoscere gli parea, volendo agl'iddii e a' fortunosi casi la vita di quella commettere, cotale condizione aggiunse alla data sentenza: che poi che la donna fosse al fuoco menata, se alcuno cavaliere si trovasse il quale per la salute di lei combattere volesse contro al primo che a quella dopo lui s'opponesse, quello a cui vittoria ne seguisse, ciò che egli difendea se ne facesse. Udita la condizione da' due amanti, e per ventura dall'uno prima che dall'altro, quelli che prima l'udì prese l'armi subitamente, e salito a cavallo venne al campo, contradicendo a chi contravenire gli volesse la morte della donna. L'altro che più tardi sentito avea questo, udendo che già era al campo colui per la difesa di lei, né altri più v'avea luogo ad andare per tale impresa, non sappiendo che si fare, si doleva imaginando che l'amore della donna per sua tardezza avea perduto, e l'altro giustamente l'avea guadagnato. E così dolendosi, gli venne pensato che se prima che alcuno altro al campo andasse armato, dicendo che la donna dovea morire, egli, lasciandosi vincere, la potea scampare: e così il pensiero mise in effetto, e fu campata la donna. Liberata adunque la donna, dopo alquanti giorni, il primo cavaliere andò a lei, e sé umilemente le raccomandò, ricordandole come egli per lei campare da morte a mortale pericolo pochi giorni davanti s'era posto, e, mercé degl'iddii e della sua forza, lei e sé da tale accidente avea campato: onde per questo le piacesse, in luogo di merito, il suo amore, il quale sopra tutte sempre disiderato avea, donare. E appresso con simile preghiera venne il secondo cavaliere, dicendo che a rischio di morire per lei s'era messo: « e ultimamente perché voi non moriste, sostenni di lasciarmi vincere, onde etterna infamia me ne seguirà, dov'io avrei vittorioso onore potuto acquistare, volendo incontro la vostra salute avere le mie forze operate ». La donna ciascuno ringraziò benignamente, promettendo debito guiderdone ad amenduni del ricevuto servigio. Rimase adunque la donna, costoro partiti, in dubbio a cui il suo amore donare dovesse, o al primo o al secondo, e di ciò dimanda consiglio: a quale direste voi ch'ella il dovesse più tosto donare? --.



[56]

-- Noi terremo -- disse la reina -- che il primo sia da amare, e l'ultimo da lasciare, però che il primo operò forza e dimostrò il buono amore con sollecito modo, dando se medesimo a ogni pericolo infino alla morte, il quale per la futura battaglia potesse adivenire. La quale assai bene gliene potea seguire, con ciò sia cosa che se sollicito fosse stato a tale battaglia fare contra di lui alcuno de' nemici della donna come fu l'amante, egli era a pericolo di morire per difendere lei; né manifesto gli fu che contro lui dovesse uscire uno che vincere si lasciasse, come avvenne. L'ultimo, veramente, andò avvisato né di morire né di lasciar morire la donna: dunque, con ciò sia cosa che egli meno mettesse in avventura, meno merita di guadagnare. Aggia, adunque, il primo l'amore della donna bella sì come giusto guadagnatore di quello --.



[57]

Disse Ascalion: -- O sapientissima reina, che è ciò che voi dite? Non basta una volta essere meritato del bene, sanza più meriti domandare? Certo sì. Il primo è merita to, però che da tutti per la ricevuta vittoria è onorato: e che più merito gli bisogna se amore è merito della virtù? A maggior cosa ch'egli non fece basteria il ricevuto onore. Ma colui che con senno venne avisato, dee essere sanza guiderdone e, poi, da tutti vituperato, avendo sì bene come il primo scampata la donna? Non è il senno da anteporre ad ogni corporale forza? Come costui, se con la salute della donna venne, dee per merito essere abandonato? Cessi che questo sia. Se egli nol seppe tosto come l'altro, questa non fu negligenza, ché, se saputo l'avesse, forse prima che l'altro corso sarebbe a quello che l'altro corse. Quello che prese per ultimo rimedio il prese discretamente, di che merito giustamente gli dee seguire, il quale merito dee essere l'amore della donna, se dirittamente si guarda; e voi dite il contrario --.



[58]

-- Passi della mente vostra che il vizio, a fine di bene operato, meriti il guiderdone che la virtù, a simile fine operata, merita; anzi in quanto vizio merita correzione: alla virtù niuno mondano merito può giustamente satisfare. Chi ci vieterà ancora che noi non possiamo con aperta ragione credere che l'ultimo cavaliere, non per amore che alla donna portasse, ma, invidioso del bene che all'altro vedea apparecchiato, per isturbare quello, si mosse a tale impresa, e misvennegli? Folle è chi sotto colore di nemico s'ingegna di giovare per ricever merito. Infinite sono le vie per le quali possibile ci è con aperta amicizia poter mostrare l'amore che alcuno porta ad alcuno altro, sanza mostrarsi nemico, e poi con colorate parole voler mostrare d'aver giovato. Basti oramai per risponsione ciò che detto avemo a voi, il quale la lunga età dee più che gli altri fare discreto. Crediamo che quando queste poche parole per la mente debitamente avrete digeste, troverete il nostro giudicio non fallace, ma vero e da dovere essere seguito --. E qui si tacque.



[59]

Seguiva poi una donna onesta nell'aspetto molto, il cui nome Graziosa è interpetrato: e veramente in lei è il nome consonante all'effetto; la quale con umile e modesta voce cominciò queste parole: -- A me, o bella reina, viene il proporre la mia questione, la quale, acciò che il tempo che oramai alla lasciata festa s'apresta, e fassi dolce a ricominciarla, non si metta solo in sermone, assai brievemente porrò; e se licito mi fosse, volontieri sanza porla mi passerei, ma per non trapassare la vostra obedienza e degli altri l'ordine, porrò questa: qual sia maggiore diletto all'amante, o vedere presenzialmente la sua donna, o, non vedendola, di lei amorosamente pensare --.



[60]

-- Bella donna -- disse la reina, -- noi crediamo che molto più diletto pensando si prenda che riguardando, però che, pensando alla cosa amata graziosamente, gli spiriti sensitivi tutti allora sentono mirabile festa, e quasi i loro accesi disii in quel pensiero con diletto contentano; ma nel riguardare, ciò non avviene, però che solo il visuale spirito sente bene, e gli altri accende di tanto disio che sostenere nol possono, e rimangono vinti: e esso talora tanta parte prende del suo piacere, che a forza gli conviene indietro tirarsi, rimanendo vile e vinto. Dunque più diletto terremo il pensare --.



[61]

-- Quella cosa ch'è amata -- rispose la donna -- quanto più si vede più diletta: e però io credo che molto maggior diletto porga il riguardare che non fa il pensare, però che ogni bellezza prima per lo vederla piace, poi per lo continuato vedere nell'animo tale piacere si conferma, e generasene amore e quelli disii che da lui nascono. E niuna bellezza è tanto amata per alcuna altra cagione, quanto per piacere agli occhi, e contentare quelli; dunque, vedendola, si contentano, pensandone, loro di vederla s'accresce disio: e più diletto sente chi si contenta che chi di contentarsi disidera. Noi possiamo per Laudomia vedere e conoscere quanto più il presenzialmente vedere che il pensare diletti, però che credere dobbiamo che mai il suo pensiero dal suo Protesilao non si partiva, né già per questo mai altro che malinconica si vide, rifiutando d'ornarsi e di vestirsi i cari vestimenti; quello che, vedendolo, mai non le avvenia, ma lieta e graziosa e adorna sempre e festeggiando stava, quando nella sua presenza dimorava. Che dunque più manifesto testimonio vogliamo che questo, d'allegrezza più nel vedere che nel pensare, con ciò sia cosa che per gli atti esteriori si possa quello che nel cuore si nasconde comprendere? --.



[62]

La reina allora così rispose: -- Quelle cose, e dilettevoli e noiose, che più all'anima s'appressano, più noia e gioia porgono che le lontane. E chi dubita che il pensiero non dimori nell'anima medesima e l'occhio a quella si truovi assai lontano, ben che elli per particolare virtù di lei abbia la vista, e convengagli per molti mezzi le sue percezioni allo 'ntelletto animale rendere? Dunque, avendo nell'anima un dolce pensiero della cosa amata, in quell'atto che il pensiero gli porge, in quello con la cosa amata essere gli pare. Egli allora la vede con quelli occhi a cui niuna cosa per lunga distanza si può celare. Egli allora parla con lei e forse narra con pietoso stile le passate noie per l'amore di lei ricevute. Allora gli è lecito sanza alcuna paura di abbracciarla. Allora mirabilmente, secondo il suo disio, festeggia con essa. Allora ad ogni suo piacere la tiene. Quello che del mirare non avviene, però che quello solo aspetto primo n'ha sanza più. E come noi davanti dicemmo, amore, paurosa e timida cosa, tanto nel cuore gli trema riguardando, che né pensiero né spirito lascia in suo luogo. Molti già, le loro donne guardando, perderono le naturali forze e rimasero vinti, e molti non potendo muoversi si fissero; e alcuni incespicando e avolgendo le gambe caddero, altri ne perderono la parola, e per la vista molte cose simili ne sappiamo essere avvenute: e queste cose assai saria suto caro, a coloro a cui avemo detto, che avvenute non fossero. Dunque, come porge diletto quella cosa che volontieri si fuggiria? Noi confessiamo bene che, se possibile fosse sanza terna il riguardare, che gran diletto saria, ma nulla sanza il pensiero varria: ma il pensiero sanza la corporale veduta piace assai. E che del pensiero possa avvenire ciò che dicemmo, è manifesto che sì, e molto più ancora: che noi troviamo già uomini col pensiero avere trapassati i cieli e gustata della etterna pace. Dunque, più il pensare che il vedere diletta. Se di Laudomia dite che malinconica si vedea pensando, non lo neghiamo: ma amoroso pensiero non la turbava, anzi doloroso. Ella quasi indovina a' suoi danni, sempre della morte di Protesilao dubitava, e a questa pensava: né questo è de' pensieri de' quali ragioniamo, i quali in lei entrare non poteano per quella dubitazione; anzi dolendosi con ragione mostrava il viso turbato --.



[63]

Parmenione sedeva appresso a questa donna, e sanza altro attendere, come la reina tacque, così cominciò dire: -- Gentile reina, io fui lungamente compagno d'un giovane, al quale ciò che io intendo di narrarvi avvenne. Egli tanto quanto mai alcun giovane amasse donna, amava una giovane della nostra città bellissima e graziosa, gentile e ricca d'avere e di parenti molto, e essa molto amava lui, per quello che io conoscessi, a cui questo amore solamente era scoperto. Amando adunque questi questa con segretissimo stile, temendo non si palesasse, in niuna maniera a costei potea parlare, acciò che il suo intendimento le discoprisse e di quello di lei s'accertasse; né a persona se ne fidava che questo di parlare tentasse. Ma pure stringendolo il disio propose, poi che egli a lei dire nol poteva, di farle per altrui sentire ciò che per amore di lei sostenea. E riguardato più giorni per cui più cautamente tale bisogna significare le potesse, vide un dì una vecchia povera, vizza, ranca e dispettosa tanto, quanto alcuna trovare se ne potesse, la quale, entrata nella casa della giovane, e cercata limosina, con essa se ne uscì; e più volte poi in simile atto e per simile cagione ritornare la vide. In costei si pose costui in cuore di fidarsi, imaginando che mai sospetta non saria tenuta e compiutamente le poria il suo intendimento fornire: e chiamatala a sé, grandissimi doni le promise, se aiutare il volesse in quello ch'egli le domanderebbe. Ella giurò di fare tutto suo potere: a cui questi allora disse il suo volere. Partissi la vecchia dopo picciolo spazio di tempo, accertata la giovane dell'amore che il mio compagno le portava, e lui similemente come ella sopra tutte le cose del mondo lui amava, e occultamente ordinò questo giovane essere una sera con la disiata donna. E messalisi inanzi, come ordinato avea, alla casa di costei il menò. Dove egli non fu prima venuto, che, per suo infortunio, la giovane, la vecchia e esso furono da' fratelli della giovane insieme tutti e tre trovati e presi: e costretti di dire la verità che quivi facessero, confessarono quello che era. Erano costoro amici del giovane, e conoscendo che a niuna loro vergogna costui era ancora pervenuto, non lo vollero offendere, che poteano, ma ridendo, gli posero questo partito, dicendo così: « Tu se' nelle nostre mani, e hai cercato di vituperarci, e di ciò noi ti possiamo punire se noi vogliamo; ma di queste due cose l'una ti conviene prendere, o vuoi che noi t'uccidiamo o vuoi con questa vecchia e con la nostra sorella, con ciascuna, dormire un anno, giurando lealmente che, se tu prenderai di dormire con costoro due anni e il primo con la giovane, che tante volte quante tu la bacerai o ciò che tu le farai, altretante il secondo anno bacerai o farai alla vecchia; o se la vecchia il primo anno prenderai, tante volte quante la bacerai o toccherai, tante simigliantemente e non più né meno la giovane nel secondo anno farai ». Il giovane ascoltato il partito, vago di vivere, disse di volere con le due due anni dormire. Fugli consentito: rimase in dubbio da quale dovesse inanzi cominciare, o dalla giovane o dalla vecchia. Di quale il consigliereste voi per più sua consolazione che egli dovesse avanti pigliare? --.



[64]

Alquanto sorrise la reina di questa novella, e similmente i circunstanti, e poi così rispose: -- Secondo il nostro parere il giovane dovria più tosto la bella donna giovane che la vecchia pigliare, però che niun bene presente si dee per lo futuro lasciare, né pigliare male per futuro bene è senno, però che delle cose future incerti siamo; e di questo faccendo il contrario, molti già si dolfero; e se alcuno se ne lodò, non dovere, ma fortuna in ciò gli aiutò. Prendasi adunque la bella inanzi --.



[65]

-- Molto mi fate maravigliare -- disse Parmenione, -- dicendo che presente per futuro bene lasciare non si dee: a che fine, dunque, con forte animo ci conviene seguire e sostenere i mondani affanni, dove fuggire li potremo, se non per gli etterni regni promessi a noi dalla speranza futuri? Mirabile cosa è che tanta gente, quanta nel mondo dimora, tutti affannando a fine di riposo sentire alcuna volta vanno, come in tale errore fossero tanto dimorano, potendosi riposare avanti, se l'affanno, dopo il riposo, fosse migliore che davanti. Giusta cosa mi pare dopo l'affanno riposo cercare; ma sanza affanno voler posare, secondo il mio giudicio, non dee né può essere diletto. Chi dunque consiglierà alcuno che prima sia da dormire un anno con una bella donna, la quale sia solo riposo e gioia di colui che con lei si dee giacere, mostrandogli appresso dovergli seguire tanta noiosa e spiacevole vita, quanto con una laida vecchia dovere altretanto in tutti atti usare che con la giovane è dimorato? Niuna cosa è tanto noiosa al dilettoso vivere quanto il ricordarsi che al termine dalla morte segnato ci conviene venire. Questa, tornandoci nella memoria sì come nemica e contraria del nostro essere, ogni bene ci turba: né mentre questo si ricorda, si può sentire gioia nelle mondane cose. Così similmente niuno diletto con la giovane si potrà avere che turbato e guasto non sia, ricordandosi che altretanto fare si convenga con una vilissima vecchia, la quale sempre davanti agli occhi della mente gli dimorerà. Il tempo, che vola con infallibili penne, gli parrà che trasvoli, scemando a ciascun giorno delle dovute ore grandissima quantità; e così la letizia, essendo dove futura tristizia infallibile s'aspetta, non si sente: però io terrei che il contrario fosse migliore consiglio, ché ogni affanno, di cui grazioso riposo s'aspetta, è più dilettevole che il diletto per cui noia è sperata. Le fredde acque pareano calde, e il tenebroso e pauroso tempo della notte parea chiaro e sicuro giorno, e l'affanno riposo a Leandro andando ad Ero, con la forza delle sue braccia notando per le salate onde tra Sesto e Abido, per lo diletto che da lei aspettante attendea d'avere. Cessi, adunque, che l'uomo voglia prima il riposo che la fatica, o prima il guiderdone che fare il servigio, o il diletto che la tribulazione, con ciò sia cosa che, come già è detto, se a quel modo si prendesse, la futura noia impediria tanto la presente gioia, che non gioia, ma presso che noia dire si potrebbe. Che diletto poteano dare i dilicati cibi e gli strumenti sonati da maestre mani e l'altre mirabili feste fatte davanti al fratello di Dionisio, poi ch'egli sopra il capo si vide con sottile filo pendere uno aguto coltello? Fuggansi adunque prima le dolenti cagioni, poi si seguano con piacevolezza e sanza sospetto i graziosi diletti --.



[66]

Rispose a costui la reina: -- Voi ne rispondete in parte come se degli etterni beni ragionassimo, per li quali acquistare non è dubbio che ogni affanno se ne dee prendere, e ogni mondano bene e diletto lasciare: ma noi al presente non parliamo di quelli, ma de' mondani diletti e delle mondane noie quistioniamo; a che noi rispondiamo, come prima dicemmo, che ogni mondano diletto si dee più tosto prendere che mondana noia ne segua, anzi che mondana noia per mondano diletto aspettare, però che chi tempo ha e tempo aspetta, tempo perde. Concede la fortuna con varii mutamenti i suoi beni, i quali più tosto sono da pigliare quando li dona, che volere affannare per dopo l'affanno averli. Ma se la sua ruota stesse ferma, infino che l'uomo avesse affannato, per non dovere più affannare, diciamo che si poria consentire di pi gliare prima l'affanno: ma chi è certo che dopo il male non possa così seguire peggio, come il bene che s'aspetta? I tempi insieme con le mondane cose sono transitorii. Prendendo la vecchia, prima che l'anno compia, il quale non parrà che mai venga meno, potrà la giovane morire, o i fratelli di lei pentersi, o essere donata altrui, o forse rapita, e così dopo male, peggio seguirà al prenditore; ma se la giovane fia presa, avranne il prenditore primieramente il suo disio tanto tempo da lui disiderato, né ne gli seguirà però quella noia che voi dite che nel pensiero ne gli dee seguire: però che il dovere morire è infallibile, ma il giacere con una vecchia fia accidente da potere con molti rimedii da uomo savio cessare. E le mondane cose sono da essere prese da' discreti con questa legge, che alcuno mentre le tiene le goda, disponendosi con liberale animo a renderle overo lasciarle, quando richieste saranno. Chi affanna per riposare, manifesto essemplo ne porge che riposo sanza quello avere non puote, e poi che egli prende l'affanno per avere il riposo, quanto più è da presumere che se il riposo gli fosse presto come l'affanno, ch'egli più tosto quello che questo prenderebbe? E non è da credere che se Leandro avesse potuto avere Ero sanza passare il tempestoso braccio di mare dov'egli poi perì, ch'egli non l'avesse più tosto presa che notato? Convengonsi le cose della fortuna pigliare quando sono donate. Niuno sì picciolo dono è che migliore non sia che una grande impromessa: prendansi alle future cose rimedii, e le presenti secondo la loro qualità si governino. Naturale cosa è di dovere più tosto il bene che il male pigliare, quando igualmente concorrono: e chi fa il contrario, non naturale ragione ma sua follia segue. Ben confessiamo però che dopo l'affanno è più grazioso il riposo che prima, e meglio conosciuto, ma non che sia più tosto da pigliare. Possibile è agli uomini folli e a' savi usare i consigli e de' folli e de' savi, secondo il loro parere, ma però la infalli bile verità non si muta, la quale ci lascia vedere che più tosto la bella e giovane donna, che la vecchia e laida, sia da prendere da colui a cui tale partito donato fosse --.



[67]

Messaallino, il quale tra la destra mano della reina e di Parmenione sedeva compiendo il cerchio, disse così appresso: -- Ultimamente a me conviene proporre, e, acciò ch'io le belle novelle dette e le quistioni proposte avanti faccia più belle, una novelletta assai graziosa a udire, nella quale una quistione assai leggiera a terminare cade, dirò. Io udii già dire che nella nostra città un gentile uomo ricco molto avea per sua sposa una bellissima e giovane donna, la quale egli sopra tutte le cose del mondo amava. Era questa donna da un cavaliere della detta città per amore intimamente amata, ma ella né lui amava né di suo amore si curava: per la qual cosa il cavaliere mai da lei né parola né buon sembiante avea potuto avere. E così sconsolato di tale amore vivendo, avvenne che al reggimento d'una città, assai alla nostra vicina, fu chiamato ove egli andò, e quivi onorevolemente avendo retto gran parte del tempo che dimorare vi dovea, per accidente gli venne un messaggere, il quale dopo altre novelle così gli disse: « Signor mio, siavi manifesto che quella donna la quale voi sopra tutte l'altre amavate nella nostra città, questa mattina, volendo partorire, per greve doglia non partorendo morì, e onorevolemente co' suoi padri in mia presenza fu sepellita ». Con greve doglia ascoltò il cavaliere la novella e con forte animo la sostenne, non mostrando nel viso per quella alcun mutamento; e così fra se medesimo disse: « Ahi, villana morte, maladetta sia la tua potenza! Tu m'hai privato di colei cui io più ch'altra cosa amava, e cui io più disiderava di servire, ben che verso di me la conoscessi crudele. Ma poi che così è avvenuto, quello che amore nella vita di lei non mi volle concedere, ora ch'ella è morta nol mi potrà negare: ché certo, s'io dovessi morire, la faccia, che io tanto viva amai, ora morta converrà che io baci ». Aspettò dunque il cavaliere la notte, e, preso uno de' più fidi famigliari che avea, con lui per le oscure tenebre si mise a gire alla città, nella quale pervenuto, sopra la sepoltura dove sepellita era la donna se n'andò, e quella aperse, e confortando il compagno che 'l dovesse sanza alcuna paura attendere, entrò in quella e con pietoso pianto dolendosi cominciò a baciare la donna e a recarlasi in braccio. E dopo alquanto, non potendosi di baciare costei saziare, la cominciò a toccare e a mettere le mani nel gelato seno fra le fredde menne, e poi le segrete parti del corpo con quelle, divenuto ardito oltre al dovere, cominciò a cercare sotto i ricchi vestimenti: le quali andando tutte con timida mano tentando sopra lo stomaco la distese, e quivi con debole movimento sentì li deboli polsi muoversi alquanto. Divenne allora questi non poco pauroso, ma amore il facea ardito: e ricercando con più fidato sentimento, costei conobbe che morta non era; e di quel luogo la trasse con soave mutamento; e appresso involtala in un gran mantello, lasciando la sepoltura aperta, egli e 'l compagno a casa la madre del cavaliere tacitamente la ne portarono, scongiurando il cavaliere la madre per la potenza degl'iddii, che né questo né altro che ella vedesse a niuna persona manifestare dovesse. E quivi fatti accendere grandissimi fuochi, i freddi membri venne riconfortando, i quali però non debitamente tornavano alle perdute forze; per la qual cosa, egli, forse in ciò discreto, fece un solenne bagno apparecchiare, nel quale molte virtuose erbe fece mettere, e appresso lei vi mise, faccendola in quella maniera che si convenia servire teneramente e governare. Nel qual bagno poi che la donna fu per alquanto spazio dimorata, il sangue, dintorno al cuore congelato per lo ricevuto fred do, caldo per le fredde vene si cominciò a spandere, e gli spiriti tramortiti cominciarono a ritornare nelli loro luoghi: onde la donna risentendosi cominciò a chiamare la madre di lei, domandando dove ella fosse. A cui il cavaliere in luogo della madre rispose che in buon luogo dimorava e ch'ella si confortasse. E in questa maniera stando, come fu piacere degl'iddii, invocato l'aiuto di Lucina, la donna, faccendo un bellissimo figliuolo maschio, da tale affanno e pericolo si liberò, rimanendo chiara e fuori d'ogni alterazione, e lieta del nato figliuolo: a cui prestamente balie alla guardia di lei e del garzone trovate furono. Ritornata adunque la donna dopo il grave affanno alla vera conoscenza, essendo già nato nel mondo il nuovo sole, davanti si vide il cavaliere che l'amava e la madre di lui, a' suoi servigii ciascuno di loro presto; e de' suoi parenti, miratosi assai dintorno, niuno vide. Per che venuta in cogitabile ammirazione, quasi tutta stupefatta disse: « Dove sono io? Qual maraviglia è questa? Chi m'ha qui, dov'io mai più non fui, recata? ». A cui il cavaliere rispose: « Donna, non ti maravigliare, confortati, ché quello che tu vedi, piacere degl'iddii è stato, e io ti dirò come ». E cominciandosi dal principio, infino alla fine come avvenuto gli era le dichiarò, conchiudendo che per lui ella e 'l figliuolo erano vivi: per la qual cosa sempre a' suoi piaceri erano tenuti. Questo sentendo la donna e conoscendo veramente che per altro modo alle mani del cavaliere non poria essere pervenuta, se non per quello che egli le narrava, prima gl'iddii con divote voci ringraziò e appresso il cavaliere, sempre a' suoi servigii e piaceri offerendosi. Disse adunque il cavaliere: « Donna, poi che a' miei voleri conoscete essere tenuta, io voglio che in giuderdone di ciò che io ho adoperato voi vi confortiate infino alla tornata mia dell'uficio al quale io fui eletto già è tanto tempo, che presso alla fine sono, e mi promettiate di mai né al vostro marito né ad altra persona sanza mia licenza pale sarvi ». A cui la donna rispose sé non potergli né questo né altro negare, e che veramente ella si conforterebbe, e con giuramento gli affermò di mai non si far conoscere sanza piacere di lui. Il cavaliere, veduta la donna riconfortata e fuori d'ogni pericolo, dimorato due giorni a' servigi di lei, raccomandata alla madre lei e 'l figliuolo, si partì e tornò all'uficio della rettoria sua, il quale dopo picciolo tempo onorevolemente finì, e tornò alla sua terra e alla casa, dove dalla donna fu graziosamente ricevuto. Dimorato adunque alcun giorno dopo la sua tornata, egli fece apparecchiare un grandissimo convito, al quale egli invitò il marito della donna amata da lui, e i fratelli di lei e molti altri. E essendo gl'invitati per sedere alla tavola, la donna, come piacere fu del cavaliere, venne vestita di quelli vestimenti i quali alla sepoltura avea portati, e ornata di quella corona, e anella e altri preziosi paramenti; e, per comandamento del cavaliere, sanza parlare a lato al suo marito mangiò quella mattina, e il cavaliere a lato al marito. Era questa donna dal marito sovente riguardata, e i drappi e gli ornamenti, e fra sé gli parea questa conoscere essere sua donna, e quelli essere i vestimenti co' quali sepellita l'avea, ma però che morta gliele parea avere messa nella sepoltura, né credea che risuscitata fosse, non ardiva a far molto, dubitando ancora non forse fosse un'altra alla sua donna simigliante, estimando che più agevole fosse a trovare e persona e drappi e ornamenti simiglianti ad altri, che risuscitare un corpo morto; ma non per tanto sovente rivolto al cavaliere domandava chi questa donna fosse. A cui il cavaliere rispondea: « Domandatene lei chi ella è, che io non lo so dire, di sì piacevole luogo l'ho menata ». Allora il marito dimandava la donna chi ella fosse. A cui ella rispondea: « Io sono stata menata da codesto cavaliere, da quella vita graziosa che da tutti è disiata, per non conosciuta via in questo luogo ». Non mancava l'ammirazione del marito per queste parole, ma cresceva: e così infino ch'ebbero mangiato dimorarono. Allora il cavaliere menò il marito della donna nella camera, e la donna e gli altri similmente che con lui aveano mangiato, dove in braccio ad una balia trovarono il figliuolo della donna, bellissimo e grazioso, il quale il cavaliere pose in braccio al padre, dicendo: « Questi è tuo figliuolo »; e dandogli la destra mano della donna, disse: « Questa è tua mogliere, e madre di costui », narrando a lui e agli altri come quivi era pervenuta. Fecero costoro tutti dopo la maraviglia gran festa, e massimamente il marito con la sua donna e la donna con lui, rallegrandosi del loro figliuolo. E ringraziando il cavaliere, lieti tornarono alle loro case, faccendo per più giorni maravigliosa festa. Servò questo cavaliere la donna con quella tenerezza e pura fede che se sorella gli fosse stata. Per che si dubita qual fosse maggiore, o la lealtà del cavaliere o l'allegrezza del marito, che la donna e 'l figliuolo, i quali perduti riputava sì come morti, si trovò racquistati, priegovi che quello che di ciò giudicherete ne diciate --.



[68]

-- Grandissima crediamo che fosse la letizia della racquistata donna e del figliuolo, e similemente la lealtà fu notabile e grande del cavaliere, ma però che naturale cosa è delle perdute cose, racquistandole, rallegrarsi, né potrebbe essere sanza perché altri volesse, e massimamente racquistando una molto amata cosa davanti, e uno figliuolo, di che non si poria tanta allegrezza fare quanta si converria, non riputiamo che sì gran cosa sia quanta una farne, a che l'uomo sia da propia virtù costretto a farla; e dell'essere leale questo adiviene, però che possibile è l'essere e 'l non essere leale. Diremo, adunque, che da cui l'essere leale in cosa tanto amata procede, ch'egli faccia grandissima e notabile cosa lealtà servando, e in molta quantità avanzi in sé la lealtà, che l'allegrezza in sé: e così terremo --.



[69]

-- Certo -- disse Messaallino, -- altissima reina, come voi dite credo che sia; ma gran cosa mi pare a pensare che a tanta letizia, quanta in colui che la donna riebbe fu, si potesse porre comparazione di grandezza in niuna altra cosa, con ciò sia cosa che maggior dolore non si sostenga che quello quando per morte amata cosa si perde. Appresso, se 'l cavaliere fu leale, come qui già si disse, egli fece suo dovere, però che tutti siamo tenuti a virtù operare: e chi fa quello a che è tenuto, bene è fatto, ma non è da riputare gran cosa. Però io imagino che giudicare maggiore l'allegrezza che la lealtà si poria consentire.



[70]

-- Voi a voi medesimo contradite nelle vostre parole -- disse la reina -- però che così si dee l'uomo rallegrare per dovere del bene che Iddio gli fa, come operare virtù; ma se essere si potesse nell'uno caso essere dolente, come nell'altro si poria disleale, poriasi al vostro parere consentire: le naturali leggi seguire, che non si possono fuggire, non è gran cosa, ma le positive ubidire è virtù dell'animo; e le virtù dell'animo e per grandezza e per ogni altra cosa sono da preporre alle corporali, e però esse opere virtuose, faccendo degna compensazione, avanzano in grandezza ogni altra operazione. Ancora si può dire che l'essere stato leale dura in essere sempre: la letizia si può in subita tristizia voltare, o diventa nulla o modica dopo poco spazio di tempo, possedendo la cosa per che lieto si diventa. E però dicasi il cavaliere essere stato più leale che colui lieto, da chi diritto vuole giudicare --.



[71]

Non seguitava appresso Messaallino alcuno più che a proporre avesse, però che tutti aveano proposto, e il sole già bassando, lasciava più temperato aere ne' luoghi. Per la qual cosa Fiammetta, reverendissima reina dell'amoroso popolo, si dirizzò in piè e così disse: -- Signori e donne, compiute sono le nostre quistioni, alle quali, mercé degl'iddii, noi secondo la nostra modica conoscenza avemo risposto, seguendo più tosto festeggevole ragionare che atto di quistionare. E similmente conosciamo molte cose più potersi intorno a quelle rispondere e migliori che noi non abbiamo dette: ma quelle che dette sono assai bastano alla nostra festa, l'altre rimangano a' filosofanti in Attene. Noi vedemo già Febo guardarci con non diritto aspetto, e sentiamo l'aere rinfrescato, e i nostri compagni avere rincominciata la festa, che qui vegnendo per troppo caldo lasciammo; e però ci pare di noi tornare similmente a quella --. E questo detto, presa con le dilicate mani la laurea corona della sua testa, nel luogo dove seduta era la pose, dicendo: -- Io lascio qui la corona del mio e vostro onore, infino a tanto che noi qui a simile ragionamento torniamo --. E preso Filocolo per la mano, che già s'era con gli altri levato, tornarono a festeggiare.



[72]

Sonarono i lieti strumenti e l'aere pieno d'amorosi canti da tutte parti si sentiva, e niuna parte del giardino era sanza festa: nella quale quel giorno infino alla sua fi ne tutti lietamente dimorarono. Ma sopravenuta la notte, mostrando già la loro luce le stelle, alla donna e a tutti parve di partire tornando alla città. Alla quale pervenuti, Filocolo, partendosi da lei, così le disse: -- Nobile Fiammetta, se gl'iddii mai mi concedessero ch'io fossi mio com'io sono d'altrui, sanza dubbio vostro incontanente sarei; ma per che mio non sono, ad altrui donare non mi posso: non per tanto quanto il misero cuore puote ricevere fuoco strano, di tanto per lo vostro valore si sente acceso, e sentirà sempre, ognora con più effetto disiderando di mai non mettere in oblio il vostro valore --. Assai fu Filocolo da lei ringraziato nel suo partire, aggiungendo che gl'iddii tosto in graziosa pace ponessero i suoi disii.



[73]

Tornato così Filocolo al suo ostiere, quella notte con molti pensieri passò, fra sé l'udite quistioni ripetendo, delle quali assai a' suoi dolori facevano, e tutto per la bellezza della piacevole Fiammetta racceso, con più pena sostenea l'essere a Biancifiore lontano. Egli poi si ricordava delle passate feste avute con lei in quelli tempi, e in molti altri, e fra sé molte fiate annoverava i giorni, i mesi e gli anni, dicendo: -- Tanto tempo è passato che io con lei non fui o non la vidi --; e con gravissimi sospiri notava quelle ore nelle quali più graziosamente con lei li ricordava essere stato. Ma perché il tempo che si perdea, che più che mai gli gravava, passasse con meno malinconia, egli andando per li vicini paesi di Partenope si dilettava di vedere l'antichità di Baia, e il Mirteo mare, e 'l monte Mesano, e massimamente quel luogo donde Enea, menato dalla Sibilla, andò a vedere le infernali ombre. Egli cercò Piscina Mirabile, e lo 'mperial bagno di Tritoli, e quanti altri le vicine parti ne tengono. Egli volle ancora parte vedere dell'inescrutabile monte Barbaro, e le ripe di Pozzuolo, e il tempio d'Apollino, e l'oratorio della Sibilla, cercando intorno intorno il lago d'Averno, e similmente i monti pieni di solfo vicini a questi luoghi: e in questa maniera andando più giorni, con minore malinconia trapassò che fatto non avria dimorando.



[74]

Ma ritornato in Partenope, e con malinconia aspettando tempo, avvenne che con grandissima malinconia un giorno in un suo giardino si racchiuse solo, e quivi con varii pensieri s'incominciò in se medesimo a dolere, e dolendosi, in nuove cose di pensiero in pensiero il portò la fantasia, portandogli davanti agli occhi, che il loro potere aveano nella mente raccolto, nuove e inusitate cose. E' gli parea vedere davanti da sé il mare essere tranquillo e bello tanto quanto mai l'avesse veduto, e in quello una navicella di bella grandezza, sopra la quale vide sette donne di maravigliosa bellezza piene, in diversi abiti adornate, delle quali sette, le quattro alquanto verso la proda della bella nave vide spaziarsi: e già d'averle altra fiata vedute e loro contezza avuta si ricordava. Ma l'altre tre, che molto più belle gli pareano, dal mezzo del legno quasi infino di tutta la poppa d'esso gli parea che possedessero, né quelle per rimirarle in niuno modo conoscere potea; ma tra loro gli parea vedere un albero che infino al cielo si distendesse, né per alcun movimento che la nave avesse parea che si mutasse. E queste cose con ammirazione riguardando, si sentì chiamare, per che a lui parea prestamente sopra la navicella montare e essere intra le quattro donne raccolto. E porgendo gli occhi inver la proda della nave, gli parve fuori di quella vedere una femina d'iniquissimo aspetto con gli occhi velati e di maravigliosa forza nel suo operare: e con le mani appiccata al legno, quello con tanta forza moveva, che parea che sotto l'acque il dovesse sommergere, e per consequente parea che dintorno ad esso tutto il mare movesse e tempestasse; di che egli dubitando, gli parve udire: -- Non dubitare --. Parevali, adunque, a Filocolo, rassicurato da quella voce, rimirare le quattro donne che dintorno gli stavano, delle quali l'una vedea vestita di drappi simiglianti a finissimo oro, nel viso bellissima e onesta, col capo coperto di nero velo, e nella destra mano portava uno specchio nel quale sovente si riguardava, nella sinistra tenea un libro. Assai piacque questa a Filocolo, e, volti gli occhi alla seconda, d'ardente colore la vide vestita e umile nell'aspetto, sotto candido velo, tenendo nella destra mano un'aguta spada, nella sinistra una retta linea, sopra la quale parea che si poggiasse. Ma la terza Filocolo non sapea divisare che colore il suo vestimento si fosse, ma adamante l'assimigliava; e questa sotto il sinistro piede volta uno ritondo pomo grossissimo, nel quale la terra, il mare e i regni sotto diversi climati erano disegnati, ogni cosa riguardando con igual viso, tenendo nella destra mano uno scettro reale. Molto riguardò Filocolo costei: poi rivolto alla quarta, la vide sotto onesto velo di violato vestita, tacita dimorare tenendosi al petto distesa la destra mano, e alla bocca lo 'ndicativo dito della sinistra, e tutte, secondo il piacere della donna del caro vestimento, parea che si guidassero. Dilettava a Filocolo in sì grazioso luogo dimorare: e mentre che egli con più diletto vi dimorava, volto gli occhi ancora verso la proda, vide in quella un giovane di piacevole aspetto riguardare, vestito di nobilissimi vestimenti, al quale nelle braccia vedea una giovane nuda, bellissima tanto quanto mai alcuna veduta n'avesse, la quale sì stimolava e angosciava tanto, che ogni riposo le parea nimico, e con le sue lagrime quasi tutti i vestimenti del giovane avea bagnati. Questa parea a Filocolo molto riguardarla; e dopo lungo mirare gli parea che fosse la sua Biancifiore, e pareagli che quel giovane per lo propio nome il chiamasse e gli dicesse: -- Vedi come tu fai sanza riposo stare la tua Biancifiore? --. Da questa voce parea che tanto disio gli crescesse nel cuore di correre ad abbracciare quella, che quasi non gli pareva potere stare. Per che egli rivolto a quelle donne gli parea dire: -- Per che cosa mi faceste voi qui chiamare? Ditemelo, però ch'io mi voglio partire --. A cui risposto fu: -- Noi tel diremo --. E con lui cominciarono le quattro donne a parlare e a dire molte cose, delle quali niuna gli parea intendere, tanto avea lo 'ntelletto rivolto pure a Biancifiore: e non potendo più il ragionamento di quelle ascoltare, lasciandole parlando, corse ove il giovane ignuda tenea Biancifiore, e quivi gli parea con quella festeggevolemente essere ricevuto. Ma dimorando quivi, gli parea che 'l mare mutasse legge, che, dimorato alquanto quieto, in tanta tempesta si rivolgea, che non che la nave, ma eziandio tutto l'universo gli parea che dovesse sommergere: e rimirando quella femina che la proda della nave movea, vide dalla sua bocca una voce come un tuono grandissima procedere, e con quella un vento impetuosissimo, il quale lui e Biancifiore e quel giovane parea che d'in su la nave levasse, e gittasseli in un luogo di voracità pieno, che davanti a lui parve oscurissimo e tenebroso. Quivi gli parea essere pieno di mortale paura, e piangere, e 'l simigliante faceano Biancifiore e 'l giovane: ma quindi per non pensato modo tutti e tre sanza offesa si partiano, ritornando in su la nave onde partiti s'erano, dove la turbata femina vide ritornata lieta, e con riposo tenere la nave e il mare. E di sua volontà gli parea con Biancifiore entrare in mezzo delle quattro donne, le quali prima non avea ascoltate, ove vide aggiunto un uomo di grandissima eccellenza e autorità nel sembiante con corona d'oro sopra la testa. Questi gli parea che molte parole gli dicesse, e col suo dire molto l'essere, delle tre donne, le quali egli non conoscea, gli discoprisse: per che tanto gli parea essere nel cuore acceso d'avere di loro notizia intera, che appena il potea sostenere. E in questa volontà dimorando, e rimirando verso il cielo, gli parea quello vedere aprire e uscirne una luce mirabilissima, risplendente e grande, la quale parea che tutto il mondo dovesse accendere, e quella parte del mondo, che tal luce sentiva, più bella che alcuna altra gli parea che fosse. Questa luce venne sopra di lui, nella quale egli rimirando, vide una donna bella e graziosa nell'aspetto, di quella medesima luce vestita, e nelle mani portava una ampolla d'oro, d'una preziosissima acqua piena, della quale acqua tutto il viso e per consequente tutta la persona pareva che gli lavasse, e poi subito sparisse: e come questo era fatto, così gli parea aver cata la vista, e meglio conoscere e le mondane cose e le divine che prima, e quelle amare ciascuna secondo il suo dovere. E così ammirandosi di ciò, si trovò tra le tre donne, le quali prima non conoscea, e con loro la sua Biancifiore parea che fosse, e prendesse maravigliosa contezza: delle quali tre vedea l'una tanto vermiglia e nel viso e ne' vestimenti quanto se tutta ardesse, e l'altra tanto verde che avanzato avria ogni smeraldo, la terza bianchissima passava la neve nella sua bianchezza. E dimorando questi con loro per certo spazio, avendo bene di loro nel cuore ogni certezza, seguendo i loro vestigii, subitamente si vide da loro con tutta la navicella su per l'albero levarsi al cielo, quelle tre essendoli duce, e le quattro di sotto a lui rimanere sopra le salate onde, e ad alto sospingerlo. E così sagliendo, gli parea passare infino nelle sante regioni degl'iddii, e in quelle conoscere i virtuosi corpi e i loro moti e la loro grandezza e ogni loro potenza: quivi con ammirazione, inestimabile gloria gli parea vedere dalla faccia di Giove procedere a' riguardanti, della quale egli sanza fine sentiva. E volendo dire: -- Oh felice colui che a tanta gloria è eletto! --, avvenne che Ascalion e Parmenione vennero dov'egli era. E ignorando il bene che a sé sì il teneva sospeso, più volte il chiamarono, né egli a loro rispose. Per che poi il presero per lo braccio, e tirandolo, dalla celestiale gloria alle mondane cose il tirarono. E imaginando che profonda malinconia l'avesse occupato, cominciarono a dire: -- Filocolo, che pensiero è il tuo? Rallegrati, ché i marinari ne chiamano che noi andiamo al legno per andare al nostro cammino, e dicono che poi che qui fummo più non videro prosperevole tempo a nostra via se non ora: leva su, andiamo --. Levossi dunque Filocolo dicendo: -- Oimè, da che bene tolto m'avete! --. E narrato loro ciò che veduto avea, con loro insieme, pieni d'ammirazione per lo suo detto, n'andarono alla nave. E rendute prima degne grazie agl'iddii del buon tempo, e pregatigli divotamente che in meglio il dovessero prosperare, in su quella montarono. E su dimorativi le due parti della notte, sentendo il vento rinfrescato parve loro di dargli le vele. Le quali dategli, gli antichi porti di Partenope abandonarono, disiderosi di pervenire dove dagl'iddii fu loro promesso di trovare di Biancifiore vere novelle.



[75]

Lenti e scarsi venti pinsero la violata nave in più giorni quasi che alla esteriore punta della dimandata isola, e, quivi mancati, discesero in terra, dubitando non gl'iddii quivi per lungo spazio gli ritenessero come in Partenope fatto aveano. Ma ignorando Filocolo in qual parte dell'isola dovesse di Biancifiore novelle sapere secondo il risponso degl'iddii, la fortuna che già con lieto viso gli si cominciava a rivolgere, vicino albergo gli apparecchiò a Sisife. Dove egli più giorni dimorando e cercando di sapere novelle di Biancifiore né trovandone alcuna, non sapea che farsi; e già il tempo vedea acconciare presto al suo proponimento. Per che egli quasi disperato, dispregiando il detto degl'iddii, non sapea che si fare, ma dimorando malinconico fra sé dicea: « Come io qui di Biancifiore non trovo novelle, così, in tutto, il mio viaggio sarà perduto, e, ingannato dagl'iddii, per soperchio dolore dolente renderò l'anima alle dolorose sedie di Dite ». Poi fra sé ripensava le parole degl'iddii non potere essere false, ma dicea: « Forse non in questo luogo dell'isola debb'io di Biancifiore trovar novelle, ma in alcuno altro »; per che si imaginava di tutta l'isola voler cercare.



[76]

In questi pensieri dimorando Filocolo sedendosi sopra uno antico marmo posto a fronte alle grandi case di Sisife, avvenne che Sisife dimorando ad una finestra verso il mare riguardando, il vide, e molto il rimirò, volendosi pure alla memoria riducere d'averlo altra volta veduto. E dopo molto riguardarlo, si ricordò di Biancifiore, a cui, secondo il giudicio di Sisife, Filocolo molto risomigliava. Per che ella vedendolo così malinconico dimorare, fra sé cominciò a pensare che costui per Biancifiore malinconico dimorasse, e volendosi della vera imaginazione accertare, discesa del luogo dove dimorava, a sé chiamare fece lo innamorato giovane e così gli disse: -- Giovane, se gl'iddii ad effetto produchino ogni tuo disio, non ti sieno gravi le mie parole, né noioso il contentarmi di ciò ch'io ti domanderò, se licito t'è il dirmelo. Dimmi qual cagione è in te che sì occupato di malinconia tiene il tuo viso, che ha potenza di porgere pietà nel cuore a chi ti mira --. Riguardò Filocolo costei nel viso, e vedendola gentilesca e bella e di costumi ornata, pietosa di sé, dopo un sospiro così le rispose: -- Gentil donna, appena che io speri che mai gl'iddii alcuna cosa che mi contenti mi concedano, per che io per questo già poco mi curerei la cagione della mia malinconia narrarvi; ma il gentilesco aspetto di voi ad ogni vostro piacere adempiere mi costringe, per che io la vi dirò, ben che mai io non trovassi a cui pietà di me venisse se non a voi. Il pensiero che sì malinconico il mio aspetto vi rapresenta è che dagl'iddii, dal mondo e dagli uomini abandonato mi trovo in questo modo. Io povero giovane e pellegrino, statomi dato dal mio padre etterno essilio dalla sua casa, vo ricercando una giovane a noi per sottile ingegno levata, la quale s'io ritrovo, licito mi fia alla paternale casa tornare. Ma di ciò male mi pare essere nel cammino, però che da alcuno iddio dopo divoto sacrificio ebbi risponso di dovere qui di lei udire vere novelle; ma ciò truovo falso, però ch'io sono qui più giorni dimorato, né alcuno ci ha che novelle di lei mi sappia contare: per che trovandomi dagl'iddii ingannato, quasi come disperato vivo di ritrovarla --.



[77]

Riguardollo più fiso allora la donna, e domandollo come la giovane la quale egli cercava si chiamasse, e chi egli fosse, e come avesse nome, e donde veniva, e quanto tempo era che perduta avea quella che giva cercando. A cui Filocolo rispose: -- Biancifiore è il nome della giovane, e io, suo misero fratello, mi chiamo Filocolo, dalle terre che l'Adice riga partitomi: ben sette mesi o più l'ho cercata, e tanto ha che ella ne fu levata --. Pensossi Sisife fra se medesima: « Veramente questi cerca quella Biancifiore che qui fu co' parenti miei menata dagli occidentali regni ». Per che così gli cominciò a parlare: -- Giovane, delle 'mpromesse degl'iddii non si dee alcuno sconfortare già mai, però che infallibili sono. Adunque confortati e prendi ferma speranza di futuro bene, però che vere novelle di Biancifiore ti dirò, sì come quella con cui più giorni in questa casa dimorò --. Disse allora Filocolo: -- O nobilissima donna, se alcuna pietà nel cuore il mio aspetto vi porse, per quella vi priego che ciò che di lei sapete interamente mi narriate. Pensate quanto merito nel cospetto degl'iddii acquisterete, se per lo vostro consiglio io racquistando la mia sorella, lei e me insieme renderò al mio padre --. Sisife disse allora: -- Per me niuno tuo piacere fia sanza effetto; quanto della giovane che tu vai cercando so, io il ti dico: e' sono omai sei mesi passati che qui due miei parenti vennero con una bella e grandissima nave, i quali, secondo il loro parlare, di quelle parti, donde tu vieni, si partirono, e con loro aveano questa Biancifiore che tu cerchi, bella e graziosa assai. E certo io non ti vidi prima, che io nell'aspetto di lei ti conobbi suo fratello o parente, e però di lei ricordandomi, di te mi venne pietà. Ella dimorò qui meco più giorni, e io, secondo il mio potere, in tutte cose la onorai come figliuola: veramente mai rallegrare non la potei, anzi continuamente pensosa e piangendo la vedea. E domandandola io alcuna volta quale fosse la cagione del suo pianto, ella mi rispondea che mai niuna femina di piangere ebbe cagione quanto ella avea, però ch'ella avea lasciato il più grazioso amadore che mai da donna amato fosse, il quale ella nel suo pianto chiamava Florio: a costui si dolea quasi come davanti il si vedesse, a costui si raccomandava, costui chiamava, e mai nella sua bocca altro nome non era. E certo, per quello ch'ella mi dicesse, ella avea doppia ragione d'amarlo sopra tutti gli altri uomini del mondo, però che egli amava lei più che altra donna, e appresso, secondo il suo dire, egli era il più bello uomo che mai fosse veduto: chi costui si fosse non so se tu tel sai --. A cui Filocolo disse: -- Assai ben lo conosco, e gran ragione la movea ad amarlo e a dolersi d'essere da lui allontanata, però che quelle due cose che vi dicea, amendune v'erano: ch'io so manifestamen te che esso da picciolo garzone l'amò, e ella lui, e ancora sopra tutte le cose l'ama, e novellamente sposare la dovea, se tanto la fortuna non l'avesse offeso. E tanto di lui vi so dire, che egli pieno di dolore, sì come io, in simile affanno va pellegrinando per ritrovarla. Onde io vi priego che se voi sapete in che parte i mercatanti la portarono, che voi il mi diciate. Io porto con meco molti tesori, de' quali io renderei doppiamente a' mercatanti quello che loro costò, se rendere la mi volessero --. Disse allora Sisife: -- Gran pietà ebbi di lei, e maggiore me la ne fai venire, e, se gl'iddii m'aiutino!, se io fossi uomo com'io femina sono, con teco la verrei cercando; ma poi che aiuto donare non ti posso, prendi il mio consiglio. I mercatanti, che seco la portarono, mi dissero di dovere andare a Rodi, e di quindi in Alessandria, e così credo che abbiano fatto: e però tu similemente questi luoghi cercherai, e se gli truovi, da mia parte della tua bisogna gli priega; credo che assai ti varrà, e se gl'iddii ti fanno tanta grazia che la ritruovi, piacciati che con teco io la rivegga --. Piacque a Filocolo il consiglio e l'ascoltata novella, e benignamente le 'mpromise di rivederla, se conceduta gli fosse la grazia. E dopo molte parole, da lei molto onorato, donatole graziosi doni a tanta donna convenevole, con sua licenza da lei si partì. E venuto il tempo al loro cammino utile, co' suoi compagni saliti sopra la nave si partirono cercando Rodi.



[78]

Navica adunque Filocolo: e ciascun giorno più i venti rinfrescano e pigliano forza in aiuto di Filocolo, sì che in brieve, lasciandosi dietro Gozo e Moata, piglia l'alto mare fuggendo la terra. Ma per mancamento di vento e per venire in Rodi, torse il cammino d'Alessandria, e passando Crava, Venedigo, Cetri, Sechilo e Pondico, trovò l'antica terra di Minòs, della quale Saturno fu dal figliuolo cacciato. Quivi alcun giorno dimorò in Candia, e quindi partito, Caposermon e Casso e Scarpanto trapassò in brieve e venne a Trachilo, e di quindi a Lendego. Quivi entrato con la sua nave nel golfo diede l'ancore a' profondi scogli, e scese in terra e cercò la città: per la quale andando e Ascalion con lui e' suoi compagni, avvenne per accidente che Ascalion fu conosciuto da un grandissimo e nobile uomo della città, col quale a Roma erano già insieme militanti dimorati, e chiamavasi Bellisano, il quale con grandissima festa corse ad abbracciare Ascalion dicendo: -- O gloria della militare virtù, qual grazia in questi paesi mi ti mostra? Gl'iddii in lunga prosperità ti conservino --. Costui conobbe bene Ascalion, e, effettuosamente abbracciatolo, con lieto viso gli rendé quella risposta che a tali parole si convenia, pregandolo che Filocolo, cui egli avea per maggiore e in cui servigio egli era, onorasse. Bellisano allora, fatta a Filocolo debita riverenza, il pregò che gli piacesse al suo ostiere esso e' compagni venire: dove Filocolo, piacendo ad Ascalion, andò. E quivi mirabilmente onorati furono da Bellisano, il quale, amando di perfetto amore Ascalion, in ogni atto s'ingegnava di piacergli.



[79]

Essendosi questi riposati alcun giorno, Bellisano domandò Ascalion se licito era ch'egli sapesse la cagione della loro venuta, ché a lui molto saria il saperlo a grado. A cui Ascalion, con piacere di Filocolo, interamente narrò la verità della loro venuta. Le quali cose udendo, Bellisano tutto nell'aspetto divenne stupefatto, dicendo: -- Sanza fallo e' non sono passati sei mesi che Biancifiore fu con gli ausonici mercatanti in questa casa, avvegna che poco ci dimorasse. E essi ne la portarono in Alessan dria, per intendimento di venderla all'amiraglio, il quale di giorno in giorno vi si attendeva, secondo che essi mi dissero: che essi facessero, niuna novella poi ne seppi. Ma se gl'iddii di lei ogni vostro piacere certamente adempiano, ditemi chi fu quella giovane e come avvenne che per danari alle mani de' mercatanti venisse --. Disseli allora Ascalion come ucciso Lelio e presa pregna Giulia era stata, e come Biancifiore e Florio in un giorno nati erano, e come innamorati e separati, per paura di quello che ad effetto si dovea recare, erano dal padre stati, e i pericoli corsi a Biancifiore, e ciò che per adietro era avenuto. Maravigliossi assai Bellisano, e domandò quale Lelio fosse stato il padre di Biancifiore. A cui Ascalion disse: -- Egli fu il nobile Lelio Africano, il quale a noi e agli altri stranieri soleva essere tanto grazioso mentre in Roma dimorammo --. Questo udendo, Bellisano appena le lagrime ritenne, dicendo: -- Oimè, or fu in casa mia la figliuola di colui a cui io fui più tenuto che ad altro uomo, e non la sovenni d'aiuto? Ahi, maladetta sia la mia ignoranza, ch'io vi giuro, per l'anima del mio padre, che, se ciò che voi mi dite io avessi saputo, io ci avrei tutti i miei tesori donati, e ogni mia forza adoperata per poterla in libertà riducere, portandola poi, per merito de' servigii ricevuti dal padre, in qualunque parte le fosse piaciuto. Ma non me lo reputino gl'iddii in peccato, ché altro che per ignoranza non manco: e ella misera tutti i suoi infortunii mi disse, de' quali io piansi con lei come gl'iddii sanno, né di cui figliuola stata fosse mai mi disse --. Allora disse Ascalion: -- Certi siamo di ciò che ne conti, e siamotene tenuti; ma consigliane, per quel singulare grado che tra te e me è già stato e è di vera amistà, che via noi dobbiamo tenere a ritrovare e a riavere ciò che cercando andiamo --. Bellisano gli rispose: -- Il consiglio e l'aiuto che per me si potrà, voi l'avrete. Io con esso voi verrò in Alessandria, dove io ho alcuni amici, i quali per amore di me vero aiuto e consiglio ci porgeranno, ché di qui, sanza vedere altro, male vi saprei consigliare --. A queste parole rispose Filocolo dicendo: -- Carissimo Bellisano, assai ci basterà se ad alcuno de' tuoi amici per consiglio ci mandi sanza affannarti. Tu oramai pieno d'anni, più il riposo che l'affanno disiderare dei, e però ti ringrazio del buon volere --. Disse allora Bellisano: -- Fermamente da voi non fia sanza me tale cammino fatto, ché ancora che io sia anziano, son io a gravissime fatiche possente più che tali giovani. Io sono tenuto di metterrni alla morte per amore della giovane cui voi cercate, se io penso a' ricevuti servigi dal più nobile padre che mai figliuola avesse. Ond'io vi priego che la mia compagnia, la quale assai vi potrà essere utile, non vi sia grave --. Vedendo Filocolo Bellisano in questo volere, disse: -- A vostro piacere sia: però quando vi pare ne partiremo --.



[80]

Bellisano vide il tempo disposto al loro cammino, per che a lui parve il partire convenevole. E montati sopra la nave, renderono le vele a' prosperevoli venti, i quali in brieve termine infino nel porto di Alessandria salvamente li portarono. Quivi discesi in terra, date l'ancore a' fondi, a casa d'un gentile uomo d'Alessandria, a Bellisano amico intimissimo, chiamato Dario, se n'andarono. Egli con lieto viso principalmente Bellisano e appresso Filocolo e gli altri graziosamente ricevette, quanto il suo potere si stendea onorandogli, offerendosi a Filocolo e ad Ascalion e a tutti, per amore di Bellisano, ad ogni loro piacere e servigio apparecchiato: di che da tutti con debite parole fu ringraziato.



[81]

Dimorati costoro alquanti giorni con Dario, e veduta la nobile città, e presi diversi diletti, Filocolo, il cui cuore da amorose sollecitudini era stimolato, ogni ora un anno gli si faceva di sapere quello per che quivi venuto era. E però a sé Bellisano e Ascalion chiamò e disse loro: -- Che facciamo noi? Che perdimento di tempo è il nostro? Venimmo noi qui per vedere le mura d'Alessandria? Quando vi piacesse, a me molto saria caro d'intendere a quello per che qui siamo venuti. La nimica fortuna ci ha assai tolto di tempo: ora che contro alla forza di lei qui siamo pervenuti, non ce ne togliamo noi medesimi, però che il perderlo a chi più sa più spiace --. A cui Bellisano rispose: -- Ciò che dite assai mi piace, e però facciasi --. Chiamato adunque Dario, in una camera tutti e quattro tacitamente si misero, e postisi sopra un ricco letto a sedere, Bellisano cominciò a Dario così a parlare:



[82]

-- Amico, però che io credo che ignoto ti sia cui tu aggi onorato e onori, e similemente la venuta di costoro da te riveriti, io il ti dirò, acciò che il loro essere e la cagione del loro pellegrinare a niuno palesandola, quel consiglio e aiuto che per te si puote ne sia porto --. E mostrandogli Filocolo, disse: -- Costui è figliuolo dell'alto re di Spagna, nipote dell'antico Atalante sostenitore de' cieli; e quelli che tu in sua compagnia vedi, sono nobilissimi giovani e di grandissima condizione, e qui sono venuti, e io con loro, acciò che novelle sappiamo di Biancifiore bellissima giovane, la quale qui fu da Antonio ausonico mercatante e da un suo compagno recata, sì come essi in Rodi, albergati nel mio ostiere, mi dissero. Ella fu da loro comperata da non so quale re nelle parti d'Occidente, e a costui furtivamente levata. Egli sopra tutte le cose del mondo l'ama: e che ciò sia vero ti può, veggendolo qui, esser manifesto, là dove egli per niuna altra cagione è venuto se non per lei racquistare; e ha proposto di mai alla paternale casa non ritornare, né egli, né i suoi compagni, né io, se lei primieramente non riabbiamo. Vedi oramai quanto servire ne puoi, dicendoci se alcuna cosa di lei sai, mettendoci dopo questo in via di ciò che adoperare dovemo secondo il tuo giudicio per racquistarla --.



[83]

Con ammirazione ascoltò Dario le parole di Bellisano udendo che di sì alto re Filocolo fosse figliuolo, e per tale cagione pellegrino divenuto. E alzato il viso ver lo cielo, fra sé cominciò a dire: -- O più che altro potente pianeto, per la cui luce il terzo cielo si mostra bello, quanta è la tua forza negli umani cuori efficace! Quando saria mai per me stato pensato che sì nobile uomo una venduta schiava per amore dall'un canto della terra all'altro seguisse? Certo non mai: ma veduto l'ho! Tempera i fuochi tuoi nelle umane menti, acciò che per soverchio del tuo valore non si mettano alle strabocchevole cose! --. E poi che così ebbe detto, bassò la testa e così rispose: -- Amico, a me quanto me medesimo caro, nuove cose mi fai udire, cioè che io sia oste di tanto uomo quanto Filocolo ne di' che è: la qual cosa molto m'è cara, e più sarebbe se lui secondo la sua nobile qualità onorato avessi; ma quello che per ignoranza è mancato, con debita operazione adempiremo. Ma molta più d'ammirazione mi porge la cagione della sua venuta, che altra cosa che tu mi potessi aver detta. Né mi fia omai impossibile a credere ciò che di Medea, di Dido, di Deianira, di Filis, di Leandro e d'altri molti ho già udito, veggendo quello che io ora di Filocolo veggio: ma però che amore è passione che sempre cresce quanti più argumenti a minuirla s'adoperano, sanza alcuna debita riprensione farne, che grande a questo si converria, procederò a risponderti a ciò che dimandato m'hai. Molto mi saria caro il potervi di Biancifiore migliori novelle dire che io non potrò; ma come colui che interamente di lei ciò che n'è sa, come ella sia e dove e come qui venisse vi conterò: poi quel consiglio e aiuto che per me a tal bisogna donare si potrà, com'io per me l'adoperassi, così il vi profero e donerò.



[84]

« Qui venne, già sono passati sei mesi, Antonio, ausonico mercatante, e 'l compagno suo, e a me, come a loro caro amico, richiedendo aiuto e consiglio, davanti mi presentarono la bella giovane la quale voi cercando andate, e dissermi: « Dario, noi vegnamo delli occidentali paesi, quivi per avventura chiamati da Felice re di Spagna. Di suo patto e nostro per questa giovane tutti i nostri tesori gli donammo, e qui menata l'abbiamo acciò che al signore la vendiamo, e di lei oltre a' nostri tesori gran quantità guadagnare intendiamo: però ponici in via come questo possiamo ad effetto recare ». Le quali cose udendo, io incontanente all'amiraglio nostro signore li menai, e, narratogli la bisogna di costoro, e fattagli venire Biancifiore davanti, tanto gli piacque, che sanza niuno patteggiare comandò che i tesori che costata era a' mercatanti fossero loro radoppiati, e la giovane rimanesse a lui; e così fu fatto. I mercatanti si partirono, e Biancifiore, rimasa, dall'amiraglio fu fatta mettere in una torre grandissima e bella, qui assai vicina, con altre molte donzelle in simile maniere comperate; e quivi, al fine ch'io vi dirò, essa e l'altre sotto grandissima guardia so no guardate. Sì com'io credo che voi sapete, l'amiraglio di cui davanti parlammo, è suggetto del potentissimo correggitore di Bambillonia, e a lui ogni dieci anni una volta per tributo conviene che gli mandi infinita quantità di tesori, e cento pulcelle bellissime. E egli, acciò che nella grazia del signore interamente permanga, quanto più può s'ingegna d'averle belle e nobili, né alcuna n'è nel mondo che bella sia, la quale per tesoro avere si potesse, che egli a quantità guardasse, ma, che che volesse costasse, e' converrebbe che sua fosse: e ciò può egli ben fare, però che il suo tesoro è infinito. E com'io v'ho detto, a fine di donarle al signore il fa; e come egli l'ha, in quella torre le guarda, dove alcuna che pulcella non sia, non può aver luogo. Ma prima che io a porgervi alcun consiglio proceda, vi voglio divisare come queste pulcelle in questa torre dimorano, e sotto che guardia: le quali cose udite, forse voi così com'io vi saprete consigliare.



[85]

« La torre dove le donzelle dimorano, come voi nel nostro porto entrando poteste vedere, è altissima tanto che quasi pare che i nuvoli tocchi, e si è molto ampia per ogni parte, e credo che il sole, che tutto vede, mai si bella torre non vide, però ch'ella è di fuori di bianchi marmi e rossi e neri e d'altri diversi colori tutta infino alla sua sommità, maestrevolemente lavorati, murata. Ella, appresso, ha dentro a sé per molte finestre luce, le quali finestre divise da colonnelli, non di marmo, ma d'oro tutti, si possono vedere, le porte delle quali non sono legno, anzi pulito e lucente cristallo. Questo tutto di fuori a' riguardanti si può palesare, ma dentro ha più mirabili cose, le quali, chi non le vede, impossibile gli pare a crederle, udendole narrare. Elli vi sono cento camere bellissime, e chiare tutte di graziosa luce, e molte sale; ma tra l'altre sale una ve ne dimora, credo la più nobile cosa che mai fosse veduta. Ella tiene della larghezza della torre grandissima parte, volta sopra ventiquattro colonne di porfido di diversi colori, delle quali alcune ve n'ha sì chiare, che, rimirandovi dentro, vedi ciò che per la gran sala si fa: e fermansi le lammie di questa sala sopra capitelli d'oro posti sopra le ricche colonne, le quali sopra basole d'oro similemente sopra 'l pavimento si posano. Queste lammie sono gravanti per molto oro, nelle quali riguardando niuna cosa vi puoi vedere altro, salvo se pietre nobilissime non vedessi. In questa sala ne' pareti dintorno, quante antiche storie possono alle presenti memorie ricordare, tutte con sottilissimi intagli adorne d'oro e di pietre vi vedresti, e sopra tutte scritto di sopra quello che le figure di sotto vogliono significare. Quivi ancora si veggono tutti i nostri iddii onorevolissimamente sopra ogni altra figura posti, co' quali gli avoli e antichi padri del nostro amiraglio tutti vedere potresti. In questa sala non si mangia se non sopra tavole d'oro, né niuno vasellamento se non d'oro v'osa entrare. Io non vi potrei narrare interamente di questa quanto n'è: che vi poss'io più di questa dire se non che infino al pavimento, e il pavimento medesimo, d'oro e preziose pietre è? In questa mangia sovente il nostro amiraglio con la tua Biancifiore e con l'altre donzelle. Ancora è in questa torre, tra le cento camere, una che di bellezza tutte l'altre avanza: e certo appena che quella dove Giove con Giunone ne' celestiali regni si posa, si possa a questa agguagliare! Essa è di convenevole grandezza, e ha questa propietà, che alcuno non vi può dentro passare sì malinconico, che mirando al cielo della camera, dove in maestrevoli compassi d'oro, zaffiri, smeraldi, rubini e altre pietre si veggono sanza novero, egli non ritorni gioioso e allegre. A fronte alla porta di questa, sopra una colonna, la quale ogni uomo che la vedesse la giudicherebbe di fuoco nel primo aspetto, tanto è vermiglia e lucente, dimora il figliuolo di Venere ignudo con due grandissime alie d'oro, graziosissimo molto a riguardare; e tiene nella sinistra mano uno arco e nella destra saette, e pare a chiunque in quella passa che questi il voglia saettare; ma egli non ha gli occhi fasciati come molti il figurano, anzi gli ha quivi belli e piacevoli, e per pupilla di ciascuno è un carbuncolo, che in quella camera tenebre essere non lasciano per alcun tempo, ma luminosa e chiara come se il sole vi ferisse la tengono. Dintorno ad esso ne' cari muri tutte le cose che mai per lui si fecero sono dipinte. Ne' quattro canti di questa camera sono quattro grandissimi arbori d'oro, i cui frutti sono smeraldi, perle e altre pietre, e sì artificialmente sono composti, che come l'uomo con una verghetta percuote il gambo d'alcuno di quelli, niuno uccello è che dolcemente canti, che al cantare non sia udito, e ripercotendo o tacciono. In mezzo di questa camera sopra quattro leoni d'oro, una lettiera d'osso d'indiani elefanti dimora, guarnita con letto chente a sì fatta lettiera si richiede, chiuso intorno da cortine, le quali io non crederei mai poter divisare quanto siano belle e ricche. Né alcuno piacevole odore è, o confortativo, che in quella entrando l'uomo non senta soavemente odorando. In questa camera, in questo così nobile letto dorme sola Biancifiore: e questa grazia singulare più che l'altre riceve, perché di bellezza e di costumi avanza ciascuna altra, ben che l'altre molto onorevolemente dimorano ciascuna nella sua camera. Ma nella sommità di questa torre è uno dilettevole giardino molto, nel quale ogni albero o erba che sopra la terra si truova, quivi credo che si troverebbe: e in mezzo del giardino è una fontana chiarissima e bella, la quale per parecchi rivi tutto il giardino bagna. Sopra questa fontana è un albero il cui simile ancora non è alcuno che mai vedesse, per quello che dicono coloro che quello veduto hanno. Questo non perde mai né fiore né fronda, e è di molti oppinione che Diana e Cerere, a petizione di Giove, antico avolo del nostro amiraglio, pregato da lui, vel piantassero. E di questo albero e di questa fontana vi dirò mirabile cosa: che qualora l'amiraglio vuole far pruova della virginità d'alcuna giovane, egli nell'ora che le guance cominciano all'Aurora a divenire vermiglie, prende la giovane, la quale elli vuol vedere se è pulcella o no, e menala sotto questo albero. E quivi per picciolo spazio dimorando, se questa è pulcella le cade un fiore sopra la testa, e l'acqua più chiara e più bella esce de' suoi canali; ma se questa forse congiugnimento d'uorno ha conosciuto, l'acqua si turba e 'l fiore non cade. E in questo modo n'ha già molte conosciute, le quali con vituperio da sé ha cacciate. In questo giardino si prendono diversi diletti le donzelle e in questa maniera che detto v'ho dimorano libere di poter cercare tutta la torre infino al primo solaio; da indi in giù scendere non possono né uscire mai sanza piacere dell'amiraglio. Potete avere udito come dimorano: ora sotto quale guardia vi narrerò.



[86]

« Nella più infima parte della torre, copiosa di graziosi luoghi ad abitare, non può alcuna persona che di sopra sia discendere, né alcuna che di sotto sia salire di sopra sanza piacere dell'amiraglio, com'io vi dissi. Quivi abita uno arabo, da cui la torre è chiamata la Torre dell'Arabo, e egli è chiamato castellano di quella, e per propio nome Sadoc, e ha a pensare di tutte quelle cose che alle pulcelle sieno necessarie, e quelle dare loro. Appresso ha molti sergenti, co' quali il giorno questa torre d'ogni parte guarda: né alcuno uomo, non che a quella, ma ancora in un grandissimo prato ch'è davanti ad essa, sostiene che s'appropinqui, e quale presumesse d'appressarvisi sanza il piacer di lui, o morte o gravissimo danno e pericolo ne gli seguiria: ma come il giorno si chiude, tutto quel prato pieno d'uomini con archi e con saette potreste vedere guardando la torre dintorno. E 'l castellano, e' suoi sergenti, e qualunque altro v'ha alcuno uficio, tutti eunuchi sono: e questo ha l'amiraglio voluto, acciò che alcuno non pensasse di fare quello ch'egli sta per guardare ch'altri non faccia; e questa guardia né giorno né notte falla già mai. Vedete omai che consiglio o che aiuto qui si puote porgere! Ma non per tanto veggiamo le vie che ci sono o potrebbono essere, e quella che meno rea ci pare, se alcuna ce n'ha, per quella procediamo --.



[87]

Taciti e pieni di maraviglia per le udite cose si stavano costoro, né alcuno rispondea alcuna parola, quando Dario rincominciò: -- Signori, io non discerno qui se non tre vie, delle quali l'una ci conviene pigliare, e mancandoci queste, niuna altra ce ne so pensare. Le quali tre, queste sono esse: o per prieghi riaverla dall'amiraglio, o per forza rapirla della torre, o con ingegno acquistare l'amicizia del castellano, la quale avendo, non dubito che a fine si verria del vostro intendimento. Ciascuna di queste mi pare fortissima a poterne venire a fine, però che se noi ne vogliamo l'amiraglio pregare, questo mi pare che saria un gittare le parole al vento: e la cagione è ch'egli sopra tutti i suoi tesori la tiene cara, e io gli udii dire che a niuna persona del mondo, fuori che al Soldano, la doneria, per dovere ricevere un altro regno simile a quello che possiede. Per che io dubito che i nostri prieghi ne' quali il nostro intendimento gli si scoprisse, nol movessero più tosto ad averci sospetti, e a donarci essilio etterno de' suoi regni, che a farci grazia: e però questa via mi pare al presente da lasciare, con ciò sia cosa che ad essa possiamo ultimamente ricorrere. Il volere la torre assalire, e per forza trarne quella, per ogni cagione saria follia, però ch'ella è da sé forte, e appresso è ben guardata, e avanti che combattuta o presa fosse, tutto il suo regno ci poria essere corso, e, non che noi, ma innumerabile quantità di cavalieri pigliare e mettere in rotta potrebbono, e così con danno rimarremmo disperati e forse uccisi. Ma di queste altre mi pare il migliore con ingegno l'amicizia del castellano pigliare, però che al prendere quella non ci può aver pericolo, e forse, presa, potrà giovare, se saviamente con lui si procede. La quale in questo modo si potrà acquistare: egli è vecchio, superbissimo e avaro, e sopra tutte le cose del mondo si diletta di giucare a scacchi e vincere: però prendere con lui parole, e umilemente i suoi pareri concedergli, e appresso donandogli alcuna volta di belle gioie, e giucando con lui, gli porria l'uomo divenire amico: la quale amistà quando fosse presa, nuovo consiglio si converria avere a lui recare al nostro piacere. Questo modo mi piacerebbe, e questo mi pare da tenere, e per questo spero che 'l nostro intendimento verrà ad effetto, ma tuttavia vi ricordo che copertamente procediate a questo, però che se egli, o altri che a lui il ridicesse, s'avedesse che a questo fine la sua amicizia si cercasse, nulla saria d'averla mai; poi quando amico sarà, fia più sicuro lo scoprirsi a lui solamente. Io mi credo, di ciò ch'io v'ho parlato, avere ben detto, e chiaro il mio parere. Voi siete savi, e se bene avete notate le parole mie, voi potete bene aver compreso ciò che qui bisogna di fare, così com'io che vi consiglio: e però se migliore via ci conoscete, sia per non detto quello che io ho consigliato, e seguiamo quella --. Tacquesi allora Dario, e Ascalion e Bellisano vi dissero molte parole, ma ultimamente a tutti e a Filocolo parve il migliore di seguire ciò che Dario avea consigliato: e fra loro deliberarono che Filocolo fosse colui che l'amistà di Sadoc dovesse pigliare, il quale si vantò di farlo bene e compiutamente.



[88]

Partito il lungo consiglio, chi si diede ad una cosa e chi ad un'altra di costoro. Filocolo solamente si diede a pensare sopra l'udite cose, e prima fra sé le commenda e disidera, poi gravissimi reputa i pericoli a' quali si mette, incerto d'acquistare la cosa per la quale a quelli si dispone. Di questo pensiero salta in un altro, e di quell'altro in molti; egli si ricorda di tutti i pericoli ch'egli ha corsi, e imagina quelli che egli correre dee: e nella savia mente estima i corsi essere stati grandi, ma molto maggiori gli paiono quelli che a venire sono; e nel pensiero gli prende de' preteriti paura non che de' futuri. E pargli, quando bene le parole di Dario pensa, quasi al suo disio mai non dovere pervenire per alcuno pericolo al quale egli si metta, o, se ne dee pervenire ad effetto, pensa che tardi fia. Ma più tosto consente, se ad alcuna cosa fare si mette, morte o vergogna acquistarne che il suo volere adempiere, né ancora ha alcuna volta ne' suoi pensieri conosciuti i suoi folli disii come ora conosce. Per che egli fra sé e sé cominciò a dire:



[89]

-- O poco savio, quale stimolo a tante pericolose cose infino a qui t'ha mosso e vuole a maggiori da quinci inanzi muovere? Niuna cosa, se non una femina, amata da te oltre al dovere. Ora è egli licito l'amare altrui più che sé? Certo no, ché ogni ordinato amore incomincia e procede dall'amare se medesimo: dunque ama più te che questa femina. « E così fo io ». « Non fai, ché se tu più te amassi, tu non cercheresti i pericolosi casi per la sua salute, dove la tua agevolmente si può perdere ». « La mia non si perderà ». « E chi te ne fa certo? ». « La speranza ch'io porto agl'iddii che m'aiuteranno ». « Gl'iddii aiutano coloro che per debita ragione si mettono a non strabocchevoli pericoli e lasciano perire chi n'ha voglia, come pare che tu abbia ». « Adunque come debbo fare? ». « Lasciala stare ». « Io non posso ». « Sì, potrai, se tu vorrai ». « E che vita sarà la mia sanza amore? ». « Quale è stata quella di coloro che sono stati davanti a te ». « Io non potrei sanza amore vivere ». « Amane un'altra, quella che al tuo padre piacerà, e torna a lui co' tuoi tesori, e contentalo come tu dei, ché sai ch'egli ama te sopra tutte le cose, e non seguire più questo: meno male è corta che lunga follia ». « L'uomo non può amare e disamare a sua posta. E come lascerei io questa impresa, acciò che poi si dicesse: 'Filocolo per viltà fu nel luogo dove Biancifiore era, cui egli amava tanto secondo che diceva, né in alcuno modo tentò di riaverla'? ». « Oh quanti perirono già per non volere le loro folli imprese lasciare, temendo di cotesti detti, i quali in brieve tempo si dimenticano! ». « Dunque la pur lascerò, tornando dond'io venni? ». « Mai sì che tu la lascerai, se tu disideri di vivere ». « Di vivere disidero ». « Adunque lasciala ». « E che varrà la mia vita? ». « Quello che vale quella degli uomini che si pongono in cuore di non amare una cosa che a pericolo li conduca ». « Certo, poi che io infino a qui sono venuto, io voglio pur tentare di riaverla ». « E non te ne avverrà forse bene ». « E qual male me ne potrà avvenire? ». « L'essere con vergogna morto ». « Chi mi ucciderà, faccendomi io conoscere? ». « Quegli che subitamente, sanza domandarti chi tu se', ti ferirà ». « E' non si uccidono coloro che amistà cercano: ucciderammi il castellano per che io voglia essere suo amico? ». « Mai no; ma quando tu gli scoprirai quello per che tu gli se' divenuto amico, egli non te ne servirà, per paura non forse il risappia il signore, e privilo d'avere e di vita: anzi a lui ti paleserà per levartisi da dosso. Non sai tu che negli arabi niuna fede si truova? E per questo il signore ti farà uccidere o ti scaccerà del suo reame con vergogna ». « E' non avverrà così, che io vincerò la sua nequizia con molti doni ». « Or ecco che tu la pur racquisti: che avrai tu racquistato? ». « Avrò racquistato colei cui io amo e che me ama sopra tutte le cose ». « Tu t'inganni, se tu pensi che colei ora di te si ricordi, essendo sanza vederti tanto tempo dimorata. Nulla femina è che sì lungamente in amare perseveri, se l'occhio o il tatto spesso in lei non raccende amore ». « E come mi potrebbe ella mai dimenticare, essendoci noi tanto per adietro amati? ». « Per un altro amadore! Credi tu che i mercatanti sanza alcun bacio o forse sanza pigliarsi la sua virginità, che n'ebbero tanto spazio, la lasciassero da loro partire? E se questi forse non savi da loro la partirono, credi tu che l'amiraglio infino a qui vergine l'abbia lasciata? Certo non è da credere. Egli non l'ha tanto cara, quanto Dario ti dice, se non perché con lei si giace. Dunque non Biancifiore, ma una puttana cerchi di racquistare ». « Non è così, ché se i mercatanti tolta l'avessero la sua virginità, l'amiraglio l'avria conosciuta sotto il fatale arbore, e cacciatala da sé; e se egli con lei si giacesse, non con l'altre damigelle, ma seco la terrebbe ». « E poi ch'ella sia pur vergine, non è elli da mettersi per lei alla morte! ». « Certo si è, ché per questo ultimo pericolo fuggire, non è da volere che perduti sieno quanti n'ho già corsi per adietro per averla. Io ne ho già molti passati, non con isperanza d'averla di presente per quelli; per questo, se bene m'avviene, sanza alcun mezzo l'avrò ». « Folle se' stato cercandoli, e sarai se a questo ti metti ». « Folle no, ma innamorato sì: così agl'innamorati conviene vivere. Guardisi chi in cotali pericoli non vuole vivere, d'incappare nelle reti d'amore. Ella sarà per me con ogni ingegno, con ogni forza ricercata: aiutinmi gl'iddii nelle cui mani io mi rimetto ». E così detto, alzando il viso, gliele parve davanti a sé vedere, e con pietoso aspetto, nelle braccia di Venere, avere tutte le sue parole ascoltate. Per la qual cosa dolendosi se di lei ne' pensieri o nelle sue parole avea meno che onore parlato, e quasi vergognandosene, più fervente nel suo proponimento divenne, giurando per quella dea, la quale egli molte fiate veduta avea, di mai non riposare infino a tanto che racquistata non l'avesse, se ancora per quello gli fosse davanti agli occhi manifesta la morte; e con questa diliberazione si partì da' suoi pensieri.



[90]

Rallegravasi Apollo nella sua casa, quando primieramente lo 'nnamorato giovane pervenne al tanto tempo cercato paese, dove avuto il consiglio di Dario tutto in sé propose di adempiere. Ma ciò sì tosto com'egli imaginava, non poté venire ad effetto, però che in diversi atti e modi la fortuna, ancora non contenta de' suoi beni, gli ruppe le vie, per che assai tempo ozioso gli convenne stare. Egli in questa disposizione dimorando, vietò a' suoi compagni che in alcuno atto tra loro più che uno di loro onorato fosse, né che alcuno, se non da lui chiamato, mai l'accompagnasse. E ultimamente tutti gli pregò che quello per che quivi dimoravano ad alcuno per alcuna cagione non palesassero. Moveasi adunque questi molte fiate solo per andare al castellano, in se medesimo pensando diverse scuse alla sua andata, né mai al proposito pervenire potea, quando da uno quando da un altro impedimento impedito, onde dolente indietro si ritornava. Egli mai fuori di casa non usciva, se per andare al castellano nol facea; mai mentre in Alessandria dimorò ad alcuno paesano si fece conoscere, né con alcuno notizia prese, da Dario in fuori. Non potendo adunque questi al disiato fine pervenire, né mai, per quante volte andato fosse alla torre, Biancifiore avere sola una volta veduta, dolente vivea, e per sua consolazione saliva sopra la più alta parte dell'ostiere di Dario, e quindi rimirando l'alta torre, alcuno diletto sentiva, fra sé dicendo: -- O Biancifiore, poi che tolto m'è il potere vedere te, il luogo dove tu se' non mi può esser tolto ch'io non vegga --. E in questa vita stette infino a tanto che Febo in quello animale, che la figliuola di Agenor trasportò de' suoi regni, se ne venne a dimorare, e quivi quasi nella fine congiunto con Citerea, rinnovellato il tempo, cominciò gli amorosi animi a riscaldare e a raccendere i fuochi divenuti tiepidi nel freddo e spiacevole tempo di verno: e massimamente quello di Filocolo, il quale sì nel suo disio divenne fervente, che appena raffrenare si potea di pur non mettersi a volere il suo proponimento adempiere sanza guardare luogo o tempo. Ma ciò non sostennero gl'iddii, anzi con forte animo il fecero sostenere aspettando.



[91]

Venuto adunque già Titan ad abitare con Castore, un giorno, essendo il tempo chiaro e bello, Filocolo si mosse per andare verso la torre: alla quale essendo ancora assai lontano, verso quella rimirando, vide ad una finestra una giovane, alla quale nel viso i raggi del sole riflessi dal percosso cristallo davano mirabile luce; che egli imaginò che la sua Biancifiore fosse, dicendo fra sé impossibile cosa essere che il viso d'alcun'altra giovane sì lucente fosse o essere potesse. Per che tanto il disio gli crebbe di vederla più da presso e d'adempiere ciò che proposto aveva, che, abandonate insieme le redine del cavallo con quelle della sua volontà, disse: -- Certo, se io dovessi morire, poi che io non posso te avere, o Bianci fiore, e' converrà che io il luogo ove tu dimori abbracci per tuo amore. E in questo proponimento col cavallo correndo infino al piè della torre se n'andò: dove disceso con le braccia aperte s'ingegnava d'abbracciare le mura, quelle baciando infinite fiate, e quasi nell'animo di ciò che faceva si sentiva diletto.



[92]

Assai di lontano vide il castellano Filocolo verso la torre correre, per che egli, e molti appresso di lui, correndo, con una mazza ferrata in mano gli sopravenne crucciato molto e pieno d'ira; e quasi furioso nol corse a ferire, dicendo: -- Ahi, villano giovane, e oltre al dovere ardito, vago più di vituperevole morte che di laudevole vita, quale arroganza t'ha tanto sospinto avanti, che in mia presenza alla torre ti sia appropinquato? Io non so quale iddio delle mie mani la tua vita ha campata: tirati indietro, villano! --.



[93]

Filocolo udendo queste parole e vedendosi intorniato da molti, e ciascuno presto per ferirlo, quasi tutto smarrì, dubitando di morire, e volentieri vorria allora essere stato in altra parte. Ma ricordandosi di Biancifiore rinvigorì, e, riprese le spaventate forze, umilemente così rispose: -- O signor mio, perdonami, che non per mio difetto questo è avvenuto, né per malizia ho contro la tua signoria offeso: la dura bocca del mio cavallo di questo m'ha colpa, il quale assai lontano di qui correndo si mosse, né per mia forza tener lo potei infino a questo luogo: al quale venuto, maravigliandomi de' sottili lavorii, non potei fare che io non mi appressassi ad essi per vederli, non credendo a te dispiacere. Tutta fiata se io ho fallito, nelle tue mani mi rimetto: fa di me secondo il tuo piacere --.



[94]

Sadoc rimirava fiso Filocolo, e umiliato ascoltando le sue parole nelle sue bellezze simile a Biancifiore l'estimava, e avendolo udito così benignamente parlare, gli disse: -- Giovane, monta a cavallo --. Filocolo presto salito in sul suo palafreno, dietro a Sadoc reverente andava. A cui Sadoc disse: -- Dimmi, giovane, se tu se' cavaliere o scudiere, e di che parte, e quello che quinci andavi faccendo quando il tuo cavallo qui contra tua voglia ti trasportò --. A cui Filocolo rispose: -- Signore, io sono un povero valletto d'oltra mare, il quale prendo diletto in andare il mondo veggendo; e udendo la gran bellezza di questa torre narrare, essendo io da Rodi mosso per vedere Bambillonia, qui per vederla ne venni. E ora inanzi quando il mio cavallo qui mi trasportò, tornava con un mio falcone pellegrino da mio diporto, il quale avendolo ad una starna lasciato, e egli non potendola prendere al primo volo, sdegnato in su questa torre se ne volò, e richiamandolo io, il palafreno, temendo il romore, a correre si mosse, qui recandomi come mi vedeste --.



[95]

Mentre che costoro così parlando andavano, pervennero alla gran porta della torre, e entrati in essa dismontarono. E avendo il castellano le belle maniere di Filocolo vedute, imaginò lui dovere essere nobile giovane. Per la qual cosa quivi assai l'onorò, e dopo molte parole gli disse: -- Giovane, la somiglianza che tu hai d'una donzel la che in questa torre dimora, chiamata Biancifiore, t'ha oggi la vita campata: di che siano lodati gl'iddii, che la mia ira mitigarono com'io ti vidi, la qual cosa rado o mai più non avvenne --. Di questo il ringraziò assai Filocolo, sempre a lui offerendosi servidore, e similmente a quella giovane la cui somiglianza campato l'avea, se egli la conoscesse. E dopo questo entrati in molti e diversi ragionamenti, a Filocolo andò l'occhio in un canto del luogo dove dimoravano, ove egli vide uno scacchiere nobilissimo e ricco appiccato; il qual veduto, disse: -- Sire, dilettatevi voi di giucare a scacchi, che io veggio sì bello scacchiere? --. Rispose Sadoc: -- Sì, molto, e tu sai giucare? --. A cui Filocolo rispose: -- Alquanto ne so --. Disse allora Sadoc: -- E giuchiamo infino a tanto che questo caldo passi, che tu possa alla città tornare --. -- Ciò mi piace molto, signor mio --, rispose Filocolo.



[96]

Fece adunque Sadoc in una fresca loggia distendere tappeti e venire lo scacchiere, e l'uno dall'una parte e l'altro dall'altra s'asettarono. Ordinansi da costoro gli scacchi, e cominciasi il giuoco, il quale acciò che puerile non paia, da ciascuna parte gran quantità di bisanti si pongono, presti per merito del vincitore. Giuocano adunque costoro, l'uno per guadagnare i posti bisanti, l'altro per perdere quelli e acquistare amistà. Filocolo giucando conosce sé più sapere del giuoco che 'l castellano. Ristringe adunque Filocolo il re del castellano nella sua sedia con l'uno de' suoi rocchi e col cavaliere, avendo il re alla sinistra sua l'uno degli alfini; il castellano assedia quello di Filocolo con molti scacchi, e solamente un punto per sua salute gli rimane nel salto del suo rocco. Ma Filocolo a cui giucare conveniva, dove muovere doveva il cavaliere suo secondo per dare scac co matto al re, e conoscendolo bene, mosse il suo rocco, e nel punto rimaso per salute al suo re il pose. Il castellano lieto cominciò a ridere, veggendo che egli matterà Filocolo dove Filocolo avria potuto lui mattare, e dandogli con una pedona pingente scacco quivi il mattò, a sé tirando poi i bisanti; e ridendo disse: -- Giovane, tu non sai del giuoco --, avvegna che ben s'era aveduto di ciò che Filocolo avea fatto, ma per cupidigia de' bisanti l'avea sofferto, infignendosi di non avedersene. A cui Filocolo rispose: -- Signor mio, così apparano i folli --. Racconciasi il secondo giuoco, e la quantità de' bisanti si radoppiano da ciascuna parte. Il castellano giuoca sagacemente e Filocolo non meno. Il castellano niuno buon colpo muove ch'egli non dica: -- Giovane, meglio t'era il tuo falcone lasciare andare che qua seguirlo --. Filocolo tace, mostrando che molto gli dolgano i bisanti: e avendo quasi a fine recato il giuoco, e essendo per mattare il castellano, mostrando con alcuno atto di ciò avvedersi, tavolò il giuoco. Conosce in se medesimo il castellano la cortesia di Filocolo, il quale più tosto perdere che vincere disidera, e fra sé dice: -- Nobilissimo giovane e cortese è costui più che alcuno ch'io mai ne vedessi --. Racconciansi gli scacchi al terzo giuoco, accrescendo ancora de' bisanti la quantità; nel principio del quale il castellano disse a Filocolo: -- Giovane, io ti priego e scongiuro per la potenza de' tuoi iddii, che tu giuochi come tu sai il meglio, né, come hai infino a qui fatto, non mi risparmiare --. Filocolo rispose: -- Signor mio, male può il discepolo col maestro giucare sanza essere vinto; ma poi che vi piace, io giucherò come io saprò --. Incominciasi il terzo giuoco, e giuocano per lungo spazio: Filocolo n'ha il migliore: il castellano il conosce. Cominciasi a crucciare e a tignersi nel viso, e assottigliarsi se potesse il giuoco per maestria recuperare. E quanto più giuoca, tanto n'ha il peggiore. Filocolo gli leva con uno alfino il cavaliere, e dagli scacco rocco. Il castellano, per questo tratto crucciato oltre misura più per la perdenza de' bisanti che del giuoco, diè delle mani negli scacchi, e quelli e lo scacchiere gittò per terra. Questo vedendo Filocolo disse: -- Signor mio, però che usanza è de' più savi il crucciarsi a questo giuoco, però voi men savio non reputo, perché contro gli scacchi crucciato siate. Ma se voi aveste bene riguardato il giuoco, prima che guastatolo, voi avreste conosciuto che io era in due tratti matto da voi. Credo che 'l vedeste, ma per essermi cortese, mostrandovi crucciato, volete avere il giuoco perduto, ma ciò non fia così: questi bisanti sono tutti vostri --. E mostrando di volere i suoi adeguare alla quantità di quelli del castellano, ben tre tanti ve ne mise de' suoi, i quali il castellano, mostrando d'intendere ad altre parole, gli prese dicendo: -- Giovane, io ti giuro per l'anima del mio padre, che io ho de' miei giorni con molti giucato, ma mai non trovai chi a questo giuoco mi mattasse se non tu, né similmente più cortese giovane di te trovai ne' giorni miei --. Filocolo rispose: -- Sire, di cortesia poss'io molto più voi lodare che voi me con ciò sia cosa che io oggi per la vostra cortesia la n'aggia guadagnata --.



[97]

Le parole in diversi ragionamento tra costoro multiplicano, e il giorno se ne va: per che Filocolo, veggendo il sole che cercava l'occaso, li parve di partirsi, per che egli disse: -- Signor mio, e' mi si fa tardi d'essere alla città: però quando vi piaccia, con licenza vostra mi partirò --. Il castellano, che già della piacevolezza di Filocolo era preso, disse: -- Cortese giovane, se non fosse che l'andare per queste parti di notte è per molte cagioni dubbioso, tu ceneresti meco questa sera; ma io ti priego che per amore di quella cosa che tu più ami, che domani tu torni a mangiare meco --. A cui Filocolo rispose: -- Si re, per l'amore di voi, e per quello di colei da cui parte scongiurato m'avete, io non posso niuna cosa che in piacere vi sia, disdire; il comandamento vostro sarà fornito: rimanete adunque con la grazia degl'iddii --. -- Gli iddii ad ogni tuo disio sempre siano favorevoli --, rispose Sadoc. E Filocolo, salito a cavallo e da Sadoc partitosi, alla città in parte contento se ne tornò.



[98]

Come egli alla città fu pervenuto, e smontato all'ostiere di Dario, l'ora essendo già tarda, trovò Dario e Ascalion e gli altri tutti attenderlo, i quali, come il videro, lieti gli si fecero avanti, dicendo: -- Assai ci hai oggi fatto avere di te pensiero; dove se' tu tanto dimorato? --. -- Nelle mani della fortuna -- rispose Filocolo, -- la quale non così nimica m'è com'io reputava, ma forse de' miei danni pietosa, mi comincia a mostrare lieto viso ne' nostri avvisi, e sì fatto principio in quello che divisammo ho avuto, che appena ch'io ne possa altro sperare che grazioso fine --. E chiamati Dario e Bellisano e Ascalion in una camera, ciò che avvenuto gli era loro narrò. Lodano costoro gl'iddii, e a Dario piace tale cominciamento e consigliali l'andare a mangiare con lui e l'essergli cortese, dicendogli che d'oro e d'avere non dubitasse, che, poi che 'l suo donato avesse, quanto egli n'avea in suo servigio ponesse sicuramente, ricordandogli che con discrezione proceda, ad ogni uomo celando il suo segreto, fuori che al castellano, quando luogo e tempo gli parrà. Ringrazialo Filocolo: prendono il cibo e vannosi a posare. Ma gli altri dormono e Filocolo ferma nella mente con molti ragionamenti ciò che al castellano dee dire, e quello che con lui vuol fare, e che movimento deggia il suo essere a dovergli narrare il suo segreto. Molte vie truova, e ciascuna pruova in se medesimo, e le migliori riserba nella memoria. Poco abandonano la notte le sollecitudini lo 'nnamorato petto, e la notte, che già maggiore gl'incominciava a parere che l'altre, si consuma: e il chiaro giorno rallegra il mondo. Levasi Filocolo, e tacitamente e con discrezione ordina ciò che davanti al sonno la notte avea pensato; e venuta l'ora ch'egli estimò convenevole, soletto se ne cavalcò alla torre. Quivi dal castellano con mirabile onore è ricevuto, e le tavole preste niuna cosa aspettano se non loro.



[99]

Dopo alcuni ragionamenti s'asettano costoro alle tavole, come piacque al castellano, e con gran festa mangiano splendidamente serviti. E già presso alla fine del mangiare, Filocolo cominciò a dubitare non corto venisse il suo avviso ad effetto, però che già tempo gli parea, con ciò fosse cosa che altro non restasse al levare delle tavole se non le frutta. Ma mentre che in tale pensiero alquanto alterato dimorava, Parmenione giunse quivi, il quale contentò assai Filocolo nella sua venuta, e salito in su la sala, nelle sue mani recò la bellissima coppa e grande d'oro, la quale con gli altri tesori Felice re ricevette per pregio della giovane Biancifiore dagli ausonici mercatanti, e quella piena di bisanti d'oro, tanto grave che appena avria più Parmenione potuto portare, coperta con uno sottilissimo velo, davanti Sadoc la presentò, dicendo: -- Bel signore, quel giovane al quale voi ieri per vostra benignità la vita servaste, avendo egli per sua presuntuosità la morte guadagnata, questa coppa con questi frutti che dentro ci sono, i quali nel suo paese nascono, vi presenta, e, appresso, sé e le sue cose offera, al vostro piacere apparecchiate --. Vedendo questo Sadoc, e ascoltando le parole da Parmenione dette, tutto rimase allenito e con cupido occhio rimirò quella, nel cuore lie to di tal presente. Nondimeno, della magnanimità e cortesia di Filocolo maravigliandosi molto, e rivolto dove Filocolo sedeva, con benigno aspetto il riguardò, e poi disse: -- Grande e nobile è il presente, e prezioso è il terreno che sì fatti frutti produce: e se non che egli mi si disdice l'essere villano verso di chi a me è stato cortese, forte saria che io tal presente prendessi, però che a Giove saria grandissimo e accettevole cotale dono --. E fatta prendere la coppa di mano a Parmenione, gli disse: -- Voi potrete di colui che vi manda pensare quello che del più nobile uomo del mondo si possa dire, e però che io mi sento insofficiente a rendere grazie convenevole di tanto dono, a quelle non procedo, se non che per questo: egli ha me, e le mie cose, e ciò che per me si potesse, sì a sé obligato, quanto io potessi essere il più --. Parmenione, fatta convenevole riverenza, si partì.



[100]

Rimasi costoro insieme, e levate le tavole, per li pensieri del castellano niuna cosa andava, se non la gran nobiltà che gli parea quella di Filocolo, e con effetto in sé dicea: -- Che potre' io per degno merito di tanta larghezza fare a costui, acciò che io interamente gli potessi mostrare quant'io per lui farei, e quant'io sia di tal dono conoscente? --. E poi a se medesimo rispondea: -- Tu se' sì suo, che tu mai interamente mostrare non gliele potresti, salvo se gran bisogno non gli venisse, ove tu la persona e l'avere per lui disponessi --. Ma dopo questo, volendo a Filocolo parte del suo buon volere dimostrarli, con seco in una camera solo il chiamò, e, quivi amenduni postisi a sedere, così cominciò con lui a ragionare:



[101]

-- Giovane, per quella fé che tu dei agl'iddii e per l'amore che tu porti a me, aprimisi la tua nobiltà, acciò che io, di quella pigliando essemplo, possa nobile divenire. Io vidi già ne' miei dì molti nobili uomini, chi per antico sangue, chi per infiniti tesori, chi per be' costumi, e chi per una maniera e chi per un'altra; ma e' non mi soviene che io mai così nobile cosa, come tu se', vedessi. Che operai io mai, o che potrei per te operare, che un tanto e tale dono mi si convenisse? Io porto oppinione che tu trapassi di piacevolezza e di cortesia tutti gli uomini del mondo --. A costui rispose così Filocolo: -- Signor mio, non vogliate me rozzo ancora ne' costumi con queste parole schernire. Io non seguo nobiltà di cuore in queste operazioni, però che non ci è, ché io sono di picciola radice pianta, ma ricordomi d'avere già così veduto fare a mio padre, i cui essempli io seguito: e similmente conosco che io non potrei mai fare tanto che alla vostra nobiltà aggiugnere potessi, o che d'onore a quella più non si convenisse. Ma voi mi porgete ammirazione col dire che mai per me non operaste, perché questo io operare dovessi. Ora crediate che se la mia vita più tempo si lontanasse che quella di Dandona o di Zenofanzio non fece, mai della memoria mia non si partirà l'essere per la vostra benignità vivo, come già oggi udiste ch'io riconosco. E quando questo non fosse stato, sarebbe inlicita cosa a fare, là dove amichevole amore di due cuori fa uno, niuna cosa a fine di servigio ricevuto, o che ricevere per inanzi si deggia, avvegna che questo a me appropiare non posso, però che, come già dissi, da voi la vita tengo, e conoscovi tanto e tale, ch'io non dubito che voi più che altro uomo del mondo per me potete operare. E però non solamente coloro da' quali l'uomo ha i servigi ricevuti sono da essere onorati, ma quelli ancora che possono per inanzi servire --. Il castellano, ferventissimo a' piaceri di Filocolo, udendolo dire lui poterlo più ch'altro mai servire, con molti scongiuri lo strigne ch'egli non gli celi il dì, che fido d'essere così da lui servito, come se medesimo servirebbe. Più volte a questa dimanda tacque Filocolo, e 'l castellano più volte, ognora più acceso, desiderava di sapere in che a Filocolo potesse servire. La qual cosa vedendo Filocolo, più volte volle il suo disio palesare, e infino al proferire recò le parole, e poi dubitando le tirava indietro, in altre novelle volgendo le sue parole. Ma il castellano, avendo proposto pur di volere sapere in che servire lo potesse, non restava d'incalciario, ogni novella rompendogli, e che ciò gli dicesse pregandolo, non pensando che dovesse riuscire a quello che fece. Filocolo, così incalciato, e più ognora dubitando, per avventura si ricordò d'un verso già da lui letto in Ovidio, ove i paurosi dispregia dicendo: 'La fortuna aiuta gli audaci, e i timidi caccia via'; e vedendo manifestamente che tra lui e la fine del suo disio era questo in mezzo e che parlare gli convenia s'egli servigio volea ricevere, allargò le forze al disiderante cuore, e propose di dare via alle parole, e cominciò così:



[102]

-- Signore, però ch'io non dubito che quello di che io vi pregherò, e a che voi mi stringete che io vi prieghi, voi il potrete fare, e potreste molto maggiori cose, io vi paleserò ciò che il dubitoso cuore infino a qui ha celato a tutta gente. E però che io nel parlare e nell'operare non sono il primo errante, vi priego che se forse alcuna cosa io dicessi forse oltre al dovere detta, che voi mi perdoniate, e come padre mi riprendiate; e se quello ch'io dimando per voi si può adempiere, io vi priego, per quello effettuoso amore che le vostre parole mostrano che mi portiate, che voi sanza alcuna scondetta e sanza indugio di ciò mi serviate. Io nelle vostre mani e della fortuna la mia vita rimetto: e acciò che bene vi sia chiaro il mio intendimento, vi dico così, ché mia credenza è, che, poi che Febo ebbe di Danne penneia il cuore per amore passato, io non credo che mai alcuno fosse tanto innamorato quanto io sono. E certo le mie operazioni il dimostrano, ché io venuto di Spagna infino in questo luogo sono con molte tribulazioni e noie, cercando prima il ponente tutto, e poi ciascuna isola che tra qui e Partenope dimora, disiderando di ritrovare Biancifiore, a me furtivamente levata e venduta a' mercatanti. Hammi qui la fortuna balestrato, ov'io di lei per risponso d'alcuno iddio ho trovato novelle, e voi ieri la ricordaste. E per quello ch'io abbia per lo ragionamento di molti uomini nella mente raccolto, ella in questa torre sotto la vostra guardia dimora, di che io assai mi contento più che se in altra parte fosse. Avendomi gl'iddii a questo partito recato, che io sia vostro com'io mi tengo ora, com'io davanti vi dissi, amore per lei oltre ogni sua legge mi stimola. E certo se io volessi particolarmente narrarvi quanti pericoli io ho già per l'amore di lei corsi, e quanto io l'ami, prima il dì saria dalla notte chiuso, e quella, esso ritornando, cacciata; ma però che, com'io credo, già in parte tal vita provaste, e per quella il mio tutto potete comprendere, non mi stendo in più parole, se non che quello che io da voi avere disidero è questo, l'una delle due cose: o che io dalle vostre mani sia ucciso o che voi a Biancifiore parlare mi facciate. Priegovi che quella vita ch'io per voi porto, per voi non pera --. E non potendo avanti parlare, stretto da' singhiozzi del pianto, si tacque.



[103]

Il castellano ascoltò queste parole con intero intendimento; e raccolto tutto in sé, così fra sé cominciò dire: -- Ben m'ha costui con sottile ingegno recato quello che io non credetti mai che alcuno mi recasse, ma avvenga che vuole, io terminerò i suoi affanni a mio potere. Di ciò mi può la fortuna fare corta noia, se contro a me per questo si volesse voltare; io sono omai vecchio, né mai notabil cosa per alcuno feci: ora nella fine de' miei anni, in servigio di sì nobile giovane come costui è, voglio il rimanente della mia vita mettere in avventura. Se io il servo e campo, gran merito appo gl'iddi acquisterò; se io per servirlo muoio, la fama di tanto servigio toccherà l'uno e l'altro polo con etterna fama --. Così adunque deliberato di fare in se medesimo, riguardò Filocolo nel viso: e veggendo le sue lagrime e gi ardenti sospiri, non si poté per pietà tenere, ma con lui pianse. E dopo alquanto così gli cominciò a parlare:



[104]

-- Filocolo, con sottili arti hai rotti i miei proponimenti, e certo la tua nobiltà e la pietà delle tue lagrime hanno piegata la mia durezza: e però confortati. Io disidero di servirti, e di ciò che pregato m'hai sanza fallo ti servirò. Aiutinci gl'iddii a tanta impresa, e la fortuna, nelle cui mani ci rimettiamo, non ci sia avversa. Non lagrimare più ma alza il viso, e ascolta qual via sia da noi da esser tenuta --. Piacquero a Filocolo queste parole, e alzò il viso. A cui Sadoc disse: -- Giovane, io ho in brieve spazio di tempo per la mia mente molte vie cercate per recare sì alto disio, come il tuo è, ad effetto, né alcuna ne truovo che buona sia a tal cosa recare a fine se non una sola, la quale è di non picciolo pericolo, ma di grande. Tu hai gran cosa dimandata, alla quale per picciolo affanno non si può pervenire: e però ascolta. Se a te dà il cuore di metterti a tanta ventura, io mi sono ricordato che di qui a pochi giorni in queste parti si celebra una festa grandissima, la quale noi chiamiamo de' cavalieri. In quel giorno i templi di Marte e Venere sono visitati con fiori e con frondi e con maravigliosa allegrezza: il quale giorno io avrò fatto per li vicini paesi le rose e' fiori tutti cogliere, e in tante ceste porre, quante damigelle nella torre dimorano; e guardole in questo prato davanti la torre, dove l'amiraglio coronato e vestito di reali drappi con grandissima compagnia viene, e di ciascuna cesta prende rose con mano a suo piacere, e secondo che egli comanda, così poi le collo sopra la torre, faccendo chiamare quella a cui dice che data sia. E però che la tua Biancifiore la più bella è di tutte, sempre prima che alcuna altra è presentata, io ti porrò, se tu vuoi, in questa cesta che a Biancifiore presentare si dee, e coprirotti di rose e di fiori quanto meglio si potrà. Ma s'egli avvenisse che la fortuna, nimica de' nostri avvisi, ti scoprisse e facesseti al signore vedere, niuna redenzione saria alla nostra vita. Vedi omai il pericolo: pensa quello che da fare ti pare. Se egli non se n'avvedrà, tu potrai con lei essere alquanti giorni: poi s'avviene che esso alcuna volta, sì come egli suole spesso a mangiare salirvi, vi salga, in forma d'uno de' miei sergenti te ne trarrò. Altra via nulla ci è. Egli tiene di tutte le porti le chiavi, se non di questa la quale tu vedi aperta, la quale io ho in guardia --. Filocolo, pieno d'ardente disio, a niuno pericolo, a niuna strabocchevole cosa che avvenire possa, pensa, ma subito risponde che egli a questo pericolo e ad ogni maggiore che avvenire potesse è presto, affermando che per grandissimi pericoli e affanni si convenga pervenire all'alte cose.



[105]

Finiscesi adunque con questo proponimento il loro consiglio, e con fede e con giuramento insieme si legano, l'uno d'osservare la 'mpromessa e l'altro di tacere. E così Sadoc, dato il giorno a Filocolo che egli a lui ritorni, confortandolo da sé l'accomiata. E Filocolo torna alla città contento, e tanto lieto che appena il può nascondere, disiderando che mai il termine posto venga: e ogni ora gli parea più lungo spazio di tempo che non era stato quello che tribolato avea, Biancifiore cercando.



[106]

O avarizia, insaziabile fiera, divoratrice di tutte le cose, quanta è la tua forza! Tu sottilissima entratrice con disusate cure ne' mondani petti rompi le caste leggi. Tu con grosso velo cuopri il viso alla ragione. Tu rivolgi la ruota contra 'l taglio della giusta spada. Tu spezzi con disusata forza i freni di temperanza, e levi a fortezza le sue potenze. Tu, o insaziabile appetito, rechi necessità ne' luoghi d'abondanza pieni. Tu, o iniqua, non sai che fede si sia. Tu puoi i pietosi cuori rivolgere in crudeli. Che più dirò di te, se non che puoi la fama per la infamia far lasciare e gli etterni regni per li terreni abandonare? Chi avria mai potuto, o guastatrice d'ogni virtù, credere che pascendoti ampiamente nel petto di Sadoc, la sua fierità in vilissima lenonia si mutasse per te? Forti cose paiono a pensare le tue operazioni!



[107]

Viene il nominato giorno, Filocolo sollecito torna a Sadoc. Niuno amico sa la sua andata: e dovendo la vegnente mattina Filocolo nascondersi ne' fiori, quella notte si dorme con Sadoc, della quale la maggior parte consuma in divoti prieghi. Niuno iddio rimane in cielo, a cui le sue voci non si muovano. A tutti promette gra ziosi incensi se a questo punto l'aiutano, e Marte e Venere più che gli altri sono pregati: e ultimamente gl'iddii degli ombrosi regni di Dite da lui sono tentati divotamente d'umiliare, acciò che a' suoi disii non si oppongano. Ma poi che ella, al suo parere lunghissima, trapassa, e appressasi il giorno, essi due soli si levano, e trovata la cesta, Filocolo vi si mette dentro, raccolto in quella guisa che egli può il meglio, e quivi entro Sadoc maestrevolemente molto il cuopre di fiori e di rose, ammaestrandolo che cheto si tenga. E posti di fiori sopra lui grandissima quantità, così acconcio, con l'altre ceste davanti al signore già venuto nel prato, dove similemente quasi tutto il popolo della città era raccolto per tal festa vedere, le presenta, alla guardia di quelle continuo dimorando.



[108]

O amore, nemico de' paurosi, quanta è maravigliosa la tua potenza, e quanto furono le tue fiamme ferventi nel petto di Filocolo! Quale strabocchevole via fu mai usata per te quale fu quella che Filocolo ebbe ardire di tentare? A Leandro non era il mare contrario, e a Paris era di lungi il nimico; a Perseo la sua forza era mediante, e Dedalo per la sua salute, essendogli chiuso il mare e la terra, con maestrevoli ali fuggì per l'aere. Gran cosa fa fare il fuggire la morte, gran fidanza rende l'uomo a se medesimo combattente, e le follie de' mariti spesso sono cagione d'adulterii alle mogli, e le larghezze delle vie fanno volonterosi gli uomini molte volte ad andare per quelle. Ma costui non larga via si vedea, non assenza di nimico, non disposto a potere per sua forza campare, non fuggire morte, ma più tosto seguirla a quello mettendosi. Egli pose la sua vita sotto la fede d'uomo che mai fede non avea conosciuta, e sotto sottili frondi di ro se, le quali dalle più picciole aure sariano potute muovere, e scoprirlo nel cospetto del nimico. Egli diede il vivo corpo all'essere immobile come morto. Tu porgi più forza e più ardire che la natura medesima. Quello che Filocolo non avea avuto ardire di dimandare al padre, solamente ora in pericolo da non potere pensare, davanti al nimico la cerca. Oh, quale amante! Oh, quanto da essere amato! Oh, quanto Biancifiore più ch'altra misera si poria riputare, se di ciò le disavvenisse che Filocolo ha impreso! Oh, quanta saria la sua paura se ella consapevole fosse di queste cose! Certo io non so vedere quale ella si fosse, o più dolorosa perdendolo, o più contenta tenendolo.



[109]

Il signore comanda che la più bella cesta di fiori gli sia presentata davanti. Sadoc presto quella dove Filocolo timido, come la grua sotto il falcone o la colomba sotto il rapace sparviero, dimorava, gli porta avanti. O iddii, o santa Venere, siate presenti, difendete da tanti occhi il nascoso giovane. Mise allora l'amiraglio le mani in quella, e pensando a Biancifiore, a cui mandare la dovea, tanto effettuosamente di quelle prese, che de' biondi capelli seco tirò, ma nol vide. Quale allora la paura di Filocolo fosse io nol crederci sapere né potere dire, però chi ha punto d'ingegno il si pensi: egli fu quasi che passato agl'immortali secoli, appena vita gli rimase, e quasi di tremore tutto si mosse, ma la santa dea, presente, il ricoperse con non veduta mano; e levato da Sadoc e da molti altri del cospetto dell'amiraglio, il quale avea comandato che per amore di lui a Biancifiore si presentasse, fu portato a piè della torre. E quivi fatta chiamare Glorizia, la quale al servigio di Biancifiore dimorava, fece la cesta collare suso ad una finestra. Ma Filocolo, quasi stordito ancora della paura, non intese chi chiamata si fosse, ma fermamente si credette da Biancifiore, dovere essere ricevuto. Per che egli già a Glorizia vicino, disideroso di vedere Biancifiore, si scoperse il viso. La qual cosa quando Glorizia vide, non riconoscendolo, subito gittò un grandissimo strido, e ritornatole alla memoria chi costui era, ricopertogli il viso, che già dalle sante mani era stato ricoperto, tacitamente il riconfortò dicendo: -- Non dubitare, io ti conosco --. Ma già tutte le compagne erano là corse dicendo: -- Glorizia, che avesti tu che tu sì forte gridasti, né t'è nel viso colore alcuno rimaso? --. Alle quali ella rispose: -- Io non ebbi, care compagne, già mai tale paura, però che volendo io prendere la cesta de' fiori, e in essi sicuramente mirando, subitamente uno uccello uscì di quelli e nel viso mi ferì volando: per ch'io, temendo d'altro, così gridai --. E poi ella sola presa la cesta con l'aiuto della invisibile dea, nella gran camera e bella di Biancifiore la portò, e serratasi dentro, lo 'nnamorato giovane con le rose insieme della cesta trasse, e con ismisurata allegrezza abbracciandolo gli fece lunga festa, e appena in sé credea che essere potesse vero ciò ch'ella vedea. Di molte cose il dimandò, e molte a lui ne disse, avanti che interamente fosse certa ch'egli, cui ella vedea, fosse Florio.



[110]

Dimorato Filocolo per alquanto spazio nella bella camera solo con Glorizia, le bellezze di quella con ammirazione riguardando, e vedendo che bene era vero ciò che Dario detto ne gli avea, e più, domandò Glorizia che di Biancifiore fosse. A cui Glorizia quello che n'era, e che ne fu poi che venduta era stata, interamente gli disse, tanto che di pietà a lagrimare il mosse. E poi così le disse: -- O Glorizia, cara sorella, di grazia ti priego che tosto vedere la mi facci, però che io ardo del disio, e appena credo tanto vivere ch'io la vegga --. A cui Glorizia disse: -- Caro signore, ciò che tu mi di' io credo, e di lei il simigliante ti posso dire: ella non crede mai te poter vedere. Ma però che la fortuna, infino a qui stata in ogni cosa a voi contraria, non possa per poco avedimento più nuociervi, se ti piace, alquanto m'ascolterai, e s'io dico bene, segui il mio consiglio.



[111]

« Egli è usanza qua entro, che quando tutte le giovani donzelle avranno ciascuna le sue rose ricevute, di venirsene qui in questa camera, e di qui andare nell'altre camere, faccendo festa insieme, né a ciò alcuna può prendere scusa, e questo potrai tu vedere onde io dubito che se io dicessi a Biancifiore che tu qui fossi e mostrassileti, non avvenissero due cose, o l'una delle due, le quali sono queste. La prima è che mi pare manifestamente vedere che s'ella ti vedesse, impossibile saria da te partirla mai, e dimorando teco, e non fosse con le donzelle a far festa, di leggiere esse ne porriano meno che bene pensare, e porriane agevolmente male seguire; appresso ho che peggio che questo ch'è detto saria, ch'io so che, vedendoti ella, saria tanta la sua letizia, che di leggieri quello che 'l dolore non ha potuto vincere, cioè il tribolato cuore, l'allegrezza il vincerebbe. E già sappiamo che avvenne, e tu il puoi avere udito, di Mivenzio Stavola, di Sifocle e di Filone, i quali ne' duri affanni vivuti, per allegrezza morirono. Ma, acciò che né l'una né l'altra di queste cose avvenga, si potrà così fare: acciò che tu contenti il tuo disio, e il suo festeggiare con l'altre non manchi, io in una camera a questa contigua ti metterò, della quale tu potrai ciò che in questa si farà vedere. Quivi dimorando tu tacitamente, io, sanza dire a Biancifiore al cuna cosa che tu qui sii, qua entro con le sue compagne la farò venire, dove tu la potrai, quanto ti piacerà, vedere. E questo per rimedio del primo male che avvenire ne poria, e per contentamento di te, tutto questo giorno infino alla notte ti basti. E acciò che l'altro non avvenga, per mio consiglio terrai questa via: io ti trarrò di quindi, e dietro alle cortine del suo letto, le quali io basserò, che ora stanno levate come tu vedi, ti nasconderò. Quivi tacitamente dimorerai tanto che coricata e dormire la vedrai, e poi che addormentata sarà, siati licito fare il tuo disio. Sono certa che ella, destandosi nelle tue braccia, diverrà piena di paura avanti che ti conosca, ma poi veggendoti, conoscendo, la paura, a poco a poco partendosi, darà luogo moderatamente all'allegrezza, e così l'uno e l'altro dubbioso pericolo fuggiremo. Se altro forse avvenisse, io vi sarò assai vicina, e lei caccerò col mio parlare d'ogni errore --. Piacque a Filocolo questo consiglio, ancora che grave gli paresse il dovere tanto aspettare. Per che Glorizia in quella camera il menò, e sotto grave giuramento promettere si fece che egli più avanti non faria che quello che essa l'avea consigliato. E partitasi da lui e serratolo dentro, dov'era Biancifiore se ne venne.



[112]

Trovò Glorizia Biancifiore sopra un letto d'una sua compagna giacere boccone piena di malinconia e di pensieri, e quasi tutta nell'aspetto turbata, a cui ella cominciò così a dire: -- O bella giovane, che pensieri sono questi? Qual malinconia t'occupa? Leva su, non sai tu che oggi è giorno da festeggiare e non da pensare? Già tutte le tue compagne hanno le rose e' fiori ricevute, e fanno festa, e te solamente aspettano; leva su, vienne: non sono tutti i giorni dell'anno igualmente da dolersi --. A cui Biancifiore rispose: -- Madre e compagna mia, a me sariano da dolere tutti i giorni dell'anno s'egli n'avesse molti più che non ha, e massimamente questo giorno nel quale noi dimoriamo, ché se della memoria non t'è uscito, in cotal giorno nacqui io, e colui similemente per cui io mi dolgo. Non ti torna egli a mente che in questo giorno l'empio re suo padre ci soleva insieme di bellissimi drappi vestire, e solavamo della nostra natività fare maravigliosa festa? E ora, imprigionata, da lui lontana, non so che di lui si sia, né m'è possibile il vederlo, né di lui alcuna novella udire! Non credi tu che mi vadano per la mente i dolorosi accidenti, che avvenire possono e avvengono tutto giorno a' viventi? Ora che so io se 'l mio Florio vive? Che similmente so io se egli ha me messa in oblio per l'amore d'un'altra giovane? Che so io se mai i' 'l debbo rivedere? Come, pensando queste cose, pensi tu che io possa lieta dimorare o fare, come l'altre fanno, festa, con ciò sia cosa che, qualunque l'una di queste avvenisse, io non vorrei più vivere? E pur conosco tutte esser possibile ad avvenire: ma certo se io sapessi pure a che fine gl'iddii mi debbono recare, io avrei alcuna cagione di conforto, se buona la sentissi. Elli m'hanno lungo tempo con la speranza che io ho avuta nelle loro parole con meno dolore nutricata, ma ora veggendo che ad effetto non vengono, tutto il dolore, che per adietro a poco a poco dovea sentire, raccolto insieme tutto mi tormenta: per che parendomi che gl'iddii come gli uomini abbiano apparato a mentire, più di piangere che di far festa m'è caro --.



[113]

Queste parole udite, Glorizia così cominciò a parlare: -- Bella figliuola, assai delle tue parole e di te mi fai maravigliare. Come hai tu oppinione che Iddio possa mentire già mai, con ciò sia cosa ch'egli sia sola verità? Non escano più di te queste parole, ma credi fermamente ciò che t'è da lui promesso doverti essere osservato: ma alla persona che molto disia, ogni brieve termine gli par lungo. Credi tu, perché tu sii qui poco più d'un anno dimorata, essergli però uscita di mente, e ch'egli non ti possa bene le sue promesse attenere? Ma quanto più dimori sanza riceverla, tanto più t'appressi a doverla prendere. E non voglia Iddio che sia ciò che tu di Florio pensi, che morte, o altro amore che 'l tuo, l'abbia occupato o l'occupi mai. Di questo ti rendi certa: che egli vive e amati e cercati, e di qua entro ti trarrà sua, se non m'inganna l'oppinione che io ho presa d'una nuova visione, che nel sonno di lui e di te questa notte m'apparve --. A queste parole si dirizzò Biancifiore dicendo: -- O cara madre, dimmi, che vedesti? --. -- Certo -- rispose Glorizia -- e' mi parea vedere nella tua camera il tuo Florio esser venuto, non so per che via né per che modo, e pareami ch'egli avesse indosso una gonnella quasi di colore di vermiglia rosa, e sopr'essa un drappo, il cui colore quasi simigliante mi parea a' tuoi capelli, e pareami tanto lieto, quanto mai io il vedessi, e rimirava te solamente, che nel tuo letto soavemente dormivi. A cui e' mi parea dire: « O Florio, come, o perché venisti tu qui? ». E egli mi rispondea: « Del come non ti caglia, ma il perché ti dirò: io, non potendo sanza cuore dimorare, per esso venuto sono qui, però che costei che dorme il tiene, né mai di qui sanza esso mi partirò. Quelli iddii che all'aspra battaglia m'aiutarono, quando la sua vita dalle fiamme campai, m'hanno promesso di renderlami, e a loro fidanza per essa venni ». Tu allora mi parea che ti svegliassi e piena di maraviglia riguardandolo, appena credevi ch'egli desso fosse, ma poi riconosciutolo, grandissima festa faciavate. La quale mentre ch'io riguardava, tanta era l'allegrezza che nel cuore mi crescea, che non potendola il debole sonno sostenere, si ruppe: per che io spero che la tua speranza non fia vana. E parmi fermamente credere che egli cercando te sia in questo paese, e che tu forse ancora, anzi che lungo tempo sia, quella allegrezza, che tu con lui solevi in questo giorno fare, farai: però confortati, e fortifica la tua buona speranza --. Udendo queste parole Biancifiore si gittò al collo a Glorizia, e abbracciatala cento volte o più la baciò, dicendo: -- Cara compagna, gl'iddii rechino ad effetto quello che tu pensi! Ma io non so vedere come fare si potesse, posto ch'egli pur fosse a' piè di questa torre, ch'egli mi parlasse o mi riavesse, se bene consideriamo sotto che guardia dimoriamo --. Disse Glorizia: -- Non sta a te il dover pensare che via Iddio gli si voglia mostrare a riaverti: non è da pensare che quelli, che altra volta l'aiutò, ora l'abandoni --.



[114]

Levossi adunque per i conforti di Glorizia Biancifiore, e con l'altre cominciò a far festa, secondo che usata era per adietro. Elle aveano già tutte le rose prese: per che di quelle portando grandissima quantità alla camera di Biancifiore, con quella in quella n'andarono, e con dolci voci cantando, e tale sonando con usata mano dolci strumenti, e altre presesi per mano danzando, e altre faccendo diversi atti di festa, e gittando l'una all'altra rose insieme motteggiandosi, e Biancifiore similmente, non sappiendo che da Filocolo veduta fosse, con quelle sì festeggiava, gittando spesso grandissimi sospiri. E in questa maniera nella sua camera e in quelle dell'altre tutto quel giorno dimorarono. Ma Filocolo, che per picciolo pertugio vide nella bella camera entrare Biancifiore, di pietà tale nel viso divenne, quale colui che morto a' fuochi è portato; e la debolezza dello innamorato cuore cacciò fuori di lui un sudore che tutto il bagnò, e con tramortita voce, gittato un gran sospiro, disse pianamen te: -- Oimè, ch'io sento i segnali dell'antica fiamma! --. E poi in sé ritornato e renduta al cuore intera sicurtà e forza, con diletto cominciò a rimirare quella che solo suo bene, solo suo diletto, solo suo disio riputava, e fra sé, più bella che mai riputandola, dicea: -- O sommi iddii immortali, come può egli essere che io qui sia e vegga la mia Biancifiore? Essaltata sia la vostra potenza! --. E rimirando Biancifiore, si ricordava di tutti i passati pericoli, i quali nulli essere stati estimava veggendo lei, tenendo che per così bella cosa a molto maggiori ogni uomo si dovria mettere. Poi fra sé diceva: -- Deh, Biancifiore, sai tu ch'io, sia qui? Se tu il sai, come ti puoi tu tenere di venirmi ad abbracciare? E se tu nol sai, perché t'è tanto bene celato e tanta gioia quanta io credo che tu avresti vedendomi? Come ti poss'io sì presso dimorare che tu non mi senta? Mirabile cosa mi fai vedere, con ciò sia cosa che a me non prima giugnendo in questi porti vidi la terra, che 'l cuore cominciò a battere forte, sentendo la tua potenza: e questo fu alla mia ignoranza infallibile testimonio che tu qui eri. Oh, se il mio iniquo padre e la mia crudele madre che io per te a tale pericolo mi fossi messo, quale io sono, e ora così vicino ti stessi com'io sto, sapessero, appena ch'io creda che la paura e 'l dolore non gli uccidesse! Deh, quanto m'è tardi che io manifestare mi ti possa! Io non posso rimirandoti sentire perfetta gioia, sappiendo che tu nol sappi --. In questa maniera servito da Glorizia celatamente dimorò Filocolo tutto il giorno, il quale egli estimava che mai meno non venisse, tanto gli parea più che gli altri passati maggiore, e ben che lungo gli paresse, non però di mirare Biancifiore in quello si poté saziare. Ma poi che 'l giorno alla sopravegnente notte diede luogo, Glorizia, acconciato il letto di Biancifiore e bassate le cortine, trasse Filocolo del luogo dove stava, e lui di dietro alle cortine, come detto gli avea ripose, pregandolo che s'attendesse e in quella maniera facesse che a lei la mattina promesso avea.



[115]

Mancati i giuochi e le feste delle pulcelle per la sopravenuta notte, Biancifiore con Glorizia se ne vennero nella gran camera per dormirsi. E sì come per adietro erano usate, cominciarono di Filocolo nuove cose a ragionare e molte: e Biancifiore, che una cintoletta di Florio avea, la quale lungo tempo avea guardata, quella tenendo in mano, altro che baciarla non facea. E in questa maniera dimorando, Glorizia disse: -- Biancifiore, se Iddio ciò che tu disideri ti conceda, vorresti tu che Florio fosse qui teco ora in diritto? --. Gittò allora Biancifiore un gran sospiro, e poi disse: -- Oimè, di che mi domandi tu ora? E' non è niuna cosa nel mondo che io più tosto volessi, che io vorrei che Florio qui fosse, ben che male sia a disiderare ciò che non si può avere: avvegna che, se io che sono femina fossi fuori di questa torre, come io imprigionata ci sono dentro, e la mia libertà possedessi, com'io credo ch'egli la sua possegga, io non dubiterei d'andarlo per tutto il mondo cercando, infino che io il troverei; e se avvenisse che, così com'io dimoro rinchiusa, egli rinchiuso dimorasse, niuna via sarebbe che io non cercassi per essere con lui; e quando ogni via da potere essere con lui mi fosse tolta, certo io m'ingegnerei di commettermi a' paurosi spiriti, che mi vi portassero. Non so se questo egli per me facesse --. -- Come -- disse Glorizia -- vorresti tu metter Florio a tanto pericolo, quanto gli potrebbe seguire, se egli venisse qui? Non pensi tu che, se l'amiraglio in alcun modo se n'avedesse, tu e egli morreste sanza alcuna redenzione? --. -- Certo -- disse Biancifiore -- credere dei che niuno suo pericolo io vorrei: prima il mio disidererei. Ma se io avessi lui teste so alquanto, della mia morte io non mi curerei, se avvenisse che però morire mi convenisse, anzi contenta n'andrei agl'immortali secoli: ma se a lui altro che bene avvenisse, oltre misura mi dorrebbe. E certo io m'ucciderei avanti che io vedere lo volessi --. -- Or ecco -- disse Glorizia -- tu nol puoi avere; egli non c'è, né ci può venire: è alcuno altro che tu disiderassi o, che poi che tu non vedesti lui, ti sia piaciuto? --. Con turbato viso rispose Biancifiore e disse: -- O Glorizia, per quello amore che tu mi porti, più simili parole non mi dire. Elli non è nel mondo brievemente uomo cui io disideri né che mi piaccia, se non egli: e poi ch'io lui non vidi, e' non mi parve vedere uomo, non che alcuno me ne piacesse, avvegna che egli a torto ebbe già oppinione ch'io amassi Fileno, il quale me molto amò, ma da me mai non fu amato. Cessino gl'iddii da me che alcuno mai me ne piaccia se non Fiorio, o che io d'altrui che sua sia già mai, mentre queste membra in vita saranno col tristo corpo: e poi che l'anima ancora di questo si partirà, ove che ella vada, sarà sua, e lui a mio potere seguirà. E voglioti dire nuova cosa, che poi che tu stamane mi dicesti la veduta visione, entrando io in questa camera, il cuore mi cominciò sì forte a battere, che mai non mi ricorda che sì forte mi battesse, e giuroti per gli etterni iddii che ovunque io sono andata o stata, e' m'è paruto avere allato Florio: per che io porto ferma speranza ch'egli per lo mondo mi cerchi, come tu mi dicesti che credevi, e forse in questo paese dimora --. -- Siene certa --, le disse Glorizia.



[116]

Andavasene la notte con queste parole, e Filocolo di dietro alla cortina ascoltava il ragionare di queste due, e tal volta di nascosa parte Biancifiore rimirava, e con fer ventissimo disio volea dire: -- Io son qui, il tuo Florio, il quale tu tanto disideri! --. Ma per la promessa fede e per paura del mostrato pericolo si ritenea: elli gli parea ogni ora un anno che Glorizia tacesse, e Biancifiore andasse a dormire; ma del suo disio il contrario avvenia, che mai Biancifiore tanto vegghiato non avea, quanto quella sera, invescata alle parole di Glorizia, vegghiava. Ma poi che Glorizia, vinta dal sonno, lasciò Biancifiore e nella vicina camera andò a dormire, Biancifiore si coricò nel ricco letto, e per quello stendendo le braccia, e più volte cercandolo tutto, non potendo dormire, così quasi piangendo cominciò a dire:



[117]

-- O Florio, sola speranza mia, gl'iddii ti concedano migliore notte che io non ho; gl'iddii ti conservino in quella prosperità e in quel bene che tu disideri, e a te e a me concedino ciò che licito non ci fu potere avere, e mettanti in cuore di ricercarmi, avvegna che assai lontana ti dimori. Ma saper puoi che per amore di te io sostengo le non meritate tribolazioni; e però quello amore che me non lasciò vincere alla paura, che del tuo padre avere dovea, che io pure non ti amassi, vincati a far sì che io da te sia ricercata. Non ti ritengano le minacce del tuo padre, né le lusinghe della tua madre. Spera, ché io non ho altro bene nel mondo che te, né d'altrui attendo soccorso se non da te. O dolce Florio, possibile mi fosse ora nelle mie braccia ritrovarti! Oh quanto bene avrei! Certo io non crederei che la fortuna o gl'iddii mi potessero poi far male. Io ti bacerei centomila volte; e appena che queste mi bastassero! Oh quante volte sarieno da me baciati quelli occhi, che con la loro piacevolezza prima mi fecero amor sentire! Io strignerei con le sconsolate braccia il dilicato collo tanto, quanto il mio disio avanti si distendesse. Deh, ora ci fossi tu: che è a pensare che una timida giovine dorma sola in così gran letto come fo io? Tu mi saresti graziosa compagnia e sicura. O santa Venere, quando sarà che la 'mpromessa da voi fatta a me s'adempia? Viverò io tanto? Appena che io il creda. Io ardo: io non posso sostenere le vostre percosse, ma impossibile conosco che 'l mio disio ora s'adempia, tanto gli sono lontana; ma in luogo di ciò, o Citerea, manda nel petto mio soave sonno, e quello che io veramente aver non posso, fammelo nel sonno sentire. Contenta con questo il mio disire, acciò che alquanto si mitighi la mia pena. Or ecco, io m'acconcio a dormire, e attendo nelle mie braccia il disiato bene. O santa dea, io gli lascio il suo luogo: venga con grazioso diletto a me, io te ne priego --. Queste parole dicendo, ogni volta ch'ella ricordava Florio, gittava un grandissimo sospiro, e con le braccia distese verso quella parte dove Filocolo nascoso dimorava, con fatica, dopo molti sospiri, s'adormentò.



[118]

Filocolo udiva tutte queste parole, e più volte fu tentato di gittarlesi in braccio e di dire: -- Eccomi, il tuo disio è compiuto! --. Ma poi dubitando si ritenea, e con disiderio attendea ch'ella s'addormentasse; ma poi che la vide dormire, pianamente spogliandosi infra le distese braccia si mise, lei nelle sue dolcemente recando. Ma già per questo la bella giovane non si destò, né Filocolo destare la volea prima ch'ella per sé si destasse; anzi, tenendola in braccio, dicea: -- O dolce amor mio, o più che altra cosa da me amata, è egli possibile a credere che tu sii nelle mie braccia? Certo io ti tengo e stringoti, e appena il credo. Luceva la camera, sì come chiaro giorno fosse, per la virtù de' due carbunculi; per che egli riguardandola dicea: -- Certo, tu se' pur la mia Biancifiore, e non m'inganna il sonno, come già molte volte m'ha ingannato, ché ora pur vegghiando ti tengo. Ma tu che poco inanzi cotanto nelle tue braccia mi disideravi, secondo il tuo parlare, come puoi ora dormire avendomi? Non mi sente il tuo cuore, il quale so che continuamente vegghia ricordandosi di me? O bella donna, destati, acciò che tu conosca chi tu hai nelle tue braccia. Veramente tu n'hai ciò che tu in sogno alla santa dea domandavi. Destati, o vita mia, acciò che tu più allegra ch'altra femina col più lieto uomo del mondo ti ritruovi, e prendi la 'mpromessa della santa dea. Destati, o sola speranza mia, acciò che tu vegga quello che agl'iddii è piaciuto: tu tieni nelle tue braccia quello che tu disideri, e nol sai. Or, s'io ti fossi testé tolto, come ti sarebbe in odio l'aver dormito! Destati, e prendi il disiderato bene, poi che gl'iddii ti sono graziosi --. Egli dice queste e molte altre parole, e ad ogni parola cento volte o più la bacia. Egli, tirate indietro le cortine, con più aperto lume la riguarda e sovente l'anima alienata richiama. Egli la scuopre e con amoroso occhio rimira il dilicato petto, e con disiderosa mano tocca le ritonde menne, baciandole molte volte. Egli distende le mani per le segrete parti, le quali mai amore ne' semplici anni gli avea fatte conoscere, e toccando perviene infino a quel luogo ove ogni dolcezza si richiude: e così toccando le dilicate parti, tanto diletto prende, che gli pare trapassare di letizia le regioni degl'iddii; e oltre modo disidera che Biancifiore più non dorma e a destarla non ardisce, anzi con sommessa voce la chiama e tal volta strignendolasi più al petto s'ingegna di fare che ella si desti. Ma l'anima, che nel sonno le parea nelle braccia di colui stare, nelle cui il corpo veramente dimorava, non la lasciava dal sonno isviluppare, parendole in non minore allegrezza essere che paresse a Filocolo, che lei tenea. Ma poi, pur costretta di destarsi, tutta stupefatta stringendo le braccia si destò, dicendo: -- Oimè, anima mia, chi mi ti toglie? --. A cui Filocolo rispose: -- Dolce donna, confortati, che gl'iddii mi t'hanno dato, niuna persona mi ti potrà torre --. Ella udita la voce umana, stordita del sonno e di paura, si volle fuori del letto gittare e gridare e chiamare Glorizia, ma Filocolo la tenne forte, e subitamente le disse: -- O giovane donna, non gridare e non fuggire colui che più t'ama che sé: io sono il tuo Florio, confortati e caccia da te ogni paura --. Tacque costei maravigliandosi, e, parendole la sua voce, disse: -- Come può essere che tu qui sii ora ch'io ti credea in Ispagna? --. -- Così ci sono come gl'iddii hanno voluto -- rispose Filocolo, -- e però rassicurati --. Pareano impossibili queste parole ad essere vere a Biancifiore, e riguardandolo le parea desso, e rallegravasi, e non credendolo, tutta di paura tremava.



[119]

In questa maniera Filocolo confortandola, e da lei la paura cacciando con vere parole, dimorarono alquanto. E ella in più modi accertatasi che desso era, cioè Florio, colui cui ella tenea in braccio, sospirando lo incominciò ad abbracciare e a baciare, tanto amorosamente e tanto lieta in se medesima, che appena le bastava a tanta letizia la vita; e così gli disse: -- O dolce anima mia, cosa impossibile a credere mi fai vedere; dimmi, per quegl'iddii che tu adori, come venisti tu qui? --. A cui Filocolo rispose: -- Donna mia, così ci venni come fu piacere degl'iddii. Non è bene, mentre ciascuno di noi si maraviglia, narrare il modo: ma rallegrati che sano e salvo, e più lieto ch'io fossi mai, nelle tue braccia dimoro --. -- Di ciò mi rallegro io molto, ma io non posso fare ch'io non sia nella mia allegrezza impedita -- disse Biancifiore, -- pensando a qual pericolo tu per venire qui ti sii messo --. Rispose Filocolo: -- Poi che prosperevolemente gl'iddii hanno il mio intendimento recato al disiderato fine, di che tu ti dei rallegrare, non pensiamo più a' passati pericoli, spendiamo il tempo più dilettevolemente, però che incerti siamo quanto conceduto ce ne fia, mentre nell'altrui mani dimoriamo --.



[120]

Cominciaronsi adunque i due amanti a far festa l'uno all'altro, e ciascuno i disiderati baci sanza numero s'ingegnava di porgere all'altro. Forte saria a potere esprimere la gioia e l'allegrezza di loro due: ma chi tal bene già per suoi affanni gustò, qual fosse il può considerare. E mentre in questa festa dimorano, Biancifiore dimanda che sia del suo anello, il quale Filocolo nel suo dito gliele mostra. -- Omai -- disse Biancifiore -- non dubito che l'agurio ch'io presi delle parole di tuo padre, quando davanti gli presentai il paone, non venghino ad effetto, che disse di darmi, avanti che l'anno compiesse, per marito il maggior barone del suo regno: e certo di te intesi, di cui io non sono ora meno contenta, avvegna che passato sia l'anno, che se avanti avuto t'avessi, pure ch'io t'aggia --. A cui Filocolo disse: -- Bella donna, veramente verrà ad effetto ciò che di quelle parole dicesti; né credere che io sì lungamente aggia affannato per acquistare amica, ma per acquistare inseparabile sposa, la quale tu mi sarai. E fermamente, avanti che altro fra noi sia, col tuo medesimo anello ti sposerò, alla qual cosa Imineo e la santa Giunone e Venere, nostra dea, siano presenti --. Disse adunque Biancifiore: -- Mai di ciò che ora mi parli dubitai, e con ferma speranza sempre vivuta sono di dovere tua sposa morire; e però levianci di qui, e davanti alla santa figura del nostro iddio questo facciamo: elli, nostro Imineo, elli la santa Giunone e Venere ci sia --.



[121]

Levatasi adunque Biancifiore e copertasi d'un ricco drappo, e similmente Filocolo, davanti alla bella imagine di Cupido se n'andarono, e quella di fresche frondi e di fiori coronata, davanti ad essa accesero risplendenti lumi, e amenduni s'inginocchiarono. E Filocolo primamente cominciò così a dire: -- O santo iddio, signore delle nostre menti, a cui noi dalla nostra puerizia avemo con intera fede servito, riguarda con pietoso occhio alla presente opera. Io con fatica inestimabile qui pervenuto, cerco quello che tu ne' cuori de' tuoi suggetti fai disiderare, e questa giovane con indissolubile matrimonio cerco di congiungermi, al quale congiungimento ti priego niuna cosa possa nuocere, niuno vivente dividerlo né romperlo, niuno accidente contaminarlo, ma per la tua pietà in unità il conserva: e come con le tue forze sempre i nostri cuori hai tenuti congiunti, così ora i cuori e' corpi serva in un volere, in un disio, in una vita e in una essenzia. Tu sii nostro Imineo; tu in luogo della santa Giunone guarda le nostre facelline e sii testimonio del nostro maritaggio --. A questa ultima voce, la figura, dando con gli occhi maggiore luce che l'usato, mostrò con atti i divoti prieghi avere intesi, e movendosi alquanto, verso loro inchinando, si fece ne' sembianti più lieta. Per che Biancifiore, che simile orazione avea fatta, disteso il dito, ricevette il matrimoniale anello; e levatasi suso, come sposa, vergognosamente, dinanzi alla santa imagine baciò Filocolo, e egli lei. E dopo questo, correndo n'andò al letto di Glorizia, dicendo: -- O Glorizia, leva su, vedi ciò che gl'iddii per grazia hanno voluto di quello che noi questa sera e ieri tanto ragionammo --. Levossi Glorizia, mostrandosi nuova di ciò che Biancifiore le diceva, e venuta in presenza di Filocolo gli fece mirabilissima festa; e veduto ciò che fatto aveano, contenta oltre misura disse: -- E come, così tacitamente da voi tanta festa sarà celebrata sanza suono? Negati ci sono gl'idraulici organi e le dolci voci della cetera d'Orfeo e qualunque altro citerista, ma io con nuova nota supplirò il difetto --. E preso un bastonetto, tutti e quattro i cari alberi percosse, e quindi dolcissima melodia in diversi versi si sentì: la quale tanto, quanto di loro fu piacere, durò. Ma dopo molti ragionamenti, già gran parte della notte passata, ciascuno, fatti tacere i canti, al letto si ritornò.



[122]

O allegrezza inestimabile, o diletto non mai sentito, o amore incomparabile, con quanto effetto congiugneste voi i novelli sposi! Pensinlo le dure menti, nelle quali amore non puote entrare, pensinlo i crudi animi: e se questo pensando, non divengono molli, credasi che graziosa virtù in loro abitare non possa! Nelli disiderati congiugnimenti si poterono per la camera vedere fiaccole non accese da umana mano, né da quella portate. Ivi si poté vedete Imineo in figura vera coronato d'uliva, e Citerea fare mirabile festa intorno al suo figliuolo; e non ch'altro iddio, ma Diana vi si vide rallegrarsi di tanto congiugnimento, laudandosi, cantando santi versi, che sì lungamente l'uno all'altro avea sotto le sue leggi guardati casti. Dilettaronsi i due amanti convenevole spazio negli amorosi congiugnimenti, e ultimamente del tempo quasi fino presso al giorno dierono a diversi ragionamenti: poi vinti dal sonno, abbracciati soavemente dormendo stettero tanto, che il sole luminò ciascuno clima del nostro emisperio con chiara luce.



[123]

Destati quasi ad un'ora amenduni gli amanti si levarono lieti, e Biancifiore vide Filocolo vestito in quella forma che Glorizia le avea detto d'averlo veduto nella sua visione, e maravigliandosene gliele raccontò; di che Filocolo, pensando al modo del parlare di Glorizia, alcuna ammirazione non prese, ma disse: -- Gran cose mostrano gl'iddii future a coloro cui essi amano! --. E da Glorizia serviti, quel giorno insieme, narrando l'uno gli accidenti suoi all'altro, con piacevole ragionamento dimorarono. Ma a Filocolo, gli occhi di cui pure a quelli d'Amore correano, venne disio di sapere che quella figura quivi adoperasse, e dimandonne Biancifiore, la quale così gli disse: -- Io non so per che qui posta si fosse, né mai ne domandai, se non che io estimo che per bellezza e ornamento della camera ci fosse posta; ma ciò che io nel cospetto di questa figura sovente facea, mi piace di raccontarti:



[124]

« Riguardando io questa imagine e considerando la bellezza d'essa, sovente di te mi ricordava, perché, avvegna che promesso mi fosse da Venere questo effetto a che pervenuti siamo, parendomi impossibile, temendo d'averti perduto, di questa te, qual Sirofane egiziaco fece del perduto figliuolo, feci: e sì come quelli di fiori e di frondi ornava la memoria del figliuolo, davanti a lei della sua dissoluzione dolendosi, così io di questa facea. Io l'ornava di fiori e di frondi spesso, e per suo propio nome la chiamava Florio: e quand'io disiderava di vederti, a questa vedere correa, alla quale contemplare fui più volte dalle mie compagne trovata. Con questa, come se con meco fossi stato, de' miei dolori e infortunii mi do lea, con costei piangea, con costei i miei disii narrava, costei in forma di te pregava che m'aiutasse, costei onorava; a costei gli amorosi baci, che a te ora effettuosamente porgo, porgea, costei pregava che di me le cadesse, costei in ogni atto sì come se tu ci fossi stato, trattava. E certo, la mercé di colui per cui posto c'è, elli alcuno, avvegna che picciolo, conforto mi porgea, per che io sovente a con costui dolermi e a baciarlo, com'io t'ho detto, tornava » --.



[125]

Niuno infortunio, niuno accidente all'uno o all'altro era intervenuto, poi che divisi furono, che quel giorno non si raccontasse, avendo l'uno dell'altro non poca ammirazione e diletto. Ma venuta la notte si coricarono, continuando gran parte di quella vegghiando con piacevoli ragionamenti e con amorevoli abbracciamenti; per che poi, vinti dal sonno, oltre al termine della notte dormirono per lungo spazio; perché la fortuna, ancora alle prosperità loro non ferma, con inoppinato accidente s'ingegnò d'offenderli con più grave paura che ancora offesi gli avesse, in questo modo.



[126]

L'amiraglio pieno di malinconia, forse per disusato pensiero, cerca, per fuggir quella, la bellezza di Biancifiore vedere, credendo in quella veramente ogni potenza di gioia rendere, far dimora. E partitosi d'Alessandria la terza mattina vegnente poi che le rose presentate avea, essendo ancora molto nuovo il sole, se ne venne alla bella torre, sopra la quale, come tal volta suo costume era, subitamente montò sanza alcun compagno. E giunto nella gran sala, alla camera di Biancifiore pervenne, don de Glorizia poco avanti era uscita e serratala di fuori. Questa aperta, passò dentro, e nella sua entrata, corsogli l'occhio al letto di Biancifiore, vide lei con Filocolo dormire abbracciati insieme: di che rimaso tutto stordito, quasi di dolore non morio. Ma pur sostenendoli la vita di riguardare costoro, lungamente li rimirò e fra sé dicea: -- O Biancifiore, vilissima puttana, tolgano gl'iddii via che tu delle mie mani la vita porti: tu morrai uccidendoti io. Tu, da me più che la vita mia per adietro amata, hai con isconvenevole peccato meritato odio; e tu, la quale io con sollecitudine ho infino a qui ingegnatomi dal congiungimento di qualunque uomo, e ancora dal mio medesimo, che d'avere i tuoi abbracciamenti tutto ardea, ho guardata, ora per tua malvagità congiuntati con non so cui, la morte debitamente hai guadagnata: e io la ti darò. Tu sarai miserabile essemplo a tutte l'altre che per inanzi volessero ardire di cotal fallo commettere. Una ora amenduni vi perderà, e la tua vituperata bellezza perirà sotto la mia spada: niuna bellezza mi farà pietoso --. E queste parole dicendo, trasse fuori la tagliente spada e alzò il braccio per ferirli; ma Venus, nascosa nella sua luce, stando presente, non sofferse tanto male, ma messasi in mezzo ricevette sopra lo impassibile corpo l'acerbo colpo, il quale sopra i dormenti amanti discendea: per che niente furono offesi. E il pensiero subito si mutò all'amiraglio, parendogli vil cosa due che dormissero uccidere, e la sua spada fedare di sì vile sangue: per che egli tiratala indietro, la ripose, e sanza destarli si partì della camera, infiammato contra loro, e in tutto deliberando nell'acceso animo di tal fallo farli punire. E sceso dell'alta torre, sanza essere da persona scontrato o veduto, trovati i sergenti suoi lui aspettanti, comandò che sanza indugio alla camera di Biancifiore salissero, e lei e colui che con lei troveranno ignudo, così ignudi strettamente legassero, e giuso dalla finestra, onde i fiori erano stati collati, gli mandassero nel prato, sanza avere di loro misericordia alcuna, o sanza niuno priego ascoltare.



[127]

Mossesi sanza ordine la scelerata masnada, e allegri del male operare salirono le disusate scale e pervennero alla bella camera, la quale ancora come l'amiraglio lasciata l'avea trovarono. Passano dentro, e veggono i due amanti abbracciati dormire: maravigliansi delle bellezze di ciascuno. Ma già per questo niuna pietà ramorbidisce i duri cuori: le scelerate mani legano i giovani colpevoli per soperchio amore. Niuno da tanta crudeltà si tira indietro, ma ciascuno più volentieri li stringe, e prendendo diletto di toccare la dilicata giovane, per merito di quello aggiungono più legami. Toccano le ruvide mani le dilicate carni, e gli aspri legami e duri li stringono, e li disordinati romori percuotono l'odorifero aere; per che i due amanti stupefatti si svegliano. E veggendosi intorno il disonesto popolo, si volsero levare per fuggire, ma i non ancora sentiti legami li 'mpedirono; e non vedendosi alcuno altro aiuto o rimedio, con dolorosa voce domandano che questo sia. Con vergognose parole è loro risposto: -- Voi siete per le vostre opere morti --. La miseria, nella quale la non stante fortuna gli avea recati, niuna risposta lascia porgere convenevole a' dolenti prieghi. Biancifiore, in reale eccellenzia vivuta infino a qui, ora come vilissima serva trattata, è dispregiata da' disonesti parlamenti della sconvenevole gente. E Filocolo, al quale i maggiori baroni soleano porgere dilicati servigi, percosso e con le mani e con villane parole, da' più vili è schernito. Biancifiore piange né sa che dire, e stordita non può pensare come avvenuto sia il doloroso accidente. E il romore multiplica per la torre: corre Glorizia e corrono l'altre damigelle, ciascuna prima si maraviglia, poi per pietà piange, e la bella sala, che mai dolente voce sentita non avea, ora di quelle ripiena risonando mostra il dolore maggiore. Niuna può a Biancifiore soccorso donare, ma disiderose della sua salute, lagrime e prieghi per quella porgono agl'iddii. Niuna si fa schiva di rimirare lo ignudo giovane, ma notando le sue bellezze, col pensiero menomano la colpa di Biancifiore. I contrarii fati sospingono i sergenti ad affrettarsi d'adempiere il comandamento del signore, per che i due amanti legati sono collati con lunga fune giù della torre: e acciò che ad alcuno non sia occulto il commesso peccato, vicini al prato rimangono sospesi. La rapportatrice fama con più veloce corso rapporta il male e in un momento riempie i vicini popoli dell'avvenuto male: per che con abandonato freno ciascuno corre al disonesto strazio, vaghi di vedere ciò che pietà fa loro poi debitamente spiacere. I sergenti votano la torre di loro, e armati con molti compagni guardano che alcuno non s'avvicini a' pendenti giovani. I quali tanto così legati pendono, quanto nel duro petto dell'amiraglio pende qual pena a tale offesa voglia dare; ma poi che con diliberato animo elesse che la loro vita per fuoco finisse, comanda che nel prato siano posati, e quivi in accesi fuochi siano sanza pietà messi, acciò che di loro facciano sacrificio a quella dea, le cui forze agli sconvenevole congiugnimenti gli condusse. Udito il comandamento, i fuochi s'accendono, e i due amanti sono messi in terra, e ignudi con sospinti passi sono tirati all'ardenti fiamme.



[128]

Piangendo Biancifiore così col suo amante sospesa, Filocolo con forte animo serrò nel cuore il dolore, e col viso non mutato né bagnato d'alcuna sua lagrima sostenne il disonesto assalto della fortuna, la quale, perché l'angoscia dell'animo non menomi, niuna sua felicità gli leva della memoria. Egli, vedendosi solo e sanza speranza d'alcuno aiuto, le forze de' suoi regni fra sé ripete, e loro, per adietro poco amate, ora avria molto care. Egli si duole degli abandonati compagni, nescii di tale infortunio, da' quali soccorso spererebbe, se credesse che 'l sapessero. Egli, pensando alla vile morte che davanti si vede, appena può le lagrime ritenere. Ma sforzando col senno la pietosa natura, quelle dentro ritiene, e dopo alquanto pensiero, con gli occhi a se medesimo volti, così fra sé cominciò a dire: -- O inoppinato caso! O nimica fortuna! Ora l'ultimo fine delle tue ire sopra me sazierai. Ora i lunghi tuoi affanni finirai. Tu per molti strabocchevoli pericoli m'hai recato a sì vile fine, non sostenendo più volte, quando il morire m'era a grado, che vita mi fallisse. Oh, quante volte sarei io potuto morire con minor doglia che ora non morrò, e più laudevolmente! Se tu, o iniquissima dea, avessi sostenuto che io, la prima volta ch'io da costei mi partii, fossi nelle sue braccia morto, com'io cercava, sentendo io per la mia partita intollerabile dolore, gl'iddii infernali avriano presa lieta la mia anima! O almeno m'avesse la ingiusta lancia del siniscalco passato il cuore, quando con lui, mai più non usato all'armi, combattei! O mi fosse stato licito l'uccidermi, quando costei tanto piansi, credendola morta! Almeno qualunque di queste morti presa avessi, nel cospetto della mia madre sarei morto, e ella col mio padre insieme il pietoso uficio avrebbero adoperato, guardando poi le mie ceneri con pietoso onore, le quali mai non rivedrà, se Eolo con le sue forze non le vi porta mescolate con ravolti nuvoli e con la non conosciuta arena. Ora, se tu forse questa misera grazia agl'indegni parenti non volevi concedere, perché nelle marine onde, dove la spaventevole notte, della quale io ho poi sempre avuto paura, tanto mi spaventasti, non mi facesti ricevere a' marini iddii? E ben che assai mi fosse stata dura la morte, per ché più presso era a' miei disiri, l'avrei io più tosto voluta, quando nelle tue mani mi rimisi, nascondendomi sotto le frondi mobili sì come tu. Perché allora così la persona mia, come i capelli, non palesasti agli occhi del nimico? Tu, crudelissima, di questi e di molti altri pericoli m'hai campato, non per grazia ch'io aggia nel tuo cospetto avuta, ma per conducermi a più disprezzevole fine, come ora hai fatto. E certo tutto questo mi saria assai meno grave a sostenere, se a sì fatta vergogna mi vedessi solo. Oimè, quanto m'è grave a pensare che colei cui io amo sopra tutte le cose del mondo, colei per cui i passati pericoli mi sono paruti leggieri a sostenere per vederla, colei che me più che io lei ama, mi sia compagna a sì vile morte! O Filocolo, più ch'altro uomo misero, hai tu tanto affanno durato per conducere la innocente giovene a sì vile fine? Ella muore per te, e per te un'altra volta a simil morte fu condannata, per te venduta e per te vituperata. La fortuna, forse verso lei pacificata, l'apparecchiava degna felicità alla sua bellezza, se tu non fossi stato, e però tu giustamente muori. Ma ella perché, con ciò sia cosa ch'ella non sia colpevole? Sola l'angoscia di lei mi duole, ché la mia io la passerei con minore gravezza! O crudel padre, o dispietata madre, oggi di me rimarrete quieti: voi non mi voleste pacificamente avere, e voi oggi di me vedovi rimarrete. Né vi concederà la fortuna di chiudere i miei occhi nella mia morte, né di riporre le mie ceneri ne' cari vasi. Oggi della vostra nimica Biancifiore, da voi con tante insidie perseguitata, sarete diliberati, ma non sanza vostra tristizia, né potrete per me spandere lagrime, che per lei similemente non le spandiate. Un giorno, una ora, una morte vi ci torrà: e non ingiustamente, ché convenevole cosa è che chi non vuole il bene quietamente possedere, che tribolando sanza esso viva. Rimanete adunque in etterno dolore, e di tal peccato siano gl'iddii giusti vendicatori. O gloriosi iddii, non si parta del vostro cospetto inulta la iniquità del mio padre. O sommi governatori de' cieli, i quali in tanti affanni avete le mie fiamme udite, aiutate la innocente giovane. Venga sopra me, il quale ho commessa l'offesa, la vostra indignazione. O Imineo, o Iuno, o Venere, i quali io l'altra notte, se io non errai, vidi per la lieta camera portanti i santi fuochi del novello matrimonio, riservatevi Biancifiore al buono agurio di quelli, e se alcuna infernale furia fu tra voi con quelli mescolata, o se alcun gufo sopra noi cantò, caggiano sopra me i tristi agurii. Io non curo della mia morte, però che io l'ho con ingegno cercata: sia solamente costei, che per me sanza colpa muore, aiutata da voi --.



[129]

Biancifiore, piena di paura e di vergogna e di dolore incomparabile, piangea, e i suoi occhi né più né meno faceano che fare suole il pregno aere, quando Febo nella fine del suo Leone dimora, che, porgendone acqua di più basso luogo, con più ampia gocciola bagna la terra: l'una lagrima non attendea l'altra. Ella avea il suo viso e 'l dilicato petto tutto bagnato, e simile quello di Filocolo, sopra 'l quale gli occhi, che non ardivano di riguardare in parte dove riguardati fossero, tenea. Essa tal volta, sentendo per li legami aspra doglia, alzava gli occhi, rimirando nel viso Filocolo, per vedere se a lui, come a lei, doleva, disiderando d'avere più di lui che di sé compassione, e vedendolo solamente sanza lagrime turbato, si maravigliava, e non meno le piacea vederlo, ben che in mortale pericolo si vedesse, che piaciuto le fosse qualora più lieti mai si videro. Ma pensando che brieve tale diletto convenia essere per la sopravegnente morte, mossa da compassione debita, così fra sé cominciò a dire:



[130]

« O nimica fortuna, qual peccato a sì vile fine mi conduce, avendomi in vita tenuta con più miserie ch'altra femina, io nol conosco. Io misera, composta da Cloto, fatale dea, nel ventre della mia madre fui cagione del crudel tagliamento fatto del mio padre, e per consequente, nella mia venuta nel tristo mondo, cacciai di vita la dolente madre. Impossibile mi fu di conoscere i miei genitori: e nata serva, mai la mia libertà non fu ridomandata. Ma gl'iniqui fati, apparecchiati di nuocermi, m'apparecchiavano peggio. Io, formata bella dalla natura, fui a me per la mia bellezza cagione d'etterni danni, dove l'altre ne sogliono graziosi meriti seguitare. Se io fossi di turpissima forma stata, lo indissolubile amore, tra me e Florio generato per iguale bellezza, ancora saria ad entrare ne' nostri petti: e così io non sarei stata dal suo padre odiata e condannata alle prime fiamme. Io non sarei stata comperata prima da' mercatanti e poi dall'amiraglio, ma ancora mi sarei nelle reali case, e così fuor di pericolo io e altri sarebbe. O bellezza, fiore caduco, maladetta sii tu in tutte quelle persone a cui nociva t'apparecchi d'essere! Tu principale cagione fosti dello ardente amore che costui mi porta; tu gli levasti la luce dello 'ntelletto, e la ragione, per la quale conoscere doveva me, femina vile, non essere da essere amata da lui; tu di migliaia di sospiri l'hai fatto albergatore: tu degli occhi suoi hai fatto fontane di dolenti lagrime; tu infiniti pericoli gli hai fatti parer leggieri, per venirti a possedere: e ora posseduta, a questo vilissimo fine l'hai condotto. Ahi, dolorosa me, perché insieme con la mia madre non morii quand'io nacqui? Quanti mali sarieno per un solo male spenti! Il siniscalco saria vivo, e 'l valoroso cavaliere Fileno non saria perduto in sconvenevole essilio; Florio ora a tal pericolo non saria, ma lieto ne' suoi regni aspetteria la promessa corona, e i miseri padre e madre, che di lui debbono udire la vituperosa morte, viverieno lieti del loro figliuolo, del quale ancora più dolenti morranno. Oimè misera, a che morte son io apparecchiata! Al fuoco! Il fuoco caccerà de' fermi petti l'amoroso fuoco. Quel fuoco che il mare, né la terra, né paura, né vergogna, né ancora gl'iddii hanno potuto spegnere, il fuoco lo spegnerà. Oggi di perfetti amanti torneremo nulla. Oggi sarà biasimata e tenuta vile la nostra gran costanza e fermezza d'animi. Oggi congiunte cercheranno le nostre anime gli sconosciuti regni. Oggi scalpiteranno i piedi e moveranno i venti le ceneri già credute serbarsi a splendidi vasi. Oggi la forza di Citerea fia annullata. O dolente giorno, di tanti mali riguardatore, perché nel mondo venisti? O Apollo, a cui niuna cosa si nasconde, perché la tua luce ne desti? Tu mostrandoti chiaro insieme ti mostri crudele, però che già per minori danni nascondesti i raggi tuoi a' mondani. Oimè, Florio, a che vile partito mi ti veggio avanti! Oimè, come può l'anima sostenermi tanto in vita, pensando che noi siamo cagione di commovimento a tutta Alessandria, pensando che tante migliaia d'occhi solamente noi guardino, solamente di noi ragionino, solamente di noi pensino, pensando ancora con quanto vituperoso parlare sia da' riguardanti ciascuna parte di noi, che ignudi a' loro occhi dimoriamo, sia riguardata? Caro ne saria il campare, ma non il vivere in questo luogo. O sommi iddii, i cui pietosi occhi il mio peccato ha rivolti altrove, che ha meritato Florio, che questa morte sia da voi solterto ch'egli sostenga? Egli ha amato, e amando ha fatto quello che voi già faceste. Costretto è ciascuno di seguire le leggi del suo signore. Egli fece quello che Amore gli comandò; ma io, malvagia femina, non servai il dovere all'amiraglio, sotto la cui signoria mi stringieno i fati. Io sola peccai, dunque io sola merito di morire; muoia dunque io, e Florio, che niente ha meritato, viva. O iddii, se in voi pietà alcuna è rimasa, purghisi l'ira vostra e quella dell'amiraglio sopra me. Se Florio campa, io contenta piglierò la morte. Cessi che per me, vile femina, muoia un figliuolo d'un sì alto re! Oimè, or che dimando io? Già è manifesto che i miseri indarno cercano grazia. Oimè, come tosto è in tristizia voltata la brieve allegrezza! Oh, quanto è picciolo stato lo spazio del nostro matrimonio, il quale noi pregavamo gl'iddii che 'l dovessero etternare! Certo per sì picciolo spazio sanza prieghi potevamo passare, adoperando il tempo ne' baci che si doveano finire per ischernevole morte. Oimè, ch'io m'allegrava parendomi l'agurio delle parole dello iniquo re poter prendere con effetto buono! Ma i fati, che dolente principio m' hanno sempre in ogni mia cosa donato, non consentono ch'io senta lieto fine. O vecchio re Felice, o reina, nell'effetto al tuo nome contraria, con che cuore ascolterete voi il misero accidente? Or saravvi possibile a vivere tanto, che 'l tristo apportatore di tale novella abbia compiuto di dire che 'l dilicato corpo di Florio sia stato dalle fiamme consumato? Io non so, ma forte mi pare a pensare che sì. Io son certa che se voi vivete, mentre vi basterà la lingua alle parole, mai in altro, che in maledizione della mia anima non moverete quella; e se morite, fra le nere ombre sempre come nemica mi seguirete, e non sanza ragione. O iddii, consentite, se i miei prieghi niuno merito acquistano nella vostra presenza, che Florio campi, se possibile è, e io, degna di morire, muoia. La sua vita, ancora molto utile al mondo, non si prolungherà sanza vostro grande onore: la mia, che a niuna cosa può valere, perisca, e sostenga il peso del vostro cruccio. Siami conceduta questa grazia, in guiderdone della quale il mio corpo da ora v'offero per sacrificio ».



[131]

Ircuscomos e Flagrareo, venuti de' libiani popoli, nel viso bruni e feroci, co' capelli irsuti e con gli occhi ardenti, grandi molto di persona, erano dall'amiraglio fatti capitani de' suoi militi, e la notturna guardia della torre sotto la loro discrezione avea commessa. Questi dopo il comandamento dell'amiraglio, armati sopra forti destrieri, con molti compagni vennero nel prato, intorniati di pedoni infiniti con archi e con saette. Essi fecero accendere due fuochi assai vicini alla torre, e fecero posare in terra Filocolo e Biancifiore, e tirare alle accese fiamme con villane parole. Quivi venuto, Filocolo vide due luoghi per la morte di loro due apparecchiati; ond'egli, sanza mutare aspetto, alzò il viso verso Ircuscomos e disse: -- Poi che agl'iddii e alla nimica fortuna e a voi piace che noi moriamo, siane concessa in questa ultima ora una sola grazia; la quale faccendoci, niuna cosa del vostro intendimento menomerà. Noi, miseri, dalla nostra puerizia sempre ci siamo amati, e ben che nostro infortunio sia stato il non potere mai coi corpi insieme dimorare, mai le nostre anime non furono divise: un volere, un amore ci ha sempre tenuti legati e congiunti, e un medesimo giorno ci diede al mondo: piacciavi che, poi che una ora ci toglie, che similmente una medesima fiamma ci consumi. Siano mescolate le nostre ceneri dopo la nostra morte, e le nostre anime insieme se ne vadano --. Ircuscomos, che mai non avea apparato d'essere pietoso, faccendo sembianti di non averlo udito, comandò che come era incominciato così i sergenti seguissero; ma Flagrareo con più benigno spirito disse: -- E che ci nuoce il fargli di suo medesimo danno grazia? Con quella forza ardono le fiamme i due, che l'uno: siagli conceduto di morire con lei, con cui la colpa commise --.



[132]

Fu adunque Filocolo insieme con Biancifiore legato ad un palo e intorniato di legne. Le quali cose mentre si facevano, Biancifiore piangendo rimirava Filocolo e diceva con rotta voce e con vergogna: -- O signore mio dolce, ove se' tu con affanni e con pericoli venuto ad essere messo vivo nelle ardenti fiamme! Oimè, quant'è più il dolore ch'io di te sento, che quello che di me mi fa dolere! Oimè, quanto m'è grave a pensare che tu per me sì vilmente sii dato a morire! I dolenti occhi non possono mostrare con le loro lagrime ciò che il cuore sente, qualora io ti riguardo ignudo con meco insieme tra tanto popolo disposti a morire. O anima mia, che hai tu commesso che gl'iddii, che essere ti soleano benivoli, così sieno contro a te turbati e in tanta avversità t'abandonino? Perché ti nuoce il mio peccato? Maladetta sia l'ora ch'io nacqui, e che amore mise negli occhi miei quel piacere, del quale tu, oltre al dovere, sempre se' stato innamorato, poi che a questo fine ne dovevi venire. Oimè, ch'io mi dolgo che tu per adietro m'abbi campata dall'altro fuoco, per che, campandomi, t'acquistasti morte. Io misera, degna di morire, volontieri muoio, né mi saria grave il sostenere prima ogni pena, e poi questa, solamente che tu campassi. Ahi, quanto volentieri tal grazia e a Dio e al mondo dimanderei, se io credessi che conceduta mi fosse! Ma essi hanno avuto del nostro poco bene invidia, e però, più disposti a' nostri dannì che a piacerne, non si moveriano ad alcun priego. Oimè misera, che quel giorno che ci diede al mondo, quel giorno la cagione di questa morte ne porse. Impossibile è ora alla tua madre credere che tu sii a questo partito; e i tuoi miseri compagni forse estimano che tu ora lietamente dimori, però che, non essendo essi conosciuti, alcuno non dice loro questo accidente. Elli venuti lieti con teco, ricercheranno dolenti, sanza te, le ragguagliate acque, e là dove me con teco credettero presentare al tuo padre, la crudele morte di noi due racconteranno: per che il tuo regno, rimanendo vedovo, con dolore in etterno ti piangerà --.



[133]

Queste parole mossero il forte animo di Filocolo, e le lagrime, lungamente costrette, con maggiore abondanza uscirono fuori degli occhi, e così le cominciò piangendo a rispondere: -- Quella pietà che io di me dovea avere, non m'ha potuto vincere, che io con forte animo non abbia mostrato di sostenere pazientemente il piacere degl'iddii, ma, pensando a te, ha rotto il proponimento del debole animo. Tu con meco insieme misera, per la mia vita prolungare, disideri più pene che li fati ne porgono, cara tenendo la morte, se io campassi, e fatti colpevole, dove manifestamente in me la colpa conosci. Ora in che hai tu offeso? Io ho fatto ogni male. Tu soavemente dormendoti nel tuo letto fosti con ingegni da me usati assalita, per che io debitamente morire dovrei. Io sotto giusto giudice dovria ogni pena portare: la qual cosa se fosse, e tu campassi, grazioso mi saria molto; ma la fortuna, che sempre igualmente ci ha in avversità tenuti, ora al giusto per lo ingiusto non vuole perdonare morte. Io ho con meco questo anello, il quale la mia misera madre mi donò nella mia partita, promettendomi ch'egli avea virtù di cessare le fiamme e l'acque dal giovamento della vita di chi sopra l'avesse: la virtù di costui credo che 'l mio periclitante legno, la notte che io in mare passai tanta tempesta con ismisurata paura, aiutasse. Però tienilo sopra di te: io non credo che la fortura abbia avuta potenza di levargli la virtù, la quale se levata non gliel ha, di leggieri potrai campare. La tua bellezza merita aiutatore, il quale non dubito che tu troverai, e rimanendo tu in vita, molto nel morire mi contenterai --. -- Sia da me lontano ciò che tu parli -- disse Biancifiore, -- ma tu, la cui vita è ad altrui e a me più che la mia cara, sopra te il tieni, acciò che se gl'iddii altro aiuto ti negano, per la virtù di questo campi: la cui virtù già mi conforta, e più consolata al morire mi dispone, pensando ch'ella fia possibile ad aiutarti --. Così costoro con sommessa voce parlando, il fuoco fu acceso, e l'ardore s'appressava, quando, rifiutando ciascuno l'uno all'altro l'anello, di piana concordia piangendo s'abbracciarono, e con dolenti voci la morte attendendo, l'uno e l'altro dall'anello era tocco, e dalle fiamme difesi: ma essi, per debita paura del sopravegnente fummo, con alte voci l'aiuto degl'iddii invocavano piangendo.



[134]

Mossero le voci di costoro i non crucciati iddii a degna pietà, e furono essauditi e con sollicita grazia aiutati, ben che assai gli aiutasse l'anello. Venere, intenta a' suoi suggetti, commosse il cielo, e per loro porse pietosi prieghi a Giove, col consentimento del quale e di ciascuno altro iddio, il necessario aiuto si dispose a porgere. E involta in una bianchissima nuvola, coronata delle frondi di Pennea, con un ramo di quelle di Pallade in mano, lasciò i cieli e discese sopra costoro, e con l'una mano, cessando i fummi dintorno a' due amanti, a' circunstanti li volse, e quelli in oscurissima nuvola mantenendo bassi, con noioso cocimento impediva i circunstanti da poter vedere dove Filocolo e Biancifiore fosse, dando a loro chiaro e puro aere, nel quale tutta si mostrò loro e disse: -- Cari suggetti, le vostre voci hanno commossi i cieli e impetrato aiuto; rassicuratevi: io sono la vostra Citerea, madre del vostro signore. Questa sarà ultima ingiuria a voi e fine delle vostre avversità, dopo la quale voi pacificamente, avendo vinta la contraria fortuna, vi verete. Io v'ho recato segnale d'etterna pace: guardatelo infino che di qui uscirete. Marte per lo vostro aiuto stimola i tuoi compagni con sollecitudine; né prima di qui mi partirò, che tu li sentirai cercare la vostra salute con armata mano --. E questo detto, lasciato l'ulivo nelle loro mani si partì, volendo essi già ringraziarla.



[135]

La santa voce con intera speranza riconfortò gli sconsolati amanti, i quali con perfetto animo rendeano agl'iddii degne lode di tale aiuto; ma ben che il fummo rivolto alla circunstante gente impedisse il potere costoro vedere, nondimeno il furioso popolo e gli armati cavalieri dalla incominciata iniquità non ristavano, ma crucciati, più pronti s'ingegnavano di far male. Ircuscomos con una mazza ferrata in mano costringe i sergenti di ritrovare e d'ardere i giovani; Flagrareo dall'altra parte gli conforta al male operare. Ma invano adoperano: niuno li può rivedere, né alcuno non è possente di passare più oltre che il fummo si stenda. L'ira s'accende negli animi, e cercano di passare con le lance e con le saette l'oscurità del fummo, imaginando che delle molte alcuna gli ucciderà. Niuna cosa nuoce loro, niuna saetta vi passa: il romore era grande, tale che per poco spaventava i confortati amanti. Che più? Ogni ingegno di nuocere si pruova; ma invano s'affatica chi nuocere vuole a colui cui Iddio vuole aiutare. Elli non possono loro nuocere, né rivederli in alcun modo.



[136]

Ascalion e 'l duca, con Dario e con Bellisano e con gli altri, ignoranti dell'andata di Filocolo, dubitando l'aspettano quella notte e 'l giorno appresso. E ritornando un'altra volta le stelle, e dopo quelle Febo, con più malinconia di lui pensavano; e venuta la terza notte, imaginando essi che là fosse andato dov'era, pieni di pensieri varii per la lunga dimoranza, s'andarono a dormire. Ma ad Ascalion, quasi più sollecito della salute di Filocolo, entrato di tale stanza in varie imaginazioni, si rivolge per la mente le future cose, e dubitando forte non avvenissero, il tacito sonno con quieto passo gli entra nel petto; e levandolo da quelle, in sé tutto quanto il lega, e nuove e disusate cose gli dimostra, mentre seco il tiene. Elli parea a lui essere in un luogo da lui mai non veduto, e pieno di pungenti ortiche e di spruneggioli, del qual luogo volendo uscire, e non trovando donde, s'andava avolgendo e tutto pungendosi. E di questo in sé sostenendo grave doglia, non so di che parte gli parea veder venire Filocolo, ignudo, tutto palido e in diverse parti del corpo piagato, e tutto livido, e di dietro a lui in simile forma venire Biancifiore, con le bionde trecce sparte sopra i candidi omeri; e correndo verso lui fra le folte spine, tutti si pungevano e delle punture parea che sangue uscisse, che tutti gli macchiasse: e giunti nel suo cospetto si fermavano, e sanza parlare alcuna cosa, il riguardavano né più né meno come se dire volessero: -- Non ti muove pietà di noi a vederci così maculati? --. I quali riguardando così conci, Ascalion sanza dire nulla piangeva, parendogli che più i loro mali che i suoi propii gli dolessero. Ma così stati alquanto, gli parve che Filocolo più gli s'appressasse, e piangendo gli dicesse con voce tanto fioca che appena gliele parea potere udire: -- O caro maestro, che fai, ché non ci aiuti? Non vedi tu come la nimica fortuna, voltatasi sopra me e sopra la innocente Biancifiore, premendoci sotto la più infima parte della sua ruota ci ha conci, che come puoi vedere, niuna parte di noi ha lasciata sana, e minacciaci peggio, se il tuo aiuto o quello degl'iddii non ci soccorre --. A cui Ascalion parea che rispondesse: -- O cari a me più che figliuoli, la maraviglia che di voi e delle vostre piaghe ho avuta, assai sanza parlarvi m'hanno tenuto; ma più d'ammirazione mi porge il vedervi insieme dolenti, non sappiendo pensare come esser possa, essendo tu con la disiata giovane Biancifiore e ella teco, la fortuna ci possa porre alcuna noia, che dolenti vi faccia: dillomi come questo è avvenuto; il mio aiuto sai che per lo tuo bene è disposto ad ogni cosa infino alla morte. Mostrami pure da cui aiutar ti deggia --. A cui Filocolo rispose: -- Come tu vedi, così è: bastiti il veder questo, sanza più volerne udire. Vedi qui dintorno a me Ircuscomos e Flagrareo con infinito popolo, per comandamento dell'amiraglio, volerci in fiamme consumare --. Questo udito, ad Ascalion parve vedere dintorno a Filocolo ciò che le parole significavano; per che crescendogli il dolore e la pietà di ciò che vedea, ad un'ora Filocolo e Biancifiore e 'l sonno se n'andarono, e egli stupefatto per le vedute cose, alzato il capo, vide già il chiaro giorno per tutto essere venuto. Per che egli sanza indugio si levò e vestissi, e quasi tutto smarrito venne a' compagni. A' quali narrò ciò che veduto avea, per che egli teme non Filocolo abbia alcuna novità. Gli altri, udendo questo, tutti dubitano, né sanno che consiglio prendere. Ultimamente con Dario e con Bellisano deliberano d'andare alla torre, per sapere da Sadoc quello che di Filocolo fosse, o se con lui dopo la sua partita fosse dimorato.



[137]

Stando costoro in questo ragionamento, la rapportatrice fama vide del suo alto luogo queste cose, e di fuori delle sue finestre cacciò voci, che in picciolo spazio ciò che a Filocolo avvenuto era per Alessandria si spande. Ma niuno sa il nome di Filocolo, e tutti quello di Bianci fiore; ciascuno corre al prato, e tutti si maravigliano, e in picciolo spazio di tempo riempiono quello. Odono Ascalion e' compagni, sì come gli altri, queste voci: dubitando domandano chi costoro sieno, a cui la fortuna è tanto contraria, desiderando d'accertarsi di ciò che non vorrieno sapere. Niuno sa loro dire più avanti, se non: -- Biancifiore con un giovane sono condannati --. Dubitano costoro, e hanno ragione, per la visione veduta, e pensano che Filocolo sia: dimandano de' segnali del giovane, i quali udendo, la loro credenza cresce. Non si sanno fra loro accordare che fare si deggiano: i più savi, storditi dell'avvenimento, hanno perduto il saper consigliare. Ma tra costoro così pavefatti un giovane di maravigliosa grandezza e robusto e fiero nell'aspetto, armato sopra un alto cavallo apparve fra loro, e con disusata voce incominciò loro a dire: -- O cavalieri, quale indugio è questo? Seguitemi con l'armi indosso, acciò che il nostro Filocolo più tosto di paura del sopravenuto pericolo esca --. Costoro d'una parte e d'altra d'ammirazione ripieni, udendo ricordare il nome di Filocolo, così come i furiosi tori, ricevuto il colpo del pesante maglio, qua e là sanza ordine saltellano, così costoro sanza memoria dolenti corrono alle loro armi: Bellona presta maraviglioso aiuto a tutti. Dario, contento de' pericoli per amore di Bellisano, sanza pensare a' ragunati beni o a sé quello che avvenire possa, apparecchia a sé e a tutti cavalli di gran valore, e armato con loro insieme monta a cavallo, e sanza modo ora qua ora là scorrendo fra la folta gente, che a vedere correa, dietro all'armato campione si mettono con le lance in mano: e venuti sopra il pieno prato veggono il fummo grande e il circunstante popolo. Crede Ascalion veramente che in quello Filocolo e Biancifiore sanza vita dimorino, ignaro del soccorso della santa dea, e, cruccioso perché tardi gli pare esser venuto a tal soccorso dare, disidera di morire. Egli si volta a' compagni e dice: -- Signori, io credo che gl'iddii abbiano alle loro regioni chiamata l'anima di colui, per cui debitamente il vivere ci era caro, e come voi potete vedere, in disonesto e sconvenevole modo è stato di morire costretto. Io non so qual si sia il vostro intendimento, ma il mio è di morire combattendo, acciò che parte della vendetta della morte del mio signore adoperi. Io in niuna maniera intendo di riportare al vecchio re sì sconcia novella, però se alcuno di voi più disidera di rivedere Marmorina che questo intendimento seguire, torni indietro, mentre licito gli è sanza danno: e chi in un volere è con meco, con ardito cuore ferisca la nemica turba --. A queste parole niun'altra cosa fu risposto se non: -- Noi siamo tutti teco in un volere --. E più avriano detto, ma il grieve dolore ristrinse la voce con amaro singhiozzo nel suo passare: per che con focoso disio feriti i cavalli, e disposti a morire, prima con le loro forze l'altrui morte e la loro vendicando, appresso ad Ascalion se n'andarono verso il tenebroso fummo, dove il fiero giovane già era fermato e confortavagli al loro intendimento. E quivi trovarono Ircuscomos e Flagrareo costringenti il maladetto popolo alla morte de' due amanti.



[138]

Pingesi avanti Ascalion e ficca gli occhi per l'oscurità del fummo, disiderando, se in alcun modo esser potesse, di veder Filocolo, ma per niente s'affatica: per che dirizzatosi sopra le strieve, vede i compagni pure a lui guardare. Ond'egli recatasi la forte lancia in mano, e chiusa la visiera dell'elmo, e imbracciato il buono scudo, ardendo tutto di rabbiosa ira, fra sé dice: -- O graziosa anima, dovunque tu dimori, avendo in queste fiamme di Filocolo lasciato il corpo, rallegrati, però che a vedere l'infernali fiumi gran compagnia d'anime de' tuoi nemici ti seguirà, e poi quelle de' tuoi compagni, de' quali niuno al tuo padre intende di rapportare novelle della tua morte. Veramente, o anima graziosa, chiunque gliele dirà, con la tua morte la vendetta fatta d'essa e le morti di noi tutti racconterà. Prestinci gl'iddii sì lunga vita, che, prima che i nostri occhi si chiudano, noi veggiamo le nostre spade tinte di ciascun sangue di qualunque ha nociuto a te, e poi ci facciano cadere con loro insieme sanza vita nel sanguinoso campo: dove se mai chi ci uccida non troveremo, noi con le nostre mani, per seguirti, la morte ci porgeremo --. E questo detto, dirizzatosi verso Ircuscomos, il quale davanti a sé vedea, gridando disse: -- Ahi, crudel barbaro, oggi la tua crudeltà avrà fine: la tua morte sarà merito della mia lancia! --. E corsogli sopra, drizzata verso lui la lucente punta, il ferì nello scudo, sopra 'l quale quella si ruppe sanza offenderlo niente. Il barbaro, questo vedendo, con altissime voci richiama la sparta masnada sopra i sette compagni, non avendo ancora veduto l'ottavo: e sì come il porco poi che ha sentite l'agute sanne de' caccianti cani, squamoso con furia si rivolge tra essi, magagnando qual prima con la sanna giunge, così Ircuscomos rabbioso, con ispiacevole mormorio, con una mazza ferrata in mano sopra il cavallo con tutta sua forza si dirizzò per ferire Ascalion sopra la testa. Ma Ascalion, savio, lo schifa, e, mentre che il peso del corpo tira Ircuscomos abasso, Ascalion, tratta la spada, il fiere sopra il sinistro omero sì forte, che di poco non il braccio con tutto lo scudo gli mandò a terra. Ircuscomos sente la doglia, e ricoverato il corpo, fiere sì forte Ascalion sopra l'elmo, che, fatto di quello molti pezzi, lui tutto stordito fé bassare sopra il collo del suo cavallo; ma poco stato, tornato in sé, si levò più fiero. E come tal volta il leone, poi che 'l suo sangue in terra vede, diviene più fiero, così Ascalion, divenuto più sopra il barbaro animoso, con la spada in mano tornò verso lui, e dandogli più colpi, uno con tutta sua forza ne gli diede dove ferito l'avea sopra l'omero altra volta, e mandò in terra il braccio con tutto lo scudo. Il libiano, doloroso di tale accidente, non però lascia di ferire Ascalion; ma egli spaventato del gran colpo, gli altri sopra lo scudo riceve. Ma Ircuscomos già debile per lo perduto sangue, vedendosi sanza scudo, volta le redine del destriere, e lasciando il campo, verso Alessandria se ne fugge. Il romore per gl'incominciati colpi multiplica: gli altri compagni d'Ascalion, poi che videro lui cominciare, ciascuno, bassata la lancia, corre verso i nimici, e, per essemplo del vecchio cavaliere, ciascuno vigorosamente combatte, e sanza alcuna paura di morire. Ma Parmenione che con Flagrareo s'era scontrato, datisi due gran colpi nell'affrontare, combatte maravigliosamente e punto non spaventato per la fierezza del nimico, né della moltitudine circustante, con maestrevoli e forti colpi il reca a fine, e semimorto quivi il lasciò davanti al fummo, correndo agli altri. Bellisano, ormai anziano cavaliere, d'armi gran maestro e di guerra, faceva mirabili cose. Egli, andando dietro ad Ascalion, quanti davanti del misero popolazzo gli venieno, tanti n'uccideva o feriva, né alcuno a' suoi colpi poteva riparare. Il duca dall'altra parte, scontratosi con un turchio chiamato Belial, ferocissimo e di gran forza, combattea mirabilmente bene, ma resistere non gli avria potuto, se non che venendo Menedon di traverso con una scure in mano levata ad un cavaliere, che morto avea, quella alzando, sì forte diede sopra la testa al turchio che feritolo a morte e storditolo, tutto sopra 'l collo del cavallo caduto stette grande ora, difeso da molti; ma poi risentendosi, recatosi il freno in mano, e cominciando a fuggire tenne la via verso il mare con molti altri, e seguiti dal duca e da Menedon, per tema de' mortali colpi con tutti i cavalli fuggirono in mare, de' quali assai, credendo morte fuggire, morirono. Messaallino e Dario erano più che gli altri vicini al fummo venuti, correndo dietro a' due cavalieri; e incappati tra grande moltitudine d'armati pedoni, quivi combattendo, furono loro uccisi i buoni cavalli: per che rimanendo a piede, forte combattendo con la scelerata turba, di quelli intorno a sé ciascuno avea fatto gran monte d'uccisi, sopra i quali saette e lance, in grandissima quantità, quasi in forma di nuvoli si saria veduta continuamente cadere. E ben che ciascuno de' sette mirabili cose facesse, di niuno fu maraviglia il campare sanza morte quanto di questi due. Andavano adunque combattendo i sette compagni valorosamente, più per vendicare la morte di Filocolo e per morire, che per vaghezza d'acquistar vittoria. E già presso che al loro intendimento venuti, avendone essi molti uccisi, e ciascuno debole e stanco e in molte parti ferito, ognora più multiplicando il popolo e la quantità degli armati cavalieri, si disponeano a rendere l'anime. Il feroce iddio, che ciò conosceva, mossosi, dietro se li raccolse, e con veloce corso intorniando il prato tutti e otto, col suo aspetto a qualunque era nel campo tanta paura porse, che come a Noto, robustissimo vento, fugge davanti alla faccia la sottile arena sanza resistenza, così a lui generalmente ogni uomo fuggiva, trepidando la morte, non altrimenti che la timida cerbia veduto il fiero leone.



[139]

Votasi con grandissimo romore l'ampia prateria: niuna gente vi rimane, se non i vincitori, o quelli i quali, morti o feriti, non hanno potenza di fuggire; né alcuno ha ardire di più ritornare nel prato. Le lagrime delle vaghe giovani, che pietose riguardavano dell'alta torre, crescono per l'uccisione, e con quelle la loro speranza della salute di Biancifiore: e molte, non potendo sostenere di vedere l'uccisione, se ne levano. Altre porgono pietose orazioni agl'iddii per lo salvamento della picciola schiera: altra va e torna, altra alcuna volta non si par te, disiderando di vedere la fine. I vittoriosi cavalieri s'accostano al fummo dolenti della loro vittoria sanza morte, e, quella disiderando, niuno le sue piaghe ristringe, ma riguardando per lo campo si maravigliano di ciò che essi pochi hanno fatto, vedendo grande la moltitudine de' morti e de' feriti. Ciascuno ringrazia il grande cavaliere, non conoscendolo per iddio, e di molte cose il dimandano, ma esso a nulla né a niuno risponde. Ciascuno vorria vedere, se possibile fosse, i busti de' corpi che essi morti estimavano. Alcuni di loro diceano essere convenevole omai gittarsi vivi sopra il loro fuoco, acciò che una medesima fiamma le ceneri di tutti raccogliesse in uno. Altri lodavano prima a loro porgere sepultura, e poi sé ardere, dicendo che degna cosa non era le loro ceneri con altre, che sì non si amassero, contaminare.



[140]

E mentre che queste cose, disiderosi della loro morte, ragionavano, e tentavano di vedere e di passare il fummo, il quale punto loro non si apriva, Filocolo, il quale più volte per lo infinito romore avea della sua salute dubitato, udendo costoro dintorno a sé ragionare, non però conoscendoli né intendendo ciò che diceano, né potendogli vedere, sentendo il prato quieto e sanza alcun romore, fuori che d'un picciolo pianto che faceano i feriti, con quella voce più alta, che paura nel timido petto avea lasciata, così cominciò a dire: -- O qualunque cavalieri che intorno a' miseri dimorate, di noi forse pietosamente ragionando, quella pietà che di noi hanno avuta gl'iddii, entri negli animi vostri: non siate tardi a mettere ad essecuzione quello che gl'iddii hanno incominciato. Essi vogliono la nostra vita forse ancora cara al mondo. Noi vivi nello oscuro nuvolo sanza niuna offesa dimoriamo, tenendo in mano ramo significante pace, lasciato a noi da divina mano: passate adunque qui dove noi siamo, e sciogliete i nostri legami, acciò che salvi dove voi siete, possiamo venire --.



[141]

Giungendo questa voce agli orecchi di Ascalion e degli altri, i quali veramente la conobbero, di tristizia gli animi subitamente spogliarono, di quella letizia rivestendogli, che Isifile nel dolore di Ligurgo si rivestì co' riconosciuti figliuoli. E Ascalion, prima che alcuno, rispose: -- O fortunato giovane, il quale morto estimavamo, e per te noi tutti tuoi compagni morire disideravamo, multiplica con la verità la nostra letizia e dinne per la potenza de' tuoi iddii se tu se' vivo come ne parli, o se alcuno spirito, volendoci dal fermo volere levare, parla per te nelle accese fiamme: acciò che, se tu vivi, solliciti la tua salute cerchiamo, e se non, la proposta morte prendiamo sanza più stare --.



[142]

Conobbe Biancifiore la voce del suo maestro e così rispose: -- O caro maestro, rallegrati, e credi fermamente ciò ch'io ti parlo: il tuo Florio e io viviamo nelle cocenti fiamme da niuna cosa offesi. Ond'io ti priego per quello amore che già mi portasti, la nostra liberazione affretta, acciò che di noi la paura si parta, e possiamo con voi di tale pericolo campati rallegrarci. Io ardo più di vederti che non fanno le accese legne preste per li nostri danni. Gl'iddii benivoli a noi ci hanno graziosa fortuna promessa per inanzi, e sanza fallo salute: però il vivere vi sia caro --.



[143]

Odono Ascalion e i suoi compagni la voce della graziosa giovane, e riconfortati con immenso vigore aspettano francamente qualunque novità, ragionando diverse cose co' chiusi amanti, infino che altra cosa appaia, più nella pietà degl'iddii omai sperando, che nelle loro forze.



[144]

Mentre i cavalieri rallegrati ragionando si stanno accosto alla buia nuvola, la quale in niuno modo cede a chi vuole oltre passare se non come un muro, levandosi da dosso ciascuno le molte saette, di che più che dell'armi erano caricati, e avendo cura e di loro e delle loro piaghe, le quali non medicavano, ma di ristrignerie per meno sangue perdere s'ingegnavano, Ircuscomos col braccio tagliato, e con molti altri feriti e non feriti pervennero all'amiraglio; a cui Ircuscomos disse: -- Signore, vedi come sopravenuti nimici n'hanno conci! --. A cui l'amiraglio disse: -- Or chi sono costoro, o quanti, o che domandano? --. Ircuscomos rispose: -- Signore, io non ne vidi se non forse sei o otto contra tutta la nostra moltitudine combattenti, faccendo d'arme cose incredibili a narrare: chi essi sieno io non so, né per che venuti, ma io estimo che per la salute del giovane, il quale io credo che morto sia, venuti sieno --. -- Come credi che morto sia, -- disse l'amiraglio, -- non l'hai tu veduto? Egli è sì grande spazio, che voi li metteste nel fuoco per mio comandamento! --. -- Certo -- rispose Ircuscomos -- mirabil cosa de' condannati è similemente avvenuta, che non fu più tosto il fuoco acceso, che il fummo si rivolse tutto a noi, e sanza salire ad alto, sì come sua natura li sortì, quivi dintorno ad essi si fermò, e, come fortissimo muro, a uomini, a saette e a lance privò il passare dentro a' due, e similemente il potere essere veduti: dintorno al quale dimorando noi, ingegnandoci di nuocere a coloro che dentro v'erano, sopravennero coloro che così n'hanno conci, come parlato v'abbiamo. Egli è con loro un uomo di smisurata grandezza, il quale con la sua vista spaventa sì chi 'l vede, che ciascuno piglia la fuga sanza volervi più tornare. E brievemente io non credo che nella gran prateria sia alcuno rimaso, se non morto, de' quali gran quantità credo che v'abbia; e de' condannati quello che se ne sia, dire non vi so più inanzi --.



[145]

L'amiraglio ascolta queste cose, e infiammasi, udendo, d'ardentissima ira. E poi che Ircuscomos tacque biasimando il vile popolo e' molti cavalieri, turbato si leva del loro cospetto, e andando sanza riposo per la sua camera torcendosi le mani e strignendo i denti, giura per gli immortali iddii di far morire gli assalitori de' suoi cavalieri. E uscito fuori, con fiera voce comanda ogni uomo essere ad arme, e sanza indugio seguirlo. Egli s'arma e monta sopra un forte cavallo; e Alessandria tutta commossa, e ciascuno sotto l'armi, chi lieto e chi dolente, chi a piè e chi a cavallo, ciascuno il seguita, e furiosi ne vanno verso il prato, faccendo con diversi romori di trombette, di corni e d'altri suoni significanti battaglia e con voci tutto l'aere risonare. E pervenuti vicini al prato, già quasi essendo per entrarvi dentro, niuno cavallo era che a forza del cavalcante non voltasse la testa, e quasi sanza potere essere ritenuto, fino alla città tornava correndo. A ciascuno uomo così s'arricciavano i capelli in capo, come suole fare al ricco mercatante nelle dubbiose selve, poi che i ladroni con l'occhio ha scoperti. Niuno avea ardire di passare in quello: tutti hanno paura e niuno sa di che. Ciascuno, stato infino a quel luogo fiero e ardito al venire, pauroso, disidera di tornarsi adietro. L'amiraglio fremisce tutto, e con minacce e con percosse s'ingegna di pingere avanti i suoi dicendo: -- O gente villana, qual paura è questa? Chi vi caccia? Temete voi sei cavalieri? --. Le sue parole sono udite, ma non messe ad effetto. Le percosse ciascuno fugge, e le minacce meno che la non conosciuta paura temono. Maravigliasi l'amiraglio di tanta viltà. Domanda la cagione di tanta paura: niuno gliele sa dire, ma tutti temendo rinculano. Tra'si avanti l'amiraglio, e comanda d'esser seguito: viene in su l'entrata del prato, e più ch'alcuno degli altri pavido volta le lente redine del corrente destriere, né egli medesimo conosce perché. Molte volte ripruova sé e fa riprovare i suoi; ma nulla è che più avanti passare si possa che i termini del prato, segnati ne' confini della via entrante in quello. Con maraviglia comincia l'amiraglio a essaminare nella mente quello che da fare sia, o perché ciò avvenire possa. Niuno avviso trova, per lo quale il suo avviso si possa fornire: e subitamente muta pensiero, e fra sé dice: -- Io operai male dannando i due giovani a morte villana sanza intera notizia di loro avere. Che so io chi e' si sieno? E' poriano essere tali che gl'iddii per loro fanno queste cose: né altramente poria essere, che sanza volontà loro tanto popolo e cavalieri da sei o da otto fossero messi in fuga, e tanti quanti noi siamo li temessimo. Veramente io credo che agl'iddii spiaccia ciò che di loro feci, e che essi sieno pronti alla loro vendetta --.



[146]

Propone adunque l'amiraglio d'andare con segno di pace a' vittoriosi cavalieri, se egli potrà, e dimandarli di loro condizione e domandare la loro pace, se concedere gliela vorranno; e se i due amanti non saranno morti, di trarli di quel pericolo, e in ammenda della vergogna, onorarli sopra i maggiori del suo regno: e così com'egli divisa, così mette ad effetto. Egli si fa disarmare, e vestito di bianchi vestimenti e sottili, si fa recare un ramo d'uliva, e salito a cavallo, con quello in mano, tenta di passare nel prato tutto solo. Il passarvi gli è largito, ma non sanza alcuna paura; e pervenuto davanti a' cavalieri che a cavallo incontro gli venieno, maravigliandosi vede con loro lo spaventevole giovane: e certo Filocolo non ebbe maggior paura di morire veggendo intorno a sé le fiamme accese, che ebbe l'amiraglio vedendosi colui presso. Egli con umile e con tremante voce cominciò loro così a dire:



[147]

-- O chi che voi vi siate, vittoriosi cavalieri, vendicatori per la vostra pietà della villana morte de' due giovani, contro a' quali io sanza ragione fui crudele, gl'iddii, i quali sanza dubbio favorevoli a voi conosco, in meglio avanzino i vostri disii. Io con segno di pace in mano vengo per quella a voi, a' quali guerriere mai non saria stato se conosciuti v'avessi per adietro, come ora conosco: piacciavi di concederlami. Voi avete tanti de' miei cavalieri morti, che degnamente è vendicata la morte degli arsi giovani, se vostra cosa erano e se per vendicare quelli, qui veniste, com'io credo; e ciò si vede, ché 'l prato, pure stamane tutto verde, ora vermiglio e pieno di morti e di feriti discerno, e 'l mare ancora per paura di voi tiene parte della mia gente annegati. E con tutto questo, se di costoro la morte per li morti non fosse ammendata, vaglia la mia umiltà il mancamento della vendetta. Gl'iddii perdonano agli uomini, e voi per essemplo di loro ne perdonate --.



[148]

Rispose Ascalion all'amiraglio: -- Veramente l'ira degl'iddii merita chi pace rifiuta per avere guerra, dove meritevolemente può pace cadere. Noi, vaghi della salute de' due giovani, qui venimmo, e trovandogli in modo che morti gli credevamo, per morire e per vendicarli combattemmo. Ma gl'iddii a loro e a noi graziosi, loro e noi da morte con vittoria ci hanno salvati in vita: essi nelle fiamme vivono sanza alcuna offesa. E se noi tanta gente abbiamo morta e loro riabbiamo vivi, di ciò niuna mala volontà ci dee da te essere portata, anzi ne puoi molto essere contento, pensando che l'ira degl'iddii, la quale giustamente dovea sopra te cadere per la tua ingiustizia, è sopra parte del tuo popolo caduta. Sia adunque ciò che fatto avemo in luogo di punizione del tuo fallo, ch'avesti ardire gli amici degl'iddii tentare d'uccidere con fuoco. Ora quello ch'è fatto adietro non può tornare. Tu cerchi la nostra pace e la tua ci profferi: noi la ti doniamo, e tu prendi la nostra, e sicuro vivi, e di tanto ti facciamo certo, che, se morti fossero i due giovani, tu morresti, e la tua città, assalita da noi con fuoco, saria consumata, e da noi uccisi tutti coloro che giunti fossero, mentre la vita e la potenza ne durasse. Va adunque, e coloro cui tu facesti legare fa sciogliere, e della infamia, in che per la tua ingiusta opera sono corsi, in vera fama li fa ritornare, e pensa di chiara e intera pace servare, se l'ira degl'iddii e la nostra non vuogli guadagnare --.



[149]

Di ciò che Ascalion dice, si maraviglia l'amiraglio, e dubita forte, udendo le sue parole, che pace non gli sia rotta, e promette loro con ferma intenzione, per gli suoi iddii, servarla a loro. E poi che con amichevoli parole fra l'una parte e l'altra hanno pace fermata, l'amiraglio, che sanza modo del miracolo degl'iddii si maravigliava, vedendo il fummo e udendo parlare coloro cui morti credea, chiamò a sé molti de' suoi, a' quali disarmati fu licito di potere a lui venire, a' quali egli comandò che ogni ingegno adoperassero che il fummo rompessero e passassero in quello, e i giovani sciogliessero. I quali, lieti tutti della vita di Biancifiore, apparecchiandosi d'ubidire al comandamento, niuno loro ingegno o forza fu necessaria, ché Venere solvé la durezza del fummo, e quello, spandendosi, se ne salì in aere, lasciando i giovani, intorniati dagli accesi tizzoni, tutti al popolo scoperti: e tirate le brace indietro, con diligenza furono disciolti, e tratti quindi così freschi come rugiadosa rosa colta nell'aurora. Niuna cosa li avea offesi, fuori che alquanto i legami, de' quali ancora i segnali nelle dilicate carni si pareano. Elli fu loro di presente porti preziosi vestimenti, e Ascalion, e 'l duca, e Parmenione e gli altri, smontati de' deboli cavalli, infinite volte abbracciandoli, e pensando al gran miracolo, appena loro gli parea aver salvi, pur domandando se alcuna cosa loro nociuto avesse. A costoro solamente Biancifiore, che di buono amore li amava, rispondea, e con loro parlando e per pietà lagrimando, non avendogli di gran tempo veduti, facea festa, faccendosi maraviglia della loro virtù, vedendo il prato pieno di morti e di feriti. Furono loro apprestati i cavalli, e montati sopr'essi, l'amiraglio disse: -- Se vi piace, partianci da questi pianti e nella città andiamo a far festa, rallegrandoci di tanta grazia, quanta dagl'iddii possiamo riconoscere d'avere questo dì ricevuta --.



[150]

Seguesi il consiglio dell'amiraglio, e cavalcano tutti insieme, e quelli strumenti che con guerreggevole voce uscirono della città, mutati in segno di letizia precedendoli gli accompagnano. Biancifiore cavalca con Ascalion e con gli altri compagni, e con loro de' suoi infortunii va ragionando, ora parlando con l'uno, ora con l'altro: e essi contano a lei de' loro insieme avuti con Filocolo. L'amiraglio appresso costoro cavalca con Filocolo, e riguardandolo nel viso e notando gli atti suoi, nel cuore nobilissimo e d'alta progenie lo estima; e maravigliandosi di tante cose quante vedute avea quel giorno, e vedendo per cui, arde di disiderio di sapere chi egli sia; per che a Filocolo così cominciò a dire: -- O giovane, il quale più che altro puoi vivere contento, considerando alla benevolenze degl'iddii, la quale intera possiedi, secondo il mio parere, io ti priego per quel merito che tu dei loro di tanto dono, quanto oggi t'hanno conceduto, che obliando la crudeltà che verso di te, non conosciuto da me, oggi ho usata, che ti piaccia di dirmi chi tu se', e onde, e come a questa giovane nell'alta torre salisti. E di ciò contentarmi non ti può nuocere, né cagione alcuna spaventarti, però che vedendo la benivolenzia degl'iddii tanta verso di voi, ogni ingiuria a me fatta ho perdonata, e buona pace tra te e' tuoi compagni e me è fermata. Adempi adunque per la tua nobiltà il mio disio --.



[151]

Filocolo, udite le parole dell'amiraglio, pensa un poco, e prima che risponda, essamina quello che convenevole sia da dire, e che da tacere, e conosce omai convenevole l'essere conosciuto, poi che acquistata ha colei per cui il suo nome celava, e così gli risponde: -- Signore, niuna paura mi farà tacere la verità a voi disiderante di sapere chi io sia, e però che vi sia più caro che io viva che se io fossi morto, più volentieri vel dirò. Siavi adunque manifesto che io mi chiamo Florio, e per tema della fama del mio nome, divenuto pellegrino d'amore, in Filocolo il trasmutai, e così ora m'appellano i compagni, e sono nipote d'Atalante sostenitore de' cieli, al quale Felice re di Spagna mio padre fu figliuolo. E dalla mia puerizia innamorato di Biancifiore, discesa dell'alto sangue dell'Africano Scipione, nata nelle nostre case, come fortunoso caso volle, essendo ella falsamente, e di nascosto a me, venduta e qui recata, infino in questo luogo mediante molti avversi casi l'ho seguita. E sappiendo che nella gran torre dimorava, né potendo a lei in alcun modo parlare o vederla, avendo le condizioni della torre interamente spiate, ammaestrato dalli ingegni della mia madre, a mio padre di questi paesi venuta, a cui gl'iddii ciò che seppe Medea hanno dato a sapere, in quella forma che Giove con Asterien ebbe piacevole congiugnimenti, mi mutai, e in quella torre volai, e lei dormendo, tornato io in vera forma, nelle braccia mi recai, la quale, svegliata, lungamente a rassicurare penai, tanto la vostra signoria dottava, non ancora così subito riconoscendomi. La quale, poi che conosciuto m'ebbe, davanti la bella imagine del mio signore, che sopra l'ignea colonna nella gran camera dimora, di lui faccendo Imineo, per mia sposa con letizia la sposai, e con lei, dalla notte passata avanti a questa, infino a quell'ora dimorai che stamattina lo sconcio popolo sopra mi vidi legarmi con lei, quando io mi destai --.



[152]

Quando l'amiraglio udì ricordare il re Felice e dire: « la mia madre venne al mio padre di questi paesi », rimirò Filocolo nel viso e disse: -- Ahi, giovane, non m'ingannare, scuopramisi la verità intera, come promettesti, e se tu se' figliuolo di colui cui conti, accertamene con giuramento --. A cui Filocolo disse: -- Signore, per dove re de' vostri regni la corona ricevere, io non vi narrerei se non la verità, e giurovi per la potenza degl'iddii, che oggi delle vostre mani sanza morte m'hanno tratto, ch'io sono di colui figliuolo, di cui io vi parlo --. L'amiraglio non aspettando più parole, lieto sanza comparazione, così a cavallo com'era, abbracciò Filocolo, e baciollo centomila volte: -- O caro nipote! O gloria de' parenti miei! O spettabile giovane, tu sii il ben venuto. Io, fratello alla tua madre, non conoscendoti, oggi t'ho tanto offeso! Oh, che maladetta possa essere la mia subitezza! Oimè, perché avanti il subito comandamento non ti conobbi io? Tu saresti stato da me onorato, sì come degno. Io ho fatta, per ignoranza della tua grandezza, cosa da non dovere mai essere dimenticata né a me perdonata. Io non sarò mai lieto qualora di questo accidente mi ricorderò. Io posso dire che io più ch'altro uomo dagl'iddii era amato, se io avanti all'offesa t'avessi conosciuto, ben che assai di grazia m'abbiano conceduta, avendo per la loro pietà tornata indietro tanta mia iniquità, campandoti. Tu mi sei più che la propia vita caro. Ma certo del mio fallo parte a te si dee apporre, però che, se tu quando qui venisti, mi ti fossi palesato come dovevi, tu, fuggendo la ricevuta avversità, avresti il tuo disio avuto sanza fatica e sanza alcun pericolo: tu saresti da me stato onorato sì come tu meritavi. L'occultare del tuo nome, e di te a me, e la mia subita iniquità, m'hanno fatto contro a te villana crudeltà usare. Alla quale emendare, considerando chi tu se', io non conosco la via: sola la tua benignità priego che tanta cosa metta in oblio, sopra di me sodisfaccendo ogni male commesso. E da quinci inanzi, di me e del mio regno, secondo il tuo piacere, disponi, e dell'acquistata giovane co' pericoli e con gli affanni, così come il disio ti giudica, ne sia. La quale, avvegna che io per adietro assai ho onorata, molto più, pensando a' suoi magnanimi antichi, se conosciuta l'avessi, onorata l'avrei, ben che nimici grandissimi fossero a' nostri per lo loro comune --.



[153]

Non fu meno caro a Filocolo dall'amiraglio essere per parente riconosciuto, che all'amiraglio fosse; e faccendogli quella festa che a tanto uomo si convenia, gli cominciò a dire: -- Signore, di ciò che oggi è avvenuto non voi siete da incolpare, ma io solamente, il quale presuntuoso oltre al dovere, non conoscendovi, tentai le vostre case contaminare. La fortuna nell'ultima parte delle sue guerre m'ha con debita paura sotto la vostra potenza voluto spaventare, e gl'iddii nel principio de' miei beni con sommo dono m'hanno voluto dare speranza a maggiori cose. A me non è meno caro con tanti e tali pericoli avere Biancifiore racquistata, poi che sani e salvi siamo, ella e io e i miei compagni, che se con più agevole via racquistata l'avessi. Le cose con affanno avute sogliono più che l'altre piacere: e però a tutte queste cose considerando, sanza più delle passate ricordarci, faremo ragione come se state non fossero, e delle nostre prosperità facciamo allegra festa --. Consente l'amiraglio che così sia, e dimanda dello stato del vecchio re e della sua sorella e di Filocolo madre. Filocolo gli risponde lungo tempo esser passato che di loro niuna cosa avea udita; ma, come dolorosi della sua partita gli avea lasciati, gli racconta. Appressansi a questa festa i compagni di Filocolo, e l'amiraglio conoscendolo per ziano di Filocolo, come signore onorano, e egli loro come fratelli riceve, e a Biancifiore con riverente atto delle passate cose cerca perdono, profferendolesi in luogo di fratello in ciò che fare potesse che le piacesse. Ella per vergogna il candido viso, nel quale ancora vivo colore tornato non era per la passata paura, dipinse di piacevole rossezza, ringraziandolo molto e dicendo che, appresso Filocolo, per signore il tenea. E con questi ragionamenti e con altri lieti pervengono alla città.



[154]

Entrano costoro con letizia in Alessandria, e pervenuti alla real corte, scavalcano, e salgono nella gran sala, e quivi truovano Sadoc e Glorizia legati e fare grandissimo pianto. Costoro avea l'amiraglio fatti prendere, per sapere da loro come Filocolo a Biancifiore salito fosse, e per farli poi, se colpevoli fossero stati, vituperosamente morire: e già fatto l'avria, se il subito furore preso per le parole d'Ircuscomos, non fosse sopravenuto. I quali vedendo, Filocolo, mosso a debita pietà de' loro pianti, per loro priega, e di grazia domanda che se in alcuna cosa avessero offeso, sia loro perdonato, sembianti faccendo di non conoscerli. All'amiraglio piace, e sanza niuna disdetta fattigli disciogliere, comanda che con loro insieme si rallegrino, vivendo sanza alcuna paura. Cominciasi la festa grande: i due amanti di reali vestimenti sono incontanente rivestiti. E cercando già Febo di nascondersi, declinando dal meridiano arco, e essi ancora digiuni, con gli altri compagni, i quali tutti con preziosi unguenti aveano le loro piaghe curate, pigliano i cibi, e con graziosi ragionamenti infino alla notte trapassano. E quella sopravenuta, apparecchiata a Filocolo e a Biancifiore una ricca camera, vanno a dormire, e il simigliante fa ciascuno degli altri, e l'amiraglio.



[155]

Le notturne tenebre, dopo i loro spazii, trapassano, e Titan, venuto nell'aurora, arreca il nuovo giorno. Levan si gli amanti, e l'amiraglio e Ascalion e' suoi compagni: e venuti nella presenza di Filocolo, Filocolo domanda da potere sacrificare, però che avanti a tutte l'altre cose vuole i voti e le promessioni fatte persolvere. Piace all'amiraglio, e le necessarie cose s'apprestano. Visita adunque Filocolo per Alessandria tutti i templi, e quelli di mortine incorona. Egli a Giunone uccide il tauro e a Minerva la vacca e a Mercurio il vitello; a Pallade le sue ulive e a Cerere frutta e piene biade, e a Bacco poderosi vini, e a Marte egli co' suoi compagni offerano le penetrate armi, e a Venere e al suo figliuolo, e a qualunque altro dio o dea celestiale o marino o terreno o infernale offera degni doni, sopra gli altari di tutti accendendo fuochi; e 'l simigliante fa Biancifiore, e Ascalion e i suoi compagni, e con loro l'amiraglio e molti cittadini, solvendo infinite promissioni fatte a diversi iddii per la salute di Biancifiore. Adempiute le promissioni fatte da Filocolo e da Biancifiore la notte del loro lieto congiugnimento, contenti tornano alla real casa da molti accompagnati, dove riposati con festa s'assestano alle tavole poste, e prendono gli apparecchiati mangiari, con l'amiraglio insieme.



[156]

Fatti i sacrificii e presi i cibi, l'amiraglio chiama in una camera Filocolo e' suoi compagni, e quivi con molte parole esprime l'affettuoso amore che a Filocolo, come a caro parente, porta. Ultimamente il dimanda se suo intendimento è per vera sposa Biancifiore tenere. A cui Filocolo risponde sé mai altro non avere disiderato che Biancifiore per isposa: la quale poi che gl'iddii conceduta gliel hanno, mentre l'anima col corpo sarà congiunta, altra che lei avere non intende. L'amiraglio, che più per contentarlo che per riprenderlo dimorava, loda il suo piacere, e dice: -- Non è convenevole cosa che sì alta congiunzione furtivamente sia stata fatta: e però, quando di voi piacere sia, narrando prima a' nostri suggetti la tua grandezza, i quali forse si maravigliano dell'onore ch'io ti fo, in cospetto di loro la sposerai, e con quella festa che a tante sponsalizie si conviene, lietamente le nozze celebreremo --.



[157]

A Filocolo e a' compagni piace tale diviso, e di ciò fare nello albitrio dell'amiraglio rimettono, il quale volonteroso d'onorare Filocolo, comanda che i morti corpi sieno levati della gran prateria, e data loro sepoltura; -- ciascuno, lasciando ogni dolore, s'apparecchi a fare festa --. E dà il giorno a' suoi popoli, nel quale tutti nella gran prateria vegnano, acciò che la cagione della comandata festa a tutti si manifesti. Vanno adunque i parenti de' morti nel sanguinoso prato, e a' tristi busti con tacito pianto danno occulti fuochi la vegnente notte, e poi debita sepoltura. E' feriti da scaltriti medici sono aiutati, mettendo per comandamento del signore le ricevute offese in non calere.



[158]

Il giorno dato viene, e il vermiglio prato ritornato verde riceve la moltitudine de' nobili e del popolo sopravegnente in quello. L'amiraglio, che con discreto stile avea ordinata l'alta festa, vestito di reali vestimenti e coronato d'oro, e con lui in simile forma Filocolo e Biancifiore, discende nella gran corte: e saliti sopra i gran cavalli tutti e tre, e accompagnati da' più nobili, con canti e con graziosi suon se ne vengono al prato pieno di gente. E quivi smontati da cavallo e saliti tutti e tre in parte che da tutta poteano essere veduti, Filocolo alla destra mano e Biancifiore alla sinistra dell'amiraglio, l'amiraglio, dirizzato in piede, diede segno di voler parlare, con la mano comandando il tacere.



[159]

Tacque ogni uomo, e con riposato silenzio si diede ad ascoltare l'amiraglio, il quale così cominciò a dire: -- Signori, la non stabile fortuna diede co' suoi inoppinati movimenti che Biancifiore, nobilissima giovane, dell'alto sangue di Scipione Africano discesa, da noi da poco tempo in qua conosciuta, nascesse nelle reali case del gran re Felice, degli spagnuoli regni gastigatore, in uno medesimo giorno con Florio qui di lui figliuolo e a me caro nipote, della quale egli ancora ne' puerili anni, sì come gl'iddii delle cose che avvengono consenzienti, innamorò. Al cui amore, avuta da' contrarii fati invidia, fu con gran sollecitudine cercato di porre fine, dubitando di non pervenire a quello che i movimenti celestiali, secondo alcuni, avvegna che non savi, incessabili, gli hanno ultimamente condotti, egli, per fuggire questo, dando fede al sottile inganno fatto per alcuno, che oltre al dovere l'odiava, consentì che al fuoco dannata fosse; dove ella pervenuta, e di sua salute incerta, fu dagl'iddii e da costui con mirabile aiuto soccorsa e levata da tale pericolo. La qual cosa vedendo, il re, acciò che quello che pur volea fuggire non gli seguisse, lei, moltitudine di tesori venduta a' mercatanti, diede ad intendere essere morta, la quale Florio, uccidendosi, s'avea proposto di seguitarla: ma, la verità narratagli dalla madre, a me carnale sorella, rimase in vita. Ella fu qui da' mercatanti recata, e da me, per donare al Soldano, tesori sanza numero comperata; e qui da lui, molti pericoli medianti, seguita, con sottile ingegno s'argomentò di congiungere quello che 'l padre con tanti avvisi avea voluto dividere. E andato per artificio mai non udito a lei nell'alta torre, con lei il trovai dormendo, e mosso a subita ira, quasi con la mia spada non gli uccisi; ma gl'iddii, a cui niuna cosa s'occulta, conoscendo che ancora da loro gran frutto dovea uscire, li difesero dal mio colpo. Ma non però mancata la mia ira, con furore li giudicai come vedeste; e quanto gl'iddii gli aiutassero, ancora vi fu manifesto. Venuti adunque per tante avversità e per sì fatti pericoli com'io v'ho narrato, aiutati in tutto dagl'iddii, disiderano sotto la nostra potenza di congiugnere quell'amore che insieme si portano per matrimoniale legame. Alla qual cosa, conoscendo noi che degl'iddii è veramente piacere, abbiamo voluto che voi siate presenti, e rallegrandovi di ciò che gl'iddii si rallegrano, ciascuno secondo il suo grado faccendo festa li onori, considerando che l'uno figliuolo è di re, e la sua testa è a corona promessa, l'altra d'imperiale sangue è discesa --. Tacque l'amiraglio, e le trombe e molti altri strumenti sonarono, e le voci del popolo grandissime nelle lode dell'amiraglio e de' novelli sposi toccarono le stelle.



[160]

Mancati i romori e riavuto il silenzio, vennero i sacerdoti con vestimenti atti a' sacrificii, e recate le imagini de' santi iddii nella presenza dell'amiraglio e de' novelli sposi e di tutto il popolo, coronati di liete frondi, invocando prima con pietose voci Imineo e la santa Giunone e qualunque altro iddio, che grazioso principio, mezzo e fine dovessero concedere al futuro matrimonio, e con etterna pace e in unità tenerli congiunti, la seconda volta l'anello fecero dare a Biancifiore: e sonati varii strumenti e molti canti, di festevole romore riempierono l'aere.



[161]

Cominciasi la festa grande, e lo sconfortato popolo si comincia a rallegrare, contento che tanto uomo sia per l'aiuto degl'iddii da sì turpe morte campato. Niun tempio è sanza fuoco. Niuna ruga è scoperta, ma tutte, di bellissimi drappi coperte, e d'erbe e di fiori giuncate, danno piacevole ombra. Niuna parte della città è sanza festa, e infino al prato niuno poria un passo muovere sanza avere di gran quantità di festanti graziosa compagnia. Ordinansi giuochi, e molte compagnie sotto diversi segnali fanno diverse feste. I mangiari copiomente dati danno materia di più festa. L'amiraglio per amore di Biancifiore comanda che alle vaghe donzelle, alle quali mai non fu licito uscire, la torre sia aperta, e che esse liete vengano con la loro compagna a festeggiare. Discendono tutte, e date le destre a Biancifiore, con lei si rallegrano, dandosi lieti baci in segnale di vero amore. La festa multiplica nel prato, e gli amorosi canti e' diversi suoni occupano che alcun'altra cosa vi si possa udire. È adunque quel luogo, che alla loro morte poco davanti fu statuito, ora ad essaltamento della loro vita diterminato. Quel luogo, ove ardente fuoco per consumarli era acceso, ora d'odoriferi liquori tutto inaffiato porge diletto a' festeggianti. Quel luogo, ove pochi giorni inanzi gli uomini armati la morte l'uno dell'altro cercavano, ora pieno di pace, di concordia e d'allegrezza vi si festeggia. Quel luogo, che poco inanzi era pieno di sangue e d'uomini morti e di pianti, ora di canti e di lieti suoni e di festanti uomini e donne si sente risonare. Rivolto ha ogni cosa in contrario la mutata fortuna: le molte damigelle, che davanti per la morte di Biancifiore piangeano, ora cantando della sua vita si rallegrano. Che più brievemente si può dire, se non che: -- Chi ha il male se 'l piagne --? E gli altri, come se stato non fosse niente, con intero animo festeggiano, dilettandosi di piacere a' novelli sposi e d'onorarli.



[162]

Questo giorno servirono alla mensa de' novelli sposi nobili baroni e assai: nel quale Ferramonte, duca di Montoro, ricordandosi d'aversi vantato al paone di dovere Biancifiore, il giorno della festa delle sue nozze, della coppa servire, all'amiraglio cotal dono di grazia dimandò e fugli conceduto; per che quel giorno e quanto la festa durò, graziosamente di tale uficio con reverenzia la servì. A quella mensa furono molti grandi e alti presenti da parte dell'amiraglio e di Dario e d'altri grandi uomini del paese portati, e da parte di Sadoc la gran coppa con quelli bisanti e con molti altri gioielli fu recata: di che Filocolo e lui e gli altri ringraziò debitamente, e a tutti doni alla loro grandezza convenevole donò.



[163]

Già il sole minacciava l'occaso, quando all'amiraglio e a Filocolo parve di tornare alla città; ma Parmenione che d'adestrare Biancifiore a casa del novello sposo s'era al paone vantato, non essendogli uscito di mente, vestito con Alcipiades figliuolo dell'amiraglio, e con alcuni altri giovani nobili della città, di drappi rilucentissimi e gravi per molto oro, al freno di Biancifiore vennero, e quella infino al real palagio adestrandola accompagnarono, dove ella, con festa tale ch'ogni comparazione vi saria scarsa, fu ricevuta.



[164]

Menedon che la sua promissione non avea similemente messa in oblio, dimandati all'amiraglio compagni, e da lui molti nobili giovani della città ricevuti, con varii vestimenti di seta sopra i correnti cavalli, di simile vesta coperti, più volte mentre la festa durò, quando con bigordi e quando con bandiere, i cavalli, tutti risonanti di tintinnanti sonagli, armeggiando, onorevolemente la festa essaltò. Ma Ascalion volonterosamente il suo voto avria fornito, ma, non guarito ancora delle ferite ricevute alla passata battaglia, alla gran pruova, di che vantato s'era, non avria potuto resistere: però, comandandolo Biancifiore, se ne rimase. E Messaallino similmente, lontano a' suoi regni, non poté il suo vanto allora adempiere, ma riserbollo a fornire nella loro tornata a Marmorina.



[165]

Contenti adunque Filocolo e Biancifiore della mutata fortuna, nella gran festa più giorni lieti dimorarono, ringraziando con pietose lode gl'iddii che da gran pericoli a salutevole porto gli avean recati e posto aveano alle loro fatiche fine, disiderando di tornar omai lieti al vecchio padre.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Tutte le opere di Giovanni Boccaccio - Volume I", a cura di Vittore Branca, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1976







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