CAPITOLO
III
La teologia dell’Uno-Tutto
olistico
3.1
L’invenzione dell’unità olistica dell’essere
Nel § 2.7 abbiamo accennato ai dualismi
ontologici ed etici presenti nella cultura dell’Occidente, tutti più o meno
derivanti o coincidenti con quello corpo/anima. Ma il dualismo non è affatto
l’espressione più importante della teologia mondiale, ché anzi il monismo olistico ne è sua espressione più diffusa e sempre più diffondentesi anche in quelle culture che hanno coltivato e
sviluppato il dualismo radicandolo nella cultura e nelle coscienze. D’altra
parte, se pure la teologia cristiana ha praticato il dualismo nella teologia
filosofale occidentale sono esistite forti e radicate correnti monistiche in parte già alluse in Platone e in Aristotele e
esplicitate con lo Stoicismo e il Neoplatonismo. L’ipostatizzazione dell’unità
dell’essere è fenomeno ricorrente e assai rilevante dell’immaginazione
umana, così radicato e onnipervadente in molte
culture che ha finito per costituirsi in molti contesti come “la” teologia per
eccellenza, fino a venire percepito, ideologizzandosi,
come elemento antropico naturale, originario e “innato” nella mente dell’uomo.
Una sorta di “assoluto”, il quale, nella psiche degli appartenenti a molte
culture, specialmente asiatiche, si esprime in quella fede nell’Uno-Tutto che sta alla base di ogni panteismo. La presenza
dei monoteismi abramitici (instauratisi perlopiù sul
ceppo dei politeismi pagani) ha fatto da barriera all’ingresso di tale weltanschauung, ma esiste una sorta di “fuga
mistica” verso la cultura orientale piuttosto importante. Fuga da una cultura
supposta nichilistica (si pensi alle teorizzazioni di Severino) e disumanizzata,
al punto che la credenza nell’unità del cosmo quale impersonale Dio-Necessità
sta diventando decisamente competitiva rispetto a quella nel personale
Dio-Volontà.
Si tratta di un punto di vista radicato e
arcaico, tendente a vedere il plurale come secondaria e inessenziale
diversificazione dell’unità originaria. Con esso l’evoluzione del cosmo fisico
o della materia vivente null’altro appaiono che un processo “scontato” di
sviluppo, diversificazione e complessificazione
dell’unità originaria e sacrale. Ebbene,
sia che si consideri il cosmo fisico nel suo complesso, sia che si punti lo
sguardo a questa infinitesima parte dell’universo dove è presente la vita,
tutto appare invece come irrimediabile “pluralità”. Non vi è ombra di alcun
elemento probatorio che autorizzi il ritenere che la struttura attuale della
materia cosmica e del vivente siano il risultato inevitabile di un’unità olistica “a monte” da cui sarebbe derivata una pluralità ontica “a valle” riassorbibile nella unità originaria.
Nell’evoluzione cosmica e biologica vi è differenziazione continua di unità
pregresse verso una sempre maggiore frammentazione. I processi evolutivi, in
gran parte casuali, che hanno portato dal caldissimo Big-Bang
all’universo freddo attuale, con “quei” miliardi di corpi cosmici, con “quelle”
galassie tutte differenti, quelle stelle, quei buchi neri e quei pianeti,
contrastano con tale tesi. E ciò vale non meno per l’evoluzione biologica e la
differenziazione pluralistica a partire da “un” possibile protozoo originario,
con le sue trasformazioni e i suoi ibridi, le loro estinzioni e le loro
comparse. L’apriori monistico
che caratterizza non solo la maggior parte delle teologie ma anche numerose
teorie scientifiche è solo il frutto di una “credenza”.
Per quanto riguarda la fisica teorica e la
cosmologia i numerosi esempi di tale credenza nell’”unità” originaria
riguardano fondamentalmente due aspetti del mondo fisico che potremmo chiamare
“ontico” ed “eziologico-fenomenologico“.
Relativamente al primo si ritiene che la pluralità sia “non significativa” in
quanto secondaria e scontata “differenziazione dell’unità” ,relativamente al
secondo aspetto si pensa che il processo cosmogonico
sia nient’altro che l’“effetto necessitato” di una causa originaria che
trascende o inerisce il cosmo. Mentre
è inconsistente la tesi di un olismo cosmico,
è invece del tutto corretta quella che vede l’organismo animale come una
macchina biologica la cui funzione globale non è del tutto esauribile nella
somma di quelle dei suoi costituenti. In un organismo vivente infatti, le parti
hanno funzioni differenti, ma tutte coordinate e concorrenti al fine di far
vivere e funzionare al meglio l’organismo, che si costituisce “con” e “per
mezzo” di esse. L’organismo animale è realmente un uno-tutto
che possiede “valore aggiunto”, la vita, rispetto alla somma funzionale delle
sue parti prese separatamente. L’olismo è prerogativa esclusiva dei sistemi complessi e
organizzati, e nello specifico degli organismi biologici, non di un universo
che non è affatto un sistemo complesso organizzato, bensì disorganizzato e
caotico, dove ogni costituente obbedisce “singolarmente” perlopiù a leggi
fisiche valevoli nella totalità, ma non in funzione di un’organizzazione unitaria-globale. Né può considerarsi olistica
la biosfera, poiché ogni specie ed ogni ecosistema seguono leggi
biologiche generali ma opportunità conservative ed evolutive specifiche e non
riferibili ad alcuna “totalità vitale”. Ne consegue che ogni teoria vitalistica debba considerarsi non solo arbitraria, ma
espressione di puro misticismo biologico. Siamo anche d’accordo nel considerare
unità olistiche il linguaggio umano, in quanto la sua
funzione globale eccede i mezzi e le forme che utilizza, ed anche (sia pure
entro certi limiti) le stesse società umane come espressioni globali di
singolarità connesse ed organizzate in un unità funzionali, operative e
simboliche.
3.2 Le unità-totalità fittizie e le molteplicità
reali
Esaminiamo ora il problema della credenza
nell’unità da un altro punto di vista, che si connette all’argomento del
paragrafo precedente, ma in termini leggermente differenti e più topici. Non ci
stiamo riferendo al concetto di differenziazione, ma semplicemente a quella
modalità operativa del pensiero e del linguaggio che tende a vedere la
molteplicità causale-effettuale sotto la specie
dell’unitarietà. Scegliamo un concetto che sembra chiarissimo, determinato ed
univoco: quello di “luce”. Si potrebbero persino fare affermazioni perentorie e
aforistiche del tipo: «la luce è la luce!» senza ulteriori spiegazioni, poiché,
a ben vedere, non ci sarebbe alcun vero motivo per esser insoddisfatti di tale
affermazione. Tutti sanno infatti che cosa è la luce fin dai primi passi fuori
della culla, ed essa viene inequivocabilmente percepita e concettualizzata
in modo chiaro ed univoco dal primitivo selvaggio amazzonico come
dall’astronauta sulla navicella spaziale come quel continuum realissimo
che pervade l’universo percepibile e strumentalmente rilevabile e che su tutto
si posa rendendolo visibile. Ma se ci soffermiamo a riflettere ci accorgiamo
che dal punto di vista scientifico il termine “luce” indica un’entità del tutto
astratta. Essa, nel suo auto-mostrarsi (e mostrarci le cose del mondo), non è
infatti un fenomeno-causa bensì un fenomeno-effetto “derivato”, della stessa
specie del calore, dell’elettricità o del magnetismo. La luce pertanto “non è”,
ma “appare” quale effetto visibile di un flusso di innumerevoli entità fisiche
infinitesime che la fondano e la determinano: i fotoni. E i fotoni non si
possono dire neppure tutti uguali, nel senso che differenti sono i loro livelli
energetici e differenti i tipi di luce che generano. Ma anche ammettendo che i
fotoni fossero portatori di un effetto unitario, sarebbe questo la luce?
Neppure, poiché i fotoni non hanno massa e sono unicamente generatori di forza,
ed oltre alla luce e al magnetismo creano la “carica” elettrica nei fermioni (le particelle con spin
semintero) che si estrinsecano in quegli effetti
“leganti” o “separanti” all’interno degli atomi che tengono insieme il nucleo e
gli elettroni, mentre determinano il respingersi di particelle con carica
uguale ed altri effetti come quelli elettrostatici.
La luce quindi, vista come unitaria (e come
tale spesso “divina”, anche sotto l’aspetto di “sole” in numerose religioni del
passato) è un falso, poiché non possiede nessun carattere di originarietà e di sostanzialità tali da poterla considerare
“reale”, se non come effetto visibile di un’infinità di fotoni che “corrono” a
360.000 km/sec. Se volessimo pervicacemente l’unità a tutti i costi dovremo
quindi prendere in considerazione “un” fotone e immaginarlo moltiplicato
all’infinito per restare se stesso e fargli assumere il nome collettivo di
“luce”. Ma neppure così giustificheremmo la luce come unità, poiché “i” fotoni
esistono “singolarmente” come determinatori di un’astratta unità che è stata
“denominata” per comodità linguistica “forza” (l’elettromagnetismo), la quale
può assumere molte forme. I fotoni possono anche assumere differenti frequenze
e lunghezze d’onda, differenti intensità e concentrazioni locali o diffuse sì
da determinare le differenti cosiddette “qualità” della luce. Se gli elettroni
possono ruotare intorno ai nuclei atomici dando vita agli atomi e da ciò alle
molecole e da ciò alle innumerevoli cose del mondo lo si deve ai fotoni e non
alla luce che non esiste all’interno dell’atomo. Essa è soltanto, lo ripetiamo,
un “effetto”, che ha ricevuto nel linguaggio “un” nome totalizzante, ma che in
realtà esiste (o più correttamente “appare”) soltanto in virtù dell’esistenza
“reale” di una miriade di fotoni e dell’altrettanto “reale” loro corsa
forsennata nello spazio-tempo. In altre parole: la luce è una pura illusione ottica!
Tra le radiazioni quella luminosa è
peraltro soltanto la più nota e accessibile alla generale attenzione, in virtù
della quotidianità della sua esperienza, ma il discorso vale per qualsiasi
altro tipo di radiazione. Nominare un raggio normalmente induce a pensare a
qualcosa di immateriale che trapassa lo spazio come un continuum, in
realtà esso è invece costituito da una grande quantità di particelle, quindi di
entità discrete, che viaggiano come dei proiettili in una certa direzione o in
tutte le direzioni. Aggregati di due protoni e due neutroni (nuclei di elio)
diventano così la radiazione α, elettroni prossimi alla velocità della
luce sono noti come radiazione β, fotoni con lunghezza onda di 10-12
vengono chiamati radiazione γ e così via. Naturalmente altrettanto spesso
al posto del singolare “radiazione” viene usato il plurale “raggi”
ripristinando il senso della sostanzialità pluralistica del fenomeno, ma
mantenendo comunque inalterata la concezione di “continuità” radiante. “Molte”
entità fisiche che si muovono insieme vengono così pensate “una”, occultando
concettualmente la molteplicità, oppure, nel migliore dei casi, dichiarandola,
ma non intendendola come discreta, bensì come continua. È anche dall’insieme di
usi linguistici impropri che si alimentano le concezioni monistiche
della realtà, e ciò accade perché l’informazione generica (dove l’effetto
emotivo dell’espressione linguistica è più importante della sua correttezza) è
assai più pervasiva di quella scientifica. Quella
penetra nelle coscienze delle moltitudini, questa raggiunge un numero di
coscienze limitato.
Un altro esempio è costituito dall’acqua
(anch’essa “una” nell’immaginario collettivo) che costituisce l’esempio
classico di ciò che è liquido e che abbiamo già utilizzato esemplarmente
parlando, nel § 2.3, delle convenzioni linguistiche. L’acqua è acqua? E perché
non vapore condensato o ghiaccio liquefatto? Stiamo parlando di una stessa
molecola che determina, a diverse condizioni di pressione e temperatura, ora
acqua, ora vapore e ora ghiaccio. Che cosa c’è alla base dell’acqua? Non
certamente l’acqua, che è solo una modalità fisico del darsi di una molecola
costituita da due atomi di idrogeno e da uno di ossigeno. L’acqua non è sostanza
di se stessa ma una delle “forme” di una molteplicità di molecole indicate
col simbolo H2O. Ma essa è scomponibile in idrogeno ed ossigeno,
quindi si potrebbe pensare (e così si pensò a lungo) che questi siano le basi ontiche di essa. Ora però noi sappiamo che né l’idrogeno né
l’ossigeno sono originari a se stessi e che dobbiamo scendere a livelli più
profondi della materia per trovare la loro “sostanza” primaria. E tale “discesa
nel profondo” ci conduce alla fine ad identificare in tutta “la” materia sedici costituenti teorici [1]
e otto noti come stabili [2].
La materia, correntemente e filosofalmente
considerata “una” è quindi pura illusione; essa è una realtà “plurale” e
differenziata, a base sedici o a base otto a seconda del punto di vista assunto
(regime di alte energie e di basse energie), ma in ogni caso mai “una”.
Analogamente si deve considerare il
concetto di “forza” (ma potremmo aggiungere, anche quello di “massa-energia”).
In effetti, che cosa è una forza? Esiste forse una forza senza quelli che
vengono chiamati i suoi “mediatori”? Questo termine fa pensare ad entità
fisiche secondarie, “al servizio” di un entità primaria; ma le cose stanno così
o si tratta di un modo convenzionale (e improprio) di indicare i “generatori”
di una forza? Non abbiamo le competenze (e quindi neppure la presunzione) di
addentrarci in un campo (la fisica) che non è il nostro. Se i fisici parlano
dei bosoni come “mediatori” di forza e non come
“generatori” avranno le loro buone ragioni per farlo, ma noi insinuiamo
comunque il nostro dubbio filosofico, sperando che gli addetti ai lavori ci
riflettano sopra. E ancora, possiamo domandarci: poco dopo l’”inizio” (a 10 –
44 secondi dal big-bang) quando si separarono
gravità, forza elettrodebole e interazione forte,
furono esse ad apparire od invece i loro bosoni? La
questione non è poi così oziosa, poiché, se è la forza (una) che ha generato i
propri mediatori (molti) è un conto, ma se sono questi a generare quella, da un
punto di vista filosofico, le cose cambiano. La domanda ovvia, alla fine, è la
seguente: ad essere “originaria” è un’unità che genera pluralità o una
pluralità che rimane “onticamente” tale e che si
costituisce come il vero oggetto della ricerca scientifica e ontologica?
A base del nostro universo, insieme ai fermioni (adroni e leptoni) ci sono quattro forze o quattro tipi di bosoni? Sono reali le forze mediate o i mediatori (o
generatori-portatori) di esse: fotoni, bosoni
vettoriali, gluoni e gravitoni?
I gravitoni non si trovano; ma d’altra parte neppure
i “generatori di massa” si trovano e senza di essi non si capisce come le masse
si costituiscano, così si ritiene debbano esistere i bosoni
di Higgs. Per la scienza può essere inessenziale, ma
per la filosofia è molto importante sapere se la realtà è monistica
o pluralistica. Così anche ai fini della teorizzazione
dell’“unità” delle forze nel big-bang o
dell’“unificazione” matematica di esse in un'unica equazione che le comprenda
occorre distinguere l’aspetto fisico-matematico dalla
questione filosofica, a conferma che la scienza è una cosa e la filosofia
un’altra, quantunque siano, ai fini gnoseologici, “sorelle” e non certo
alternative. In altre parole, ci troviamo ancora una volta di fronte ad una
maniera impropria di nominare il reale o ad una vera e propria concettualizzazione errata di esso? Ovviamente la questione
resta aperta e la parola spetta ai fisici, ma ci pare legittimo il dubbio che,
ancora una volta, la “malattia monistica” possa aver
colpito!
3.3 Eterogeneità e pluralità del reale. Nominazione e realtà
Vediamo ora il problema del monismo ancora da un altro punto di vista:
quello della eterogeneità del reale opponibile a una sua presunta omogeneità
meta-fisica. La ricerca dell’unità a tutti i costi, determinata da quella che
abbiamo chiamato malattia monistica si estrinseca
anche nel ritenere che oltre che continua la realtà sia anche omogenea. Una
verità alla quale i monisti non sono disposti a rinunciare, come se la materia
“una”, “continua” e “omogenea” costituisse verità intrinseca e inconfutabile. I
loro argomenti sono numerosi, ma alcuni hanno il carattere di veri cavalli di
battaglia fideistici. Così ci diranno che prima del big-bang c’èra “un” punto” e che in quel punto c’era già il
Tutto, che le differenziazioni non c’erano ancora, ma erano già implicate, che
le quattro forze erano “una” (il “campo unificato”) e che da quel punto è nata
“una” totalità che rimane fondamentalmente “una”, purché la si sappia leggere
con occhi illuminati. In realtà, il nostro universo è diventato “qualcosa” nel
momento in cui sono nate delle particelle definite (ancorché precarie e
trasformiste), poiché prima c’era soltanto un concentrato caotico di energia,
ed al Big-Bang (che, non dimentichiamolo, è solo un
“modello”) è seguito un processo col quale si dava una pseudo-realtà
generica in pre-divenire. Prima che nascano le prime
particelle (fotoni e leptoni) il cosmo è quasi un
nulla, un luogo-istante in cui si auto-producono i primi mattoncini
di un universo ancora inesistente in una temperie di massima mutevolezza in cui
nulla è e tutto prova a divenire. Un divenire che è proporzionale
all’enorme energia che lo alimenta, la quale non è altro che la “forma”
esplosiva della massa totale di quell’universo
primordiale, ovvero il “magazzino” da cui le particelle in formazione prelevano
quel che serve loro “per essere”.
Possiamo dire che l’”uno” (il
Big-Bang) ha creato i “molti”? Possiamo anche dirlo;
vediamo però se le cose stanno veramente così e se l’affermazione abbia
legittimità. Che cos’è che realmente è esistito nella spaventosa esplosione
iniziale, lo scoppio (più esattamente la bolla di gas in espansione) oppure ciò
che in esso nasceva? Se lo scoppio è reale le particelle sono soltanto un suo
effetto, ma lo scoppio potrebbe anche essere, al contrario, considerato
l’effetto della nascita delle particelle. Sono infatti le particelle che in
quanto nascono trasformano l’energia in massa ed è solo nel momento in cui i
fotoni non hanno più energia sufficiente per interagire con gli elettroni e
impedire che si leghino ai nuclei adronici che
cominciano a potersi formare i primi atomi di idrogeno. È soltanto a questo
momento, a 300.000 anni dall’inizio, che l’universo comincia a diventare
trasparente ed i fotoni a diffondere luce. Nei momenti precedenti l’universo
era completamente opaco.
Ma
vi è ancora un altro aspetto da considerare e riguarda il fatto che i monisti
non fanno distinzione tra la “partenza” e l’”arrivo” del processo cosmogonico, ovvero tra gli antecedenti e i conseguenti,
assumendo che questi siano omogenei a quelli. Ciò non ci convince per due
motivi: il primo è che viene sottintesa una linearità causa–effetto determinata
da una necessità assoluta che esclude ogni casualità. E da ciò
emerge l’ovvia domanda: l’espansione doveva proprio andare così o avrebbe
potuto andare diversamente? Dai monisti la domanda non viene posta e si assume
il processo come dogmaticamente deterministico,
confondendo così la cogenza delle leggi fisiche in un
sistema ormai definito e reale (e quindi determinato da un relativo “ordine”
interno) con un processo in divenire disordinato e casuale, dove, a nostro
parere, ciò “che si forma” detta le leggi del suo formarsi e contemporaneamente
del suo stesso esistere. Il secondo motivo sta nel fatto che i monisti
deterministi sembrano dimenticare il secondo principio della termodinamica, in
base al quale in un sistema chiuso (e tale è l’universo nel suo complesso) un
qualsiasi aspetto “ordinato” del sistema tende naturalmente a “disordinarsi”,
mentre per fare il contrario occorre produrre “lavoro”, ovvero conferire al sistema
sia energia e sia informazione “dall’esterno”.
I monisti tengono anche abusivamente
“insieme” i diversi livelli energetici della realtà fisica, pretendendo che ciò
che riguarda la materia elementare (caratterizzata da elevatissime energie,
dall’assenza di tempo e dalla reversibilità) possa valere anche per il mondo
macroscopico (a bassa energia). Ci pare che con ciò si tenda ad ignorare che la
realtà cosmica si estrinseca in “livelli” o “strati” differenti, e che noi
preferiamo chiamare “regioni”. Non si possano “unificare” le leggi che
determinano il mondo subatomico e quelle che concernono il vivente: quelle sono
presenti in queste, ma queste sono assenti in quelle. Non porre differenze
ontologiche tra un quark e una cellula ci pare una leggerezza assai pericolosa
per la conoscenza, poiché si tratta di realtà totalmente diverse; se la
differenziazione tra il pensabile e il reale va rigorosamente mantenuta ciò
vale anche tra il reale possibile e un virtuale impossibile. Se un leptone pesante come il muone
(certamente presente nelle prime fasi della formazione del nostro universo) ha
potuto esistere a 10-36 secondi dal “grande botto” e alla
inimmaginabile temperatura di 10 27 ° K e attualmente può venir
prodotto artificialmente in un acceleratore di particelle decadendo
istantaneamente (nel tempo di 2,197x10 6 secondi) per dare luogo a
un elettrone, un antineutrino elettronico e un neutrino muonico,
ciò significa che esso è un virtuale impossibile in “questo” universo. Per i
mistici della fisica invece il virtuale è olisticamente
reale e con questa premessa passano per estensione a ritenere che anche il
“pensabile” possegga le caratteristiche del “possibile”. Il cosmo va
considerato per la materia con cui è fatto hic
et nunc: ciò è la realtà.
Esso è ciò che è e non già un “pensabile” di quando non era ancora quel che è.
Ciò che può essere stato in passato o che potrebbe essere in futuro può essere
oggetto di pensiero e di teoria immaginifica, ma ciò non concerne la realtà.
Ci sembra perciò stravagante l’ipotesi di
un’entità fisica “primaria” che sarebbe all’origine dell’universo e
continuerebbe a permearlo, essendo, teologicamente, sub-stantia
dell’attuale universo. Che sia esistita, in una certa brevissima fase
successiva al big-bang, un’unità caotica di energie e
forze che ha preluso all’esistenza della materia nella forme attuali e nelle
aggregazioni presenti attualmente nel cosmo è sicuro, ma affermare che questa,
“adesso”, continui a permeare il cosmo essendo intrinseca ad esso ci pare
insostenibile. Se pure potesse essere esistita in una fase iniziale del
processo cosmogonico una forza primaria
indifferenziata (reale allora) e a che a questa siano succedute le quattro
tuttora presenti nell’universo (in realtà i loro bosoni
generatori) non significa che essa sia oggi reale. Si tratterebbe semmai di una
realtà “storica” verificatasi (secondo il Modello Standard) in una fase
infinitamente breve (precedente ai 5x10 – 44 sec. dal Big-bang) dell’espansione del cosmo e prima della
separazione della gravità dalle altre forze (degli ancora ignoti gravitoni dagli altri bosoni
generatori di forza) ma di tale realtà pregressa e transitoria nell’universo
attuale non può esservi nessuna traccia, perché se esistesse essa non
esisterebbe questo universo.
Gli assertori delle fantasie teo-fisiche sono però assai numerosi, a dimostrazione che
“l’assenza di Dio” risulta veramente intollerabile per la psiche di numerosi
rappresentanti della specie homo sapiens. Costoro non fanno alcuna
differenza tra ciò che realmente “può esistere” in un sistema fisico e ciò che
“non può esistere” per quello stesso sistema fisico. La realtà implica un’effettualità reale identificabile ed accertabile e
non si vede che senso possa avere il fantasticare sulla presenza di un’entità
fisica che sarebbe esistita in uno spazio infinitesimo della dimensione di 10 –
33 centimetri e alla temperatura di 10 31 gradi Kelvin! Reale può predicarsi esclusivamente di qualcosa di
cui si colgano effetti identificabili e misurabili in un contesto, qualcosa che
dura nel tempo quel tanto che basta per venire verificato, e non ciò che
potrebbe essere esistito in una fase nella quale anche “altre cose” potevano
formarsi (in una sorta di corsa “verso l’esistenza”) senza poi essersi
realizzate. Ma i più accesi teologi della fisica sono certamente i sostenitori
del Principio Antropico Forte, ovvero di quella teoria che sostiene che
l’universo è in funzione dell’esistenza dell’homo sapiens. Il che
significa, ovviamente, anche sostenere che l’universo “doveva nascere” affinché
il “progetto intelligente” si realizzasse compiutamente con la comparsa dell’homo
sapiens.
L’arbitrio più evidente in tali
argomentazioni è tuttavia quello che deriva dalla cogenza
psichica di voler esorcizzare il casuale, immaginando una necessità
assoluta e totale che si identifica con l’unità. Questa tendenza psichica a
necessitare e unificare ciò che è eterogeneo è così ricorrente (soprattutto
nelle teosofie orientaleggianti) che la teologia filosofale che ne deriva
riesce a permeare persino la fisica, rendendo evanescenti i confini tra scienza
e teologia. Ci pare infatti ineludibile l’elementare
criterio gnoseologico per cui un’entità fisica è “supponibile” solo ed
esclusivamente se il suo sussistere sia compatibile col sistema che dovrebbe
includerla e con i suoi sotto-sistemi. In un sistema reale dove siano reali e
identificati i sottosistemi nessuna altra entità è supponibile reale se “non
può” coesistere con essi. È infatti la possibilità della “contemporaneità” che
rende possibile l’ipotesi di un qualcosa che possa avere una qualche relazione
[3]
con un tutto e le sue parti, rendendosi ad esse (e reciprocamente)
“relativa”. Saremmo tentati di enunciare una sorta di Principio di relazione,
in base al quale si deve ammettere che due entità possano essere considerate
correlate e facenti parti di una complessità che le comprende soltanto se in
una certa identità spazio-temporale (nello stesso ambito e nello stesso
momento) sono compresenti come “parti” di un tutto che le possa comprendere.
Completiamo la riflessione soffermandoci
ancora sul mondo subnucleare e sulla questione del
rapporto forza/bosoni per riprendere il rapporto tra nominazione e realtà. I fisici talvolta parlano di “mattoncini-base” dell’universo (immaginato come un edificio
pluralistico complesso) a proposito delle particelle elementari ed in termini
classificatori viene fatta una distinzione tra particelle elementari e forze,
oppure tra particelle (leptoni e adroni)
e mediatori di forza (che sono anch’essi “particelle”) quali sono i fotoni, i bosoni di forza debole (vettoriali), i gluoni
e gli ancora misteriosi gravitoni. Non è peraltro
escluso che possano esistere delle sub-realtà fisiche ancora più elementari
(per esempio le stringhe), ma in ogni caso risulta evidente come più si
va verso l’elementare e più la pluralità aumenta. Ma perché allora si continua
a parlare di “forze” come unità nominali dei loro sub-costituenti reali? Perché per
i fisici (in relazione ai fini che perseguono), dire che la forza
elettromagnetica genera i suoi mediatori (i fotoni) o che sono i fotoni a
generare-determinare l’esistenza di un effetto denominato “forza” chiamato
elettromagnetismo è la stessa cosa. Ma ciò che qui è filosoficamente in gioco è
importante, poiché, lo ribadiamo, se è la forza che genera i suoi agenti reali
siamo di fronte ad un’entità quasi meta-fisica che sarebbe sostanza di
particelle fisiche (quindi loro origine e fondamento), mentre se sono esse che
“collettivamente” fanno pensare a qualcosa come una “forza”, questa diventa
oggetto metafisico, un universale della Scolastica.
Ma
la questione forse non è poi così complicata da dirimere ed in aiuto può venirci
una semplice domanda: quando in un acceleratore di particelle si scinde la
materia è successo qualche volta che si sia trovato qualche cosa come una
“forza”?. Non siamo fisici ma riteniamo di non sbagliare nel rispondere: no!.
Allora è anche da banali domande come questa e dalle risposte che nasce il
dubbio che le forze siano pure espressioni linguistiche, designanti in modo
molto generico (del tipo: elettricità, forza motrice, magnetismo, luce, ecc.)
gli effetti generali dell’aggregazione di particelle dotate di certi attributi,
dove è proprio l’intensità dell’effetto “quantitativo” di tali entità a rendere
possibile la “nominazione” di un insiemale
fisicamente inesistente. Stiamo qui proponendo una nuova concettualizzazione gnoseologica senza pretendere di
rivoluzionare il linguaggio, che tale si è formato attraverso i millenni e che
funziona egregiamente per la comunicazione. Ma ciò, dobbiamo ribadirlo, rivela
anche a livello filosofico tutte le sue approssimazioni, le sue manchevolezze e
le sue improprietà.
Non si tratta di imparare a “parlare”
diversamente, quanto piuttosto di cominciare a “pensare” diversamente,
lanciandoci alle spalle una mantello concettuale logoro che ci è ormai di
intollerabile impaccio per il progresso della conoscenza. Ed è in questo che la
filosofia può accompagnare la scienza senza esserne succube, in quanto la
scienza le fornisce la materia conoscitiva bruta ed essenziale, riflettendo
sulla quale il filosofo può metterne in luce le connotazioni fittizie per
poterne isolare le designazioni reali. Questo è il compito del filosofo: egli
deve andare alla ricerca del “che cosa” mentre allo scienziato è demandata la
ricerca del ”come”. Abbiamo detto “ricerca” e non “definizione”, poiché si può
definire soltanto ciò che è “definitivo” e nessun ricercatore onesto, in
qualsiasi campo operi, deve arroccarsi sulla presunzione di aver messo in
chiaro, una volta per tutte, gli aspetti complessi e mutevoli della realtà.
Essa è, infatti, in perpetuo divenire, e soltanto un conoscenza diveniente le è
adeguata e correttamente correlata.
3.4 L’anima del mondo,
l’Uno-Molteplice e altri miti
Parliamo ora di una delle ipostasi di
maggior successo nella storia del pensiero umano: quella dell’anima del
mondo. Con questa espressione si indica un concetto che per un verso si
collega all’ilozoismo antico (presente anche nei naturalisti milesii del VII sec. a.C) e per
un altro alla cosmologia spiritualistica. Forme di materialismo panteistico e
di spiritualismo olistico possono considerarsi quindi
unificate teoricamente in tale concetto con differenziazioni marginali. Tali weltanschauungen
prevedono un cosmo governato invariabilmente da un anima (oppure da un
intelletto, intelligenza, logos, ecc) che lo organizza e lo ordina. Sia che quest’anima si presenti come un “soffio vitale” o come un
logos-intelligenza materialistico quale materia “vitalizzata”
(come nello stoicismo), oppure che essa sia un essenza puramente intellettuale
o spirituale che lo pervade e lo determina (come nel platonismo), ci troviamo
di fronte a una stessa e identica concezione del mondo.
Ma non è nel mondo greco bensì in quello
asiatico che il concetto di anima del mondo ha avuto non solo maggior
successo ma è diventato il fondamento di quasi tutta la speculazione teologica
di quell’area del pianeta. Nella teologia indiana sia
il concetto di brahman (principio
cosmico del vedismo) sia il più tardo concetto di ātman (anima cosmica e individuale) posto nelle Upanishad implicano quello di anima del mondo. Ma
sarà col sistema Vedānta
che viene meglio definito il concetto di tale unità olistica
del cosmo; un cosmo univoco ed unitario dove il brahman
si identifica con l’ātman,
concretizzandosi in quell’assoluta unità olistica posta da Šankara [4],
il più grande teorico del vedantismo. Tale unità,
espressa con l’espressione brahman-ātman, diventerà il fondamento del monismo
spiritualistico induista in tutte le sue espressioni, sia nella forma
impersonale del Vedānta,
sia nella forma personalizzata dello Shivaismo e del Vishnuismo. Ma abbastanza simile a quello di brahman-ātman
è anche il concetto di Tao (come flusso vitale ed eterno del cosmo) in
ambito cinese, a dimostrazione del complesso areale
in cui matura e si insedia questo concetto.
Ma qui è sul concetto in ambito occidentale
che intendiamo soffermarci, poiché per quanto l’anima del mondo si colga
già in epoca arcaica, è col Timeo di Platone
che riceve compiuta espressione. Come è noto il mondo di Platone è opera di una
divina intelligenza artigiana, un δημιουργός
che non ha creato la materia amorfa e bruta (i quattro elementi) ma che ad essa
ha conferito ordine e senso, sottraendola al caos e al non-senso in cui giaceva
inerte. Un divino ingegnere, questo Demiurgo, in rapporto diretto col Dio-Bene
e con le sue Idee quali modelli divini. Il cosmo è infatti per Platone una
sfera perfetta, concepita secondo rapporti geometrici basati su tre parametri
eterni, col primo che sta al secondo come il secondo sta al terzo. Dopo di che
(prefigurando il Primo Motore aristotelico) il Demiurgo lo mette in moto (34
a):
In effetti, gli assegnò un movimento conveniente al suo corpo: dei
sette movimenti gli assegnò quello che soprattutto conviene all’intelligenza e
alla saggezza. Perciò, appunto, facendolo ruotare allo stesso modo e, nello
stesso luogo e in sé medesimo, fece sì che si muovesse con movimento circolare,
gli tolse tutti gli altri sei movimenti e lo fece immobile rispetto ad essi.
[…] Tutto questo ragionamento il Dio che sempre è fece attorno [b] al
dio che ad un certo momento doveva essere, e produsse un corpo liscio ed
omogeneo, da tutte le parti equidistante dal centro, perfetto ed intero, e
costituito di corpi perfetti.
Ma fin qui il
mondo, pur costituito di materia perfetta ed ordinata, è ancora soltanto un
corpo ed allora il Divino Artefice vi infonde l’anima nei termini seguenti (34
b):
E posta l’anima
nel mezzo di esso [del corpo sferico del mondo], la distese per ogni parte, e
con questa stessa avvolse anche al di fuori tutto informò il corpo di esso, e
in questo modo costituì un cielo circolare che gira in cerchio, unico e
solitario, ma per virtù sua capace di stare con se stesso, ed esso stesso
conoscitore ed amatore di sé medesimo in modo adeguato. Per tutte queste
ragioni egli generò questo dio felice. [5]
Viene enunciata qui l’onnipervadenza
dell’anima nel corpo del mondo. Ma è assai interessante notare che il cielo che
lo avvolge è fatto di pura anima stessa e quindi è divinità a sé stante (unico
e solitario […] conoscitore ed amatore di sé medesimo) e per di più
“felice”. Si vede in ciò un elemento topologico fondamentale, che si ritroverà
nella concezione cristiana del cielo, in quanto luogo divino e sede di
Dio. Prosegue la descrizione (34 b):
L’anima, poi, non così come noi che incominciamo a parlarne da ultimo, [c]
il Dio la creò più giovane del corpo, perché nel congiungerla col corpo non
avrebbe permesso che il più anziano fosse sottomesso al più giovane […] E la
costituì di queste cose e nella maniera che segue. Dell’Essere indivisibile che
è sempre identico e di quello divisibile che si genera nei corpi, mescolandoli
insieme l’uno con l’altro, compie nel mezzo una terza forma di Essere. E poi,
della natura dell’Identico e del Diverso di nuovo, nello stesso modo, costituì
un composto in mezzo al genere indivisibile di essi e a quello che è divisibile
per i corpi. [6]
Il Demiurgo quindi
crea l’anima del mondo come una sintesi di indivisibilità (spirito) e di
divisibilità (materia), poiché il mondo deve contenere i due aspetti dell’essere.
Ne nasce un essere che è nel contempo identità di sé (immaterialità) e alterità da sé (materialità). Definisce poi meglio il
Nostro (35 a):
E presili tutti e tre, li
mescolò tutti insieme in modo da farne una sola Idea, conciliando a forza la
natura del Diverso, che non si voleva mescolare, a quella dell’Identico, [b]
mescolando queste assieme con l’Essere. E dopo aver fatto di tre un’unità,
divise di nuovo questa intiera unità in tante parti quante conveniva, ciascuna
delle quali risultava dell’Identico, del Diverso e dell’Essere. [7]
L’anima del
mondo è essenza divina unitaria che si ripartisce “in tante parti quante
conveniva”; anime-parti (parrebbe qui di numero definito) che si
incarneranno negli uomini e che passeranno da individuo a individuo con la metempsicosi.
Ma è anche interessante il fatto che essa si costituisca attraverso una
trinità, l’Identico (in sé), il Diverso (fuori di sé) e l’Essere. Questa
trinità potrebbe aver avuto qualche influenza nella determinazione di quella
cristiana di Padre (divinità in sé), Figlio (divinità fuori di sé) e Spirito
Santo (principio della creazione). Si tenga infatti presente che il concetto di
Trinità fa la sua apparizione in modo esplicito solo con la chiusa del Vangelo
di Matteo (28, 19), dove Gesù istituisce il Battesimo
ordinando ai discepoli di eseguirlo “nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo” [8].
Esso è stato scritto dopo il 70, in un periodo di piena fioritura del
sincretismo ebraico-platonico (sicuramente noto a San
Paolo) inaugurato dalla rilettura “platonica” della Bibbia da parte di Filone,
il quale aveva abbozzato una trinità costituita da Dio (colui che è), dal
Signore (colui che ha bontà e potere) e dal Logos (lo spirito sapiente e
creatore). Anche Plutarco (nato nel 45 e morto nel 125), autorevole esponente
della scuola platonica dell’epoca, aveva abbozzato una trinità (Essere,
Intelletto ed Anima), che costituisce un’antecedente di quella plotiniana (Uno, Intelletto ed Anima). Ma anche nella
teologia stoica era implicita una trinità, quella costituita da un Uno-Tutto, una Necessità-Provvidenza e un Logos-Ragione
ordinatore e donatore di vita.
Se ci siamo soffermati sull’anima del
mondo in Platone è perché essa costituisce il prototipo, in ambito
occidentale, di tutte le successive varianti, comprese quelle materialistiche.
L’ontogenesi del cosmo nel Timeo parte
infatti da una “pluralità” (i quattro elementi), che non può essere che bruta e
amorfa (una sorta di “non-essere”), la quale assume prima di tutto un “unità”
formale ideale per esser degna di ricevere un’anima che la vivifichi. Quest’anima, suddividendosi in una molteplicità di anime
umane immortali (che non muoiono col corpo ma trasmigrano in altri corpi),
permea la sfera dell’umano e la lega al divino. Ma queste anime, direttamente
connesse all’anima globale, trasmigrano perpetuamente nella mente degli uomini
(attraverso la reminiscenza della verità) nell’unità-totalità che
tutto abbraccia e determina al bene e al bello.
Il criterio-guida di Platone è lo stesso di tutte le metafisiche monistiche che si presentano sotto l’apparenza di un
formale dualismo (ma dove il secondo termine della dualità è sempre subordinato
al primo). L’intento teoretico è di negare sostanzialità alla pluralità e farla
sempre dipendere ontologicamente da un’unità
spirituale. La teologia platonica conferma così una regola presente in tutti i
dualismi metafisici, in base alla quale la pluralità concerne la materia,
mentre tutto ciò che è spirituale-intelligibile-ideale
è unitario.
Nel Parmenide
viene sviluppato un discorso sulle idee “al plurale”; esse sono modelli
divini delle cose del mondo e quindi afferenti la loro pluralità, ma è come
affermare che la pluralità del Jahvè creatore stesse
nelle idee che aveva in testa circa il cielo, la terra, il mare, l’uomo,
l’ulivo, la sabbia e le altre cose che avrebbe creato. Il Dio di Platone (il
Bene), allo stesso modo di Jahvè, possiede delle Idee
che concernono le cose che il Demiurgo (sorta di Spirito Santo) forgerà
copiandole. Non si dà alcuna pluralità divina, il Mondo Iperuranio
è il Bene stesso che lo genera e lo permea e ad esse si accompagnano le Idee
quali attributi-pensieri del Bene stesso. Questi, essendo “spiritualità”
assoluta non può abbassarsi a fare il mondo ma lo fa attraverso il Demiurgo (un
altro-da-sé) e le proprie Idee. Non si dimentichi che
per Platone il Bene assume in sé anche la pluralità degli dèi della tradizione
come sue espressioni. Platone, dopo Senofane e Parmenide, è quindi il primo teorizzatore di un Dio unico
astratto (matematico-geometrico) che si offre in estrinsecazioni plurali ma
rifluenti in esso. In tal senso Dio è anche Virtù, Intelletto, Verità, ed
infine Ragione e Super-Idea totalizzante. Il mondo pluralistico è invece un
ricettacolo di volgarità e di in essenzialità. Con una sola funzione: ospitare
uomini dotati di “parti” dell’anima divina.
In Platone sono già presenti in nuce i temi di Plotino, e
nello specifico quelli di emanazione e di riassorbimento della pluralità degli
enti nell’Uno, eterno ed immutabile. E non è neppure un caso che nel Parmenide al discorso sulle cose e sulle idee, che
apre il dialogo, faccia seguito il discorso sull’Uno, che lo conclude,
costituendosi come tema fondamentale di tutta la speculazione platonica.
Seguiamo il passaggio di pagina 142 b, quando dall’uno-uno
(l’uno identico a sé), che non ha esistenza, si passa all’uno-tutto
(l’uno “che è”) come unità delle “sue” parti. È proprio questo Uno a costituire
il modello di tutte le unità in quanto totalità “reali” costituite da parti, e tra
queste, evidentemente, l’unità suprema, che è Dio. Ma seguiamo nel dettaglio lo
sviluppo di questo tema nel dialogo tra Socrate e Parmenide
(142 c):
Ripetiamo di
nuovo: se l’Uno è, che cosa ne risulterà? Osserva: questa ipotesi non significa
necessariamente che l’Uno è tale da comportare [d] delle parti? – Come
dici? – In questo modo: se l’Essere si dice dell’Uno “che è” e l’Uno
dell’Essere che è Uno, non sono la stessa cosa l’Essere e l’Uno, ma si
predicano entrambi di quella realtà che abbiamo posto come ipotesi, dell’uno
“che è”. Non è allora necessario che lo stesso Uno “che è” sia un tutto, di cui
siano parti l’Uno e l’Essere? – Necessario. [9]
Dunque l’Uno e l’Essere sono
in realtà un Tutto, che a sua volta non può essere che un Uno ed avere l’Essere.
Viene sottintesa qui una circolarità che risulta interna al discorso stesso,
per cui l’Uno, l’Essere e il Tutto si implicano vicendevolmente e non possono
esistere separatamente:
Ma forse diremo
che ciascuna di queste parti è solo parte, oppure dovremo dire che la parte è
parte del tutto? – Del tutto – Allora, ciò che è Uno è un tutto ed ha parti –
Senza dubbio – E che? Ciascuna delle parti [e] dell’Uno “che è”, cioè
l’Uno e l’Essere, è forse separata, l’Uno dalla parte dell’Essere e l’Essere
dalla parte dell’Uno? – Non è possibile. [10]
Viene poi enunciato il
principio per cui un Uno “che è” deve possedere “almeno” due parti (e
costituirsi quindi anche come una molteplicità intrinseca):
Di nuovo dunque
ciascuna delle parti implica sia l’Uno sia l’Essere, e la parte viene ad essere
costituita almeno da due parti, e così, per lo stesso ragionamento che si può
ripetere sempre, ciò che diviene parte implica ogni volta queste due parti:
l’Uno sempre implica l’Essere e l’Essere l’Uno. Perciò necessariamente [143
a] non c’è mai l’Uno perché si sdoppia di continuo – È proprio così –
Dunque, l’Uno “che è” sarà una molteplicità infinita? – A quanto sembra. Adesso
considera anche questo aspetto – Quale? – Noi diciamo che l’Uno partecipa
dell’Essere e che per questo è? – Sì – E per questo che l’Uno “che è” ci è
apparso molteplice - Proprio così. [11]
Abbiamo in questa fase del
dialogo, che diventa sempre più complesso e articolato nella successiva che
potremmo definire “matematica, una conferma del fatto che l’unità implica
sempre una molteplicità differenziata, ma anche che la differenziazione (ovvero
le parti in cui si suddivide l’uno) non esiste senza essere riferibile a un
unità che la generi. Ma questa unità-totalità, come abbiamo visto è anche
eterogenea nella misura in cui è costituita almeno dall’Uno e dall’Essere, che
non sono degli identici. Ed infatti, qualche frase dopo, il Socrate-Platone
ci dice:
Dunque, se una
cosa è l’Essere, un’altra l’Uno, l’Uno non è diverso dall’Essere perché è Uno,
né l’Essere è altro dall’Uno perché è l’Essere, ma sono diversi tra loro per la
Diversità e l’Alterità – Senza dubbio – Perciò la
Diversità non è uguale né all’Uno né all’Essere – Come potrebbe infatti. [12]
Fin qui il discorso teologico-ontologico sembra riferirsi solo all’unità, ma
poco dopo si passa all’affermazione che l’Uno, in quanto anche Essere,
conferisce Essere a tutti gli altri numeri di cui è elemento primo e
generatore. Ovvero: i numeri “sono” ed hanno sostanza (143 d – 144 a).
La conclusione è che (144 b):
Allora. L’Essere è
suddiviso in tutta la molteplicità e non manca a nessuno degli enti, né al più
piccolo né al più grande? Ma non è assurdo aver detto questo? In che modo,
infatti, potrebbe mancare l’Essere a uno degli enti? – In nessun modo – Allora,
l’Essere si suddivide sia in parti piccolissime, sia in parti grandissime, in
tutte le forme possibili, esso più di tutte le altre realtà si suddivide e le
sue parti sono innumerevoli – È così. [13]
Ma è ancora nel Timeo che Platone ci riassume la sua idea di
Dio-Demiurgo come artefice dell’unità nella molteplicità (68 d 4-7):
[…] Dio possiede
in misura adeguata la scienza e ad un tempo la potenza di mescolare molte cose
in unità e di nuovo scioglierle dall’unità in molte […] [14]
Un’onniscienza e
un’onnipotenza che saranno anche le prerogative principali del Dio cristiano,
insieme col dualismo anima-corpo che Platone aveva derivato dalla mistica
orfica.
3.5 L’Uno-Tutto nel
panteismo occidentale
I concetti platonici di anima del mondo (che
pervade il cosmo e si ripartisce nelle anime individuali) e di Uno-Tutto (che si identifica con l’essere e
si manifesta nella molteplicità) costituiscono le basi irrinunciabili di ogni panteismo
e di ogni panenteismo [15]
apparsi nella cultura occidentale. In Platone sono peraltro presenti premesse
filosofali analoghe a quelle che determinano i monismi spiritualistici
orientali, sia pure con articolazioni prettamente razionalistiche colà perlopiù
assenti. Ne deriva che per quanto l’idealismo platonico abbia rappresentato il
più forte e profondo apporto di razionalità alla formazione della dottrina
cristiana, nel contempo esso si costituisce come un pre-panteismo.
Infatti i panteismi sono concezioni del mondo monistiche
nelle quali le infinite differenziazioni derivanti dall’unità divina sono
sempre ricomprese nell’Uno-Tutto
che le ha originate e le informa. L’essenza del cosmo, che viene sempre
connotato come “intelligenza” o come “anima”, a seconda se ne viene accentuato
l’aspetto razionalistico o quello mistico, riposa su un’immaterialità che si
offre soltanto all’intellezione razionale o
all’intuizione mistica. Per esemplificare la teologia dell’Uno-Tutto
in Occidente ci soffermeremo su alcuni esponenti significativi di essa: Zenone
di Cizio, Plotino, Giordano
Bruno, Spinoza, Schelling.
Se con lo Stoicismo (che è pre-cristiano) la teologia panteistica aveva imboccato una
strada in qualche modo materialistica (ma pur sempre su fondamenti idealistici)
col molto più tardo Neoplatonismo (III secolo) noi assistiamo ad una svolta
nettamente mistica, e ciò avviene attraverso la ripresa e lo sviluppo in senso
ascetico di elementi del razionalismo platonico che si prestavano a tale
indirizzo, ma con l’assunzione di uno spiccato carattere monista e panteista
che vengono dallo Stoicismo, del quale viene però rifiutata la componente
materialistica. Ne nasce un compiuto e grandioso panteismo spiritualistico, che
dello stoicismo assume alcune forme e del platonismo la sostanza ontologica ed
etica. Al neoplatonismo latino, come vedremo, farà riferimento Giordano Bruno
con la sua cosmologia magico-mistica, ed anche Baruch Spinoza (ma non
direttamente, bensì tramite i neoplatonici ebrei) che lo fonderà col
razionalismo di Maimonide e di Descartes,
accentuandone così il carattere necessitaristico e
sistemico.
Il panteismo ottocentesco si esprimerà con
l’idealismo di Schelling attraverso una parziale ricomprensione (preparata da Fichte
ed Hegel) della religione cristiana in un più grandioso
affresco teologico onnicomprensivo, che riassume in totalità mistico-razionale l’evoluzione dello Spirito divino
dall’origine al suo perfetto ed assoluto compiersi. Quello che ci pare
importante sottolineare è che in ogni caso (e contrariamente a un opinione corrente
in ambito cristiano) i panteismi vanno considerati espressioni religiose non
soltanto più razionali, ma spiritualmente “più alte” dei monoteismi, e ciò
proprio sotto il profilo religioso-sacrale, in quanto si fa a meno
dell’esteriore teatralità cultuale. L’idea di un Dio-Necessità (esprimibile
anche come Uno, Tutto, Intelligenza, Logos, Fato. Provvidenza, ecc.)
smaterializza e disantropomorfizza la divinità,
facendone uno spirito onnipervadente la totalità
dell’essere, correggendo così la concezione abbastanza “materialistica” di Dio
espressa nei monoteismi. Dio, infatti, non è più “in un posto”, ma è nel Tutto
e il tutto è in lui, essenza del Tutto, sua “ragion d’essere” intrinseca e
profonda, senza alcuna ombra di dualismo. Ma soprattutto un Dio che non è più
“potenza” dominatrice e produttrice, giudice che premia e condanna, bensì puro
Spirito che accoglie e vivifica il tutto.
Da un punto di vista storico il fatto che
si affacci in epoca ellenistica la prima concezione panteistica occidentale
definita è molto interessante, poiché mette in evidenza la probabile osmosi
culturale che le conquiste di Alessandro hanno determinato tra le culture
orientali e occidentali, evocando anche ancestrali elementi comuni di una
cultura indoeuropea condivisa dal Mediterraneo all’Indo. Non va comunque
trascurato il fatto che la nascita del pensiero stoico per molti versi è un
naturale sviluppo della teologie platonica e aristotelica, che sono
tendenzialmente deterministe (soprattutto la seconda) e contenenti al loro
interno numerosi elementi monistici, seppure in forme
che riconoscono realtà alla pluralità (che il panteismo nega). D’altra parte,
l’idealismo platonico e quello aristotelico contenevano in sé caratteri che li
rendevano utilizzabili sia dal monoteismo e sia dal panteismo, così come sul
piano etico e logico lo stesso stoicismo fornirà spunti alla teologia
cristiana. La visione del mondo panteistica (del Dio-Necessità) è si
conflittuale dal punto di vista formale con quella monoteistica (del Dio-Volontà),
ma la base teologica è comune, nella misura in cui il Dio-Volontà
personalizzato e il Dio-Necessità impersonale sono le due facce complementari
del divino nella sua generalità.
Se si esaminano a fondo le weltanschauungen religiose attraverso i tempi
ed i continenti si constaterà come la religiosità si muove invariabilmente tra
tali due poli teologici, con interazioni, correlazioni e osmosi assai più di
quanto ci siano reali conflittualità sul piano teorico relativamente al
concetto di “divinità”. Per quanto riguarda ancora lo Stoicismo sottolineiamo
che esso (al pari del Platonismo) si qualifica eminentemente con connotazioni
etiche, in base alle quali il fine ultimo del filosofare è il raggiungimento
della “virtù”; dove per virtù si intende la conoscenza di Dio. Come è noto il
fondatore della scuola è Zenone di Cizio, operativo
intorno alla metà dl IV sec.a.C. e nativo di Cipro.
Nativo dell’isola è anche Crisippo di Soli,
sicuramente colui che più contributi alla teorizzazioni
del medio stoicismo (di cui si tramanda notizia che avesse scritto oltre 700
libri, andati perduti) e che resse la scuola per quasi trent’anni
intorno alla metà del III sec.a.C. Gli Stoici
paragonavano la Stoà ad un frutteto delimitato dalla
logica, racchiudente gli alberi della fisica, i frutti dei quali racchiudono la
parte più preziosa del loro pensiero: l’etica.
La teologia stoica condivide col
materialismo epicureo l’assunzione dei sensi come fonte primaria di conoscenza,
ma se ne differenzia profondamente per il rifiuto del caso e
l’assunzione categorica della necessità quale ordinatrice del cosmo e
per la concezione, del tutto idealistica, di un “logos” unitario e totalizzante
permeante il cosmo e di cui reca traccia l’anima umana. Si comprende quindi il
parallelismo esistente tra l’anima del mondo platonica (di cui le anime sono
parti disperse) e il logos-ragione stoico diffuso nelle anime umane. La
fenomenologia per cui le anime possono accedere al Logos divino è quindi
identica a quella platonica, per quanto il Logos sia “nominalmente” corpo. Il
Logos è materiale, ma tale materialità è intrisa di pensiero e di idee, per cui
il concetto di materia nel pensiero stoico è estensivo ed olistico.
Se si fraintende la natura metafisica di tale materia intelligente rifusa nel
Logos (in quanto “corporeità razionale”), si perde il senso più profondo della filosofalità stoica. Afferma Aezio
(I, 3, 25, Dox.Gr., 289):
Zenone di Cizio figlio di Mnasea dice che
sono principi del tutto la divinità e la materia, l’uno causa dell’agire,
l’altra del subire; e che gli elementi sono quattro. [16]
Gli fa eco Diogene Laerzio (Vitae,
VII, 134):
Essi ritengono che
i principi dl tutto siano due, il principio attivo e quello passivo. Il
principio passivo è la sostanza senza qualità, la materia, il principio attivo
è la ragione che risiede in essa, la divinità. Questa, che è eterna, foggia
tutte le cose con arte scorrendo per la materia. Questa dottrina la espone
Zenone di Cizio, nel Della sostanza. [17]
Come si vede lo Stoicismo è
per un verso monista, in quanto l’universo è concepito come una totalità
unitaria, ma per altro verso esso è dualista, in quanto due sono i principi
cosmici: il Dio-Logos (attivo) e la materia (passivo). In questo dualismo si
può cogliere da un lato la traccia persistente del dualismo platonico e
dall’altro il concetto razionalistico aristotelico di causa spirituale
animatrice dell’inerte materiale.
Per gli Stoici il cosmo è l’unità di Dio,
nel senso che questi è nel cosmo e lo permea in ogni sua parte. Questo Dio-Ragione-Causa si identifica con la Provvidenza, cioè
con la Necessità, che è causa prima e ordinatrice di questa sorta di
cosmo-anima. La Necessità-Provvidenza si manifesta come destino ed è ancora Aezio a dirci (I, 27, 5, Dox.Gr.,
322):
Zenone stoico, nel
Della natura, dice che il destino è una forza che muove la materia
sempre allo stesso modo costantemente, e che non fa nessuna differenza
chiamarla anche provvidenza o semplicemente natura. [18]
Altro aspetto interessante dello stoicismo
è quello riguardante la concezione del cosmo, soggetto ad una ciclicità
ripetitiva, che riprende idee molto arcaiche scorgenti nella ciclicità
stagionale una ripetitività periodizzata, che nello stoicismo si estende al
concetto di “grande anno” cosmico. L’agente attivo, che determina la morte e la
rinascita del cosmo materiale (passivo), è il fuoco. Ma si tratta di un fuoco
che non è altro che il logos (il Dio-Ragione) nella sua connotazione
fisica che crea, plasma e informa la materia. Dal fuoco, elemento primario e
immateriale, derivano via via i più materiali aria,
acqua e terra. Al termine del grande anno si verifica la grande
conflagrazione, con la quale il cosmo si distrugge per rinascere
esattamente come prima e ripetere il suo ciclo necessitato, sia nella generalità
che nelle particolarità individuali. Il tutto è regolato dalla rigorosa legge deterministica del Fato, quale ordinatore-determinatore di
un Tutto-Uno perfetto e ordinato che si esprime in
governo della Provvidenza. Si vede così come la teologia stoica connoti Dio in
diversi suoi aspetti e attributi, che sono: il Logos, il Fato, la Necessità, la
Provvidenza.
La seconda concezione panteistica che
intendiamo tratteggiare è quella di Plotino, alla
quale abbiamo già accennato. Si tratta ora di definirne brevemente i caratteri
in relazione al tema qui posto, precisando che l’ipostasi suprema posta da Plotino è l’Uno, dalla quale deriva per emanazione una
seconda, L’Intelletto, dal quale deriva la terza, l’Anima, e da questa (in
caduta emanatistica) tutte le altre realtà del mondo,
le quali rifluiscono poi in senso contrario (per risalita) i vari stadi per ricomprendersi nell’Uno. Si tratta quindi di una processualità circolare, che parte dall’Uno e ritorna
all’Uno, che è la vera entità stabile ed eterna da cui la pluralità esce per
rientrare. Si comprende bene come questo processo di discesa/ascesa sia
intrinsecamente necessitato e come comunque l’Uno, l’essere supremo e globale,
sia costretto ad emanare “altro” per realizzare se stesso. D’altra parte,
chiaramente, nelle Enneadi (VI, 8, 9)
Porfirio riferisce questa sua affermazione:
Perciò Egli non è
ciò che è per caso, poiché Egli non è per accidente, ma perché era necessario
che così fosse. [19]
Se l’Uno “era necessario che
così fosse” parrebbe persino che la Necessità, quasi una sorta di “Pre-Ipostasi”, abbia determinato l’Uno, ma sappiamo che ciò
è impossibile perché esso è l’assolutamente “primo”. E allora (VI, 8, 21):
Egli poteva dunque
crearsi diverso da quello che si creo? No, perché allora dovemmo negargli di
fare il bene, dal momento che egli può fare il male. [20]
E tuttavia Plotino, con una certa contraddittorietà, ci dice appena
dopo che l’Uno, in quanto al vertice della scala dell’essere, mette anche in
opera la sua volontà poiché è volontà egli stesso:
Sin dal principio,
dunque, la volontà, è Lui stesso. Ciò che egli ha voluto essere e la maniera in
cui l’ha voluto e ciò che ne consegue, tutto è generato dalla volontà; ma
nessuna altra cosa egli genera in se stesso, poiché Egli è già quest’altra cosa. [21]
Ci limitiamo ad osservare
che se Egli «è già» anche altro, ciò significa che non può non produrre e
diventare anche altro, ovvero “deve” in qualche modo emanare. Ma non è tutto:
secondo Plotino l’Uno sarebbe libero nel suo
emanarsi, determinando così una di quelle tipiche ambiguità concettuali di cui,
in generale, sembra che i teologi non si preoccupino troppo. E alla presumibile
domanda: «Non ne deriva così che Egli esista prima di nascere?» Plotino afferma (VI, 8, 20:
A questa obiezione
si deve rispondere che egli non va considerato come una creatura ma come un
creatore: la sua creazione va considerata come qualcosa di assolutamente
libero, e non come un’attività che miri a produrre un’altra cosa: il suo atto
non esegue una certa opera, ma è identico a Lui stesso: non dualità dunque ma
unità. [22]
Ma proprio il fatto che “la
sua natura” sia di emanare altro, restando tuttavia Uno, denuncia l’implicita
necessità sottostante a tale fenomenologia. L’affermazione che Egli resti Uno
anche nell’alterità non elimina per nulla il dubbio
di una sua pre-determinazione. E, se non nel senso che egli sia “necessitato”,
quanto meno per il fatto che Egli, essendo Necessità assoluta, sia tanto etero-necessità quanto auto-necessità. Affinché Egli fosse
libero bisognerebbe supporre che possa decidere di smettere di emanare le altre
ipostasi e da esse il molteplice, ma Plotino stesso
sembra escluderlo. Non solo, ma l’Uno, che è il Bene assoluto, sembra non poter
restare nel suo Bene e “dover” contrapporre a sé il Male. Infatti:
Riguardo alla
questione della necessità del male si può rispondere anche così: siccome il
Bene non esiste solo, è necessario che, nella serie delle cose che provengono
da lui o, se così si vuol dire, ne discendono e se ne allontanano, vi sia un
ultimo termine [20] e che dopo questo nulla possa più derivare: e questo
è il male. [23]
Traduciamo: l’Uno-Bene “non
può fare a meno” di produrre il suo opposto. Ovvero, è “necessitato” a porre il
Male e nello stesso tempo sarebbe libero di non porlo (!)
Per quanto Plotino
ci renda l’ipostasi di un unità divina assoluta, egli non rinnega affatto il
politeismo classico ed anzi lo difende strenuamente contro il
Cristianesimo. Gli dèi del pantheon greco
sono null’altro che espressioni attributive e differenziate dell’Uno e nello
stesso tempo suoi “nunzi” (II, 9, 9):
Non ridurre il
Divino a un solo essere, ma mostrarlo moltiplicato così come Esso si è
manifestato significa conoscere la potenza di Dio, che, pur rimanendo ciò che
è, produce i molteplici <dèi> che a Lui si riferiscono e sono per Lui e
da Lui. Anche questo mondo è per [40] Lui ed a Lui guarda, e così è di
tutti gli dèi, ciascuno dei quali è nunzio dell’Uno agli uomini e con oracoli
dice quello che a Lui è caro. [24]
La decisa opposizione al monoteismo giudaico-cristiano diverrà la bandiera che porterà un
paganesimo perdente e al tramonto a combattere l’ultima battaglia dei “gentili”
contro i “barbari”. La diatriba Celso/Origene e il velleitario tentativo di
Giuliano di ripristinare la religione classica sono gli episodi più noti del
tentativo di mantenerla in vita. La teologia plotiniana
è un impianto teologico grandioso, che ha ricadute di carattere
esistenzialistico e psicologico notevoli in tutto il mondo occidentale e che
costituisce anche la base di ogni successivo misticismo in ambito cristiano. È
infatti del tutto impensabile la mistica di Eckhart
senza fare riferimento al neoplatonismo plotiniano e
più in particolare a quello di Proclo. Con questi, il
più tardo, numerosi pensatori sviluppano il pensiero plotiniano
in senso teurgico, ovvero con sviluppi meno
filosofali e più specificamene magico-religiosi, tra
i quali Porfirio (l’estensore delle Enneadi) e
Giamblico. Più tardi, nel V secolo, Proclo opererà una sorta di sistematizzazione
del pensiero neoplatonico, distinguendo nel processo di emanazione i tre
momenti della permanenza, del processo, e del ritorno. Una
fenomenologia a tre stadi che sarà presente all’Idealismo tedesco e di cui c’è
traccia nella dialettica hegeliana.
Passiamo ora a parlare di Giordano Bruno,
un grande eroe libertario che ha cercato, attraverso la sua avventura finita
tragicamente, di immettere nel Cristianesimo una linfa panteistica che questo
non poteva ricevere né tollerare. Ciò che va tenuto presente è che quantunque
egli sia un padre nobile del libero pensiero, sarebbe un grave errore
storiografico interpretare il suo pensiero eterodosso in senso non-religioso.
Bruno conduce una lotta eretica per rinnovare il Cristianesimo in senso panteistico,
ma la sua religiosità entra in collisione con la dottrina cristiana non già
perché meno religiosa, ma semplicemente perché il suo panteismo era latore di
una teologia più spiritualistica e più mistica. E se il Nolano può essere
citato come un coraggioso avversario dell’ortodossia cristiana è inammissibile
che egli possa essere contrabbandato come anti-religioso, poiché è vero
esattamente il contrario. La sua teologia si rifà sia a Platone e sia al
Neoplatonismo, ma soprattutto (rispetto alla topologia divina cristiana) essa
si qualifica come religione dell’”infinito”. Riallacciandosi a Nicola Cusano egli riprende la teologia del Dio-Infinito
(macrocosmo) di cui l’uomo è immagine ridotta (microcosmo). Ma il Dio-Infinito
diventa per lui soprattutto Divino Intelletto Artefice dell’universo e insieme
Anima del Mondo quale sua forma ideale che tutto informa e vivifica. Nettissimi
sono gli elementi ilozoistici in Bruno, ma del tutto
nuovo è questo concetto di infinità unitaria costituita da elementi finiti, secondo
la quale il cosmo è un infinito organismo divino ed eterno nel suo insieme, ma
costituito da mondi finiti. Sostiene Filoteo in De l’infinito, universo e
mondi:
Io dico l’universo
tutto infinito, poiché non ha margine, termine, né superficie; dico l’universo
non essere totalmente infinito, perché ciascuna parte che di quello
possiamo prendere, è finita, e de mondi innumerabili che contiene ciascuno è
finito. Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude ogni termine ed
ogni suo attributo è uno ed infinito; e dico Dio totalmente infinito,
perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e
totalmente: al contrario dell’infinità dell’universo, la quale è totalmente in
tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi
all’infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo comprendere
in quello. [25]
La distinzione è sottile,
poiché Dio è totalmente infinito in quanto permea l’universo in ogni
parte, mentre l’universo è infinito in quanto lo è nella propria totalità, ma
non nelle singole parti che lo compongono. Ciò significa che il Dio-Spirito
infinito è in ogni infima parte materiale dell’universo, mentre
l’universo-materia è infinito in sé, ma non nelle sue parti finite.
In Bruno il Bene di Platone, tutto ordine e
geometria, diventa “armonia suprema”, in un empito spiritualistico che ne fa
una vera e propria mistica panpsichistica. In quanto
al rapporto principio/causa dell’operatività divina Bruno fa precisare a
Teofilo (il suo alter ego) nel De la causa, principio et uno (II dialogo metafisico):
Rispondo, che,
quando diciamo Dio primo principio e prima causa, intendiamo una medesima cosa
con diverse raggioni; quando diciamo nella natura principii e cause, diciamo diverse cose con sue diverse raggioni. Diciamo Dio primo principio, in quanto tutte cose
sono dopo lui, secondo certo ordine di priore e posteriore, o secondo la
natura, o secondo la durazione o secondo la dignità. [26]
Dio è principio in quanto
origine del cosmo nella sua pluralità, che si stratifica per tipologia,
temporalità e gerarchia. Di tale pluralità Dio è causa prima e ultima, in
quanto la racchiude in sé e la ordina al bene che è proprio della divinità
stessa. In tal senso (prosegue Teofilo):
Diciamo Dio prima
causa, in quanto che le cose son tutte da lui
distinte come lo effetto da l’efficiente, la cosa prodotta dal producente. E queste due raggioni
son differenti, poiché non ogni cosa, che è priore e
più degna, è causa di quella ch’è posteriore e men
degno; e non ogni cosa che è causa, è priore e più degna di quello che è
causato, come è ben chiaro a chi ben discorre. [27]
Bruno si preoccupa di
distinguere tra causa efficiente fisica e causa divina assumente in sé tutte le
quattro connotazioni aristoteliche, ma che, in quanto tale, si manifesta sia
come Intelletto e sia come Anima dell’universo. Infatti:
Assai mi piace il
vostro modo di proponere [di Dicsono].
Or quanto alla causa effettrice, dico l’efficiente fisico universale essere
l’intelletto universale, che è la prima e principal
facoltà del l’anima del mondo, la quale è forma universale di quello. [28]
Viene offerta qui una
precisazione in base alla quale Dio è Intelletto universale, ovvero progettista
e costruttore della molteplicità cosmica, ed Anima del mondo, cioè “idea-forma”
del cosmo stesso nella sua unità. Unità la quale, sottolinea Bruno anche in
riferimento a Parmenide (De la causa, principio et uno, Dialogo III), è «sostanza unica e
immobile» che unifica materia e forma in un Uno-Tutto
globale.
Nella teologia bruniana
sono implicati anche il magismo teurgico
del Neoplatonismo post-plotiniano e quell’arte mnemonica con la quale diventava possibile far
penetrare nella mente dell’uomo gli aspetti molteplici del Dio-Cosmo. Sotto
questo aspetto è determinante l’influenza di Marsilio Ficino,
il teologo quattrocentesco che aveva tradotto Platone, Orfeo, Plotino, Porfirio, Proclo e
Dionigi l’Areopagita, e che aveva concepito nella sua
Theologia platonica l’universo come
un’unità divina ordinata in base a una gerarchizzazione
dei differenti gradi di perfezione. Ma la religiosità del Nolano trova
una fonte ancora anteriore nel pensiero di Avicebron
(XI sec.), il quale era giunto a una teologia dell’unificazione cosmica di
materia e forma ad opera della “Sapienza” di Dio. Bruno riprende anche (e
direttamente da Plotino) quel contraddittorio assunto
teologico in base al quale in Dio la libertà, la volontà e la necessità si
identificano quali espressioni dell’alterità
nell’unità (De immenso et innumerabilibus,
Opp. lat., I,
I, 243).
3.6 Il Dio-Natura
del panenteismo spinoziano
Occupiamoci ora della teologia di Spinoza, il panteismo più importante fiorito nel mondo
occidentale per profondità e rigore teorico. Ne trattiamo in questo capitolo
dedicato al concetto di Uno-Tutto per completezza del
quadro storico, quantunque la forte accentuazione data in esso al concetto di
Necessità divina avrebbe reso forse più significativo trattarne nel capitolo
successivo. Riprenderemo il necessitarismo spinoziano nel IV Capitolo, ma è qui che svilupperemo un
quadro sintetico del pensiero di Spinoza
analizzandone le due opere principali. Se ci soffermiamo più a lungo
sull’olandese rispetto ad altri panteisti è anche perché il suo influsso è
stato determinante per la nascita e lo sviluppo dell’Idealismo tedesco
dell’800, il quale, anche attraverso le innumerevoli filiazioni e i numerosi
epigoni, ha dominato il panorama della cultura filosofale occidentale sino a
tempi recenti. Come è noto quello di Spinoza è un
panteismo acosmistico [29],
ovvero un panenteismo, col quale egli riprende quello
di pensatori precedenti, ma per darne una versione rigorosamente razionale e
fortemente schematica, sì da ricordare nell’Ethica
le modalità espositive degli Elementi di Euclide.
Ciò che va rilevato è che Spinoza, per quanto profondamente imbevuto di cultura
ebraica, conosce bene anche il Nuovo Testamento, unendovi un’ottima conoscenza
del pensiero laico della sua epoca. Non particolarmente interessato al pensiero
greco egli conosce però un Neoplatonismo di seconda mano, quello di
letterati-filosofi ebrei del ‘500 come Chasdai Crezkas e Leone Ebreo. L’Antico Testamento, da lui reinterpretato in modo coraggioso e indipendente per
sganciarlo da una lettura che egli ritiene ottusa e riduttiva, viene riportato
alla pure funzione etica di “libro dell’obbedienza”, ispirato da Dio per dare
“al volgo” elementi minimi di fede. Non certo la Verità Divina nella sua più
alta espressione sacrale, che è raggiungibile solo con la ragione e da parte di
coloro che ad essa si affidano. Ne nasce una sorta di “doppia verità”, per cui
l’esistenza del Dio della Bibbia è fuori discussione, ma la sua essenza sarebbe
solo in parte espressa nel testo sacro, dovendo essere completata con
un’analisi che esorbiti quell’ambito e teorizzi la
divinità del cosmo quale sostanza di Dio attraverso due sue connotazioni fondamentali: l’”unità” e la
“necessità”.
La Bibbia va quindi superata nella sua letteralità, per portare finalmente alla vera essenza la
natura di Dio, che Spinoza intende ri-rivelare more geometrico e metafisicamente con la
nuova concezione di un Dio-Natura quale più alta espressione del divino. Ne
deriva la grandiosa reinterpretazione della Bibbia
del Tractatus theologico-politicus,
che determinerà reazioni furibonde da parte del mondo rabbinico, ma anche da
parte dei teologi cristiani. Quest’opera è
fondamentale per comprendere correttamente il senso religioso sottostante all’Ethica, che in quanto trattato sulla Verità divina more
geometrico demonstrata si astiene dal fare
riferimento al testo biblico (portatore di verità more prophetico
rivelata) di cui si occupa già in parallelo nel Tractatus
[30].
Questo, infatti, è presupposto come suo ineliminabile complemento, anche per il
fatto che l’Ethica lo precede come stesura, sia pur di
poco, sicché i due testi sono le facce di una stessa medaglia teorica.
Già nella prefazione del Tractatus teologico-politicus
Spinoza enuncia il suo intento, quello di combattere
la superstizione (generata dalla paura e dall’esteriorità cultuale) per
ricondurre la fede all’autenticità della rivelazione divina. Perciò
scrive:
Nessuna
meraviglia, quindi, se della antica religione nient’altro sia rimasto oltre
l’esteriorità del culto (col quale il volgo sembra aduli Dio più che lo adori),
e che la fede, ormai nient’alto sia che credulità e pregiudizi; e quali
pregiudizi? Quelli che trasformano gli uomini, da
esseri ragionevoli, in bruti; come quelli che del tutto impediscono che
ciascuno usi del suo libero giudizio, che discerna il vero dal falso, e che
sembrano come espressamente escogitati per estinguere del tutto il lume
dell’intelletto. [31]
Vengono qui posti alcuni
punti fondamentali: 1. L’antica religione è stata spogliata della sua essenza
sacrale e ridotta a pura esteriorità cultuale, 2. La fede è diventata credenza
in elementi inessenziali e portatori di pregiudizi extra-fideistici,
3. Tali pregiudizi hanno trasformato gli uomini da esseri ragionevoli in bruti,
4. La conseguenza di ciò è che manca la libertà di giudizio, non c’è più
discernimento del vero dal falso, e questa perversione sembra essere stata
“espressamente escogitata” per estinguere il lume dell’intelletto. Prosegue:
Oh Dio immortale!
La pietà e la religione consistono in assurdi arcani; e coloro che la ragione
del tutto disprezzano e che respingono ed avversano l’intelletto come corrotto
per natura, proprio essi- ciò ch’è iniquo oltremodo – sono creduti i depositari
del lume divino. Ma, in verità, se costoro avessero anche una sola scintilla
del lume divino non impazzirebbero con tanta superbia, ma imparerebbero a
venerare Dio con più senno […] [32]
Ce n’è quanto basta per far
sobbalzare sui loro scranni i depositari della fede, che secondo Spinoza non hanno “una sola scintilla del lume divino”. E
ancora:
Inoltre, se
avessero un qualche lume divino, esso si manifesterebbe, per lo meno, dalla
loro dottrina; confesso ch’essi non avrebbero potuto ammirare di più i
profondissimi misteri della Scrittura, ma, tuttavia non vedo ch’essi abbiano
niente insegnato oltre le speculazioni aristoteliche o platoniche, accomodando
ad esse la Scrittura per non esser accusati di seguire il pensiero dei gentili.
[33]
Curiosamente il teologo
razionalista Spinoza rimprovera qui a quelli
irrazionalisti di interpretare la Scrittura alla luce di Platone e Aristotele
per far piacere ai Gentili (ai pagani) e non secondo il senso autentico della
parola di Dio. E rincara:
Poi, non fu
abbastanza, per essi, aver delirato con i Greci, ma pretesero che con costoro
avessero delirato pure i Profeti; ciò che, in verità, chiaramente dimostra
ch’essi non hanno compreso la divinità della Scrittura, e che quanto
maggiormente essi questi misteri ammirano tanto più dimostrano, non già di
credere alla Scrittura quanto di sottomettersi ad essa per adulazione. [34]
Dunque, la teologia
irrazionalistica ha anche travisato la parola dei Profeti, poiché non ha
compreso la sacralità del testo. Da ciò il progetto dello scrivente:
[…] decisi di
riesaminare la Scrittura con cura, e libero da prevenzioni, col proposito di niente
affermare intorno ad essa e niente ammettere come sua dottrina che non mi fosse
dimostrato con la massima chiarezza dalla Scrittura stessa. [35]
La demonstratio
more geometrico dell’Ethica, cui Spinoza sta lavorando in parallelo col Tractatus,
viene evocata come criterio di approccio alla Scrittura, che va letta al lume
della ragione per restare lontani dalla superstizione. E poi un passaggio
cruciale:
Da qui passo ad
esporre quei pregiudizi che da ciò sono sorti: che il volgo (legato alla
superstizione, e che ama le cose caduche del tempo al di sopra della stessa
eternità) adori piuttosto i libri della Scrittura che la parola stessa di Dio. [36]
I libri sacri hanno assunto
un puro valore feticistico e attraverso
un’interpretazione riduttiva dei loro contenuti sono diventati oggetto di
un’adorazione “materialistica” in quanto libri, poiché è andato smarrito il
senso autentico della parola di Dio. Se Spinoza non
avesse scritto il Tractatus, ma si
fosse limitato all’Ethica, sarebbe
passato per un empio visionario e forse lasciato marcire nella sua iniquità. È
invece con queste parole devastanti e rivoluzionarie del Tractatus
che egli, nel rivendicare una superiore libertà interpretativa, entra in rotta
di collisione con la teologia tradizionale, che va superata razionalmente in
quella more geometrico che si rifà all’autentica rivelazione di Dio,
poiché:
Così fu con una
vera voce che Dio rivelò a Mosè le Leggi ch’egli
voleva assegnare agli Ebrei, come consta dall’Esodo (XXV, 22) […] [37]
Per comprendere come anche
nei confronti della dottrina cristiana egli appunti le proprie critiche in nome
di un’autenticità che sarebbe andata perduta si legga:
Per cui se Mosè parlò con Dio faccia a faccia, come un uomo suole
parlare con un suo simile (cioè come due uomini parlano tra loro), il Cristo
invece comunicò con Dio mente a mente. È chiaro pertanto che, tranne il Cristo,
nessuno ricevette la rivelazione se non per opera dell’immaginazione, cioè per
mezzo di parole ed immagini; che, per profetizzare, non è necessaria una mente
particolarmente perfetta, ma una più viva immaginazione, come con più
chiarezza, ampiamente dimostrerò nel capitolo che segue. [38]
Si comprende bene come per i
rabbini tali affermazioni risultassero intollerabili, in quanto facenti il
giuoco dei teologi cristiani nel porre il “profeta” Gesù
quale interprete diretto della parola di Dio (in quanto “mente a mente” e
quindi Dio a Dio), mentre Mosé viene confinato nella
sua più modesta umanità. Il Nostro passa poi ad occuparsi dei Profeti, degli
Ebrei, della Legge Divina, dei Miracoli e prosegue con una profonda analisi dei
testi biblici. Ma bisogna arrivare al capitolo XIII per cogliere un punto
essenziale dell’argomentazione spinoziana, laddove si
dice:
Inoltre, siccome
l’obbedienza verso Dio consiste solo nell’amore verso il prossimo, perché chi
ama il prossimo, cioè chi lo ma col fine di rendere ossequio a Dio, come dice
Paolo, nell’Epistola ai Romani, XIII, 8, ha, con questo, adempiuto alla
legge, ne segue che non è raccomandata, nella Scrittura, altra scienza oltre a
quella necessaria a tutti gli uomini per poter obbedire a Dio secondo quanto è
nella Scrittura stessa prescritto, e senza la quale scienza gli uomini
sarebbero vittime dell’orgoglio o, per lo meno, senza alcuna disciplina
all’obbedienza. Le altre speculazioni che direttamente non tendono a questo
fine, cioè quelle che si occupano di Dio e della conoscenza delle cose
naturali, non toccano la Scrittura, e devono, perciò, essere separate dalla
Religione rivelata. [39]
Viene ribadito che un fine
della Scrittura è di indurre il fedele all’obbedienza e preservarlo da empio
orgoglio umano, ma nello stesso tempo essa è Verità affidata ad “altre
speculazioni” che la dimostrino. Nei capitoli XIV e XV si rimarca una doppia
fonte della conoscenza, quella desumibile dalle Scritture e quella desumibile
dalla Natura. Un affermazione lapidaria sancisce i due ambiti sapienziali:
Concludiamo,
pertanto, e in maniera assoluta, che non si deve piegare, né la Scrittura alla
ragione, né la ragione alla Scrittura. [40]
Il resto dell’opera è un grandioso affresco ermeneutico, col quale si delinea come deve essere
correttamente colta la verità divina. Non solo, attraverso una rilettura
critica di alcune parti dell’Antico Testamento si intende denunciarne l’inautenticità, e relativamente al Nuovo ci si interroga sulla veste con cui
gli autori evangelici abbiano operato: se come Apostoli, se come Profeti o se
come Dottori di scienza divina. L’operazione spinoziana
è chiara: superare l’Ebraismo e il Cristianesimo in una super-religione che le
includa e ne elimini l’antropomorfismo volgare. Perciò le reazioni all’uscita
del libro nel 1670, per cui Baruch (già scomunicato
ed espulso dalla comunità ebraica nel 1656) si convince che sia più prudente
lasciare l’Ethica nel cassetto (la cui
pubblicazione seguirà di poco la sua morte, nel 1677) per non andare incontro a
vere e proprie persecuzioni. Quest’opera, considerata
il suo capolavoro, il più a lungo rielaborato e messo a punto in ogni dettaglio
è suddiviso in cinque parti e scandito da definizioni, spiegazioni,
assiomi, proposizioni, dimostrazioni e scolii.
Trattasi di un’opera un poco pedantesca, ma i cui contenuti, per l’epoca in cui
è stata scritta, sono tali da farne un paradigma imperituro di teologia
panteistica.
L’Ethica
è troppo nota e troppo studiata perché sia il caso di darne qui
informazione in tutti i suoi aspetti, essendo molto interessanti quelli
concernenti l’etica e non certo quelli relativi all’ontologia. Ma sarà proprio
di questa che qui ci occuperemo, cercando di coglierne alcuni aspetti
particolari offerti nella Parte Prima, quella che ha per
oggetto Dio. Spinoza si preoccupa innanzitutto di
fissare il concetto di sostanza, e lo fa sin dalle prime righe in
maniera quasi scontata per un metafisico. Afferma (I, Def.III):
Per sostanza
intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé, ovvero ciò, il cui concetto non
ha bisogno del concetto di un’altra cosa, dal quale debba essere formato. [41]
Com’è evidente l’”in sé” e
il “per sé” sono Dio stesso e di nessun altro ente immaginabile è possibile
predicarli. Ma è interessante notare come il Nostro, pur parlando qui di Dio,
lo nomina soltanto dopo aver definito il concetto di sostanza, a sottolineare il fatto che il suo vuol
essere discorso metafisico più che religioso. È solo alla Definizione
VI che egli afferma:
Per Dio intendo
l’ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di infiniti
attributi, ciascuno dei quali esprime un’eterna ed infinita essenza. [42]
Nessuna preparazione,
nessuna mediazione, nessun riferimento a qualche concetto esterno alla
teologia: si afferma “dogmaticamente” che la sostanza è, secondo la
definizione tradizionale, inseità e perseità assolute e che in Dio tali attributi si
coniugano con l’Infinitezza e con l’eternità. Troviamo
già qui enunciata l’essenza del pensiero spinoziano
attraverso la fusione del concetto tradizionale di Dio, quello del monoteismo,
con quello di Natura infinita che egli propone. L’inseità
e la perseità, corrispondenti al tradizionale causa
sui, definiscono Dio ed enunciano il dogma ontologico, un assioma logico e
un principio gnoseologico assoluti. Ma è
un successivo passaggio che rende appieno il senso della teologia spinoziana, col quale il Dio-Necessità assume in sé il
Dio-Libertà, riprendendo un concetto che era già stato di Plotino
e di Bruno. Infatti (I, Def., VII):
Si dice libera
quella cosa che esiste in virtù della sola necessità della sua natura e che è
determinata ad agire soltanto da se stessa. Si dice, invece, necessaria, o
piuttosto coatta, quella cosa che è determinata da altro a esistere e
operare. [43]
Dunque, la “necessità
della sua natura” è libertà, mentre la necessità degli altri enti è vera
necessità in quanto coazione. La definizione successiva è un capolavoro di
tautologia metafisica, infatti si recita:
Per eternità
intendo la stessa esistenza in quanto la si concepisce seguire necessariamente
dalla sola definizione della cosa eterna. [44]
Dunque “la sola definizione”
della cosa eterna determina “necessariamente” la stessa esistenza di Dio in
quanto “concepibile”. Ritorna qui la magia filosofale della parola, di cui
abbiamo discusso al § 1.6, quella in base alla quale il pensiero e il discorso
che ne segue creano “di per se stessi” l’esistenza e l’essenza dell’oggetto
metafisico. La sacralità del discorso antropico diventa così creatrice della
realtà, indipendentemente dalle denotazioni rilevabili e verificabili della
realtà fisica, che diventa aspetto affatto secondario ed “esteso” di quella
metafisica. Una successiva affermazione dell’Assioma IV è ancora
più illuminante:
La conoscenza
dell’effetto dipende dalla conoscenza della causa e la implica. [45]
Siccome per la “sapienza” spinoziana la verità sta nella causa e non negli effetti (a
differenza della scienza, che parte dagli effetti per risalire alle cause) la
conoscenza “vera” per Spinoza consiste
nell’ipostatizzare la causa meta-fisica per inferirne gli effetti reali che
essa implica. E la causa è sempre la stessa: Dio. Si comprende come qui non
esista alcuna articolazione del reale in quanto essente “in sé”, poiché gli
enti reali sono sempre soltanto espressi “in Dio”. Nell’ Assioma VI si
aggiunge:
L’idea vera deve
consistere con il suo ideato. [46]
Si tratta di una ripresa
della famosa sentenza di Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, I, q 26, a 1) dove si afferma: «veritas consistit in aedequatione intellectus et rei», ma dove la res viene identificata qui
da Spinoza all’ideato, ovvero al pensato, per cui la
cosa reale esce completamente dall’orizzonte gnoseologico e la verità diventa
in pratica l’identità tautologica pensiero-pensato. Se si cerca l’origine
culturale di quel devastante fenomeno filosofale che è stato l’Idealismo
tedesco, imperante per tutto il XIX secolo e oltre, essa è già qui
definitivamente presente in maniera chiara: la Natura di Spinoza
non è altro che lo Spirito Assoluto ante litteram.
La tautologia divina prosegue nella Proposizione
VI, che recita: «Una sostanza non può essere prodotta da un’altra
sostanza.» e nella Proposizione VIII:
«Ogni sostanza è necessariamente infinita.» L’unica sostanza causa
sui è Dio, ma (si noti l’ipocrisia filosofeggiante) ci si preoccupa di
precisare l’“universalizzazione” del concetto secondo
cui “ogni” sostanza è infinita, lasciando in ombra l’implicito assioma teologico
posto all’inizio, in base al quale essendo solo Dio sostanza soltanto a Dio compete l’infinità. Altra prefigurazione
della fenomenologia idealistica si ha nel successivo Scolio I:
Poiché, in realtà,
essere finito è in parte negazione, mentre essere infinito è assoluta
affermazione dell’esistenza di una qualche natura, segue dunque dalla sola Prop.7 che ogni sostanza deve essere
infinita. [47]
Un poco più oltre, e senza
alcuna preparazione, si giunge alla fondamentale Proposizione XI, dove si precisa che Dio coincide con
la sostanza (Cfr. anche Prop.XIV),
con l’infinità e con la necessità:
Dio, ossia la
sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime
un’essenza eterna ed infìnita, esiste
necessariamente. [48]
La Dimostrazione che
ne segue è un classico della tautologia logicizzante:
Se lo neghi,
concepisci, se è possibile, che Dio non esista. Dunque (per l’As.7) la sua essenza non implica l’esistenza. Ma questo
(per la Prop.7) è assurdo: dunque Dio esiste
necessariamente. [49]
Si noterà qui ciò di cui già
trattammo al §1.4, ovvero quel procedimento linguistico per cui dal piano
logico si salta direttamente a quello ontologico: l’autoreferenzialità
apofantica dei metafisici è assoluta e richiusa su se
stessa. Le alternative sono due: o si “crede” alla creatività del linguaggio o
non si può fare a meno di considerarla pura “magia” metafisica. Ma Spinoza, da quel pignolo che è, si preoccupa poi di
corredare il dogma espresso in questa Dimostrazione con un lungo
discorso esplicativo consistente in due Altrimenti e in uno Scolio. L’intento
è quello di costruire un aggiornamento delle “prove dell’esistenza di Dio”. La lapidarietà logica si tramuta così in intrico dialettico di
più dimostrazioni “interne” e derivate rafforzantisi
l’un l’altra.
La Proposizione XV contiene il
principio più significativo della teologia spinoziana:
Tutto ciò che è, è
in Dio e niente può essere né essere concepito senza Dio. [50]
La forza dogmatica del “niente
può essere” si rafforza con un “né essere concepito” dal momento che
l’essere di Dio, in quanto pensiero puro, si manifesta primariamente come
“pensiero” e soltanto dopo come “essere”. Ovvero, Dio si pensa prima ancora di
essere! L’affermazione viene ripetuta e circostanziata più avanti, nella Dimostrazione
alla Proposizione XVIII, dove si afferma che Dio è “causa
immanente e non transitiva della realtà fisica”. Ciò per un verso significa
negare la creazione nei termini raccontati dal Genesi, ma nello stesso
tempo sottintende il fatto che siccome Dio crea se stesso pensandosi, il
pensiero di Dio permea il cosmo fisico che è reale solamente in quanto “pensiero”.
Seguono alcune affermazioni rafforzative del tipo (Prop.XX):
«L’esistenza di Dio e la sua essenza sono un’unica e stessa cosa.»
Segue una dimostrazione che si
richiama alla Prop.XIX, la quale, nel ribadire
che gli attributi di Dio sono eterni, prepara il Corollario I seguente,
dove si sentenzia: «Ne segue che l’esistenza di Dio, come la sua essenza
sono un’eterna verità.» Dunque non solo Dio è eterno ma eterna è anche la
“verità” che deriva dal suo porlo e dimostrarlo logicamente. La verità, com’è
evidente, ha perso ormai persino ogni rapporto con la logica quale “metodo”
cognitivo (a meno di considerarlo essa stessa eterna) ed “entra” direttamente
“in Dio” quale sua espressione. L’operazione compiuta da Spinoza
è quindi uno straordinario rito magico del pensiero-discorso metafisico, che,
in quanto pone Dio e lo dimostra, crea l’eternità di lui e nel contempo si eternizza esso stesso in quanto verità di Dio.
Passiamo ora ad occuparci del concetto di
Natura-Dio, chiudendo con ciò la nostra breve analisi di alcuni punti topici
dell’Ethica
concernenti il Dio-Uno-Tutto-Pensiero. Si precisa nello Scolio alla Dimostrazione
XXIX:
Prima di andare oltre,
voglio qui spiegare, o piuttosto ricordare cosa si debba intendere per Natura naturante e cosa per Natura naturata. Infatti, ritengo
che da quel che è stato detto prima risulti ormai che per Natura naturante dobbiamo intendere ciò che è in sé ed è concepito
per sé, ossia di attributi della sostanza che esprimono l’eterna ed infinita
essenza, cioè (per il Coroll. 1 della Prop.14 e il Coroll.2
della Prop.17) Dio in quanto si
considera come causa libera. Per Natura naturata
invece intendo tutto ciò che segue dalla necessità della natura di Dio ossia
dalla necessità di ciascuno dei suoi attributi, cioè tutti i modi degli
attributi, cioè tutti i modi degli attributi di Dio, in quanto sono considerati
come cose che sono in Dio e che non possono né essere, né essere concepite
senza Dio. [51]
Spinoza riprende qui una notissima coppia di termini della Scolastica [52]
(nella quale si dava la distinzione tra il soggetto creante e l’elemento
creato) per farne un’identità, sia pure con una distinzione concettuale non trascurabile.
Ed è proprio questa che ci permette di cogliere l’identità del Dio-Necessità
panteista col Dio-Volontà monoteista, attraverso un processo di unificazione e
superamento dove si prefigura l’Aufhebung hegeliana.
Il Nostro afferma che la Natura naturans è
Dio in quanto “causa libera”, ma questa libertà non è altro che la Volontà di
quello stesso Jahvè che si manifestava nella
creazione della Natura naturata;
quindi la Natura naturans
spinoziana non è altro che la ricomprensione
“necessaria” di quella. Ritroviamo la stessa situazione concettuale già vista
in Plotino, per cui, l’Uno è libero, ma è nel contempo necessitato ad emanare
“il fuori di sé” per essere se stesso. Ma non differente la situazione in
Bruno, per il quale in Dio la necessità e la libertà coincidono, e se Dio non
agisse secondo necessità non sarebbe libero!. In Spinoza
la divinità naturans non è concepibile priva della naturata (per cui
la libertà della prima si coniuga con la necessità della seconda), sicché si
riaffaccia l’irrisolvibile aporia concettuale di tutti i panteismi, che viene
surrettiziamente risolta coi soliti strumenti della più vieta logica
metafisica.
Ma Spinoza usa il
termine volontà come sinonimo di volizione e lo riferisce all’uomo, quindi alla
natura naturata, infatti (Proposizione XXXI):
L’intelletto in atto, sia finito, sia
infinito, come anche la volontà, la cupidigia, l’amore ecc. devono esser
riferiti alla Natura naturata e non alla Natura naturante. [53]
Cui segue la Dimostrazione:
Infatti (come
di per sé noto) per intelletto non intendiamo l’assoluto pensiero, ma
soltanto un certo modo di pensare […]
Dunque la volontà è naturata, come lo
è l’intelletto, mentre la naturans si dà
come “assoluto pensiero”. Questa distinzione è importante, perché l’assunzione
di un “relativo” derivato rispetto a un “assoluto” primario ripristina in un
certo senso una dualità che si pretendeva abolita. Va aggiunto che se Spinoza si preoccupa di fare una distinzione tra volontà e
intelletto umano rispetto alla “libertà” della naturans, diventa ancora più
difficile pensare una libertà che non si coniughi in qualche modo con la
volontà di usarne. Evidentemente Spinoza introduce la
libertà come attributo divino nella misura in cui non se la sente di porre un
Dio che in quanto “necessitato” non sarebbe più Dio. Ma, se essere libero
significa non esercitare la libertà attraverso una volontà non si vede che cosa
possa significare la “libertà spinoziana”.
La teologia del Nostro non consiste in una
“naturalizzazione” di Dio, ma in una “divinizzazione” della Natura, che diventa
nient’altro che un Dio della Bibbia puramente spirituale e razionale,
impersonale e de-antropizzato. Il Dio spinoziano è una Ragione-Cosmo che finisce per negare
materialità al cosmo stesso assumendolo in Dio. Per questa ragione la materia
perde anche la sua connotazione primaria di elementarità inferiore, per
nobilitarsi come parte di Dio che è unica sostanza reale. Si noti,
tuttavia, che se lo spinozismo sul piano ontologico
si pone come teologia filosofale inconsistente, sul piano etico esso è un
altissimo esempio di libertà, sia nei termini in cui si esprime e sia per il
coraggio dell’esempio comportamentale coerente coi propri principi. Il che ha
portato Spinoza a pagare un prezzo altissimo ed a rinunciare
alle opportunità che un intellettuale del suo rango avrebbe meritato. La sua [54],
per l’epoca, è una delle più alte espressioni dell’etica libertaria, ed insieme
la più chiara condanna dell’intolleranza religiosa in una temperie, non lo si
dimentichi, in cui imperversava il Tribunale dell’Inquisizione. Se Spinoza, anziché vivere in un contesto come quello
olandese, avesse vissuto in Italia o in Spagna è facile prevedere quale avrebbe
potuto esser il suo drammatico destino di teologo eretico.
3.6 Il monismo olistico nel mondo orientale
In un excursus, sia pur breve, sulla
teologia dell’Uno-Tutto non ci si può esimere dal
soffermarsi sulle religioni filosofali dell’area asiatica, che può considerarsi
la patria storica del panenteismo quale espressione
filosofale irrazionalistica. Non priva di una logica interna tipica di quel
contesto, ma che va tenuta rigorosamente distinta da quella razionalistica
fiorita in Occidente, pena un’irrimediabile fraintendimento dei suoi contenuti.
Va premesso, come avevamo già osservato a suo tempo [55],
che il pensiero orientale, nelle sue teorizzazioni
filosofali, ha sempre due finalità precipue: quella esistenziale e quella
morale. La prima si estrinseca nella liberazione dalla sofferenza e la seconda
nell’amore per la conoscenza della sacrale verità cosmica e nella fusione con
un Uno-Tutto buono e perfetto quale soggetto
metafisico causale e finale. All’interno del panorama panenteistico
orientale le articolazioni sono numerose, ma vi sono delle costanti e delle
prevalenze che costituiscono l’ossatura teorica di quell’ambito
teologico, nel quale Dio è sempre un’entità cosmica impersonale, che assume
solo in maniera sfumata, nell’Induismo moderno,
tendenze personalizzanti.
Per semplicità e chiarezza espositiva ci
limiteremo qui a considerare due principali teologie di quel mondo: il Vedantismo e il Taoismo. L’importanza di esse non concerne
soltanto il contesto culturale nel quale sono nate e si sono sviluppate, ma
riguarda oggi anche l’Occidente, che sempre più mostra attenzione a tali weltanschauungen, dando luogo a uno spostamento
dell’orizzonte religioso dalla sfera monoteistica a quella panteistica. Il Vedantismo indiano e il Taoismo sino-nipponico vengono così
a corroborare un’alternativa teologica al Cristianesimo già espressa dallo Spinozismo e dall’Idealismo. Un discorso a parte vale per
un misticismo derivato dal Buddhismo (di cui abbiamo
esaminato a suo tempo l’originaria componente ateistica [56]),
la teologia Zen, che bordeggia molto da vicino il panenteismo
taoista e che esso pure raccoglie notevole interesse
nella corrente culturalmente più avanzata di larghe frange di una religiosità
occidentale post-cristiana.
Per comprendere l’importanza sempre
crescente del panenteismo orientale nella cultura
occidentale si tenga presente che i testi sacri indiani penetrano in Europa in
seguito alla colonizzazione inglese e che verso la fine del XVIII secolo essi
cominciano a venire tradotti, uscendo dall’ambito strettamente specialistico di
pochi esperti. Si pensi all’influenza che il Buddhismo
(e in parte anche il Vedantismo) ha avuto nelle
formulazioni dell’irrazionalismo schopenaueriano, ma
si tenga anche conto che, per quanto non esplicitati chiaramente, aspetti del panenteismo orientale, coniugati col Neoplatonismo e con lo
Spinozismo, sono presenti anche nell’Idealismo [57].
Il coraggioso proposito di Schopenhauer di limitare
il dominio del razionalismo hegeliano nel panorama filosofale tedesco di inizio
‘800, viene fatto in nome di un irrazionalismo di stampo extra-occidentale che
mutua, in parte, le stesse fonti. Come è noto, l’intento schopenaueriano
avrà esiti abbastanza parziali e comunque piuttosto tardivi, ma si costituì
indubbiamente come il più importante esempio ottocentesco di interesse verso la
cultura religiosa indiana.
Se definiamo “religione” la cultura indiana
prevalente, a dispetto della corrente definizione di “filosofia” che se ne dà,
non è senza ragione, e ciò richiama la definizione di filosofia data all’inizio
della nostra indagine. Il pensiero indiano, infatti, non è mai un amore “per la
conoscenza” della realtà del mondo, ma sempre soltanto di Dio, ed il fine è la
salvezza individuale, l’eliminazione del dolore e il congiungimento con esso
quale traguardo di beatitudine e di perfezione etica. È significativo che una
tendenza tipica delle teologie panteistiche fondate su un Dio impersonale
permei il pensiero orientale, sì da portare ad un costante sdoppiamento tra concettualizzazione e cultualità,
manifestandosi questa perlopiù con una divinizzazione del fondatore di una
teologia facendone oggetto di culto. Anche il Buddhismo
ha subito tale evoluzione cultuale, soprattutto nel sistema Mahaiana,
con la venerazione del Buddha. Così come nel Taoismo
è diventato oggetto di venerazione Lao-tze.
Cominciamo ad occuparci della teologia Vedànta, che costituisce un’evoluzione del vedismo primitivo e del brahmanesimo
in senso filosofale con la messa tra parentesi degli aspetti cultuali e magici,
propri soprattutto del primo, nel quale vi erano elementi di pratica
sacerdotale riservata a pochi eletti su base sociale. Con l’indirizzo Vedànta la religione vedica
sposta il proprio piano sociale dalla nobiltà di nascita alla nobiltà d’animo,
con una relativa democratizzazione nel porsi come teologia sapienziale
che si offre all’intelligenza e alla sensibilità personale piuttosto che
all’elezione. La parola Vedànta, che
letteralmente significa “fine del Veda” (suo compimento), compare già nella Mandaka-Upanishad (3, 2, 6), nella Shvetāshvatara Upanishad (6, 22) e
nella Bhagavad-Gītā (15, 15), ma è soltanto nel V secolo d.C. che
assume le connotazioni note e riconosciute. Con esse il principio cosmico
unitario (il Brahman) si coniuga coll’Ātman,
il Sé assoluto (l’Anima del mondo) di cui vi è traccia nell’anima di ogni
uomo.
I germi della teologia Vedànta,
derivanti dalle Upanishad (le prime delle quali
risalgono al VI sec.a.C.), giungono a piena
maturazione verso la fine del primo millennio della nostra era ed attraverso un
lungo percorso teorico. Ma l’idea di un Uno-Tutto
originario è già presente nel Rig-Veda e nell’Atharva-Veda, a testimonianza di un principio antichissimo,
per quanto solo intorno al V-Vi sec.d.C. esso cominci
a prendere forma teorica compiuta. Nella Chandogya-Upanishad
(VIII, 14, 1) compare per la prima volta la definizione di una teologia dell’Ātman
unito al Brahman:
Soltanto ākāśa
[sostanza-spazio] è portatore di nomi e forme; ciò che è all’interno del tutto
è Brahman, è l’ātman.
[58]
A cui segue quella esposta
nella Brihadāranyaka-Up.(II,
5, 19), dove l’unità viene ribadita:
Quel Brahman non è toccato dalla causa e
dall’effetto, senza interno ed esterno. Questo è l’ātman,
il Brahman onnipercipiente.
[59]
ed esso assume poi le
connotazioni di un puro spirito che permea il tutto (I, 4, 7) e si manifesta
nelle sue plurali apparenze sensibili:
Facendo un foro in
cima alla testa lo Spirito entra nel corpo da quel passaggio. Egli entra nel
corpo e lo pervade fin proprio alle estremità delle unghie delle dita. [60]
Anche nella Tattirîya-Up. viene preparata
l’identificazione tra Brahman e Ātman
che Šankara ratificherà definitivamente. Nel periodo
successivo, che giunge all’inizio dell’èra volgare, si assiste tuttavia a una
temporanea separazione dei due principi cosmici, ma nella Bhagavad-Gītā
o “Canto dl Beato” (compresa nel poema epico-sacrale Mahābbārata, scritto tra il IV sec.a.C.
e il IV sec.d.C.), un dialogo tra l’eroe Arjuna e il dio Krishna, si
delinea di nuovo chiaramente l’ideale di un Dio-Bene-Gioia
esprimibile come Brahman-Ātman. Ciò troverà
conferma prima da parte di Gaudapāda (da non
confondere col commentatore della Shamkhya-Karîkā)
e poi, definitivamente, con Šankara (anche scritto Shankara) nell’VIII sec., che elabora una dottrina Vedānta ormai completa e
incentrata sul concetto di un Dio-Tutto spirituale.
Entriamo ora nel merito dei contenuti
teorici del vedantismo partendo proprio dalla Gītā, nella quale viene espresso
chiaramente il concetto fondamentale in base al quale l’Uno-Tutto è causa di
“tutto ciò che è”. Esso è presente in ogni cosa (10, 42) e nello stesso tempo
tutto trascende, per cui egli è, al contempo, immanente e trascendente. Il puro
spirito e la pura natura sono in lui come sue manifestazioni eterne (13, 19).
L’Uno-Tutto viene a coincidere quindi nella Gītā
col Brahman delle Upanishad
quale “immutabile” che genera il mutevole e lo informa. Secondo
l’interpretazione di von Glasenapp,
in riferimento ad Aristotele, il Dio della Gītā
si presenta come causa materiale e causa efficiente di un cosmo
che periodicamente viene distrutto e ricreato dalla prakriti
(il principio materiale). Il dio Uno-Tutto
risiede nel cuore degli uomini e ne pilota l’esistenza tra la verità del suo
spirito e la falsità illusoria di un mondo materiale creato dalla Maya,
sicché gli uomini si muovono sul teatro del mondo come delle inconsapevoli
marionette.
Nella Gītā
viene anche ripresa la dottrina della predestinazione (già presente nella Kaushītaki-Upanishad
e nella Kata-Up.) introducendo il
concetto di una grazia divina che decide se liberare gli uomini dal
mondo determinato dalla Maya (destino divino) o lasciarli nella loro
bassezza e verso la loro rovina morale (destino demoniaco). Va aggiunto che
nella Gītā, tuttavia, la
spersonalizzazione di Dio non è ancora del tutto compiuta, poiché egli appare
anche come Krishna, come Vishnu
e come Shiva quali sue differenti espressioni. Lo
scopo finale della lezione vedantica consta comunque,
essenzialmente, di un cammino verso la liberazione dal male quale strada
ascetica (3, 7; 4, 22; 5, 2; 9, 27; 18, 2) e quale strada attiva “nel mondo”
espressa nel karma-yoga (12, 13; 8, 11; 8, 21;). Il che porta all’unione
spirituale col Brahman, raggiungendo
così una prima forma di beatitudine anticipata chiamata brama-nirvāna. Nella Gītā
si ha anche la teorizzazione della bhakti (l’abbandono amoroso a Dio), un
principi che percorrerà il pensiero indiano in tutte le epoche e che è presente
anche nel Buddhismo Mahaianana
(il Grande Veicolo).
Nell’evoluzione del pensiero vedànta un cenno va fatto ad un’insieme di testi sacri che
rappresentano guide spirituali alla sapienza e alla salvazione. Essi vanno
sotto il nome di Brahma-Sùtrā (attribuiti
all’antico saggio Bādarāyana) e va
sottolineato il fatto, storiograficamente non
trascurabile, che in essi, oltre alle prescrizioni per il raggiungimento di
sapienza e salvazione, sia presente una severa critica del Buddhismo
e specialmente dello Shamkhya, considerati atei. Va
precisato che nei Brahma-Sùtrā la
concezione del divino non coincide con quella che sarà di Šankara,
che porta agli estremi limiti l’impersonalità del Dio-Uno-Tutto.
Infatti, nel loro concedere ancora relativa realtà al mondo e nel concepire un
Dio ancora definibile nella sua superiore individualità, essi costituiranno più
tardi il punto di partenza di quelle teologie che rifiutando il panenteismo spiritualistico shankariano
ripristineranno una certa “personalizzazione” del Brahman
in figure divine come Vishnu e Shiva.
Con Gaudapāda abbiamo la prima netta enunciazione in
ambito vedantico dell’illusorietà
del mondo prodotto dalla Maya e ciò avviene attraverso le sue strofe
didascaliche (karikā) a commento
della Mandukia-Upanishad. Va notato che
la tesi dell’illusorietà del mondo è tipica del Buddhismo e che verosimilmente Gaudapāda
mutua questo principio anche da esso, ritenendolo teologicamente utile. E
tuttavia il concetto è antichissimo; gia nel Rig-Veda
(Vi, 47, 18) si dice che Indra assume varie forme
per mezzo proprio di maya. E nella Śvetāsvatara
Up.(IV, 9-10) si afferma:
Brahman fa apparire l’universo con il potere della
māyā. [61]
Un universo “apparente” che
diventa pura illusione. Attraverso Gaudapada il
concetto di Maya-Vāda e la
conseguente dottrina dell’illusione cosmica fanno il loro ingresso, venendo poi
ribaditi da Šankara e diventando uno degli
irrinunciabili pilastri concettuali del sistema Vedànta.
Śankarācārya, il
“Maestro” Šankara
(anche Shankara), che del sistema Vedànta
è il massimo teorizzatore, viene considerato (quasi unanimemente) come il più
grande pensatore del mondo indiano. Egli (la tradizione lo dà vivente tra il
790 e l’820) è rampollo di una famiglia di branmani
del Malabar ed è stato allievo di un diretto
discepolo di Gaudapāda. Il sistema che egli
elabora è una straordinaria costruzione teorica, basata su due pilastri
concettuali fondamentali, semplici e definiti: la realtà è costituita da un Uno-Tutto divino, che è l’Ātman- Brahman, e ad essa si contrappone una molteplicità
inessenziale ed irreale costituita da un cosmo che si offre all’ignoranza umana
come illusione operata della Maya. Una Maya che produce il sonno
dell’anima, in cui appare reale ciò che non lo è, inducendo ad inseguire falsi
miraggi materiali che prolungano il calvario delle reincarnazioni (il samsāra) .
Il grandioso lavoro che viene dalla
tradizione attribuito a Šankara è un corpus di
opere enorme, costituito da commenti (sùtrā)
sia delle Upanishad sia della Gītā, oltre a numerosi trattati
teologici, poesie ed inni sacri; ma
parte di esso va attribuito a suoi allievi. Nel commento ai Brahma-Sùtrā,
che è certamente suo, viene posto un concetto di Dio alternativo, che godrà di
grande successo: quello di “Sé”. Il Sé va inteso come l’essenza
spirituale dell’Uno-Tutto e ciò che più intimamente concerne
il primo termine dell’Ātman-Brahman, ovvero l’anima universale. Già
nella Bhagavad-Gītā era detto (IV, 6):
Benché io sia il
non-nato e l’indistruttibile Sé, quantunque sia il Signore di tutti gli
esseri, fondato nella mia propria natura, Io vengo all’essere attraverso il mio
potere di māyā. [62]
Il Sé è anteriore
persino al proprio “essere”, poiché per mezzo di un potere speciale di Māyā
esso è frutto di una sorta di auto-creazione.
Šankara si pone
anche come ricapitolatore della sapienza antica e
rivelatore di una Verità definitiva. In quanto bramano, e quindi fedele ai Veda,
Šankara si pone il compito di reinterpretare
in modo nuovo gli scritti ancestrali, piegandoli, spesso con interpretazioni
piuttosto audaci, alla propria teoria onnicomprensiva e conclusiva. Ma per non
smentire completamente i termini letterali dei Veda, e insieme le
interpretazioni dei saggi che lo hanno preceduto, egli è costretto ad ammettere una sorta di “doppia
verità” dei Veda, una “inferiore”, che concerne la cultualità
tradizionale e il suo rapporto con le cose del mondo, ed una “superiore”, che
concerne il rapporto diretto con l’Eterno-Immutabile espresso dall’Uno-Tutto. Tale visione è espressa bene in questa sutra:
[49] Considerato
che tutti gli enti provengono da Brahman, il
supremo ātman, essi devono considerarsi
effettivamente Brahman. [63]
Si noterà, nella duplicazìone
della verità riposta negli scritti sacri, come Šankara
compia un’operazione che identica a quella fatta da Spinoza
nei confronti del Vecchio Testamento. L’interpretazione “volgare” della voce di
Dio contenuta nella lettera biblica ed esposta dai teologi che lo hanno
preceduto è una lettura storiografica che coincide con quella che Šankara vede come “inferiore” in coloro che lo hanno
preceduto nell’interpretazione dei Veda. Šankara
vede in essi dei sempliciotti, che si sono fermati a un’interpretazione
superficiale dei loro contenuti, quindi insensibili ai significati profondi,
così come Spinoza considera teologi rozzi quelli che
propinano i libri sacri al volgo.
Nella visione shankariana
la consapevolezza della presenza totalizzante del Sé-Brahman
deve precedere ogni altra nozione umana. Un a priori rispetto ad ogni
altro concetto e come tale indimostrabile; poiché l’Assoluto immutabile è al
disopra di ogni dimostrazione. Raggiungere tale assoluto ed entrare in
comunione con lui, al punto di identificarsi con esso, è il fine del sapiente vedantico, il quale deve essere consapevole che per
giungervi non basta la sapienza, ma ci vuole anche una condotta irreprensibile
e ricca di esercizi spirituali. Afferma Šankara:
Realizzando
consapevolmente l’ātman si perviene al
distacco dal fenomenico universo. Ciò costituisce la vera rinuncia del Saggio,
poiché porta all’immediata Liberazione. [64]
Bisogna perdere i contatti
con le pluralità del mondo volgare per elevarsi all’unità divina. A questo fine
Šankara pone quattro regole fondamentali: 1. saper
distinguere l’eterno dal contingente, 2. non aspettarsi alcuna ricompensa per i
propri sacrifici ascetici, 3. dominare desideri e sentimenti, 4. impiegare
tutte le energie per liberarsi dai legami dell’esistenza corrente.
Siamo in una certa misura di fronte a uno
dei classici percorsi ascetici “per stadi” tipici di tutti i misticismi, ma
dove la salvezza si configura per molti versi come un fine “pratico”, nella
stessa misura in cui si pone nel Buddhismo. E ciò
anche se qui non viene enfatizzato il fatto che tale liberazione coincida con
la beatitudine del nirvana, quanto l’essere un percorso dell’intelletto
verso la comunione con Dio. Sullo sfondo è sempre comunque incombente il samsāra, con
la sua irrimediabile cogenza e con la sua catena di
esistenze prima di raggiungere il traguardo finale dell’ascesi dell’ātman individuale all’Ātman-Brahman. Dal punto
di vista ontologico, raggiuntolo, non vi è più alcuna differenza tra l’individuo
sublimato e Dio stesso.
Tra i teorici posteriori è importante
citare Rāmānuja (1017-1137 circa), il quale
volge la teologia Vedānta nuovamente in direzione personalizzante, in favore
dell’ipostasi di Vishnu quale Brahman.
Questo pensatore, che sarebbe vissuto 120 anni, si oppone al panteismo acosmistico di Šankara in nome di
una visione teologica che egli ritiene più fedele allo spirito delle Upanishad. La quale viene coniugata sia con i Brahma-Sùtrā
di Bādarāyana (che egli commenta nel Vedāntasāra) e sia con i testi degli Ālvār,
poeti-teologi mistici vissuti tra il VI e il X secolo, autori di inni di
devozione a Vishnu. Rāmānuja
riporta in primo piano anche la bhakti
(devozione); riproposta come passione per Dio che conduce alla sua visione diretta
ed in seguito alla morte del corpo quale liberazione definitiva.
Veniamo ora a trattare del Taoismo;
teologia filosofale nata in Cina tra il VI e il V se.a.C.,
la quale, in alternativa a quella di Confucio (551-479 a.C.), si offre come
orizzonte metafisico nettamente panteista. Esso fa riferimento al ben noto
ideogramma del tao (anche dao), un
simbolo sacrale ancestrale (i cui primi esempi grafici noti sono però tardi)
concettualmente preesistente nella diade Yin e Yang.
L’origine di questi due principi cosmici è stata interpretata sinteticamente
sia come coppia caratteriale femminile/maschile (peraltro presente in tutta la
teologia cinese) e sia come polarità ideale della “via” alla perfezione
dell’”andare” verso il tao. Già assai prima dell’avvento di un Taoismo
cultuale e filosofale definito (tra il IV sec.a.C e
il I sec.d.C) il fondatore di esso veniva indicato
nel leggendario Lao-Tze (trad. anche Lao-Tzu o Lao-Tzi) quale
fondatore di una originaria dottrina fondata sul tao.
Le due componenti dell’ideogramma, oltre
che come principi cosmici del femminile e del maschile, erano portatori del
significato letterale di “testa” e “percorso”, assumendo poi anche i
significati di “via”, “metodo”, “guida” e “discorso”. Se il taoismo sembra
porsi come un dualismo, in realtà esso si estrinseca concettualmente proprio
come una “composizione degli opposti nell’unità”, ed è solo dall’interazione
tra gli opposti che può nascere l’Uno-Tutto. Per quanto un taoismo cultuale
preceda nel tempo quello filosofale, avendo le proprie radici nello sciamanesimo, i due indirizzi vanno considerati
unitariamente, poiché comuni sono le basi ontologiche e dottrinarie quantunque
differenti gli aspetti sacrali ed etici.
Il Tao assume essenzialmente il
significato di un principio cosmico totalizzante immanente alla realtà, ed
essendo questa mutamento (in termini occidentali, un divenire) si
presenta come unità dinamica il cui significato non è nell’immutabilità della
stasi ontica, ma nell’immutabilità processuale del
divenire. Un inno all’unità del cosmo è nella sentenza XXXIX del Tao-te-ching, che recita:
Pervennero alle
Unione, dalle origini, il cielo, che da allora, luce assunse, la terra, che
perciò divenne stabile; gli spiriti, che allora forza assunsero; le conche, che
da allora si colmarono [d’acqua]; gli esseri, che affiorarono alla vita; i re
vassalli: paradigma al mondo. L’Unione questo fece. Senza di essa, privo di
luce, il cielo crollerebbe. Se instabile, la terra in pezzi andrebbe. Gli
spiriti, impotenti, sparirebbero. Le conche, inaridite, seccherebbero, e gli
esseri, infecondi, perirebbero; i re vassalli, senza onor, cadrebbero. Chi
sulla gleba nasce, eleva i principi; chi sta in basso è sostegno a chi sta in
alto; principi e re perciò si dicon miseri, servi dei
servi, orfani, indigenti: chi giace sulla gleba li tien
alti. Un carro intero non sta nei suoi pezzi. Brilla la giada, ma la pietra
regge. [65]
Poiché “un carro intero
non sta nei suoi pezzi” solo l’Uno-Tutto olistico
è reale, ed esso sta insieme perché ciò che sta in basso sostiene ciò che sta
in alto. Questa inversione del potere ideale spiega perché il Taoismo abbia
incontrato una certa impermeabilità nel potere imperiale e nella classe
aristocratica colta legata al Confucianesimo, mentre ha trovato attenzione e
riscontro in classi sociali cinesi non necessariamente incolte, ma piuttosto
lontane dal potere costituito.
Dal punto di vista etico la filosofalità taoista stimola un
atteggiamento mistico che esclude la partecipazione alla vita pubblica,
consiglia la rinuncia ad ogni ambizione di carattere sociale e soprattutto
prescrive l’assunzione della pratica del wu-wei,
cioè della non-azione quale principio etico fondamentale. Questo nasce da una
concezione in base alla quale la natura non va alterata in alcuna sua
espressione e non si deve agire in alcun modo su essa e sui suoi componenti,
poiché va lasciata essere come è nella sua già perfetta divinità diveniente,
essenza del tao stesso. Il legame con la natura è assoluto e
consiste nel partecipare ai suoi ritmi eterni, nel flusso naturale
dell’accadere del tao di cui non si deve turbare la perfezione. Un
principio etico espresso con modeste
varianti sia nel Tao-te ching
attributo a Lao-Tze, sia nelle altre due opere
più importanti, lo Zhuang-tzi (anche Chuang-tzu) di autore anonimo [66]
e scritto anch’esso intorno al IV sec.a.C. (e di poco
anteriore al Tao-te ching),
nonché nel più tardo Lieh-tzu.
Va precisato che la dottrina taoista è antiintellettualistica,
fondandosi sull’intuizione personale del divino e non sui procedimenti della
ragione né su elaborazioni dottrinarie complesse. Da ciò un esplicito
anti-scientismo e una scarsa considerazione per la cultura in generale, con
l’invito al ritorno a un semplicità e a una naturalezza ancestrali e pre-culturali. Basti una citazione per tutte, la sentenza
XIX del Tao-te-ching, nella quale si
prescrive:
Getta il sapere,
la saggezza amputa e il popolo ne avrà in profitto il centuplo. Amputa umanità,
giustizia getta: e saran padri i padri e figli i figli.
Getta il profitto, la destrezza amputa: ladri e banditi più non vi saranno. Resteran ghirigori inapplicabili quei tre decreti? Su altro
l’uomo poggi: alla seta non tinta, al grezzo tronco torni e contenga brame ed
egoismi. [67]
Il sapere relativo al mondo
e all’organizzazione della società umana allontana dal Tao, la realtà
importante non è quella visibile e percepibile (la piccola conoscenza),
ma quella profonda e spirituale che inerisce il cosmo
nella sua essenzialità (la grande conoscenza). Nello Zhuang-tzu si legge:
La grande
conoscenza percepisce e accoglie senza riserve. La piccola conoscenza si urta
contro tutto ciò che incontra e si rinchiude negli a priori del mondo
dei sensi. Lascia scappare l’essenziale: ciò che il Cielo produce con la sua
sola presenza, questo naturale che porta tutti sulle ali, perché noi non
abbiamo la vita, ma è la vita che ci possiede. [68]
La frase di chiusura di questo passo è una
delle più affascinanti espresse dal Taoismo. Se si tengono presenti i
presupposti dottrinari del Buddhismo originario [69]
non potrà sfuggire come la visione idilliaca della natura qui posta risulti
oppositiva al “nichilismo” buddhista, reso nel
concetto di anicca (impermanenza
del mondo come sua inconsistenza e illusorietà).
Tuttavia, sarà proprio la penetrazione del Buddhismo
in terra cinese, all’inizio della nostra èra (favorita dalla forza concettuale
del canone Tripitaka e dall’opera di
proselitismo), ad indurre i maestri taoisti a
raccogliere anch’essi i propri testi sapienziali in
un canone, che prenderà il nome di Tao-tsang.
Le due dottrine troveranno persino un loro punto di incontro nell’ascetismo
Zen, che nasce in Cina ma passa poi in Giappone, dove raggiungerà il
successo, offrendosi oggi come una delle più seguite teologie ascetiche.
Un aspetto non trascurabile del Taoismo per
il suo legame con l’ideale di un’immortalità individuale, in realtà
perseguibile solo come longevità acquisibile con le pratiche ascetiche. Il
rapporto col tao dovrebbe infatti portare a fondersi con esso e con esso
perpetuarsi in unione mistica, in virtù della quale il corpo umano diventa tutt’uno col corpo cosmico. Questa fusione si ottiene per
un verso col wu-wei e per l’altro con
la meditazione che predispone all’estasi. Nel Chuang-tzu
è chiaramente indicato che il raggiungimento dell’unione col Tao presuppone
un’alterazione dello stato di coscienza. Il fatto che tale alterazione
possa essere favorita anche dall’assunzione di sostanze (ginseng,
cannella, ecc.) in grado di agire sulla condizione psicofisica rivela il
profondo legame con un’arcaica base sciamanica (si
ricordi che nel mondo indiano di epoca vedica i
bramani bevevano il soma per trattare col
divino). Così come un’altra analogia colle pratiche di quel contesto si
riscontra in certe tecniche respiratorie abbastanza simili a quelle degli yogi, sì da indurre qualcuno a vedervi un
comune sostrato sciamanico pan-asiatico.
Il Taoismo, attraverso le sue evoluzioni
nel tempo, presenta, similmente ad altre religioni teoricamente “senza dèi”, il
fenomeno della divinizzazione del personaggio che si ritiene ispirato ed
illuminato primariamente dall’Uno-Tutto: quindi
latore diretto della verità divina. In tale senso è stato possibile che Lao-tze abbia potuto assumere, dal II secolo d.C in poi, i caratteri divini attribuiti al tao stesso
dal lui teorizzato, sì da condurre i fedeli a chiamarlo “corpo del tao” quale
umanizzazione di esso, conciliatrice degli opposti principi cosmici. Risulta
chiaro che quantunque lo spiritualismo orientale riesca a fare largamente a
meno dell’ipostasi di un Dio definito quale oggetto cultuale, preferendo una
concezione panteistica e impersonale di esso, tuttavia, con l’istanza devozionale nasce l’esigenza di concretizzare l’idea del
divino in qualcuno, sì da renderlo definito e rappresentabile.
Una forma mistica sincretica,
che assume elementi del Taoismo e li innesta sul ceppo del Buddhismo,
è il già citato ascetismo Zen, una mistica meditativa nata in Giappone
tra il XII e il XIII secolo, tendente al riconoscimento dell’unità olistica dell’essere dove il sacro e il profano entrano a
pari titolo nell’unità dell’Indivisibile divino. Lo Zen gode di buon successo
nel mondo contemporaneo giapponese (ma anche in numerose nicchie della
religiosità occidentale) perché offre una via di superamento del caos e dello
stress del vivere della società iper-tecnologica. Ciò
attraverso una weltanschauung rilassante
e corroborante di coesione con un universo dove materialità e spiritualità
risultano superate in un’unità olistica che include
il soggetto pensante e meditante, che viene a fondersi spiritualmente col cosmo
stesso, più o meno nei termini offerti da tutti gli altri panenteismi.
A margine delle considerazioni di cui
sopra, ed a conclusione di questo paragrafo, vogliamo citare, nel mondo
contemporaneo occidentale, il caso assai interessane del fisico americano Fritjof Capra, che può esser assunto a paradigma della
“folgorazione” che può colpire una persona di cultura monoteistica (ed insieme
scientifica) che viene a contatto con quella panteistica orientale e con la sua
affascinante spiritualità. Capra ha pubblicato nel 1975 un fortunatissimo libro
dal titolo The Tao of Physics (seguito da
altri di minor successo) che è stato tradotto in moltissime lingue e che ha
costituito un significativo punto di incontro della cultura occidentale e di
quella orientale. Esso è poi diventato un libro cult e per il movimento
della parte più intellettuale del movimento New-Age,
un sistema ideologico-aggregativo che ha permeato
larghi strati della cultura giovanile occidentale negli ultimi decenni del ‘900
[70].
Il libro di Capra è anche interessante per il suo cogliere corrispondenze tra
il misticismo orientale e alcuni aspetti della fisica della materia elementare
(ovvero delle alte energie). A tale nostro apprezzamento intellettuale si
coniuga, tuttavia, non solo un profondo dissenso teorico, ma altresì la
considerazione che ogni qual volta la conoscenza venga inquinata dalla teologia
ne può sortire filosofalità interessante, ma mai filosofia.
Capra ritiene di aver avuto una vera e
propria illuminazione di tipo estatico. Afferma infatti nella prefazione a Il
Tao delle fisica: «Cinque anni fa ebbi una magnfica
esperienza che mi avviò sulla strada che doveva condurmi a scrivere questo libro.
In un pomeriggio di fine estate, seduto in riva all’oceano, osservavo il moto
delle onde e sentivo il ritmo del mio respiro, quando all’improvviso ebbi la
consapevolezza che tutto intorno a me prendeva parte a una gigantesca danza
cosmica. […] Sedendo su quella spiaggia,
le mie esperienze precedenti presero vita; “vidi” scendere dallo spazio esterno
cascate di energia, nelle quali si creavano e si distruggevano particelle con
ritmi pulsanti; “vidi” gli atomi degli elementi e quelli del mio corpo partecipare
a quella danza cosmica di energia; percepii il suo ritmo e ne “sentii” la
musica: e in quel momento “seppi” che questa era la danza di Śiva, il Dio dei Danzatori adottato dagli Indù.» [71] Naturalmente non abbiamo motivo di negare
credito alla sincerità di Capra e non mostrare il massimo rispetto per tale sua
esperienza interiore, ma ciò non ci esime dall’esprimere qualche dubbio circa
la validità di essa come base di partenza per un’interpretazione olistica della realtà fisica.
La tesi di Capra si riallaccia comunque
anche a un’ipotesi scientifica esposta da Geoffrey Chew alla fine degli anni ’60, nota come bootstrap, e collocantesi
all’interno della Teoria della matrice S. Alla base di essa sta una
concezione del cosmo che lo vede come “autocoerente”
nella sua unità-totalità, e quindi non dipendente dal comportamento delle
particelle elementari e delle forze, che non sarebbero altro che sue
espressioni fenomeniche contingenti. L’ipostasi dell’Uno-Tutto
quale frutto sincretico di meditazione mistica
applicata alla fisica è tesi affascinante e probabilmente di lungo corso.
Prepariamoci quindi ad una sua sempre maggiore presenza nel panorama culturale
post-tecnologico. Per confrontarsi essa non vi è altra scelta per la filosofia
che adeguare le proprie conoscenze, accogliendo quelle acquisizioni della scienza
che possono concernerla e permetterle uno sviluppo conoscitivo, al di là dei
chiusi orizzonti strumentali della logica e della dialettica.
[1] Sei quark, tre neutrini, elettrone,
muone, tauone più i quattro
generatori di forza (fotone, gluone, bosone di forza debole, gravitone).
Va però notato che quello che abbiamo chiamato “bosone
di forza debole” in realtà si presenta
in tre forme differenti, che sono a tutti gli effetti particelle singole
(definite anche “vettoriali”), ovvero il W+
, il W- e il Z0. Seguendo tale precisazione il
numero dei componenti-base andrebbe, a rigore, aumentato quindi di due unità.
[2] Due quark (up e down), un neutrino,
elettrone, fotone, gluone, bosone
di forza debole e gravitone (la particella
generatrice della gravità non ancora identificata).
[3] Sul nostro concetto di relazione
vedi Necessità e libertà, op.cit., nota 24 p.40 e Glossario p.283.
[4] Shankara
è il più profondo teorizzatore del monismo vedānta e perlopiù considerato il più grande filosofo
dell’India. Vissuto nell’VIII secolo d.C. elaborò una sistema filosofico-teologico grandioso, rigorosamente
spiritualistico e monistico. Il mondo materiale è
visto come una pura illusione prodotta dalla maya,
una sorta di divinità demiurgica al servizio dell’Ishvara
(dio) supremo (il brahman-ātman). Illusione nella quale restano prigioniere le
individualità che non si aprono alla vidyā
(la suprema scienza divina) e si autocondannano a un
perpetuo samsāra
(la trasmigrazione delle anime) sino a che non si saranno risvegliati alla
verità della vera conoscenza.
[5] Platone Tutti gli scritti, Timeo,
Milano, Sansoni 2000, p.1365.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Si
consideri però il vangelo sinottico è probabilmente la rielaborazione di un
autentico Vangelo di Matteo che lo precede, bollato da San Paolo come “Vangelo
Maledetto” e più tardi considerato apocrifo e chiamato “Vangelo degli Ebrei”.
[9] Platone Tutti gli scritti, Parmenide,
Milano, Bompiani 2000, p.392.
[10] Ivi pp. 392-393.
[11] Ivi p.393.
[12] Ibidem
[13] Ivi p.394
[14] Platone Tutti gli scritti, Timeo,
Milano, Bompiani 2000, p.1391.
[15] Il termine panteismo (Dio-Tutto)
in senso generico significa l’idntificazione di Dio
col cosmo, ma più specificamente vale per “Dio nel cosmo”, laddove per panenteismo (anche panteismo acosmistico
= negazione della realtà del mondo) si intende “cosmo in Dio”. In altre
parole: nel primo “tutto è pervaso da Dio”, mentre nel secondo “tutto è
compreso e rifluisce in Dio”. In base a tale distinzione si può definire
panteistica la filosofia degli Stoici e panenteistica
quella dei Neoplatonici. E sarà il panenteismo ad
avere i maggiori sviluppi, sia nel Tardo Rinascimento con Giordano Bruno, sia
in età barocca con Spinoza e sia nel Romanticismo con
l’Idealismo di Fichte, Schelling
e Hegel. Si noti peraltro che tutte le espressioni teologico-filosofali del mondo orientale sono panenteiste e non panteiste. L’aggettivo “panteista” è
comunque di uso più comune, ed ha finito nel linguaggio corrente per indicare
anche il panenteismo.
[16] Stoici antichi, cura M. Isnardi Parente, vol.I, Torino,
UTET 1989, p.131-132.
[17] Ivi, p.131.
[18] Ivi, p.134.
[19] Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin,
Milano, Bompiani 2000, p.1309
[20] Ivi, p.1333.
[21] Ivi, p.1335.
[22] Ivi, p.1331.
[23] Ivi, pp.159-161
[24] Ivi, p.303.
[25] Giordano Bruno, Dialoghi
Italiani I, Dialoghi metafisici, cura G.Gentile e
G.Aquilecchia, Firenze, Sansoni
1985, p.382.
[26] Ivi, pp.229-230.
[27] Ivi, p.230.
[28] Ivi, p.231.
[29] L’aggettivo è stato coniato da Hegel.
[30] Spinoza
aveva già scritto il T. de Deo et homine eiusque
felicitate (scoperto soltanto nell’800) e un T.
de intellectus emendatione
rimasto incompiuto e un T. politicus altrettanto incompiuto.
[31] Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico,
Firenze, La Nuova Italia 1985, p.8.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p.9.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] Ivi, p.11.
[37] Ivi, p.18.
[38] Ivi, pp.24-25.
[39] Ivi, pp.238-239.
[40] Ivi, p.262.
[41] Baruch Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti 2004, p.87.
[42] Ibidem.
[43] Ivi, p.88.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem.
[46] Ibidem.
[47] Ivi, p.91.
[48] Ivi, p.94.
[49] Ibidem:
[50] Ivi, p.97.
[51] Ivi, p.110.
[52] La coppia
dei concetti di Natura naturans e N.naturata si trova implicitamente già posta da Scoto Eriugena (De divisione naturae,
III, 1), ma è tramite Averroè che essa penetra nella cultura
cristiana e verrà fatta propria da San Tommaso (Summa Th., II, 1, q.85,
a.6). Con il Rinascimento un certo ritorno dello
Stoicismo e soprattutto del Neoplatonismo i due concetti tendono panteisticamente e in Bruno la natura naturans creatrice diventa l’intelletto divino che anima ed ordina il
cosmo. È molto probabile che Spinoza faccia
riferimento a San Tommaso per l’utilizzo dei termini e a Bruno per la
concezione immanentistica che fonde i due termini
nell’unità divina.
[53] Ivi, p.111.
[54] Si vedano specialmente la Prefazione
del Tractatus logico-politicus
e la Parte quinta dell’Ethica.
[55] Cfr. Ateismo
filosofico nel mondo antico, op. cit., p.242-244.
[56] Idem, pp.264-284.
[57] La Bhagavad-Gītā, uno dei
testi fondamentali della teologia Vedànta, venne
tradotta in inglese da Charles Wilkins
nel 1785 e in tedesco da August Wilhelm
Schlegel nel 1823.
[58] Śrī Śamkarācārya, Aparokshānubhūti
(Autorealizzzione), a cura Raphael,
Roma,
Āśram
Vidyā 1975, p.129.
[59] Ś. Śamkarācārya, op.cit, p.130.
[60] Ś. Śamkarācārya, op.cit, p.134.
[61] Ś. Śamkarācārya, op.cit, p.134.
[62] Ś. Śamkarācārya, op.cit, pp.117-118.
[63] Ś. Śamkarācārya, op.cit, p.41.
[64] Ś. Śamkarācārya, op.cit, p.71.
[65] Lao Tse, La
via in cammino (Taotêching), Milano, La
Vita Felice 1995, p.213.
[66] A meno che Zhuang-tzu
non sia il nome dell’autore, secondo un’antica usanza cinese di chiamare
l’opera col nome del suo autore.
[67] Ivi, p.119.
[68] (dallo) Zhuangzi,
a cura di C. Larre e El. Rochat de la Vallée, Milano, Jaca Book 1999,
p.55..
[69] Cfr.
capitolo VI di Ateismo filosofico nel mondo antico, op.cit,
pp.264-284.
[70] Questo singolare fenomeno religioso
ha avuto origine all’inizio degli anni ’60 in California ed ha avuto come
epicentro iniziale la baia di San Francisco, tra la Silicon
Valley e l’Università di Stanford.
L’intendimento dei suoi creatori era di carattere salutistico-mistico,
con il fine primario di combattere lo stress della modernità, mescolando
un po’ tutte le religioni occidentali e orientali in una certa unitarietà sincretica, nella quale nulla dell’essenziale di esse
andasse perduto e coniugando poi il tutto con igienismo,
macrobiotica, meditazione e ginnastica morbida.
[71] Fritjof
Capra, Il Tao della fisica, Milano, Adelphi
1993, pp.11-12.