Questa è una storia
biografia uscita per "Giorni contati" una rivista a cura del circolo Gianni
Bosio di Roma, uscito nel settembre 1986.
Ho trascorso la mia
infanzia in una frazione (circa 300 abitanti) di Filottrano, in provincia di Ancona:
l'imbrecciata. Mio padre è muratore ed ha fatto questo mestiere per tutta la sua vita;
suo padre era carrettiere. Mia madre viveva, prima di sposarsi, in paese; la sua è una
famiglia di falegnami, padre e fratelli. Per molto tempo ha fatto la sarta, poi ha
lavorato nelle Confezioni di Filottrano, un'industria tessile-abbigliamento. Ai tempi
della mia infanzia (sono del maggio 1956) l'Imbrecciata era una piccola comunità, o
meglio una specie di tribù, dal momento che i suoi abitanti erano in gran parte parenti
fra loro, quasi tutti della famiglia Severini. Molti erano emigrati nel dopoguerra in Sud
America, più che altro in Argentina, spinti dalla necessità, dal desiderio di far
fortuna (gli «alti salari» di Peron...) e tornare con un po' di soldi per farsi una casa
e mettersi a lavorare in proprio. Negli anni '60 alcuni tornarono senza aver fatto fortuna
e pronti a ricominciare da capo. Questo spiega perché molti parlavano il «castigliano»
e perché portarono un gioco di carte che è il «trucco», d'importazione argentina (una
specie di poker per i poveri). Ricordo dì quel tempo molte storie legate a quell'esodo,
soprattutto storie di miseria, di galera (molti avevano imparato a fare un lavoro, come
impagliare cesti e simili, in galera); insomma, storie delle piccole comunità paesane che
si erano formate in Argentina già dopo la prima guerra mondiale.
Mio padre non è mai emigrato, a differenza di tutti i suoi fratelli, e ha lavorato da
quando aveva 14 anni come muratore. È stato con la stessa ditta per più di 35 anni, ha
avuto diversi incidenti sul lavoro e ne porta i segni in faccia e nel resto del corpo, si
è preso molte malattie tipiche del lavoro che fa: ernia, artrosi e per finire è dovuto
andare in pensione perchè ora soffre di angina pectoris.
Quando ero piccolo lui lavorava sempre fuori del paese, tornava a casa la sera e non ci
siamo visti molto, siamo stati cresciuti sia io che mio fratello da mia madre che allora
lavorava a casa. lì desiderio di mio padre è sempre stato di costruirsi una casa per
sé, dato che le ha sempre costruite per gli altri, e che i suoi tigli non dovessero fare
mai il suo lavoro. Quando tornava a casa certe sere ci faceva vedere le mani spaccate
dalla calce o dal freddo e ci diceva che ci avrebbe spaccato la testa se un giorno
avessimo lavorato come lui. Mio padre risponde alle caratteristiche di quello che Pizzorno
(in Comunità e razionalizzazione) chiama «l'operaio arrivato» che misura
la riuscita del proprio lavoro e della sua vita con due tappe: la casa come sicurezza e la
scuola come trasmissione ai figli delle proprie aspirazioni.
Mio padre inoltre è stato sempre un comunista anche se non iscritto al partito e queste
sue aspirazioni erano mischiate col desiderio di giustizia sociale: «devi tare l'avvocato
e essere rispettabile per difendere chi non ha niente». È questo che voleva dai figli, e
io l'ho usato nei primi tempi, come alibi per non trovare un lavoro fisso, potevo mangiare
tuffi i giorni, non pagare l'affitto, anche se questo comportava vivere a casa. Ma avevo
tempo per fare quello che mi pareva e non sentirmi fregato. Le scuole elementari le ho
frequentate all'Imbrecciata. I maestri si interessavano solo dei pochi che avevano voglia
di studiare; il resto era già condannato, a sei anni, al futuro prevedibile - poliziotto,
muratore, arrangiarsi alla meno peggio. I genitori erano consapevoli di questo (e credo
inconsciamente anche molti di noi) e il loro problema era far crescere i figli il più
presto possibile per poi poterli mandare a lavorare in modo che portavano soldi a casa.
Fuori della scuola c'era la strada; non c'è stato nessuno della mia età che non è stato
investito almeno una volta da un'automobile. Sì giocava a pallone per strada, oppure si
«rubava» ai contadini sull'esempio dei più grandi, fedeli alla tradizione di ladri di
campagna che avevano i nostri genitori. Si cresceva. Già in quei tempi i carabinieri
venivano a casa o a scuola per intimidirci e «rimproverare» i nostri genitori per gli
«atti vandalici» che compivamo nella zona. Mia madre, che per il fatto di venire dal
paese e la sua attività di sarta era considerata un gradino più in alto nella scala
sociale, non mi permetteva di frequentare molto i coetanei, e cosi passavo molto tempo con
le apprendiste, le clienti e le amiche della mamma. A otto anni, questo vivere un po' da
solo (anche a scuola ero il primo della classe) mi portò a quella che con un sorriso
chiamerei crisi religiosa, volli entrare in seminario benché mio padre facesse di tutto
per dissuadermi, ma questa esperienza durò ben poco e fu uno dei miei primi fallimenti.
Alle medie, pur continuando ad essere il «secchione» della classe, andai sempre
d'accordo con le «pesti», con i ripetenti, ed ebbi come compagno di banco sempre uno dei
meno adattati alla vita di scuola (questo continuerà anche alle superiori). In questo
modo cominciai ad avere tutta una serie di amici «non molto raccomandabili»; la maggior
parte venivano dalla parte vecchia di Filottrano, figli di piccoli artigiani. Benché
fossi più piccolo e venissi dall'Imbrecciata ero tenuto molto in considerazione da tutti.
Sono quelli gli anni dell'esodo dalle campagne, dalle frazioni. C'era disprezzo, ereditato
da una cultura paesana conservatrice, per i contadini, tanto che «contadi'» era usato
comunemente per indicare arretratezza. Uno dei divertimenti preferiti dei miei amici era
appunto picchiare qualche «contadi'» quando si presentava l'occasione, soprattutto la
domenica pomeriggio. Questo è avvenuto fino a una decina di anni fa, ed è tipico della
«destra dì paese». I contadini, fino al loro esodo negli anni '68-70, vivevano in
grande povertà; quasi tutti erano mezzadri e questo spiega il disprezzo delle famiglie
terriere prima del boom economico. Inoltre erano bersaglio dei poveri di paese, sia
perché questi essendo in larga parte artigiani si sentivano più elevati socialmente, sia
perché in seguito i contadini «rubavano» il posto in fabbrica e pian piano diventavano
proprietari di negozi o imprenditori in attività che lasciavano fuori gran parte dei
paesani. In quel tempo facevo parte della banda della Torre (un quartiere della vecchia
Filottrano), avevamo una squadra di calcio e con le altre «bande» ce le davamo di santa
ragione per qualsiasi motivo (la scuola interclassista ci insegnava a stare insieme, ma
nel tempo libero tornavamo quelli dì sempre). Da queste piccole bande di zona nascono i
club. Erano delle cantine piene di muffa, di ragni e di umidità che rimettevamo a posto
con qualche sedile di auto, qualche poster, un vecchio divano per i più audaci, un
mangiadischi. Lì si passavano i pomeriggi senza fare niente di speciale e si aspettava la
domenica per le puntuali teste.
In queste cantine nascono diversi gruppi musicali. È la seconda stagione musicale del
paese perché già esistevano gruppi come i Leopardi, gli Stoici, le Ombre (che avevano
riscosso un buon successo in Turchia, dove suonavano da anni): gruppi che suonavano nelle
sale da ballo e oltre ai motivi da Hit parade (quella di Luttazzi) suonavano pezzi beat e
poi AnimaIs, Creedence Clearwater Revival, Hendrix, Led ZeppeIm, Vanilla Fudge, rhythm and
blues. Erano i beat dì provincia, protestavano contro tuffo e tutti, anarchici
individualisti, era una formula riduttiva per dire «faccio quello che mi pare», i primi
capelloni, camicie a fiori, grosse cinte, motonni e lambrette truccate. Gli stili comunque
erano già diversi: mentre i Leopardi erano più «psichedelici» anche nei gusti
musicali, gli Stoici erano molto vicini ai Mods, lambrette e soul music. Questi che erano
i nostri fratelli maggiori hanno costituito per me e i miei amici dei modelli, dei piccoli
eroi da imitare anche per il fatto che avevano intorno un sacco di ragazze pur non avendo
una lira in tasca. Erano una provocazione alla noia di paese, questi beatniks erano degli
appestati, nessun genitore voleva che i figli li frequentassero, specialmente le figlie.
Non riuscirono però ad andare al di là della provocazione, della nota di colore, nessun
gruppo riuscì a creare un proprio stile. Tutti restarono nellambito della
ripetizione, dei modelli stranieri. Questo perché si pensava soltanto a divertirsi, non
c'era coscienza di un discorso autonomo dal punto di vista culturale.
Ho imparato a suonare la chitarra molto presto (10-13 anni) da un mio vicino di casa,
Lucio, che suonava nelle Ombre. Dopo diversi anni passati a suonare in Turchia tornò a
casa e mise su un gruppo nuovo con elementi locali, ma ben presto si sposò e l'unico
lavoro che sapeva fare era il muratore. E morto pochi anni fa in un incidente sul
lavoro, è a lui che abbiamo dedicato il primo disco.
Nessuno dei gruppi vive direttamente l'esperienza del '68, anche se a Filottrano c'erano
le lotte degli operai della Orland (ex Confezioni di Filottrano), che fallisce nel 1970
dopo occupazioni, sgomberi, arresti. La disgregazione di questa realtà giovanile di paese
avviene a causa del lavoro. In quegli anni si trova facilmente un lavoro fisso con uno
stipendio "onorevole" e subito si pensa a sistemarsi: la coppia fissa, un
precoce matrimonio, Il lavoro e i club, i gruppi musicali muoiono.
Soltanto pochi di quelli che avevano vissuto fuori del paese per lavoro o per
l'università continuarono l'esperienza dl lotte e militanza. I gruppi musicali con cui
cominciai a suonare erano diversi per formazione e nei gusti musicali. Coi primi gruppi
suonavamo soltanto alle feste, ai concorsi «canori» organizzati in paese; con altri
tentavamo di suonare dei pezzi nostri ispirandoci a gruppi come Banco e PFM. Per comprare
la strumentazione ci fece da garante il parroco. l'unico che poteva aiutarci
economicamente, perché a casa nessuno vedeva di buon occhio la faccenda Allora c'erano
molti gruppi musicali in tutti i paesi vicini che fecero la fortuna di due negozianti di
strumenti musicali, Princi a Macerata e Castellani in Ancona. Castellani ci diede la
strumentazione con la garanzia del parroco che se entro un certo tempo non avessimo pagato
i due terzi dell'importo totale ci avrebbe tolto tutto e trattenuto i soldi già avuti.
Infatti accadde che non potemmo pagare in tempo e ci portarono via tutto. Era costume che
il primo concerto, la prima apparizione di un gruppo, avvenisse insieme a gruppi già
collaudati al circo durante un fine serata; il circo era quello Takimiri, che arrivava in
paese ogni autunno. Oltre al club c'era l'oratorio, che per me e i miei amici durò fino a
una certa età; poi migrammo tutti in un bar. lì bar ci faceva sentire più grandi,
potevi bere o fumare senza chiuderti in un buco, potevi guadagnare qualche soldo giocando
a carte o al bigliardo. Il gestore ci permetteva di stare nel bar anche se non consumavamo
perché portavamo lì qualche ragazza e il locale, diceva lui, ci guadagnava. La sera,
d'inverno, si chiudeva presto e gli «affezionati» potevano vedere film pomo fino a tarda
notte. Le scazzottate erano frequenti e la polizia non vedeva di buon occhio la gente che
frequentava quei bar perché divenne presto un ritrovo della «malavita» del paese,
ladruncoli di autoradio, pellicce, piccolo giro di droga. Insomma il gestore viene
arrestato e il bar cambia clientela. Il gruppo dove stavo allora era diventato grande,
eravamo una ventina e avevamo una decina di ragazze che stavano con noi (in quei tempi la
terminologia era questa).
Ci vestivamo di pelle, imitavamo gli Hell's Angels sull'onda di Easy Rider e del
revival del Selvaggio, ci piacevano i Creedence Clearwater. Non avevamo certo
grosse moto, ci eravamo impegnati a truccare i motorini e il divertimento era farci
inseguire da qualche camionetta dei carabinieri. lì maresciallo ci dichiara guerra, fa
chiudere ogni club che apriamo, ci sequestra diversi motorini. Io e Gianni (uno dei miei
migliori amici, figlio di un confinato napoletano) veniamo presi un paio di volte e
sbattuti dentro. Intorno ai 1973-74 nel gruppo gira parecchia roba: droghe leggere,
hashish e marijuana. Già eravamo dediti a un gran consumo di alcolici, e la droga è un
modo diverso per stare insieme, ci fa sentire ancora più diversi e più complici. L'uso
di droghe faceva parte di un «progetto», di un modo di vivere diverso; poi tutto questo
perde importanza e si assiste a un processo di individualizzazione nel consumo, le
sostanze sono sostituite dall'eroina anche grazie a maggior disponibilità di denaro. I
bar funzionano anche come gradini della scala sociale: sono luoghi chiusi con una
clientela fissa (e io sono anche oggi). C'è il bar della piazza centrale frequentato
dalla «crema del paese», aristocratici, vecchi diplomati, la borghesia di destra,
insomma, che si mostra con gli abiti alla moda, le macchine lussuose, tutta sobrietà e
buone maniere che fanno dimenticare che erano repubblichini, autori di picchiaggi e purghe
e rappresaglie (a Filottrano sono dieci i civili uccisi da tedeschi e fascisti durante la
ritirata). Per molti giovani frequentare questo bar significava avere prestigio; anche
molti miei amici dell'adolescenza sono diventati picchiatori e attivisti del Msi solo per
godere di queste amicizie altolocate e dei favori dei «potenti» dei paese.
Poi c'é il bar dello sport, dove ci sono i sostenitori della squadra di calcio, piccola
borghesia arricchita negli anni del boom (negozianti e terziario>, anche questa ai
destra, che ha dimenticato il suo passato difficile. È il calcio che li tiene insieme; la
squadra locale è amministrata da tutta gente del Msi, e spiega molto del prestigio di
questo partito che è il terzo dei paese (la DC ha la maggioranza assoluta).
Nel 1970 vado al liceo scientifico a Osimo, unico figlio di operai della classe; solo più
tardi entreranno altri tre ragazzi che vivono in un istituto per figli di emigrati
all'estero, e con loro ho un forte rapporto di amicizia, specialmente con Franco (è
calabrese, i suoi genitori lavorano in Germania, vengono a trovano solo a Natale). Sono
presto stanco di questo ambiente ma non riesco a scrollarmelo di dosso e continuo alla
meno peggio. Ma intanto, anche grazie al mio professore di filosofia, diventai comunista,
acquistai coscienza della classe a cui appartenevo (che forse già avevo per l'educazione
dei miei genitori, ma che approfondii sui libri e poi in una serie di lotte che presto
arrivarono). In quegli anni viaggio molto in autostop: decine e decine di concerti e
raduni, Parco Lambro, Umbria Jazz, Licola, Ravenna... una realtà giovanile che stava
producendo il "movimento del '77". Nel 1974-75 nasce a Filottrano, su iniziativa
di alcuni universitari, una sede del Pdup: seminari per costruire buoni quadri di partito.
Ma l'ingresso di un nuovo gruppo (tutti amici e compagni di scuola di mio fratello)
determina una scelta politica diversa, quella dell'autonomia. I nuovi (capeggiati da
«Johnny Guitar», che poi formerà The Gang con me) erano gli indiani metropolitani di
Filottrano, che terrorizzavano la borghesia paesana perché non erano solo beats
folkloristici ma parlavano di quel che voleva dire essere apprendisti nelle piccole
fabbriche, delle intimidazioni dei carabinieri, del loro «personale». Ogni domenica in
piazza si organizzava una mostra, un intervento, una manifestazione per gli spazi
autogestiti. Sono gli anni della crisi: le due fabbriche più grandi sono in cassa
integrazione, niente nuove assunzioni, crescono come funghi le piccole imprese e il lavoro
nero; sono «avventurieri» disposti a tutto, niente sindacati in fabbrica, licenziamenti
senza motivo, fallimenti continui.
Anche per i contrasti col sindacato e il Pci, e per i continui pestaggi e aggressioni dei
fascisti, si determina un isolamento del collettivo, anche se a Filottrano per circa un
anno si tengono incontri con tutti i gruppi e le realtà della zona e questo determina
un'enorme crescita di coscienza e di cultura. Poi, sulla scia del «fallimento» del
movimento e del riflusso, e per tutta una serie di motivi personali il collettivo chiude.
C'è una disgregazione del gruppo, piovono denunce, perquisizioni, qualche arresto, C'è
anche paura. A Firenze, insieme a mio fratello, vengo pestato a morte da poliziotti in
borghese e fermato. Mi scrivo all'università solo perché mi permette per il momento di
non entrare negli ingranaggi, ma non ho mai partecipato alla vita universitaria. Con la
fine del collettivo resto solo, ho un forte esaurimento nervoso a causa degli eccessi di
alcool e droga, e tutto mi porta all'isolamento. L'unico con cui resto in contatto è mio
fratello) che mi propone di ricominciare a suonare e mettere su un gruppo. Torna a casa
Johnny Guitar, e cominciamo a suonare insieme blues, rock'n'roll, rhythm and blues, i
vecchi amori che avevamo in comune (nel collettivo molti suonavano un po' di tutto:
canzoni popolari, di protesta, di lotta; organizzavamo spesso concerti con gruppi della
zona, discutevamo dei gusti, delle radici musicali). Un viaggio a Londra nel '79 ci
permette di conoscere da vicino la realtà punk, e come non entusiasmarsi, non rimettersi
in marcia sulla strada principale? Nell'80-'81, i gruppi nascono a decine, la rabbia punk
scoppia nella provincia clericale e bigotta. Formiamo The Gang: (prima avevamo suonato con
Ranxerox, tre ragazzi di Osimo, poi Sandro e io ci staccammo,e a Macerata trovammo Pino
(Buster) e Pete (Bum Bum), bassista e batterista, non tanto per motivi musicali quanto per
le idee politiche e le esperienze di vita. A Macerata c'erano diversi gruppi punk-rock.
Fino allora c'era il mito della velocità, della svisata più veloce, un po' come tra i
pistoleri dei western. Non tutti gruppi reggono - lavoro fisso, eroina... per molti è
solo una stagione più o meno eroica, ma The Gang continua anche perché a me e Sandro
interessava creare un suono di gruppo, e la lunga gavetta prima del disco ci ha permesso
di impossessarci di una lunga tradizione di rock e musica nera. Prima ci chiamavamo
Paper's Gang, perché la mia famiglia in paese è soprannominata "Paporè",
allora l'hanno inglesizzato ed è diventato Papers. E "Gang" per ricordare le
vecchie bande di strada e di bar che fanno parte della nostra memoria storica; sono
cambiati contorni, strutture, funzioni della gang moderna, ma resta un tessuto e
un'esigenza di aggregazione al margine dei sistemi di produzione e del mercato del lavoro.
Fino al 1977, la combattività operaia convogliava le spinte giovanili in un ambito
politico di militanza, tagliando fuori l'aggregazione «subculturale»; quando questo
modello entra in crisi, l'opposizione scende sul personale e le bande riflettono gli
orientamenti, la cultura, i cambiamenti della classe di appartenenza - nel nostro caso, la
classe operaia. La banda può essere un'aggregazione (sotto)proletaria giovanile dalla
quale può nascere una <'resistenza» in attesa di un momento diverso. Certo, tutto
questo è periferia; finché non si riesce a riportare lo scontro al centro della
produzione tutto si esaurirà in «eroiche stagioni», ma adesso siamo con le spalle al
muro e questo è il campo di battaglia che ho scelto: il rock and roll. (A proposito: una
cosa sui nostri «nomi di battaglia». Non li abbiamo scelti perché vogliamo «fa'
l'americano»: abbiamo semplicemente, come Malcolm X, preso nomi che venivano dalla nostra
storia e cancellato i nomi da "schiavi" che servivano solo per controllarci).
Scelgo il rock perché per me è musica popolare urbana subculturale internazionale, il
mezzo che ci è rimasto per esprimersi e comunicare. Nei testi - che scrivo io - cerchiamo
di descrivere stati d'animo, momenti in cui chi fa certe esperienze possa ritrovarsi
usando la sua immaginazione. Amo i beats, Gìnsberg, poi Dylan e Kwesi Johnson. Come dice
Springsteen, abbiamo imparato più da tre minuti di disco che da tutti gli anni di scuola.
Il rock, importato dall'America, è solo l'ultima delle tante invasioni di cui è fatta la
nostra cultura, che da sempre è fatta di contaminazioni non necessariamente imposte o
artificiali. Fin dalle origini, il rock and roll è una fusione dì stili diversi, che
permette lo sviluppo di un linguaggio internazionale dei gruppi e minoranze oppressi e
periferici, lo scambio e la creazione di una cultura diversificata ma unita per la
denuncia. Un esempio è una nostra canzone, «The Last Border»: qui la fusione è tra una
melodia della fisarmonica dell'Est, zigana, e un ritmo della frontiera Texas - Messico;
eppure questa canzone avrebbe potuto nascere solo qui, da noi, influenzati da tutte queste
culture, musiche, melodie. È una canzone da ultima frontiera. L'interesse che abbiamo per
la musica latino-americana (e per la situazione di quei paesi) ci è stato trasmesso
direttamente dai nostri parenti che sono emigrati; quello per la musica popolare dal
contatto col paese, dove c'è sempre stato un forte interesse per la musica e ancora oggi
ci sono diversi suonatori di saltarello. Ma l'influenza maggiore sono i Clash: potrei
scriverci un libro sopra; loro sono quelli più vicini alle nostre esperienze culturali e
di vita. Quando nel '77 la parola d'ordine era «tutto ricomincia ora, quello che c'è
stato prima è monnezza», e questo porta ad un'isteria, ad un abbaiare che musicalmente
porta all'esaurimento precoce, con i Clash le cose sono diverse: loro sposano subito la
realtà nera e la sua musica, da sempre spirito e guida del rock and roll; escono con un
disco come Sandinista, che permette di ritrovare punti di riferimento per
esprimersi; contaminano il rock, musica giovanilistica, con le musiche popolari... Mi
hanno fatto sentire presente, vivo, potevo esprimere il mio presente senza rifiutare il
mio passato, la mia cultura - e a testa alta. Un'altra cosa è che tutti lavoriamo. lo mi
sono laureato in giurisprudenza, ma non ho nessuna intenzione di «usare» quel titolo; ho
sempre fatto lavori precari, porto buste, carte, lettere per conto di enti. Sandro fa lo
stesso lavoro, anche lui ne ha fatti un'infinità da quando ha smesso con la scuola al
terzo magistrale; Saverio ha finito l'istituto tecnico e sta cercando un lavoro qualsiasi;
Peppe è veterinario e ha aperto un ambulatorio con altri colleghi.
Il non essere musicisti di professione (anche perché se suoni questo tipo di musica in
Italia difficilmente riusciresti a mangiare tutti i giorni> è secondo me un vantaggio,
perchè ti permette di vivere la realtà dura dello sfruttamento, l'essere costretto a
venderti per vivere ti fa avere sempre i piedi piantati nel reale.
Adesso non ho più molti amici a Filottrano, nè ci vivo molto; col gruppo abbiamo suonato
in paese un paio di volte in quattro anni, e sono sorti diversi gruppi vicini alla nostra
musica. Non credo comunque che quello che suoniamo influisca sulla realtà giovanile di
Filottrano. Il modello perbenista, gli atteggiamenti e i valori di destra fanno presa sui
giovani anche operai, apprendisti, sottoproletari. È salito ultimamente il numero dei
furti (non solo di autoradio come ai vecchi tempi, ma nelle abitazioni e nei negozi), e la
maggior parte è legata al bisogno di soldi per comprare droga ma anche una vespa, una
macchina. Sono ragazzi che abitano nelle frazioni e che imitano i figli della borghesia
paesana nei comportamenti, nei consumi. Nel paese c'è sempre stato un ricambio
generazionale di gruppi col culto della forza, che si «realizzano» allo stadio o nelle
discoteche.
Un altro fatto anch'esso ereditario è lo stupro, sul quale c'è sempre stata una grande
omertà. Accade che ragazzine che vengono dalla campagna o lavorano come apprendiste nelle
fabbriche vengono violentate o fatte entrare a forza in veri e propri giri di
prostituzione. Prima questo fatto era gestito dai giovani missini, i "belli del
paese" (e magari qualche ragazzina si illudeva di entrare così nel giro dei ricchi),
ora viene imitato anche dai figli della classe operaia, i «duri» che sfogano le
frustrazioni delle umiliazioni e dello sfruttamento giornaliero.
Forse sarà stato inutile avere raccontato tutto questo; ma ripercorrere questa storia è
per me un modo di far capire la «ragione» del nostro gruppo e della nostra musica.
Abbiamo fatto una canzone che si chiama "Badlands", e dice: «Ho seguito le
tracce della razza che fugge / tra i reticolati della Miseria nella civiltà della
Bomba».
C'è una scena in Pelle di
serpente di Lumet, quando Carol alla fine raccoglie il giubbotto di pelle di serpente
di VaI e dice: «Le bestie della giungla lasciano le pelli dietro di sè, le pelli pulite
e i denti e le ossa bianche: e questi sono come segnali, che gli uni agli altri
trasmettono in modo che la razza fuggitiva possa sempre seguire le orme dei suoi simili».
Marino Severin |