PREFAZIONE
L’oggetto del presente libro è la gnoseologia,
la scienza umana che si occupa del conoscere, delle sue modalità
e dei suoi limiti. Esso è sicuramente l’obbiettivo
fondamentale della scienza, ma non meno di ogni autentica filosofia che con
questa non si ponga in contrasto e che ne segua le evoluzioni e i progressi.
Nella misura in cui la scienza sposta gli orizzonti del conoscere sperimentale
e sottrae spazio all’ignoto agendo “sul terreno”, la filosofia sorvola i nuovi
territori conquistati connettendoli, col suo sguardo d’insieme, a quelli già
acquisiti. La scienza e la filosofia sono quindi due
attività umane complementari, avendo ciascuna un proprio ambito e un proprio
terreno operativo pur esistendo un’intima connessione che le rende
inscindibili. Tuttavia, siccome il fine ultimo di ogni
conoscere è l’adeguamento del nostro pensiero alla realtà, e l’unica realtà
indagabile e conoscibile è quella della materia nei suoi comportamenti fisici,
chimici e biologici, il giudizio ultimo della congruità di tesi e di ipotesi
sulla realtà “conoscibile” spetta alla scienza e non alla filosofia, restando
tuttavia compito di questa indagare quella realtà soltanto “intuibile” [1],
preclusa, per ragioni istituzionali e metodologiche, a quella.
Alla filosofia tocca anche l’importante
compito di correlare la conoscenza sperimentale ed esatta della scienza alla prensione della mente umana, che non produce solo
conoscenza attraverso l’osservazione, l’esperimento, l’analisi e il calcolo ma
anche attraverso la fantasia, i sentimenti, gli affetti, i desideri, che se non
altro consentono di conoscere meglio se stessi, i
propri simili e le modalità di interazione con essi e tra essi. Ma la mente
umana è anche il recettore e l’elaboratore finale dell’amore e dell’odio, del
piacere e della sofferenza, della speranza e della paura, della consapevolezza
razionale e dell’illusione psichica, e quindi è anche per tale
elemento di emotività insito in ogni attività umana che la scienza, in quanto
fondata sulla ragione e occupandosi prevalentemente della realtà extra-umana, va
assunta come paradigma di una conoscenza oggettivamente più affidabile. E ciò poiché, restando nella mostra metafora, il terreno è più
facile da misurare e analizzare, mentre lo spazio aereo è meno affidabile, più
incerto, più facilmente illusorio. E tuttavia va aggiunto che
l’obbiettività della scienza può diventare sterile per la coscienza umana se la
filosofia non media e traduce il “dato” in una conoscenza più complessa che lo inserisca in una weltanschauung,
in una visione del mondo.
Eppure, per uno di quegli equivoci e di
quei travisamenti ai quali la storia dell’homo sapiens ci ha purtroppo abituati, alla “conoscenza del reale” (operata dalla scienza
sperimentale e da un’autentica filosofia) si mescola la “conoscenza del
divino”, che trova la propria profonda ragion d’essere nelle irrazionalità
della psiche, nelle sue paure, nelle sue aspettative e nelle sue illusioni. Ma la teologia si offre alla coscienza umana in due forme
alternative, ma convergenti; la prima concernendo la conoscenza della verità
del divino attraverso la “rivelazione”, mentre la seconda persegue lo stesso
fine attraverso la “dimostrazione” logico-dialettica metafisica. Prescindendo entrambe dal terreno su cui opera la conoscenza della
realtà, poiché il loro fine è librarsi a quelle “eterne altezze” rispetto alle
quali il “basso” divenire della vile materia va fuori prospettiva e diventa
frutto inferiore di una causa divina. La quale più assumere le più
svariate forme e le più differenti connotazioni, ma che in ogni caso si caratterizza
per il fatto di stare comunque o “sopra”, o “sotto”,
oppure “dentro” l’ambito del fenomenico, senza identificarsi mai col fenomenico
stesso se non in maniera del tutto surrettizia, come avviene nei panteismi.
Riprendendo la nostra metafora diremo allora che si dà una scienza che opera
sul terreno, una filosofia che opera da un po’ più in alto (ma sempre in vista
del terreno) e una teologia che con le sue fantasie opera ad un’altezza tale da
perdere di vista il terreno. Su questa gerarchizzazione
della conoscenza hanno fondato il loro valore trascendentalistico
tutte le religioni e tutte le pseudo-religioni
metafisiche che si sono presentate sotto le millantate spoglie della filosofia
attraverso i millenni. Ed è di queste, che chiameremo teologie
filosofali [2], che ci occuperemo prevalentemente in questo libro.
Dunque, se la
scienza conquista e dissoda il terreno e la filosofia sorvola il nuovo spazio
agibile del non-più-ignoto, questa deve far collimare
le acquisizioni conoscitive delle scienze esatte con quelle meno esatte delle
scienze umane. Così la filosofia parte dall’esatto sperimentale e osservazionale per trarne ipotesi e tesi per nulla esatte,
ma il cui valore consta della corrispondenza tra la realtà materiale e
l’orizzonte conoscitivo antropico, che in quanto tale
è specifico della realtà umana e per nulla della realtà cosmica, che ci resta
perlopiù relativamente estranea. Quest’opera di
conciliazione deve esser umile, poiché solo con l’umiltà è possibile per l’uomo un approccio corretto a quell’“altro-da-sé” che è l’universo. Laddove esista la
presunzione di immaginare la mente umana come parte del divino o recante
traccia del divino e quindi votata a raggiungerlo, noi vediamo soltanto
l’arroganza teologico-metafisica di dogmatizzare
un’ipostasi della nostra immaginazione come “causa” del cosmo,
indipendentemente dalle innumerevoli forme dottrinarie e teoriche che essa
possa assumere. Ed anche quando non si dia arroganza,
ma sussista il sincero intendimento di produrre scienza, il presupposto
dell’esistenza di Dio rischia sempre di compromettere un sapere che non può che
fondarsi su dati di base afferenti l’osservazione e la sperimentazione
scientifica, prescindendo quindi totalmente da presupposti ideologici o da
costruzioni metafisiche di sorta quale vis a tergo.
Nella storia dell’homo sapiens le
fonti della conoscenza risultano essere state sostanzialmente
due, alternative e reciprocamente escludentesi:
lo studio della natura e lo studio della divinità. L’espressione “studio della
divinità” non paia provocatorio, dal momento che fare scienza significa
eminentemente “studiare effetti e ricercare cause” mentre lo studio della
divinità, cioè la teologia, da un punto di vista
gnoseologico si pone eminentemente come lo studio della “causa di tutte le
cause”, prima e ultima dell’essere stesso dell’universo. Né la teologia
coincide con la religione, come spesso si pensa, ma la religione non è che una
forma della teologia, quella dottrinale e cultuale, che è la meno importante, in quanto priva di supporto razionale e dimostrativo. Molto
più importante è la teologia sotto le specie della metafisica, ovvero la
“filosofia prima”, che costruisce se stessa non già attraverso la rivelazione,
ma attraverso il “ragionamento” quale strumento rivelativo
di carattere discorsivo. Le due forme teologiche, la religione e la metafisica,
si pongono reciprocamente per certi versi a monte e
per altri versi a valle l’una dell’altra e molto spesso come alternative e
oppositive; frequenti infatti diatribe ideologiche tra esse, ma anche
contaminazioni ed imprestiti, collusioni, fusioni e
trasmigrazioni concettuali. La teologia è per una religione il suo scheletro, i
suoi organi, i suoi muscoli, essendo la parte cultuale soltanto il vestito che
la rende visibile e comunicabile in modo semplificato, estetico e diretto. La
metafisica è invece di ogni ideologia religiosa o
para-religiosa il suo essere più profondo e la sua ragion d’essere, non
esistendo metafisica che non presupponga un Essere meta-fenomenico.
Penso
che siano in molti a essere rimasti colpiti, almeno
una volta, dal fatto che nei manuali di filosofia tanto spazio venga riservato
alla Patristica e alla Scolastica, le quali, con buona evidenza, si connotano
più come ermeneutiche dei libri sacri del Cristianesimo (sia pure secondo i
processi logici e dialettici posti dall’idealismo platonico e dal
post-idealismo aristotelico) piuttosto che come approcci conoscitivi all’essere
del mondo e dei suoi costituenti. Naturalmente si tratta solo di capirci su ciò
che si deve intendere per “conoscenza”, poiché noi riteniamo che sia
perfettamente legittimo cercare di conoscere Dio nella misura in cui si crede
al suo esistere e si ritiene che egli si sia espresso nel proprio rivelarsi nel
mondo e agli uomini. Ma non possiamo esimerci dal domandarci se la conoscenza
di Dio possa essere considerata il paradigma di
riferimento del conoscere stesso, come peraltro pensavano già Platone ed
Aristotele, che presupponevano l’esistenza del divino come fondamento
dell’essere in generale e del conoscere umano.
La
questione è cruciale e carica di equivoci, poiché ben
prima dell’avvento della religione che fa riferimento a Gesù
Cristo, con la creazione del suo enorme carico dottrinario sincretistico,
già le teologie filosofali idealistiche e post-idealistiche dominanti il panorama filosofico
post-socratico (e dalle quali il Cristianesimo ha assunto molti criteri
metafisici e categorie di giudizio e ragionamento) si erano occupate di Dio, o
sotto questa denominazione o sotto quella di Logos [3],
Essere [4], Bene [5],
Intelligenza [6],
Verità [7],
Necessità [8],
ecc. Questo splendido e fastoso sposalizio della religione cristiana e della
metafisica greca deve farci riflettere, poiché la tendenza prevalente nella
storiografia filosofica ufficiale di operare surrettiziamente una netta
distinzione tra il patrimonio letterario idealistico e post-idealistico e
quello della letteratura cristiana ci sembra non solo assai discutibile, ma
decisamente capzioso. Ciò che intendiamo però subito chiarire è che qui non si intende affrontare il problema di quanto le procedure
logiche possano risultare adeguate a produrre conoscenza in generale, poiché è
indiscutibile la loro utilità (se non altro sul piano formale del discorso),
bensì se tali procedure (qualora non posseggano un “dato” fisico certo di
partenza quale loro fondamento operativo) possano venire accettate come
produttrici di qualche conoscenza concernente la sfera fisica.
La
tesi che intendiamo sostenere è che, in realtà, la maggior parte di quelle che vengono chiamate correntemente “filosofie” abbiano tutti i
caratteri peculiari di mere “teologie”, nel senso che pongono a proprio
fondamento l’esistenza di entità divine (non-fisiche) e di loro correlati, ed
in base alla presunta realtà di questi puri “enti di pensiero” leggono
l’esistenza del cosmo, la sua origine, la sua struttura, il suo destino. Per
entrare subito nel merito della questione che intendiamo affrontare possiamo
cominciare col porci alcune domande tra le molte che
ci sembrano emergere in relazione al problema posto. Per esempio: A. «È
possibile avviarsi sulla strada della ricerca del vero e del reale
dell’universo ponendo come elemento a priori di tale ricerca l’esistenza di un’entità
trascendente od immanente ad esso che ne sia causa?». E poi: B. «Su che cosa si basa l’ipostatizzazione di tale entità (non deducibile dalla materia dell’universo e
dal suo denotarsi attraverso la verifica e l’esperimento) che si pretende
causa, origine o ragione del cosmo stesso?» E ancora: C. «Come può una
deduzione basata su procedure logiche (cioè fondata su
meccanismi linguistico-comunicazionali), e quindi di
per se stessa confinata sul piano logico da cui è fondata, pretendere di
“saltare” abusivamente al piano ontico-ontologico [9],
entrando così in un campo di indagine che le è del tutto estraneo?» E
analogamente: D. «È possibile ritenere che quelli che si possono chiamare
“enti di pensiero”, quali l’Essere, lo Spirito, l’Intelligenza, il Bene, la
Necessità, ecc. siano in qualche modo ontologicamente
assimilabili a “enti di fatto” come lo sono i costituenti dell’universo fisico?» Fermiamoci per ora
qui e proviamo a fornire una riposta a queste poche domande in termini
logico-razionalistici.
Alla domanda A. ci pare che la risposta possa essere la seguente: se l’iter
della conoscenza presuppone l’esistenza di un elemento sufficientemente
“certo”, di base, su cui costruire delle ipotesi e da esse
derivarne tesi (da sottoporre a verifica per giungere a una conclusione in
accordo con l’elemento certo di partenza) occorre ammettere che se il dato di
partenza è l’esistenza di Dio (dell’Essere, del Logos, dell’Uno [10],
del Brahman [11],
ecc.) quale causa dell’universo, essendo essa estranea agli strumenti
conoscitivi in nostro possesso, se ne deve concludere che tale millantato
processo conoscitivo è infirmato nella sua validità dall’illegittimo
presupposto di partenza. Con ciò non si intende
mettere minimamente in discussione l’assoluta legittimità esistenziale di
credere a Dio o al Logos o all’Essere e di farne il riferimento base del
proprio esistere e del proprio pensare l’esistenza dell’universo; il problema
che ci poniamo è in che cosa tale assunzione fideistica
abbia a che fare con una vera conoscenza. L’illegittimità è qui infatti di carattere ontologico-gnoseologico,
poiché, anziché avviare l’indagine a partire dall’universo “in sé”, sia le
teologie basate sulla rivelazione sia quelle basate sul ragionamento
logico-dialettico partono, identicamente, da un presupposto aprioristico
concernente un frutto dell’immaginazione (un’Entità meta-fisica) che ne sarebbe
causa trascendente o sostrato immanente. Di fronte a ciò sta il fatto oggettivo
che l’universo “in quanto tale” non rivela in alcun
modo qualcosa che gli sia causa meta-fisica, né nessuna entità che non si
manifesti nella sfera della “fisicità” o la concerna direttamente. In altre
parole, il cosmo è l’unico rivelatore di se stesso e in tale auto-rivelazione
non rinvia a null’altro fuori si sé.
Ora, le teologie filosofali sostengono che l’Essere “si nasconde” alla
ragione umana che sarebbe inadeguata a conoscerlo, ma pretendono che sia
conoscibile “per mezzo” di un processo discorsivo logico-dialettico che la
rivelerebbe. Il Dio-Logos-Essere-Intelligenza della
metafisica, che starebbe a monte del cosmo, non si
rivela infatti in questo, ma soltanto nel cervello di un mammifero suo ospite.
Ma questi, essendo comparso soltanto molto di recente nel cosmo stesso (che gli
preesiste da quattro miliardi di anni), non è in alcun
modo legittimato ad auto-eleggersi testimone e indagatore di un’origine
non-fisica di esso, se non in via puramente immaginativa e quindi del tutto
priva di qualsiasi elemento deduttivo-cognitivo di
carattere oggettivo. Questo è possibile solo se l’uomo rinuncia sia alla propria immaginazione e sia ad ogni meccanica
linguistica con cui possa creare enti metafisici logicamente dedotti, ma si
affida esclusivamente ai dati forniti da una strumentazione materiale che operi
in un rapporto rivelativo diretto “materia-materia”
col cosmo e i suoi costituenti. L’uomo pilota e partecipa alla scoperta del
“dato” solamente come agente “esterno”, in quanto
della strumentazione egli è progettista, costruttore, utilizzatore, e
interprete finale di ciò che lo strumento rileva, e non gia suo “produttore”
attraverso il pensiero logico-dialettico. Il “dato” non deve essere una
creazione del pensiero dell’uomo, ma nascere da quel rapporto diretto
materia-materia che lo strumento intraprende col cosmo fisico, il quale offre i
suoi elementi costitutivi sotto forma di propri oggetti o di propri fenomeni
che esistono indipendentemente dall’essere “pensati” dall’uomo. Uscire
dall’ambito del “pensato” come punto di partenza del processo conoscitivo è
quindi l’indispensabile premessa di ogni conoscenza
autentica ed oggettiva.
Alla domanda B. pensiamo di poter rispondere come segue: l’ipostatizzazione nella mente umana dell’esistenza di
un’Entità intelligente, che si ponga come causa prima ed ultima dell’essere
dell’universo (e in contrasto con la sua oggettività materiale) riposa
unicamente nell’esigenza psichica di conciliare l’”intimità” del nostro
pensiero sul cosmo con l’”esteriorità” oggettuale del cosmo stesso nella sua
estensione fisico-fenomenica. Questo, infatti, è in
gran parte fuori del nostro campo d’indagine, e la presunzione umana di poterlo
spiegare in termini metafisici inquina irrimediabilmente ogni conoscenza.
L’ipostatizzazione di un personalizzato Dio-Volontà o di un impersonale
Dio-Necessità conferenti un senso e un significato “umani” all’esistenza del
cosmo è del tutto arbitraria. Esso,
offrendosi all’homo sapiens (date le limitate facoltà di conoscenza vera
e oggettiva di cui questi è capace) soltanto in minima parte quale “oggetto di
conoscenza” vera, si sottrae ancora in gran parte all’intellezione
antropica, presentandosi come un “ignoto” da conquistare passo-passo,
con la fatica umile della ricerca e non già con la presunzione arrogante della teorizzazione metafisica. Altrimenti esso viene
strumentalmente e surrettiziamente dotato “antropicamente”
di un senso e di un significato del suo essere di cui è totalmente privo nella
sua materialità, non recandone alcuna traccia rilevabile da nessun tipo di indagine razionale e strumentale. In altre parole, per
quanto siamo tutti consapevoli che l’universo esista indipendentemente
dall’essere pensato “da” quell’animale bipede e
intelligente che ne popola un infinitesima parte posta
alla periferia di un infinitesimo elemento galattico complesso (e se non altro
perché esso esiste da 14 miliardi di anni e l’homo sapiens solamente da
centocinquantamila), nondimeno le teologie metafisiche immaginano che l’animale
intelligente, in virtù delle sue facoltà cogitative e immaginative, rechi
traccia “in sé” di un Principio Cosmico che sarebbe causa prima e ultima
dell’esistenza dell’universo.
Il
fondamento di tale ipostatizzazione, essendo riposto unicamente nella facoltà
di un animale di cui l’universo stesso è rimasto privo sino a tempi
recentissimi, è certo frutto della magnifica fantasia creativa di esso, ma tale “prodotto” rimane confinato nella sfera
antropica essendo privo di alcun rapporto col cosmo reale. Il prodotto
cogitativo antropico, essendo privo di alcun elemento
gnoseologico plausibile in merito a ciò che lo eccede, è del tutto delegittimato
ad inferire sull’origine dell’universo e su ciò che di tale origine possa
essere stato causa, per il fatto stesso che l’oggetto d’indagine “tace” su se
stesso all’orecchio umano. Alla base di tale ipostasi sta quindi una pura
“credenza” metafisica, del tutto legittima sul piano dell’esistenzialità
e su quello della formalità logico-dialettica, ma che non può pretendere di
accampare alcun diritto d’ingerenza nella sfera della conoscenza oggettiva che
deve porsi a base di ogni indagine filosofica se filosofare
significa amare la conoscenza. L’estraneità del pensiero umano in quanto tale (ovvero quando è privo di riferimenti fisico-oggettivi strumentali) all’universo nella sua
oggettività materiale è totale, a meno di immaginare tale universo dotato di
“vita” organica e di pensiero, ed in quanto tale essere un organismo dotato di
anima nei termini posti dalle teologie ilozoistiche
dei popoli arcaici, basate sul pensiero mitico fantasticante e non sul pensiero
razionale deducente. Solo in tal caso (ovvero se dotato
di vita e di pensiero) il cosmo possiederebbe le prerogative per “rivelarsi”
attraverso le sue struttura biologiche a un organismo
biologico come è l’uomo, che avendo in sé una parte dell’”anima del mondo” che
informa il Tutto potrebbe averne accesso cognitivo.
Veniamo ora alla domanda C. Una deduzione umana basata su procedure
logiche create dall’uomo ed espressa attraverso un linguaggio umano può
concernere il cosmo solamente se tale deduzione si fondi
su qualcosa di afferente la materia dell’universo stesso, cioè qualcosa che
derivi da un fondamento “esterno” al linguaggio e invece “interno” all’oggetto
d’indagine; vale a dire su un dato fisico, sperimentale, oggettivo,
riproducibile, ripetibile ed esprimibile in termini matematici. In assenza di
tale requisito indispensabile non si dà nessuna conoscenza del cosmo in termini
di oggettività accettabile. E ciò anche perché quel dato,
per il fatto stesso di concernere un oggetto d’indagine in continuo divenire,
non potrà mai pretendere di porsi come definito una volta per
tutte, in quanto va soggetto a verifiche sperimentali continue al fine
di cogliere non solo eventuali mutamenti nella struttura del cosmo, ma anche un
sempre teoricamente possibile mutamento delle costanti fisiche che lo governano.
D’altra parte, i procedimenti d’indagine sul cosmo sono anch’essi continuamente
in evoluzione, con un processo continuo di “adeguamento” che accompagna il
divenire di esso col divenire della conoscenza, la
quale si affina in senso intensivo (entrando sempre più nei minimi dettagli) ed
estensivo (sfondando sempre nuovi orizzonti). Che cosa può avere in comune tale
processo conoscitivo in progress con il ricorso a pilastri argomentali inviolabili come il principio di identità o
quello di non contraddizione, i quali concernono unicamente la “meccanica” del
ragionamento e sono privi di alcun rapporto con la realtà fisica? Come potrebbe
mai la logica darci ragione di fenomeni fisici come l’entanglement
o il doppio comportamento onda/corpuscolo della materia subnucleare, che risultano in
aperta contraddizione con tutti i principi logici? Vi sono
infatti nella logica tutti i limiti concernenti schemi linguistici
rigidi della discorsività umana, che la rendono irrimediabilmente inadeguata
per un approccio esaustivo e veritativo alla complessità pluralistica
dell’universo fisico. Un approccio corretto a questo richiede quindi criteri
nuovi coi quali la filosofia, se pretende di definirsi
tale, deve accompagnarsi cognitivamente al progresso
scientifico e nel contempo integrarlo nei campi in cui esso si deve
auto-escludere per questioni di competenza.
All’ultima domanda D., nella misura in cui completa le tre che la
precedono, faremo seguire una risposta che costituirà a sua volta un
completamento argomentale di quelle che l’hanno preceduta. Il pretendere di
porre sullo stesso piano un “ente di fatto” come l’universo fisico ed “enti di
pensiero” come Dio, l’Essere, il Brahman, il Logos,
il Bene [12],
l’Uno, l’Ātman [13],
l’Intelligenza, la Verità, la Necessità, lo Spirito, l’Assoluto [14],
ecc. è un arbitrio, anzi un abuso, imperdonabile per qualsiasi pensatore che abbia a cuore la filosofia come amore-del-sapere.
Laddove il sapere, per il solo fatto di presentarsi come tale, non può che
avere il proprio fondamento in un conoscere che si sottragga
all’arbitrarietà di tutti gli apriori
ideologici, siano essi basati sulla credenza in un rivelazione “diretta” di Dio
o in una sua rivelazione “indiretta” ottenuta attraverso meccanismi linguistici
(sempre che il linguaggio stesso non venga considerato Dio auto-rivelantesi).
Soltanto un’ideologia, infatti, che in quanto tale
stabilisca auto-referenzialmente che cosa è bene e
che cosa è male, ciò che è legittimo e ciò che non lo è, ciò che va creduto e
ciò che va rifiutato, ciò che è logico e ciò che è illogico, può supportare una
presunta conoscenza che prescinda dall’ente-di-fatto
primario. Anche perché ciò significa dimenticare la materialità e la fenomenicità dei neuroni e delle sinapsi
dell’homo sapiens, che del pensiero sono produttori, affidandosi
alla credenza in enti-di-pensiero extramateriali ed
extrafenomenici facendone “essenze del
fondamento” dell’essere cosmico. Un essere che si offre alla
conoscenza come un puro divenire, al quale l’ipostatizzazione di enti-di-pensiero immutabili ed
eterni, di esso causa ed origine, debbono negare sostanza, considerandolo pura
apparenza o precario darsi dell’“essere” metafisico.
Pensiamo di poter chiudere qui la nostra
premessa, per passare a un’analisi topica dei singoli
aspetti della teologia filosofale evidenziandone ambiguità e contenuti
mistificatori. Ciò allo scopo di poter rilegittimare
un pensiero filosofico che, a nostro parere, per ritenersi tale deve inevitabilmente
bordeggiare la conoscenza scientifica dell’onticità
per ritradurla in ontologia, evidenziando la natura strumentale delle autoreferenzialità determinate dal puro uso degli strumenti
linguistici della logica e della dialettica a fini metafisici (e pur importanti
per il filosofare). I temi di fondo di cui ci
occuperemo sono pochi, ma verranno sviluppati da varie angolazioni, dal che
potrà forse derivare l’impressione di una qualche ripetitività. Ne siamo
consapevoli e tuttavia abbiamo ritenuto che l’importanza dell’oggetto d’analisi
dovesse indurci a non trascurare alcun aspetto del problema, ponendoci domande
su aspetti differenti che in qualche caso possono determinare le medesime
risposte.
Un’ultima
notazione marginale, diciamo di costume letterario. Ci è
stato chiesto perché nelle nostre esposizioni venga usato quale soggetto
scrivente il “noi” al posto dell’io”. È di tutta evidenza che non si tratti di un pluralis maiestatis, ma esattamente del suo contrario: vale a
dire di un soggetto parlante che cerca di stemperare la personalizzazione
perentoria dell’”io” sostituendola con un più impersonale “noi”. Esso vuole
essere anche un pronome augurale, che immagina ottimisticamente una prospettiva
futuribile in cui i punti di vista che esponiamo, a favore di una filosofia che
si qualifichi come autentico “amore per la conoscenza”, possano trovare
consensi che oggi, francamente, facciamo fatica a
scorgere.
[1] Sulla conoscenza intuitiva cfr.
il nostro Necessità e libertà, Firenze,
[2] L’aggettivo “filosofale” non paia
usato in senso aprioristicamente negativo. Come è noto
esso concerne l’alchimia, e nasce nel XIV secolo in riferimento all’utilizzo
della “pietra filosofale”, un non ben definito materiale magico (o forse la
“parola” connessa al suo uso) in grado di transustanziare
la materia. Lo strumento filosofale avrebbe dovuto essere in grado di
trasformare, in virtù dei suoi poteri soprannaturali, sostanze volgari in
sostanze nobili e, in senso estensivo e più generale, trasmutare il materiale
nel divino. Noi ravvisiamo tale funzione “magica” anche nell’uso idealistico
della logica, che “magicizza” il linguaggio umano
come strumento soprannaturale in grado di auto-trasustanziarsi (attraverso i suoi meccanismi e le sue
definizioni e dimostrazioni) in strumento meta-fisico in grado di “fondare” l’essere
e i suoi correlati in modo del tutto indipendente dallo studio della realtà che
si offre all’osservazione, all’indagine e alla sperimentazione. Diremo allora
che, in generale, la “filosofalità” si oppone alla “filosoficità” nella misura in cui, prescindendo dal dato
naturale, costruisce una realtà fittizia attraverso il discorso logico
dialettico; redigendo classificazioni, categorizzazioni,
distinzioni, opposizioni, relazioni e dimostrazioni che restano interne,
confinate e “proprie” alla discorsività logico-dialettica. Discorsività
che concerne soltanto il linguaggio stesso che la genera e non altro, rimanendo
estranea alla sfera del filosofico quale correlato dell’operare cognitivo in
rapporto alla possibile conoscenza oggettiva del reale. Conoscenza la
quale, a nostro parere, si dà “esclusivamente” a partire dalla datità
propria delle acquisizioni scientifiche e non certo nella discorsività
logico-dialettica che da essa prescinde.
[3] Il Dio di Eraclito.
[4] Il Dio di Parmenide.
[5] Il Dio di Platone.
[6] Il Dio degli Stoici, il Dio-Parola
creatrice di San Giovanni Evangelista e il Dio-Figlio di Giustino, di Sant’Ireneo e di Origene.
[7] Un Dio-Verità può ritenersi quello posto da Sant’Agostino, da Sant’Anselmo e da San Tommaso d’Aquino,
ma non meno da Husserl e in qualche modo da Heidegger.
[8] Il Dio di Spinoza
e di Emanuele Severino.
[9] Precisiamo qui subito il nostro
punto di vista, in base al quale in filosofia una qualsiasi inferenza
ontologica si può dare esclusivamente di ciò che sia ontico,
vale a dire realmente esistente. Ontologico e ontico
vengono pertanto a coincidere antropicamente nel
senso che ontico è il reale oggettivo e fattuale ed ontologico è il suo riscontro nella mente
dell’uomo espresso nel linguaggio.
[10] Il Dio di Plotino.
[11] Il Dio-Principio cosmico della
teologia Veda, dei Brahmanā e delle Upanishad.
[12] Il Dio di Platone.
[13] Il Dio-Anima del mondo del Vedānta.
[14] Il Dio di Fichte,
di Schelling e di Hegel.