Capitolo IV

 

La teologia della Necessità

 

 

 

4.1 La necessità psichica di un’immaginaria necessità ontica

 

    Dedichiamo questo ultimo capitolo al determinismo, ovvero alla teologia della necessità. Esso è correlato costante del monismo, ma nello stesso tempo è da esso tematizzabile separatamente in relazione al peso che l’ipostasi della necessità cosmica porta con sé in tutte le teorizzazioni metafisiche. Teorizzazioni che molto spesso non riguardano soltanto le teologie filosofali in senso stretto, ma che risultano presenti in quelle concezioni epistemiche necessitaristiche per le quali soltanto una materia deterministica consentirebbe di lasciarsi conoscere con riferimento a leggi fisiche fisse, assolute, immutabili e necessarie. Un atteggiamento per ciò stesso anti-scientifico, se scienza significa “scoprire” le denotazioni della realtà fisica, poiché si pretende con tale dogma di imporre alla scienza il principio del suo essere, a conferma di un necessitarismo che si attua aprioristicamente attraverso la sua assunzione quale verità. Questo teorema  dogmatico è già stato largamente sconfessato dalla fisica del ‘900, soprattutto con la meccanica quantistica e con l’accertamento della causalità delle mutazioni genetiche, e tuttavia, pervicacemente, eserciti di metafisici-scienziati continuano a ritenere irrinunciabile la teologia della Necessità.

    La forza teorica del determinismo ha caratterizzato il pensiero umano in quasi tutte le epoche e praticamente in tutti i contesti culturali; in ambito greco si manifesta per la prima volta e in modo netto con la teologia di Parmenide in più punti dei frammenti a lui attribuiti. Nel passo seguente vengono anche posti con chiarezza i concetti di unità, eternità e immobilità dell’essere (Simplicio, Physica, 25-33) :

 

Per questo è tutto continuo: ché l’essere all’essere è accosto [contiguo]. Ma immobile, costretto nei limiti di vincoli immensi è l’essere senza principio né fine, poiché nascita e morte furon respinte lontano, e le allontanò la vera convinzione. Identico nell’identico luogo restando, giace in se stesso e così vi rimane immobile, ché la forza imbattibile della necessità lo costrinse nelle catene del limite che intorno lo avvolge, poiché l’essere non può non essere compiuto; [1]

 

Si può ritenere che nella cultura occidentale il determinismo parmenideo sia all’origine di tutti quelli successivi, che hanno sempre carattere teologico nella misura in cui la necessità metafisica implica sempre il “sacro” (in quanto religiosità intima naturale-emozionale) e il “divino” (come religiosità su base sociale-dottrinale), implicandosi essi reciprocamente. Ma va aggiunto che esso si ritrova anche, e in maniera non meno dogmatica, in numerose concezioni filosofali nominalmente laiche, che hanno optato per la cogenza della necessità come escludente la volontà del Dio dei monoteismi. Un equivoco concettuale non di poco conto, quello di non scorgere che dal punto di vista ontologico il fatto che l’universo possa essere governato dalla volontà di un’entità meta-fisica personale o dalla necessità di un entità infra-fisica impersonale non fa nessuna differenza; anzi, il Dio-Necessità in senso teologico è ancora più cogente, più intelligente e più potente dell’altro. E ciò nella misura in cui distrugge alla sua stessa radice il concetto di Male (in quanto competitivo col Bene) assorbendolo e annullandolo entro un ottimismo metafisico dove la “credenza” fideistica si rivela non meno netta e forte di quella che viene riposta nel Dio-Volontà dei monoteismi. 

    La nostra affermazione che il Dio-persona e il Dio-Necessità siano corrispondenti dal punto di vista ontologico richiede però un chiarimento. Il pensare che esista nel cosmo o fuori di esso un’unica entità volitiva che ne determini il corso, o il pensare che, intrinsecamente alla struttura del cosmo, esista un “principio” o un “progetto” che ne prescriva a priori il destino, ad un esame superficiale possono apparire concezioni differenti e per alcuni versi persino opponibili. Ciò fa sì che, come è già stato rilevato, il determinismo necessitaristico-materialistico abbia potuto persino presentarsi come ateo per il solo fatto di porsi come anti-cristiano. In realtà, se si prova a prescindere dal punto di vista umano e si guarda alla realtà, ci si rende conto che gli orizzonti ontologici sono solamente due e diametralmente opposti. O l’universo ha avuto una nascita casuale e si evolve in modo e indeterministico e deterministico (“facendosi” in un divenire dove il caso genera il nuovo e la necessità lo fissa attraverso leggi conservative) oppure esso nasce da un “disegno intelligente” e si evolve in modo pre-determinato; dominato completamente da una Volontà o da una Necessità, che gli hanno dato origine, struttura, informazione, ordine.

    La teologia si dà infatti laddove si teorizzi dogmaticamente che l’essenza dell’universo non stia nel suo essere-divenire in quanto tale, ma nel suo “esistere” in dipendenza e in funzione effettuale di un “progetto-causa” ad esso sottostante, oppure di una “volontà” che lo determina. La determinazione, in entrambi i casi, esclude qualsiasi variazione all’evolvere del cosmo che non sia già pre-determinata e fissata ab eterno da una necessità o da una volontà. In altre parole, mentre secondo una concezione indeterministica “esistendo” l’universo “si fa” e produce situazioni deterministiche, ma non assolute, in quella deterministica l’universo esistendo “è già sempre” ciò che deve essere e non può che ripetere (anzi, “deve” ripetere) le istruzioni del “progetto intelligente” che lo informa. In questa prospettiva non c’è il “farsi” dell’universo ma soltanto il suo “darsi” prefissato.

    Che un’intelligenza soggiacente operi nell’immanenza oppure che un’intelligenza esterna operi nella trascendenza è ontologicamente irrilevante. Ciò che si presuppone, in entrambi i casi, è infatti che il cosmo sia pre-determinato da un’entità che materiale non è, poiché anche nel caso di un “progetto necessario”, strutturale, intrinseco e immanente alla materia stessa, dovendo esso preesisterle deve precederla onticamente. Questo “precedente” per ciò stesso non è ancora materia ma è “immateriale” in quanto pura “informazione”, che è come dire Puro Spirito. Ne deriva, lo ribadiamo, che o la legge conservativa (e determistica) “segue” il farsi della materia (e quindi agisce come regolatrice-conservatrice di essa) oppure “indirizza” tale farsi a priori quale “causa prima”. In questa seconda opzione non vi è alcuna differenza ontologica rispetto a una concezione deterministica religiosa quale si dà nei panteismi, poiché l’”essere” della materia “dipende” comunque da una causa che esisterebbe prima che esso esista. Tale causa creatrice e formatrice toglie alla materia alcuna possibilità di “farsi” attraverso la propria fenomenicità. A tale entità primaria si può dare il nome che si vuole, ma essa non può che corrispondere alle connotazioni di Dio, in quanto Dio è il termine che nel linguaggio umano, ed invariabilmente in tutte le culture, indica la “causa prima”.

    Col determinismo una teoria evoluzionistica dell’universo e della vita perde così ogni significato e viene a coincidere col fissismo, che “ingessa” a priori ogni possibilità di un “farsi”, poiché tutto esiste già in un “già dato” progettuale. Ciò che appare come un evoluzione del mondo fisico e biologico si rivela allora irrimediabilmente come un diventare “ciò che è già” nel progetto che pilota il divenire in una direzione predeterminata. Il determinismo che si pretende non-religioso finisce quindi per appaiarsi, dal punto di vista ontologico, a quello esplicitamente religioso nella sua sostanza concettuale. Persino l’”Intelligenza” di Laplace rischia di poter essere vista come un Dio onnisciente che la materia conosce perfettamente perché l’ha creata o quanto meno perché la governa. Ne emerge il fatto che il determinismo, anche quando si pretende laico, presenta sempre, in forma criptata, una teologia sottostante, che non nomina Dio ma lo presuppone concettualmente come intrinseco della materia.  

    I documenti sul determinismo sono sterminati e ciò ci ha imposto una limitazione del numero dei riferimenti con i quali cercheremo di analizzarne le articolazioni teoriche; la scelta che opereremo di testi significativi si limiterà quindi soltanto a sottolineare gli aspetti più notevoli su cui svolgere la nostra indagine. Ci è sembrato però importante fornire una panorama di tale atteggiamento filosofale attraverso opere che risultino paradigmatiche, sia relativamente all’atteggiamento deterministico storico e sia per quello contemporaneo. Prima di entrare nel dettaglio dobbiamo però ricordare l’esistenza di un secondo termine ontologicamente corrispondente a quello di determinismo, da esso talora distinto: quello di finalismo. Finalismo e determinismo sono atteggiamenti filosofali del tutto confluenti; per quanto differenziati nelle loro motivazioni essi posseggono un identico fondamento ontologico al punto da potersi identificare in un unico concetto.

    Le concezioni che si qualificano come finalistiche (o teleologiche) sono dichiaratamente religiose, mentre quelle che passano per deterministiche spesso si presentano come a-teologiche, come anti-teologiche e talvolta addirittura come atee. Dal punto di vista lessicale esse si considerano dunque separatamente, ma da quello ontologico, lo ribadiamo, esse sono del tutto assimilabili. Il finalismo potrebbe essere sintetizzato nell’assunto: «L’universo ha il “senso” che gli è stato conferito da Dio (Logos, Intelletto, Essere, Necessità, ecc.)». La “finalità” è conferita al mondo da chi ne è creatore o formatore, oppure (nei panteismi) da un intelletto intrinseco al mondo stesso. Esempi di un “fine” conferito al cosmo da Dio si hanno nei monoteismi e nelle teologie filosofali di Parmenide, Platone, Aristotele, Plotino, Descartes, Leibniz, ecc., ma l’esempio più antico e noto di un fine estetico-morale del cosmo (il Dio-Bene-Bello) si dà nel Timeo. L’esempio di un fine morale “intrinseco” all’essere cosmico ce lo offrono i panteismi orientali (Vedānta, Tao, Confucianesimo, ecc.) e quelli occidentali come lo Stoicismo, il Neoplatonismo, il Brunismo, lo Spinozismo e l’Hegelismo.

    Il finalismo del cosmo può essere stato conferito, come pensava Leibniz, “una volta per tutte”, all’atto della Creazione, oppure venire da una necessità che “determina”, e nello stesso tempo “finalizza”, la fenomenologia cosmica. In tali posizioni il soggetto dell’essere è sempre Dio, sia esso personale o impersonale, e l’universo ne è ente derivato. Esso è un determinismo morale-religioso che vede nell’universo un “fine” di carattere assiologico, che dà “senso” al fatto che esso sia. Il finalismo, quindi, si scosterebbe dal determinismo per il fatto che associa sempre la necessità divina ad un “valore” che l’universo esprimerebbe. Esso può anche, nel caso che la posizione necessitaristica diventi critica, aggiornare l’operato divino con un “aggiustamento” in corso d’opera della creazione. Si ricorderà che Newton (contro Leibniz) a spiegazione  delle deviazioni dalle leggi cosmiche vedeva un Dio che interveniva all’uopo “per rimettere le cose a posto”. E tuttavia l’illusione dell’ordine (conseguenza diretta dello psichico “bisogno d‘ordine”) era già stata colta da Francesco Bacone, che scriveva intorno al 1620 (Novum Organum, I, 45): «L’intelletto umano è spinto dalla sua stessa struttura a supporre nelle cose un ordine maggiore e un’eguaglianza superiore a quella che effettivamente trova.» [2]

    A distinguere il determinismo dal finalismo è la presunta assenza di uno “scopo” cosmico; ne deriva che il determinismo cosiddetto “laico”, qualificando la necessarietà “senza scopo”, offre l’esempio di un’argomentazione capziosa. Affermare che il cosmo è necessitato significa sostenere che l’essere si dà nella struttura e nelle forme in cui la necessità lo ha determinato. Ora, se l’essere, in quanto tale, è un bene rispetto al nulla, che è non-essere, ne deriva che se l’opposto del bene, il male, non esiste, la realtà cosmica “è” perché la necessità l’ha determinata così e non altrimenti non avendo lasciato sussistere il nulla. Ovvero: la necessità determina l’essere e questo non può essere considerato che il bene in rapporto al non-essere. I finalisti diranno trattarsi del massimo bene mentre i deterministi si limiteranno ad affermare che “doveva essere così”, ma nella nostra esperienza reale l’essere si estrinseca come “esistenza” e il non-essere come “distruzione”, quindi il non-esistere viene pensato come male e l’esistere, all’opposto, come bene.  

    In ogni determinismo è insita (esplicitata o meno) la convinzione che l’esistenza del cosmo sia “bene”, in quanto frutto “positivo” della necessità. Necessitato ad essere rispetto al non-essere, cioè al nulla (che è negativo), esso è, quindi, “bene”, e ciò annulla ogni differenza tra determinismo e finalismo. Vi è una possibile obbiezione: che il determinismo a-religioso prescinderebbe dal bene e dal male, quali assunti teologici ad esso estranei. Eppure, quando si mette in campo il caso, i deterministi ne denunciano immediatamente la sua impossibilità, in quanto infrangerebbe le leggi fisiche che sono “così e non altrimenti”, dove ogni altrimenti (frutto del caso) sarebbe negatività. Si coglie così come per il determinismo il caso rappresenterebbe un male assoluto non meno di quanto lo sia per il finalismo religioso. Ci pare allora di poter concludere che un ateismo determinista sia una contraddizione in termini e che l’ateismo, in quanto tale, non possa che ammettere la realtà del caso; esso solo, infatti, esclude categoricamente Dio.

    Sappiamo bene che tale considerazione non scoraggerà molti deterministi a-religiosi (ma non per questo a-teologici) a continuare ad autodefinirsi “atei” (e sono naturalmente liberissimi di farlo). Sarebbe bene tuttavia che si chiedessero che cosa possa mai essere una “necessità” che inerisce alla materia e che le fa da substrato causale se non un’ultra-essenza non-fenomenica e quindi immateriale. Un essenza metafisica che ci pare si assimili in definitiva all’attributo fondamentale di Dio in tutte le varie connotazioni e forme che esso possa assumere, formalmente differenziate, ma sostanzialmente corrispondenti sul piano ontologico nell’ipostatizzare una causa extra-fenomenica del fenomenico. Non si vede quale differenza possa sussistere tra le conseguenze ontiche cui è sottoposto un mondo governato da una Volontà che lo trascende rispetto a quelle dovute a una Necessità che lo inerisce, dal momento che i fenomeni sono comunque “pilotati” da un’entità extra-fenomenica.

    Dal determinismo viene categoricamente negata ogni casualità, ed uno degli argomenti più utilizzati dai fissisti (e da quelli che considerano l’evoluzione pilotata dall’”intelligenza” della materia) per negare la realtà del caso è quello secondo cui la vita sarebbe nata in virtù di una serie specialissima di condizioni predeterminate, in assenza delle  quali la vita sul pianeta non avrebbe mai potuto nascere. La specialità probatoria di tali argomenti consiste in complicate equazioni probabilistiche tendenti a dimostrare che senza quelle precise condizioni la vita sulla terra non sarebbe stata possibile, o che, perlomeno, la probabilità che ciò potesse avvenire sarebbe stata dell’ordine di una su miliardi di miliardi. Indipendentemente dal bell’effetto prodotto da tali cifre (così convincenti nella loro enormità estetica!) l’errore metodologico fondamentale commesso con tali “calcoli” è quello di vedere la Terra come “un” gigantesco laboratorio e non già come miliardi di miliardi di minuscoli laboratori biologici celati e sperduti in ogni nicchia ecologica possibile sparsa ai quattro angoli della terra emersa, dentro la terra o sotto i mari. Come dire, in un’infinità di “ovunque” di pochi millimetri cubi nei quali vi sia stata acqua e temperatura né troppo alta e né troppo bassa.

    Se la Terra fosse stata “un” laboratorio le probabilità di quell’accadimento erano quasi nulle, ma se noi pensiamo alle dimensioni delle cellule e al fatto che ogni mm.3 di acqua o di melma possono diventare laboratori biologici credo che qualsiasi computer non sarà in grado di contarli e che non siamo lontani dall’infinitezza delle possibilità, come dire della probabilità che una cosa avvenga. Se una probabilità moltiplicata per infinito può ritenersi uguale almeno a “qualche” possibilità (o invece a molte?) la vita può ben essere nata “per caso”, come noi sosteniamo insieme a molti biologi non-teologi. Faremo un esempio esplicativo: per un giocatore d’azzardo la roulette riserva 1/36 di possibilità che esca un certo numero, ma se il giocatore gioca contemporaneamente su 36 tavoli c’è qualche probabilità che quel numero esca. E se non esce subito e lui ritenta (come se giocasse in successione a 72, 108, 144, 180, ecc. tavoli) prima o poi vincerà. A questo punto il giocatore sarà però in perdita e magari abbandonerà il gioco assai prima e piuttosto sconsolato, ma la natura non gioca alla roulette e può permettersi di perdere energia e risorse per miliardi di anni e poi azzeccare per caso, “quella volta”, gli ingredienti giusti al momento giusto e nel posto giusto perché nasca la vita.

                                

 

 

 

                                   4.2 Il determinismo storico

 

    Il determinismo che potremmo definire “classico” si qualifica come a-religioso e considera perlopiù il divenire fenomenico come il realizzarsi di un’intelligenza (noùs) o di una ragione (logos) che sarebbero substrato fondante della realtà cosmica. Atteggiamento che non possiamo definire teologico in senso stretto, ma sicuramente teogeno nelle sue possibili conseguenze teoriche. Esso può essere fatto risalire al materialista ateo Democrito, il quale (invertendo i termini causali dell’atomismo originario posti da Leucippo), vedeva nella necessità, e non già nel caso, la causa del movimento creativo degli atomi [3]. Come si sa, in seguito, la reintroduzione del caso nell’atomismo, attraverso la parenklisis di Epicuro (tradotta clinamen da Lucrezio), ha riportato quella filosofia nel solco leucippeo originario, ripristinando l’indeterminismo nell’atomismo ed il caso quale motore della formazione cosmica; ma intanto il necessitarismo democriteo aveva creato quell’ambiguità percorrente l’atomismo che darà luogo a gravissimi equivoci storiografici [4].

    All’atomismo indeterministico e pluralistico si sono contrapposti Platone, Aristotele e i loro epigoni. Segue il necessitarismo stoico, il quale presenta sì caratteri materialistici, ma anche, in nuce, i caratteri del panteismo spiritualistico che si realizzerà col Neoplatonismo, che soprattutto nella versione di Proclo trasmigrerà nel misticismo cristiano di Eckhart, Tauler, Suso e quindi nella speculazione di Cusano. Ripreso alla fine del ‘500 da Bruno diventerà ancora più rigoroso in Spinoza, producendo il paradigma di ogni teologia monistico-deterministica. Prima di lui Descartes e dopo di lui Leibniz confermeranno il necessitarismo; più spiccato nel secondo che lo doterà di più forti caratteri finalistici. Ma, contemporaneamente, a tali teologie era anche apparsa la weltanschauung meccanicistica e materialistica di Hobbes, seguita nel ‘700 da determinismi materialistici radicali, che la rinsalderanno. Questo determinismo illuminista a carattere spiccatamente anti-religioso andrà a costituire la base principale dell’ateismo moderno, in quanto la necessità sembrava togliere di mezzo la volontà divina come determinatrice della creazione e delle leggi del cosmo. Leggi che diventavano pertanto strutturalmente “immanenti” al cosmo stesso nella sua autosufficienza, increato ed esistente da sempre. Non sfuggirà l’ingenuità di tale posizione, comune a Helvetiùs, La Mettrie e D’Holbach, poiché un cosmo eterno rinvia soltanto all’infinito anteriore il problema di come si sia costituito, senza fornire una spiegazione o un’ipotesi plausibile del suo esistere e lasciando quindi in piedi tutte le tesi cosmogoniche metafisiche.

    Il necessitarismo in Kant viene colto meglio in sue considerazioni erratiche, del tipo di quelle presenti nella prefazione alla Storia generale sulla naturale universale e teoria del cielo. Qui si afferma:

 

Ma le considerazioni che già ho premesso m’insegnano che tale sviluppo della natura non ha nulla di straordinario: è la logica conseguenza delle sue proprietà essenziali, è la piena dimostrazione del suo dipendere da un Essere preesistente, che non solo è la fonte di tutti gli esseri, ma anche delle leggi ordinarie che regolano la loro attività. […] [5]

 

Dunque gli sviluppi della natura non sono altro che le logiche conseguenze delle leggi ordinarie impresse da Dio al cosmo ed il “piano di perfezione” da Egli imposto è assoluto. Sicché:  

 

La materia, elemento primo di tutte le cose, è dunque sottoposta a determinate leggi e, liberamente abbandonata a queste, genera combinazioni meravigliose perché ciò è necessario. Non può allontanarsi da questo piano di perfezione. Poiché, dunque, è stata sottoposta a un fine di altissima sapienza, deve per forza avere ricevuto sì ben concordanti proprietà da una Causa prima dominante. [6]

 

Nel progetto dell’”altissima sapienza” sono quindi già presenti tutte quelle leggi che determinano necessariamente le libere “combinazioni meravigliose” della materia. Nella Critica della ragion pura (Logica trasc., Analitica d. principi, III) si afferma:

 

Le stesse leggi naturali, se vengono considerate come principi dell’uso empirico dell’intelletto, hanno insieme l’impronta della necessità, e quindi almeno la presunzione di una determinazione derivante da principi valevoli in sé a priori e innanzi ad ogni esperienza. [7]

 

    Nei successori di Kant, gli Idealisti, le cautele vengono abbandonate. Fichte dichiara con sicurezza (Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, 9): « Qualsiasi cosa che realmente esista, esiste per assoluta necessità; ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste. È impossibile che non esista o che esista altrimenti  da come è.». Hegel più dialetticamente dirà:

 

§149. La necessità è perciò in sé l’unica essenza identica con sé. Ma piena di contenuto, che appare in sé in modo che le sue differenze hanno la forma di reali indipendenti; e questa identità è insieme, come forma assoluta, l’attività del superare l’immediatezza. […] In questo ritorno in sé il necessario è semplicemente, come realtà incondizionata. Il necessario è, così, mediato per mezzo di un circolo di circostanze; è così, perché le circostanze sono così, ed insieme è, così, immediato; è così perché è. […] §150. Il necessario è in sé relazione assoluta, vale a dire è il processo che si è svolto (nei paragrafi precedenti), nel quale la relazione si nega facendosi assoluta identità. [8]

 

    Ma l’espressione compiuta del determinismo moderno può essere considerata la notissima enunciazione di Laplace, con l’ipotesi dell’Intelligenza che è in grado di conoscere perfettamente i comportamenti della natura. L’importanza storica di tale formulazione (basata sul leibniziano principio di ragion sufficiente) è tale che non possiamo esimerci dal riportarla:

 

Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi. [9]

 

Tale “Intelligenza” sembra francamente un po’ difficile tenerla del tutto estranea e discosta da un Colui che l’universo l’ha creato o da un qualche Spirito che sia stato partecipe del “progetto generativo” ab imo, poiché altrimenti essa si presenta, in sé, come ipotesi priva di senso. Ma Laplace è sicuramente convinto che l’Intelligenza-Demone-Spirito onnisciente a cui pensa “non” possa avere carattere divino; anzi, pone la sua ipotesi proprio in senso anti-teologico. Il problema è che egli può enunciare il suo assioma deterministico soltanto in base al teologico principio di ragion sufficiente. E Leibniz, non lo si dimentichi, aveva sentenziato nella Monadologia:

 

[44] Infatti è pur necessario che, se c’è una realtà nelle essenze o possibilità, ovvero, nelle realtà eterne, questa realtà sia fondata su qualcosa di esistente e di attuale, e quindi sull’esistenza dell’Essere necessario, nel quale l’essenza racchiude l’esistenza, al quale, in altri termini, basta essere possibile per esser attuale. [10]

 

Ed ancora:

 

[45] Così, Dio soltanto (o l’Essere necessario) ha questo privilegio, che non può non esistere, dato che sia possibile. E poiché nulla può impedire la possibilità di ciò che non implica alcun limite, alcuna negazione e, quindi, alcuna contraddizione, ciò solo basta per conoscere a priori l’esistenza di Dio. [11]

 

Ed un ulteriore estratto lapidario del determinismo può essere considerato il seguente:

 

Che tutto sia prodotto da un destino fissato è altrettanto certo quanto che tre volte tre fa nove. Il destino consiste in ciò, che ogni evento dipende da ogni altro come una catena, e prima di accadere accadrà altrettanto infallibilmente quanto infallibilmente è accaduto una volta accaduto . . . Cioè ogni causa ha una certa azione sua che da essa sarebbe svolta con successo se essa fosse sola; ma non essendo sola, dall’azione d’insieme risulta un certo effetto infallibile . . . secondo la misura delle forze, e questo è vero non solo quando nell’agire concorrono due o dieci o cento cose ma anche quando agiscono insieme infinitamente molte cose, come poi accade veramente nel mondo. [12] 

 

Ma per Leibniz il Dio-Necessità sopra enunciato coincide perfettamente col Dio-Volontà. Infatti in De libertate a necessitate in eligendo egli afferma:

 

Non si può fornire nessuna ragione del perché Dio scelga ciò che è più perfetto oltre il fatto che lo vuole, ossia che questa è la prima volontà divina: scegliere ciò che è più perfetto. Il che significa che ciò non consegue dalle cose stesse, ma unicamente dal fatto che Dio lo vuole. E che lo voglia liberamente, che oltre la volontà divina non si può formire nessun’altra ragione che la volontà stessa, non significa che vi sia qualcosa senza ragione, ma che quella ragione è intrinseca alla volontà. [13]

 

Dunque la ragion sufficiente non è null’altro che la volontà di Dio tradotta in destino del cosmo e degli enti in esso esistenti. La volontà e la necessità non sono altro che le due espressioni dell’operare di Dio e la saldatura teorica tra il Dio-Volontà e il Dio-Necessità è così compiuta. Chi fa riferimento al principio di ragion sufficiente (e Laplace lo fa) dovrebbe, coerentemente, accettare, con l’assioma filosofale, anche l’ineliminabile aspetto teologico. 

    Ci pare quindi legittimo dedurre che il determinismo di Laplace, sia per il suo riferirsi a Leibniz [14] e sia per ragioni intrinseche al necessitarismo stesso, risulti coincidente con quello leibniziano da cui deriva, con l’unica differenza che esso, “nominalmente”, non si pone come teologico. Atteggiamento che pecca di ingenuità non meno di quello dei materialisti illuministi, poiché elude il problema dell’origine dell’universo, lasciando quindi sullo sfondo, perfettamente integre, come abbiamo già osservato, tutte le tesi teologiche, compresa ovviamente quella cristiana di Leibniz. Le ipostasi di un universo “eterno” poste nei più differenti luoghi del pianeta e in tutti i tempi, hanno invariabilmente carattere religioso, venendo ontologicamente a coincidere con metafisiche teologiche come quelle di Descartes, Spinoza, Leibniz o Hegel. Cassirer era convinto che Laplace non fosse neppure consapevole della portata della sua ipotesi. Dice infatti: «Nel pensiero stesso di Laplace l’idea di questa formula dell’universo era difficilmente qualcosa di più d’una metafora ingegnosa con cui chiarire e illustrare la differenza fra il concetto di probabilità e quello di certezza[15] In realtà, sempre secondo Cassirer, il riscontro da parte dei suoi contemporanei fu irrilevante e sarebbe stato poi Du Bois-Reymond, a fine ‘800, a trarre dall’oblio la formula laplaciana riproponendola con forza e conferendole un’evidenza mediatica che l’avrebbe resa nota come “Universo di Laplace”. 

    Ma la coincidenza del Dio-Volontà e del Dio-Necessità vale anche per Newton, che pensando che le leggi fisiche siano necessitate ma imperfette e che Dio intervenga ogni tanto per confermare la propria volontà. La Divinità, quindi, è necessità “per il cosmo” ma nel contempo libertà “per sé”, ed il cosmo è necessitato a seguire le leggi derivanti da tale libertà. Se ne può dedurre che per Newton il Dio-Volontà “in sé” è lo stesso Dio-Necessità “fuori di sé”, ma questo è nello stesso tempo l’“in sé” del cosmo in quanto esiste, poiché senza una necessità instaurata dalla volontà creazionale di Dio esso non potrebbe esistere. Su un piano eminentemente morale si pone il binomio necessità/libertà in Kant, dove all’esclusione della possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio per via logica, diventa necessario postularla “trascendentalmente” a priori affinché acquisti senso l’esistenza dell’uomo. Così, all’affermazione seguente nella Critica della ragion pura (Logica trasc., VII)

 

Le necessità, l’infinità, l’unità, l’esistenza fuori del mondo (non come anima del mondo), l’eternità senza le condizioni del tempo, l’onnipresenza senza le condizioni dello spazio, e così via, sono meri predicati trascendentali; e quindi il concetto purificato di essi, onde ogni teologia ha tanto bisogno, può esser solo preso dalla teologia trascendentale.  [16]

 

fa riscontro nella Critica della ragion pratica (Dialettica, II, 5):

 

Dunque, il sommo bene nel mondo è possibile soltanto in quanto viene ammessa una causa suprema della natura che ha una causalità conforme all’intenzione morale. […] Dunque, la causa suprema della natura in quanto dev’essere presupposta pel sommo bene, è un essere che mediante l’intelletto e la volontà è la causa (perciò l’autore) della natura, cioè Dio. [17]

 

Kant fa pertanto rientrare dalla porta della morale il Dio che non poteva far entrare da quella della ragione, ma ciò soltanto perché questa non può andare oltre l’analisi dei fenomeni e quella sì. Ma in quanto egli si è preoccupato di precisare che Dio si dà «non come anima del mondo» egli chiama in causa il Dio della Bibbia (il Dio-Volontà) e nello stesso tempo pone come necessario il comportamento morale (il dover essere) per realizzare quel sommo bene che non è altri che Dio stesso. 

    A latere del discorso che stiamo sviluppando va aggiunto che uno degli equivoci da sfatare è quello in base al quale il determinismo sarebbe sinonimo di “causalismo” (ovvero del principio che riconosce il dominio assoluto delle cause nella fenomenologia della materia) mentre l’indeterminismo, ammettendo l’esistenza del caso, non lo sarebbe. L’equivoco è intollerabile, poiché l’indeterminismo è a tutti gli effetti un causalismo, ma che ammette la possibilità saltuaria di un’intersezione delle cause e non la loro linearità assoluta. Ammettere il caso non significa per nulla negare le cause, ma negare la necessità di una consequenzialità fissata a priori. In realtà, l’indeterminismo non nega neppure la cogenza interna delle cause; esso teorizza soltanto che esse sono operanti linearmente (deterministicamente) non “sempre”, bensì “perlopiù”. “Linearità assoluta” significa invece che le cause dovrebbero ordinarsi sempre in modo univoco e necessitato a priori, in funzione di effetti altrettanto necessitati. Come vedremo meglio in seguito, l’indeterminismo si qualifica come una filosofia della causalità non meno del determinismo, ma se ne discosta teorizzando che le cause non sempre operano in linea, ma talvolta anche per incroci e sovrapposizioni. Il determinismo immagina la causalità come successione fenomenica in cui le singole cause procedono sempre in modo univoco su binari fissi e prestabiliti, mentre l’indeterminismo ammette intersezioni e sovrapposizioni delle cause.

    D’altra parte, relativamente al dogma della necessità cosmica, delle due l’una: o la fenomenicità afferente la realtà fisica comprende il caso, che si estrinseca nelle mutazioni non necessitate, oppure la necessità è assunta come principio pre-fenomenico, quindi come a priori metafisico. Se il determinismo non è esplicitamente teologico lo è comunque sempre intrinsecamente, poiché ogni teorizzazione della necessità assoluta porta al sottintendimento di un “disegno intelligente” e questo, di converso, implica sempre l’opera di una progettualità extra-fenomenica. Nessun determinismo può sfuggire al proprio configurarsi su di un fondale teologico, o quanto meno espone, in ogni caso, la tesi necessitaristica a molte interpretazioni teologiche con essa coerenti. Ne deriva che un ateismo deterministico va considerato, a nostro parere, un’inconsapevole contraddizione in termini, e in ogni caso portatrice di una weltanschauung  atea intrinsecamente debole ed equivoca.

    Tale debolezza concettuale afferisce anche l’ateismo democriteo, rendendo possibili affermazioni del tipo di quella resa da Cicerone, che ci fa pensare a un Democrito indovino in virtù del suo determinismo, poiché, non lo si dimentichi, soltanto se gli eventi sono “determinati” è possibile prevederli. Il romano infatti scrive in De divinatione (I, 3, 5): «Siccome . . .  in moltissimi passi delle sue opere l’illustre Democrito comprova la sua previsione di fatti futuri, Dicearco, filosofo peripatetico, ha privato d’ogni valore tutti gli altri generi di divinazione, a eccezione di quelle legate ai sogni e al furore.». Dunque, l’opera previsionale di Democrito poteva venire assimilata a quella degli indovini che si affidavano “ai sogni e al furore [divino]”! Ciò non toglie che la filosofia democritea, presa nel suo insieme, sia sicuramente atea; essa non possiede però la forza teorica dell’originario atomismo indeterministico leucippeo [18] al fine di poter contrastare validamente il determinismo eleata rifluito in Platone. L’atomismo materialistico democriteo con la sua ambiguità ha finito non solo per lasciare libero spazio all’idealismo platonico ed aristotelico (dal quale sono nati i panteismi filosofali stoico prima e neoplatonico poi) ma di contribuirvi col proprio necessitarismo, poiché esso reca in sé “costitutivamente” spiragli aperti alla teologia che raramente finiscono per non venire praticati. Un determinismo spiritualistico come quello Vedànta è sicuramente differente dal determinismo materialistico stoico o da quello naturalistico-geometrico di Spinoza, ma tutti e tre posseggono la base metafisica che li rende assimilabili in un’unica weltanschauung teologica.

    Non vorremmo tuttavia neppure dare l’impressione di non cogliere l’importanza storica assunta dall’atteggiamento scientifico deterministico, poiché esso, pur costituendo una maniera datata di guardare all’operatività scientifica, ha pur prodotto grandi risultati. E tuttavia, dopo l’avvento della meccanica quantistica e la pluri-decennale conferma della sua validità teorica, tale assunto è ancora accettabile? Noi riteniamo di no. Ma non così la pensava Einstein, che scriveva ne I fondamenti della fisica teorica nel 1940:

 

La scienza rappresenta il tentativo di far corrispondere la varietà caotica della nostra esperienza sensibile ad un sistema di pensiero logicamente uniforme. In questo sistema le singole esperienze vanno correlate alla struttura teorica in maniera tale che la coordinazione risultante sia unica e convincente. [19]      

 

La convinzione del grande Albert non era quindi solo metodologica, ma teorica, e ciò spiega le posizioni da lui assunte nel corso della sua vita nei confronti di ogni forma di indeterminismo. Egli appare per un verso come uno scienziato assolutamente rivoluzionario e per un altro come un metafisico conservatore, il cui pensiero si tiene ben legato a una teologia come quella di Spinoza). Tra la “varietà caotica della nostra esperienza” (il divenire fenomenico) e la realtà fondamentale dell’universo (il Dio-Natura) lo scienziato è pertanto quel “traduttore” privilegiato che in un’”apparenza” indeterministica coglie l’immutabile “sostanza” deterministica. Più avanti si legge:

 

D’altra parte, fin dall’inizio si sono avuti incessanti tentativi di trovare una base teorica unificatrice per tutte queste singole scienze [i vari rami della fisica], formata da un minimo di concetti e di relazioni fondamentali, da cui poter derivare, attraverso un processo logico, tutti i concetti e le relazioni delle singole discipline. Questo è quanto intendiamo per ricerca di un fondamento per tutta la fisica. La convinzione fiduciosa che questo obbiettivo finale possa essere raggiunto è la sorgente principale della dedizione appassionata che ha sempre animato il ricercatore. [20]  

 

Nel 1940 il ricercatore Einstein è fiducioso che l’obbiettivo verrà raggiunto:

 

Così è probabilmente fuori questione il fatto che ogni futura conoscenza possa costringere la fisica ad abbandonare di nuovo i nostri attuali fondamenti teorici statistici in favore di altri, deterministici, che si riferiscano direttamente alla realtà fisica. [21]

 

I nostri attuali fondamenti teorici statistici” (quelli della meccanica quantistica) sono pertanto provvisori e verranno sicuramente “superati” da altri, deterministici, prima o poi: questa la sua convinzione. Naturalmente non sta a noi giudicare se a sessantacinque anni da tale affermazione i post-einsteniani siano ancora così convinti che la meccanica quantistica sia inconsistente nei suoi fondamenti, oppure cominciano a pensare che essa sarà la porta stretta che spalancherà una nuova visione scientifica dell’universo, indeterministica (almeno “regionalmente”) e pluralistica (poiché l’indeterminazione esclude il monismo). Solo il futuro darà una risposta definitiva e i posteri verificheranno se il grande Einstein aveva ragione o se era soltanto abbarbicato a una teologia per lui irrinunciabile.  Una cosa è certa, nella disputa Bohr-Einstein il primo appare come un affannato scolaretto di genio che deve giustificare le proprie tesi di fronte al maestro dei maestri. Altri sostenitori dell’indeterminazione sub-atomica dopo di lui (Heisemberg, Born e altri) avranno miglior gioco e potranno addirittura permettersi qualche atteggiamento goliardico, ma il “peso” di Einstein contro l’ideterminismo quantistico è ancora in mezzo a noi, e folte schiere di scienziatì deterministi attendono il giorno in cui quel genio della fisica avrà la sua rivincita.

    Il determinismo è o non è. È difficile immaginarlo “attenuato” o “relativo”. È un principio filosofale forte da cui nascono la quasi totalità delle weltanschauungen note ed è principio-guida del pensiero scientifico soltanto in secondo battuta. A partire dagli anni trenta del secolo scorso i fautori del determinismo l’hanno visto sottoposto, prima dalla meccanica quantistica e poi dalla nuova biologia, a insulti teorici di non poco conto, tanto che vi è stato qualche goffo tentativo di attenuarne il rigore. Peraltro, prima del XX secolo i tentativi per metterlo in discussione avevano visto quali protagonisti soprattutto i difensori del libero arbitrio (perlopiù cattolici) ed i vitalisti. Sono note le posizioni anti-deterministe dei teorizzatori del vitalismo, derivando da ciò il fatto assai curioso che talvolta gli indeterministi vengano acriticamente identificati coi vitalisti. In realtà l’indeterminismo moderno in biologia è sostenuto proprio da anti-vitalisti come Jacques Monod, che è ateo e materialista. Né si vede quale rapporto potrebbe esistere tra una visione materialistica del vivente (o post-materialistica, come la nostra) rispetto a quelle vitalistiche, come quella di Teillard de Chardin o di Bergson, che sono fondamentalmente teologiche. 

 

 

                           

                       

 

                                 4.3 Il determinismo contemporaneo

 

    Il determinismo contemporaneo ha perso l’omogeneità e l’univocità di quello storico, poiché ha dovuto fare i conti dapprima con l’evoluzionismo (sia nella forma lamarckiana prima e darwiniana poi) e quindi con la meccanica quantistica e la biologia delle mutazioni genetiche, che hanno sufficientemente decretato la sua insostenibilità. Ma il determinismo, come tutte le posizioni dogmatiche irrinunciabili che nascono dalle cogenze della psiche, non può morire. Così per esso (come per la religione cristiana di fronte al progresso scientifico) vale la regola: flectar non frangar. Ne sono così nate ripetute modificazioni per cercare di salvarlo da se stesso, emendandone le posizioni più insostenibili e piegandolo alle esigenze scientifiche con posizioni sempre più flessibili, arrivando a delle relativizzazioni che sono quasi implicite negazioni. Ma, camaleonticamente, rimanendo la teologia della necessità un’intoccabile verità metafisica, essa si rinnova e si adatta alle nuove acquisizioni sulla realtà via via che la scienza procede. Nasce così quella sorta di contraddizione in termini che è il determinismo “evoluzionistico”, poiché di ciò che è pre-determinato dalla necessità si può dare soltanto ripetizione o trasformazione pre-progettata, ma nulla di evolutivo nel senso che qualcosa di “nuovo” possa accadere. Se la necessità è ineluttabile tutto “è già dato da sempre” e la struttura del cosmo non può che rimanere uguale a se stessa.     

    Il determinismo evoluzionistico è quindi un caso estremamente interessante di conciliazione degli inconciliabili, che si dà persino tra i sostenitori di una dottrina cristiana riformata e i materialisti incoerenti, i quali credono nel determinismo ma ne vedono bene sviluppi in senso evoluzionistico, ignorando con ciò l’indeterminismo di Darwin e quello ancora più radicale di suoi seguaci come Stephen Gould e Motoo Kimura. In generale l’ideologia cristiana tende a privilegiare posizioni fissiste, osteggiando in modo irriducibile l’evoluzionsmo sia nella sua versione originale che nei suoi sviluppi contemporanei, ma a latere di ciò e sempre più, anche se in modo sotterraneo, si sviluppano tesi che (sulle orme di Newton) vedono una sorta di “modulazione continua” della creazione da parte di un Dio. Così i teisti cristiani eterodossi filo-evoluzionisti e i presunti atei materialisti deterministi vedono le cose nello stesso identico modo, i primi credendo all’opera continua di una Volontà che dirige il cosmo e i secondi all’opera di una Necessità che realizza un metafisico “progetto intelligente” sottostante. Ma la Necessità “assoluta” finisce per rimanere sullo sfondo, per quanto “debba” continuare ad improntare e a pilotare il cosmo, identificandosi (ancora spinozianamente) col cosmo stesso, ma in modo nuovo, dando l’immagine di un cosmo auto-generantesi (un Dio-Necessità “aggiornato e corretto”). Non intendiamo affermare che i cibernetici olisti facciano della teologia esplicita, ma solamente rilevare che essi, inconsapevolmente, vengono a trovarsi allineati filosofalmente non soltanto con i panteisti e i panenteisti, ma anche con i teisti evoluzionisti che furbescamente mettono tra parentesi la Genesi.

    L’aspetto più evidente assunto dal cosiddetto determinismo evoluzionistico si dà nei seguaci della cibernetica, sia nei termini esposti dal suo fondatore, Norbert Wiener, sia in quelli dei suoi epigoni. Wiener sostiene l’assoluta corrispondenza del comportamento teleologico della materia vivente (evidente) con quello della materia inorganica (nascosto). Egli ritiene che il finalismo presente negli organismi viventi, che si evolvono verso forme di vita sempre più complesse possa trovare corrispondenza in macchine adeguatamente progettate dall’uomo, capaci di autogovernarsi e di evolvere strutturalmente. Wiener pensa anche che nella realtà non esistano contesti separati (quelli che noi chiamiamo regioni del reale [22] ) ma che tutto sia integrato olisticamente in un’unità inscindibile, al punto che una medesima teoria possa spiegare il cosmo nella sua generalità, il funzionamento di un organismo vivente, quello dell’atomo e quello di una macchina intelligente costruita dall’uomo. I due concetti che stanno alla base di tale teoria sono da un lato il feedback (la retroazione negativa) e dall’altro quello di messaggio. Entrambi consentono di racchiudere in un unico modello evolutivo la tecnica comunicativa, la robotizzazione, la biologia, le scienze cognitive, la sociologia e l’economia. Siamo in pieno olismo “materialistico”, col quale il mondo è una gigantesca macchina perfetta e teleologica, che si muove verso il “migliore dei mondi possibili” in modo del tutto autonomo e senza bisogno di un creatore progettista

    Come osserva Pietro Greco [23] siamo di fronte a una “causalità circolare”, generata da un sistema generale autoregolantesi, costituito da sottosistemi che si autoregolano in modo analogo e che, attraverso azioni e retroazioni correlate e “pilotate”, sono in grado di auto-mutarsi al mutamento delle condizioni ambientali, evolvendo in modo da adattarvisi e adattare la proprie strutture. Si tratta di un vitalismo che si riallaccia alla teologia ilozoistica arcaica e ne correla la sostanza concettuale metafisica con una curiosa sostituzione della divinità del cosmo ilozoista e panteista con la “ciberneticità” necessitata. Il “Pilota” che inerisce la materia è un Dio-Evoluzione che fa le stesse cose del vecchio Dio-Necessiità, e che realizza, attraverso l’uomo, le sue eccelse virtualità solistiche, producendo così un antropocentrismo rinnovato. Ancora una volta uomini-microcosmi che si specchiano nel macrocosmo e lo ripetono, mentre la fenomenologia dell’Uno-Tutto richiude su se stesso il cerchio sacro della corrispondenza e dell’omogeneità.   

    Il successo della scienza del pilota, a partire dalla pubblicazione nel 1948 di Introduzione alla cibernetica, ha trovato riscontro al di qua dell’Atlantico nella posizione sostenuta da Albert Ducrocq. Questi, studioso di vasta cultura e buon divulgatore scientifico, con uno stile brillante e un buona capacità di sintesi, sviluppa le premesse di Wiener (senza peraltro citarlo mai!) e ne offre estensioni sia in fisica e astrofisica, sia in biochimica e biologia, con due opere fortunate dai titoli Il romanzo della materia (1963) e Il romanzo della vita (1966). Oggi i libri di Ducrocq, a parte il permanere di un suo vivissimo ricordo nel suo paese, la Francia (è deceduto nel 2001), non sono più stati ripubblicati in Italia, ma negli anni ’60, al loro apparire, ebbero un ottimo riscontro. Ci soffermeremo a lungo su di lui perché, in un certo senso, il suo pensiero costituisce un paradigma degli argomenti avanzati da molti deterministi evoluzionisti del XX secolo. Anche con lui abbiamo l’ennesima riedizione del principio in base al quale l’uomo non è altro che un universo in miniatura.  Si afferma fin nelle prime pagine de Il romanzo della materia: «Notavo allora che l’uomo “governa” se stesso, e oggi costruisce macchine capaci di autogovernarsi; ma prima della sua comparsa la Terra e l’Universo si autogovernarono … » [24] Più avanti si ribadisce: «Comprenderemo allora perché la materia diede origine ad associazioni sempre più evolute. Al principio della catena c’erano le particelle. All’altro capo troveremo la vita. Artefice di tutta questa evoluzione è la cibernetica.» [25] Il trasferimento all’universo dell’intelligenza dell’uomo attraverso le moderne macchine cibernetiche elude i termini ingenui dell’ilozoismo “macchinizzandolo”. Ciò fa pensare alla res extensa di Descartes  alla quale la res cogitans “suprema” dà il via all’atto della creazione ed essa prosegue, si sviluppa e si autogoverna.

    Naturalmente, come in tutti i determinismi, anche Ducrocq stigmatizza il caso e la sua inesistenza. L’esempio che egli porta contro di esso riguarda il fatto che gli ammassi di galassie si dispongano nel vuoto cosmico secondo “linee” determinate e non in modo casuale, il ché è assolutamente vero. Esse si presentano infatti come una sorta di “collane” o di filamenti che percorrono lo spazio vuoto secondo linee di aggregazione. Egli sottolinea questo “carattere gregario” degli ammassi per sostenere che se esistesse il caso non ci sarebbe nessuna ragione di esso. Ducrocq fa l’esempio classico del gioco della roulette per sostenere che in esso si dà caso perché gli eventi sono tra loro “privi di legame” [26], il ché è vero solo fino ad un certo punto, poiché la macchina rotante, le caselle e la pallina un legame ce l’hanno, e come! Al punto che si potrebbe immaginare non già un croupier fatto di carne e di ossa ma un lanciatore meccanico che mettendo in moto la roulette in un certo modo potrebbero rendere il gioco del tutto deterministico (col che, ovviamente, cadrebbe la sua funzione come strumento del gioco di azzardo).

    Si può sostenere che il gioco della roulette sia indeterministico unicamente perché un croupier non è in grado di coordinare la spinta alla rotazione né il lancio della pallina in modo predeterminato, non già che la macchina e la pallina di per se stesse non possano dar luogo a un esito “determinato”. Neppure l’altro “classico” della causalità, ovvero il gioco dei dadi, è basato su un indeterminismo strutturale. Ducrocq, a sostegno dell’ordine in cui si dispongono gli ammassi delle galassie, parla di “reazioni a catena” nella loro formazione, concetto corretto e in astrofisica frequente, sicché non possiamo che condividere la “determinazione” delle collane di ammassi. L’errore sta nel fatto che viene ignorato completamente l’”inizio” del processo (che è sempre casuale) e che le considerazioni partono sempre da una processualità già in corso per sottolinearne (correttamente) il determinismo ma riferendolo, scorrettamente, al processo nella sua totalità. Una reazione a catena è sempre deterministica, ma è lo scatenamento della reazione che non lo è. E non si tratta di porre un regressum ad infinitum, ma semplicemente di riconoscere che in tutti processi aggregativi “intorno” a un nucleo o “lungo” una linea di sviluppo c’è sempre un inizio indeterministico. 

    Ciò che Ducrocq si propone di combattere sono le estensioni indebite del concetto di entropia del tipo di quelle operate da Clausius, il quale aveva ipotizzato la “morte termica” dell’universo come generalizzazione del fenomeno. Il Nostro contesta anche, e abbastanza giustamente, l’utilizzo di esempi basati sulla fisica dei gas, in quanto essi costituiscono sì dei sistemi “anarchici”, ma non tutti i sistemi fisici si comportano come quelli gassosi. Generalizzare i loro fenomeni per Ducrocq significa fondare una tesi su una tautologia, poiché i gas rappresentano soltanto un caso limite e non la regola, mentre vi sono molti altri sistemi pilotati da campi gravitazionali od elettrici per cui la casualità va esclusa. Citando la celebre immagine del demonietto di Maxwell, che manovrando una saracinesca tra due recipienti lascia solo passare le molecole gassose che vuole lui, determinando entropia negativa, Ducrocq afferma che un comportamento selettivo simile l’opererebbe la gravitazione in sede cosmica, la quale non farebbe l’ipotetico lavoretto del piccolo demone di Maxwell, bensì un gigantesco lavoro da “fantastico leviatano”.

    Prosegue il Nostro: «In linea generale, il ragionamento antropico non ha più senso quando i componenti di un sistema cessano di essere isolati, e in particolare quando si manifestano le forze fondamentali: come avvenne nell’Universo fin dallo stadio della nebulosa primordiale, in cui le particelle si trovavano in condizioni profondamente diverse da quelle dei gas considerati alla scala dei recipienti terrestri. Data l’entità delle masse in gioco, la gravitazione funzionò da agente di concentrazione dirigendo l’idrogeno verso le regioni dove esso aveva già cominciato fortuitamente ad accumularsi. La disimmetria che in certe regioni noi designiamo col nome di ordine cessava a questo punto di essere un “caso”: diventava lo stato verso cui il sistema doveva tendere, senza che la probabilità c’entrasse per nulla, dato che l’evoluzione dl sistema stesso non era più casuale ma determinata[27]  Notiamo che si delinea una tesi deterministica lasciandosi sfuggire il fatto che all’origine di una determinazione stia un’indeterminazione; quella dell’idrogeno, che in certe regioni, “aveva già cominciato fortuitamente ad accumularsi”: processo deterministico che ha avuto quindi origine da uno indeterministico. Non è tutto: radicalizzando un fenomeno specifico come quello gravitazionale, che è per definizione generatore d’ordine, il nostro cibernetico compie un’operazione altrettanto “tautologica” di chi radicalizza e generalizza i fenomeni gassosi.    

    Il concetto-base di Ducrocq è quello di “retroazione positiva”, in base al quale l’effetto stimola la causa attraverso il feed-back e il tutto si auto-organizza in un sistema perfettamente efficiente e ordinato che esclude ogni casualità. Si afferma ancora a proposito della formazione di stelle e galassie: «Tutte le regole della casualità sono sconvolte. Il movimento si alimenta da sé con crescente vigore. L’evoluzione è inevitabile. Un processo, una volta avviato – nel nostro caso una contrazione incipiente [quella di una stella] non può fare altro che svilupparsi, se le condizioni restano le stesse.» [28]  Il concetto di “struttura” deterministica emerge poi nella seguente dichiarazione: «Ora, in una logica delle strutture, la retroazione positiva appare come il processo evolutivo fondamentale, poiché essa derivala propria origine dal sistema stesso che funziona in corto circuito.» [29] Affermazione del tutto gratuita, poiché, come egli stesso ha affermato poco prima, «ogni idea d’ordine e di disordine è relativa», non si può quindi affermare che le stelle e le galassie rappresentino “un ordine” quando quest’ordine si rompe periodicamente in esplosioni catastrofiche, cannibalizzazioni, mutamenti d’orbita e di stato determinati da un coacervo di cause non solo a noi ignote ma intrinsecamente casuali. Altro obbiettivo di Ducrocq sembra quello di depotenziare alla base ogni concetto di “mutazione casuale”, là dove afferma: «In pratica viene il momento in cui il processo non può proseguire perché il suo sviluppo ha mutato le basi stesse del problema. Questa è la duplice constatazione che dobbiamo tener presente: da un lato una retroazione positiva è generatrice di organizzazione, dall’altro la sua stessa natura le impedisce di “arrestarsi da sola”. Vale a dire, in via molto generale, che un processo di retroazione positiva sfocia in una “mutazione”». [30] Per Ducrocq quindi la mutazione è “necessitata” e l’evoluzione della materia “già data” alla sua nascita.  

    Per chiudere il cerchio deterministico così disegnato in Nostro introduce poi la “retroazione negativa”, che garantisce l’equilibrio raggiunto da quella “positiva” attraverso un processo di stabilizzazione dell’ordine raggiunto. Mentre la retroazione positiva è generatrice evolutiva, quella negativa opera la stabilizzazione attraverso un provvidenziale “blocco” dell’evoluzione, che proseguendo porterebbe disgregazione. Ducrocq ci dice così che l’evoluzione negativa, opponendosi ad ogni variazione fortuita opera un “congelamento” del traguardo raggiunto, che nel caso delle stelle è costituito da una certa grandezza. Né poteva mancare il richiamo a Platone, che nel Gorgia e nel Politico aveva posto l’arte umana della cibernetica che il Nostro vede quale proprietà dell’universo nella sua unità-totalità che egli chiama senza alcun indugio “cibernetica naturale”: «Perché la cibernetica, come ora comprendiamo, domina l’universo: e non attese l’uomo per esistere e organizzare il cosmo grazie a una serie di effetti naturali[31] . Egli può così concludere: «In verità la cibernetica andava situata non già fra le scienze e le tecniche classiche, ma al disopra, poiché lasciava intravedere una teoria generale, considerante “tutti i tipi di rapporti”  possibili fra gli elementi di un sistema, quale che sia il loro numero e la loro natura: mentre l’ambito della termodinamica classica è limitata al caso particolare di elementi molto numerosi e molto piccoli, le cui evoluzioni non subiscono l’influenza di alcun campo.» [32]. 

    I campi quindi, o forze, sarebbero operatori intelligenti che “pilotano” l’evoluzione verso un ordine sistemico che rende possibile la “logica generale dei sistemi”. Ma mentre per i sistemi sprovvisti di determinazione interna (ad esempio quelli gassosi) vale il secondo principio della termodinamica, questo non varrebbe per l’universo, sistema “organizzato” dove «la nozione di entropia non ha senso[33]  Si aggiunge poco oltre: «Una volta apparsi dei sistemi primari, le loro strutture potranno suscitarne altre; essi funzioneranno come delle macchine.» Ne deriva una straordinaria “lezione” olistica per cui : «La lezione va meditata: l’indipendenza totale è illusoria, poiché l’evento puramente casuale è una finzione. Oggi i fisici sanno che in realtà il caso perfetto non  esiste in un mondo in cui un’analisi attenta mette in luce innumerevoli correlazioni, grazie alle quali nell’universo tutto agisce su tutto. » [34]  Ducrocq lancia dunque la sua sfida teorica: «In sede cosmica, una deteminazione sempre più strutturata mediante retroazioni a catena sarà infatti la LEGGE NATURALE per eccellenza, perché la retroazione positiva è il “progresso” che mette capo a nuove strutture. E la difesa di queste sarà assicurata dalle retroazioni negative, che preannunciano la stabilità di futuri ambienti interni. I sistemi si eleveranno nella gerarchia degli effetti, mentre ristagno e decadenza debbono essere considerati appannaggio di una materia abbandonata[35]  Si notino i concetti di “gerarchia degli effetti” e di “abbandono” che non possono che richiamare la teologia platonica.

     Il saggio di Ducrocq si sviluppa per altre centosessanta pagine con competenza ed acutezza, e la ricchezza di dati, diagrammi, scale, elenchi e schemi porta a una girandola di numeri che paiono rafforzare la tesi dello scrivente. E naturalmente non poteva neppure mancare la “magia” dei numeri di pitagorico-platonica memoria poiché: «Già in seno alle stelle avevamo fatto conoscenza con dei numeri magici, che nei crogioli stellari favorirono la formazione di determinati nuclei.» Né poteva mancare il puntuale riferimento alle splendide architetture dei cristalli a compimento di una teoria della perfezione cosmica e del suo rigoroso determinismo che ha il solo difetto di non prendere in considerazione ciò che perfetto “non è” e nuota caoticamente nel più assoluto indeterminismo.

    Ovviamente con ogni buon determinismo, e tanto più se vagamente matematico-platonico, appare, dulcis in fundo, il riferimento alle “forme perfette”. Così nell’ultima sezione del capitolo X, dal già significativo titolo Verso la forma e il numero, l’autore recita: «La natura diventa architetto. L’atomo non è un fagotto informe [bontà sua!], ma un insieme strutturato. La meccanica delle particelle ha governato il cielo: sulla Terra, per mezzo dell’atomo, essa introduce l’aritmetica della materia.» [36] Ora, che la struttura degli atomi sia matematica è fuori discussione (una mera tautologia), poiché l’atomo “deve” essere matematico per esistere. Il problema è se esista l’atomo perché esista una “struttura” aprioristica della materia che lo determina o se sia l’esistenza dell’atomo che ha determinato “per il proprio esistere” la sua struttura matematizzabile. Il fatto che esista la scala di Mendeleev, fatta di caselle relative al numero atomico, che posizionano in un certo ordine tutti gli elementi, non significa che prima sia esistita la scala e poi gli elementi, ma semmai che gli atomi si dispongono secondo una scala discreta per “numeri interi”. La scala, che non è un “continuum”, non fa altro che disporre una pluralità di discreti secondo “leggi di esistenza”, le quali escludono che un atomo stabile possa esistere se le cariche totali degli adroni (protoni e neutroni) interne al nucleo non sono equilibrate da quelle dei leptoni (elettroni) che gli stanno intorno.

 

 

 

 

                   4.5 Un dibattito su determinismo e indeterminismo

 

    Per molti versi l’importanza del determinismo risulta maggiore di quella del monismo stesso, che ne è il suo generatore principale, al punto che questo viene oggi molto spesso lasciato sullo sfondo, avendo ceduto il testimone a quello nella battaglia per la sua affermazione, in quanto mezzo concettuale più adeguato per combattere il pluralismo e il suo correlato inseparabile, l’indeterminismo. Da ciò è nata una divaricazione teorica profonda ma dalle numerose articolazioni, mostrando talora un fronte anti-deterministico assai sfaccettato e non privo di ambiguità, che può posizionare vitalisti e strutturalisti accanto ai veri indeterministi. 

    A tale proposito è piuttosto interessante il dibattito sviluppatosi sull’argomento in ambito francofono all’inizio degli anni ’80, ripreso dal libro Sul determinismo (pubblicato nel 1990) [37]. Daremo ampio spazio a questo confronto poiché ci pare che renda assai bene le varie sfumature dell’opposizione determinismo/indeterminismo nell’ultimo quarto del secolo appena trascorso. Il libro è curato da Krzysztof Pomian, autore dell’introduzione, e contiene numerosi interventi di autorevoli studiosi coinvolti nella diatriba. Essa vede, da un lato, un gruppo piuttosto compatto di deterministi (tra i quali spicca René Thom [38]) e dall’altra gli indeterministi (in evidenza Prigogine, Atlan, Morin e Danchin) in ordine sparso e spesso su posizioni assai differenti; più alcuni “neutrali” tendenzialmente deterministi (come Ruelle). Si tratta di personaggi di spicco anche in campo internazionale e portatori di tesi ben evidenziate nel dibattito caso/necessità; questa la ragione per cui abbiamo ritenuto di poter assumere il contenuto del libro come modello del dibattito tuttora in corso. Ovviamente dovremo limitarci alle posizioni più significative dell’uno e dell’altro campo rispetto al nostro tema e ciò ci porterà, ad esempio, a lasciare in ombra uno studioso interessante come Prigogine, quantunque egli sia uno dei più noti anti-deterministi. 

    Renè Thom si pone come anfitrione del dibattito e fa la parte del leone con ben tre articoli (due, rispettivamente all’inizio e alla fine della prima parte del libro, ed uno in chiusura della seconda parte) a testimonianza del peso che ha questo bellicoso determinista filo-platonico (come d’altra parte molti matematici) che si rifà esplicitamente a Laplace. Il suo articolo di apertura del libro (e cronologicamente anticipatore del dibattito) è bellicoso già nel titolo (Basta con il caso, taccia il rumore) ma anche il testo che ne segue non delude chi ami le posizioni “forti”. Thom comincia col chiamare le posizioni indeterministiche dei suoi oppositori col nome di “epistemologia popolare francese” (in riferimento a Monod quale capostipite “storico”) e prosegue dichiarando: «Ebbene, per quanto differenti e talora persino opposte le filosofie ad esse [le opere degli indeterministi che cita] sottese, curiosamente denunciano almeno un tratto comune: tutte glorificano oltraggiosamente il caso, il rumore, la “fluttuazione; tutte rendono l’aleatorio responsabile sia dell’organizzazione del mondo (attraverso le “strutture dissipative”, secondo Prigogine), sia dell’emersione della vita e del pensiero sulla terra (attraverso le sintesi e le mutazioni accidentali dl DNA, secondo Monod)» [39].

    Il nostro determinista ha le idee chiare e dopo aver stigmatizzato il clinamen lucreziano dichiara: «Vorrei subito dire che la fascinazione dell’aleatorio è sintomo di un’attitudine antiscientifica per eccellenza, tanto più che – in larga misura – procede da una sorta di propensione al confusionismo […] ». Più avanti Thom se la prende col darwinismo (di cui sarebbe tributario Monod) specialmente nella versione “neodarwiniana”, accusandolo di essere il vero responsabile dell’introduzione illegittima del caso in ambito scientifico. Ciò ci conferma nella nostra opinione che i fissisti, gli pseudo-fissisti o i cripto-fissiti (siano essi seguaci del Dio-Volontà o del Dio Necessità) non riescono a tollerare alcuna teoria che neghi la creazione o la necessità, l’atto volitivo o il progetto “intelligente” immanente.

    Il battagliero Thom ritorna con In guisa di conclusione (a chiusura del Dibattito, relativo alla prima parte del libro) dichiarando: «Una banalità: per il fatto stesso di puntare alla costituzione di un sapere comune la scienza è deterministica. Lo si voglia o meno, proprio perché tende a suscitare in tutti gli osservatori la medesima reazione mentale di fronte a un medesimo dato scientifico – fatto o teoria – la scienza è un impresa dogmatica. Ogni modello è “deterministico” in quanto vuole dirci qualche cosa, specificare e determinare in qualche modo la nostra conoscenza[40]. Dunque, secondo Thom, la scienza è “impresa dogmatica” e senza dogmi non si può fare scienza, il che è in gran parte vero per la matematica, che è perlopiù fondata su assiomi, ma farne una generalizzazione è del tutto errato. Per fortuna che non la pensavano così i fisici che nella prima metà del secolo XX impegnati a scoprire i comportamenti della materia elementare, altrimenti è assai probabile che di fronte all’indeterminazione di essa avrebbero subito abbandonato l’impresa. Altra opinione del Nostro è che la statistica sia null’altro che un’ermeneutica deterministica e a tale affermazione se ne associa un’altra dove si ripropone, inopinatamente, il lamarckismo contro il darwinismo affermando: «In parole povere la mia obiezione alla visione darwiniana consiste nel fatto che essa focalizza l’attenzione sui meccanismi di variazione del genoma […] a detrimento di una valutazione dell’adattabilità (fitness) dell’organismo.».

    Thom quindi sembra ammettere l’evoluzione, in ciò contraddicendo il suo platonismo (che non può essere, ovviamente, che fissista), ma la vede come un processo auto-organizzativo non molto differente da quello sostenuto da Maturana e Varela o da Stuart Kauffman (ben noti vitalisti del momento). Paradossalmente la sua opposizione a un Prigogine, per esempio, siccome viene sviluppata utilizzando tesi anti-darwinistiche, finisce quasi per produrre una riconciliazione di fondo col vitalismo stesso, attraverso una sorta di palingenesi para-platonica (per esigenze matematiche, ovviamente!) del lamarckismo. Non già che il lamarckismo sia del tutto da buttare (anche Konrad Lorenz, cui abbiamo fatto più volte riferimento [41], è un poco lamarckista), ma l’utilizzo in funzione anti-darwiniana (e quindi anti-caso) che ne fa Thom evidenzia come per lui tutto va bene purché combatta l’indeterminismo. Rimarrebbe da chiedergli se non ritenga, per esempio, che l’insorgenza del cancro non sia il frutto di una mutazione genetica casuale, ma invece l’esito di un determinismo biologico . . .  un poco “deviato”!   

    Tra le repliche oppositive a Thom ci paiono di particolare rilievo quelle di Edgar Morin, di Henry Atlan e di Stefan Amsterdamski.  Morin nota: «Thom non ha fatto mistero del proprio platonismo. All’opposto, mi sembra realistico credere che il reale superi per ricchezza e complessità il formale e il razionale. Rinunciare al determinismo ontologico equivale ad aprirsi all’idea che la nostra logica, pur necessaria, è insufficiente a concepire la ricchezza del reale.» Occorre dire che la sua percezione della complessità (ricchezza) della realtà è certo più razionale di chi pretende di chiuderla in uno schema idealistico onnicomprensivo. Quale razionalità si può riconoscere ad un atteggiamento dogmatico che pretende di stabilire a priori che la realtà deve obbedire a una verità insita nell’asserto “senza determinismo non si dà scienza”? Quale scienza sarebbe possibile quando si prescindesse dall’osservazione e si negasse realtà ad ogni datità non avvalorante il determinismo? Sarebbe come “selezionare” i dati a partire dalla rispondenza o meno ad un dogma: un atteggiamento di patente “irrazionalità” fideistica. Poiché proprio di “fede” si tratta laddove si chiudano gli occhi per non scorgere il caso all’opera nell’indeterminare la posizione dell’elettrone in orbita intorno al nucleo o ci si tappi le orecchie per non udire il “rumore di fondo” dell’indeterminazione cosmica. Un “universo determinato” come lo potevano concepire Descartes, Newton, Leibniz, Spinoza e più tardi Laplace è quindi ancora ammissibile, all’alba del XXI secolo, per gli irriducibili del Dio-Necessità.

    Prosegue Morin: «La ricchezza affascinante, il vero oggetto della conoscenza scientifica, è la relazione (o le relazioni) ordine/disordine, caso/necessità; è la realtà della loro opposizione e la necessità del loro collegamento[42]  Viene qui ben colta la realtà, costituita strutturalmente (e non solo fenomenicamente) da un coacervo di contraddizioni, che implicano la semplicità e la complessità, l’ordine e il disordine, la pre-determinazione e la causalità. Morin propone poi un concetto di “fluttuazione” indeterministica: «Così, nel fenomeno di fluttuazione che dà il via alla comparsa di una nuova struttura, non c’è gerarchia, in un senso come nell’altro, fra la “dinamica deterministica soggiacente” che modella “la statistica delle fluttuazioni” e la “fluttuazione scatenante”. È piuttosto la complementarità di due realtà di ordine differente a indurre l’indispensabile apparizione di forme, organizzazioni, nuove strutture: ad esempio la comparsa di un mutante che fonderà una nuova specie[43]  Morin pensa ad un legame morfogenetico “ad anello” col quale, a turno, ordine e disordine, necessità e caso, costituisco la partenza e l’arrivo di un processo infinito di rigenerazione e nello stesso tempo di conservazione della realtà, poiché: « […] l’innovazione – che comporta un aspetto aleatorio – suscitando la formazione di una struttura/forma stabile, è destinata a inscriversi nella ripetizione, cioè in un ordine organizzativo che avrà al contempo modificato e mantenuto.» [44].  Si tratta della stessa tesi di Monod ripresa con un approccio ontologico che contempla l’alternarsi di modalità della casualità e della necessità nella determinazione del reale. Da ciò una “scienza nuova” dalle prospettive euristiche imprevedibili e che rimette l’ordine e la necessità ai “posti ontologici” che spettano loro, poiché «è quella che lavora e negozia con l’aleatorio, l’incerto, l’impreciso, l’indeterminato, il complesso.» [45]

    E poi un’osservazione da manuale: «Eppure ciascuno di noi è un sopravvissuto casuale di una eiaculazione di centottanta milioni di spermatozoi; ciascuno di noi è il frutto dell’incontro, forse probabile, forse estremamente improbabile, fra due genitori; ciascuno di noi è il risultato di una combinazione/lotteria nella fusione di due patrimoni genetici; ciascuno di noi reca nel proprio essere l’impronta di avvenimenti, necessari ma anche aleatori, della prima infanzia.» [46]  Nell’avvio alla conclusione del suo intervento Morin rileva acutamente: «Thom, fedele a una concezione semplicistica del procedere della conoscenza, ritiene che questa s’accresca di luci dissipando le ombre. Ora, noi dobbiamo vedere ciò che lo stesso prodigioso sviluppo della conoscenza scientifica ci addita: che questo straordinario incremento di conoscenza è in pari tempo altrettanto eccezionale progresso dell’ignoranza; risolve gli enigmi ma rivela i misteri. Più intenso si fa il chiarore, più greve è l’ombra. Si ha progresso autentico quando la conoscenza prende consapevolezza della mancanza che reca con sé: si tratta allora di un’ignoranza cosciente di se stessa e non della superba incompetenza dell’idealismo deterministico, convinto che un’equazione suprema illuminerà l’universo e dissiperà il mistero.» [47]

    Henry Atlan interviene con una considerazione quasi ovvia, ma che vale la pena citare: «Ammettere un determinismo causale assoluto di tutto ciò che diviene nell’universo, tale che solamente la nostra ignoranza ci impedisce di percepirlo e di descriverlo, e tale che ogni fenomeno può essere previsto a partire dalle leggi causali riconosciute oppure – a buon diritto, finché dura la nostra ignoranza – da determinazioni per il momento nascoste ma non per questo meno rigorose, equivale a negare la possibilità di esistenza del “nuovo”. È che il nuovo può sopravvivere esattamente nella misura in cui non poteva essere previsto. Se il caso, incontro imprevedibile di serie causali indipendenti, è pura illusione dovuta alla nostra ignoranza di un determinismo nascosto, allora è un’illusione anche la possibilità del nuovo, la realtà stessa del tempo come portatore di un avvenire imprevisto. Di conseguenza la fede nell’esistenza di un Grande orologiaio, per il quale il tempo non è che lo sviluppo di una serie di cause e di effetti già presenti nelle leggi che lo reggono, verrebbe a rimpiazzare la nostra esperienza del nuovo e dell’imprevisto.» [48]  Già, la “fede”, poiché proprio di questo si tratta: i deterministi, a dispetto della presenza flagrante del caso, si arrovellano e si arrampicano sugli specchi per dimostrare che esso non esiste, cioè che la causalità è sempre rigorosamente univoca e “lineare”, non ammettendo differenziazioni, sovrapposizioni, intersezioni, intrecci. Questa visione della realtà acquista i connotati di una vera religione del “determinato” afferente un cosmo-automa immutabile. Un “determinato” che non a caso ricorda la reminiscenza platonica del “già saputo”, i cui modelli eterni sono già divinamente forniti  dal Demiurgo una volta per tutte e giacenti nel fantastico Mondo Iperuranio.

    L’articolo di David Ruelle rivela, a nostro parere, una visione del rapporto caso/necessità abbastanza ambiguo, come d’altra parte è dato rilevare anche nella sua opera più importante, il saggio Caso e caos, pubblicato nel ’91. Sul piano ontologico si nega il caso, ma lo si ammette sul piano esistenziale della “condizione umana”. Egli scrive: «Nel mondo in cui viviamo il fortuito e il necessario si incontrano fianco a fianco, l’imprevedibile va insieme al prevedibile. In un mondo siffatto la condizione umana non mi sembra intollerabile; anzi, tentare di migliorarla immaginando di poter piegare i cucchiaini con la forza del pensiero mi pare futile e meschino. La vita dell’uomo è formata da una moltitudine di eventi felici e infelici, molti derivanti da una necessità più o meno evidente, molti altri dovuti al “caso”. Ciò significa almeno che, per quanto ci riguarda, tali fatti sono in partenza fortuiti e senza significato, erano per noi imprevedibili e senza dubbio non esprimono né la benevolenza di una fata né la collera di un genio malefico. Che in partenza un certo evento – si tratti di un incontro, di una lettura o della morte di un amico – non abbia un senso, non significa che non ne assuma uno per noi, grande o piccolo. Se vi è una dignità nella nostra esistenza, essa nasce in fin dei conti dalla nostra decisione di attribuire questo o quel significato ai fatti fortuiti che ci assalgono[49]  Ruelle coglie l’importanza della casualità nell’esistenza dell’uomo proprio in quanto scandalosa, perché frustra ogni capacità di accedere razionalmente al reale e quindi di dominarlo. La casualità dà scacco alla nostra capacità di leggere la realtà e di dominarla attraverso la previsione degli accadimenti; ma questa “sottrazione” può trasformarsi in un “acquisto” se sullo sfondo del “non senso” del casuale intravediamo il senso del nostro esistere “malgrado” il non-senso. E questo avviene con la realizzazione di ciò che il non-senso ci rilascia e che noi (con una sorta di neghentropia esistenziale) trasformiamo in sentimento o in opere d’arte, o più pragmaticamente in conoscenza e tecnologia. È dunque l’intuizione e la creatività umana che danno senso al mondo e non viceversa, poiché il concetto di “senso” è roba nostra mentre l’universo non mostra alcun senso. Esso semplicemente “è”, in quanto diviene incessantemente a dispetto di tutti gli ontologi idealisti che lo vorrebbero statico e determinato.  

    Ivar Ekeland ritiene che il problema del caso sia riferibile a due interpretazioni scientifiche riducibili a modelli matematici, la prima riguardante i fenomeni descritti dal calcolo delle probabilità, di cui il lancio dei dadi è un esempio canonico. E ha ragione, esso è un gioco deterministico e noi riteniamo che tutti i termini derivati da alea siano impropri. Basterebbe costruire un dado perfetto e studiare un lanciatore meccanico altrettanto perfetto per riuscire con buona probabilità a far uscire ogni volta il numero voluto. Ekeland nota giustamente che il caso dei dadi è un caso “per ignoranza” e non un “caso in sé”, aggiungendo: «Per incontrare il puro caso conviene far ricorso alla meccanica quantistica, la quale associa ad ogni particella una funzione d’onda tale da permettere il caso di una probabilità di presenza in una regione data ad un momento dato. Tutti i tentativi condotti dagli inizi della meccanica quantistica – si ricordi in particolare la lunga diatriba tra Bohr e Einstein – per salvaguardare la possibilità che si tratti di un caso per ignoranza, dunque di un determinismo nascosto, sono andati finora falliti. Sembra quindi che ci troviamo al cospetto di un caso in sé, e che la meccanica quantistica non ammetta di essere ridotta a modelli differenti da quelli probabilistici.» [50] Osserva ancora Ekeland che l’equazione differenziale di Schrödinger permette sì un calcolo rigoroso riportando il comportamento della particella in ambito deterministico, ma: «[con essa] Si è semplicemente resa più complessa la descrizione dell’oggetto fisico, d’ora innanzi rappresentata da un funzione nello spazio di fase e non più da un punto di quest’ultimo. La teoria delle probabilità, e con essa il caso, sono stati perciò rimossi dal funzionamento interno del modello; li si ritroverà solamente al livello dell’interpretazione quando però si voglia tradurre la funzione d’onda in termini di probabilità di presenza, secondo un esperimento macroscopico. Ma fin tanto che tale verifica sperimentale non sia effettuata, la funzione d’onda evolverà seguendo l’equazione di Schrödinger, in modo puramente deterministico[51] 

    Con l’equazione di Schrödinger il caso è stato eliminato o è stato solamente “addomesticato” a fini previsionali e di calcolo? Ekeland precisa: «I teorici della meccanica quantistica sono dunque riusciti a confinare il caso in una sfera ristretta e ben delimitata: l’interazione con un osservatore macroscopico. Ma chi si avventura in questo territorio non è più disarmato: l’interpretazione della funzione d’onda in ragione della probabilità di presenza è un postulato scientifico costantemente confermato dall’esperienza e consente previsioni talmente precise che non si è poi troppo distanti dal più stretto determinismo.» [52]   Ci troviamo infatti di fronte a una sorta di “trucco probabilistico”; il modello funziona non sulla singola particella ma nell’osservazione di “molte particelle”, le cui fluttuazioni si compensano sino a confermare il “modello” deterministico matematico. Si tratta, prosegue Ekeland, di un “semplice effetto statistico”, poiché è solo nell’nsieme che “le fluttuazioni aleatorie delle singole particelle si compensano, e tanto più quanto più sono numerose.” [53] Il nostro modello diventa quindi deterministico solo attraverso un processo osservativo di “compensazione”, mentre rimane il fatto che una singola particella ha un comportamento indeterministico e nulla ci autorizza a costruire artificialmente un “insieme” per farlo comportare deterministicamente a nostra volontà.

    Conclude il Nostro: «Ma pur trattandosi di una sola particella e di una sola funzione ‘onda, la conoscenza di quest’ultima – e dunque della probabilità di presenza – restringe considerevolmente il campo delle possibilità; non si cercherà la particella in ragioni ove la probabilità di presenza è troppo bassa[54]  Proprio il fatto che la particella stia del tutto “indeterministicamente” un po’ in un luogo e un po’ in un altro, o meglio, poco in un luogo e molto in un altro (ma perché mai se c’è determinismo?), toglie senso al fatto stesso di aver imbrigliato la casualità del suo esistere a comportarsi in un matematico “modello probabilistico”. Ekeland passa quindi ad esaminare la seconda interpretazione scientifica del caso, quella che lo vede come “intersezione di due serie causali indipendenti”. E precisa: «La forma moderna assunta da questa concezione del caso consiste nella nozione di “rumore”. L’interesse si appunta su di una serie causale secondaria, indipendente dalla primaria in quanto situata a una scala di molto inferiore rispetto a quella. Alla scala della serie causale principale non è possibile distinguere la secondaria, il cui risultato si manifesterà in un rumore imprevedibile, determinante forse per l’esito della serie principale: il cono in equilibrio instabile sulla punta, che osserviamo con inquietudine non sapendo da che parte cadrà.» [55]

    La distinzione ci pare corretta: il modello “cono in equilibrio” è indeterministico soltanto se esiste una seconda causalità indipendente dal sistema “cono in equilibrio su un piano dato”, per esempio un colpo di vento o un terremoto, “non prevedibili” ed “estranei” al sistema dato. La causalità primaria costituita dalle variabili a) cono sulla punta e b) terreno di appoggio può essere del tutto “determinata” quale condizione iniziale, ed in base ad essa quindi potrà essere del tutto “prevedibile” da quale parte il cono cadrà. Ma Ekeland rileva che relativamente a questa seconda interpretazione del “caso” (ma che secondo noi è proprio un “non-caso”) si tratta di un caso “per ignoranza” e non un caso “in sé”. Se ne trae l’ovvia conclusione che anche in questo seconda opzione interpretativa (apparentemente più indeterministica) non c’è caso autentico. Si aggiunge: «Andando più in profondità la nozione stessa di serie casuali indipendenti è priva di senso fisico: l’unico sistema cui sono applicabili le leggi della fisica è il sistema del mondo, cosicché, se una suddivisione in due sottosistemi fa apparire ciò che sembra appartenente al caso, questo dipende dalla suddivisione stessa, responsabile di aver occultato il soggiacente determinismo[56]. Ecco riapparire il monismo ontologico che dogmatizza l’esistenza di un universo omogeneo e continuo privo di sottosistemi che producano “rumore” nella meravigliosa melodia deterministica dell’universo. Un universo “perfetto” dunque, retto da leggi altrettanto perfette, sì che il fatto di non scorgere il “soggiacente determinismo” è solo frutto di ignoranza. Ekeland in tal modo liquida la questione ontologica e ammette il caso solo in termini esistenziali (come più o meno fa Ruelle), quale “constatazione” umana di un certo “apparire del mondo” che non corrisponde al suo “essere”. Il caso, secondo lui, esiste soltanto in un “interfaccia” [57] tra la coscienza umana e una realtà fisica deterministica.

    La “fede” deterministica è l’oggetto di alcune interessanti considerazioni di Stefan Amsterdamski, che in opposizione a Thom osserva: «È vero che l’indeterminismo proclama l’”ignorabimus”? Non necessariamente, poiché non è costretto a dire che esiste una necessità da noi indisvelabile; afferma semplicemente che essa non esiste, talché non c’è nulla da scoprire. E la razionalità scientifica non sta davvero nell’andare alla ricerca di ciò che non esiste. Per incolparne l’indeterminismo occorre preliminarmente nutrire ogni certezza nella validità universale del principio deterministico.» [58]  Dopo aver osservato che “la razionalità scientifica può concernere sia il determinismo che l’indeterminismo” [59] Amsterdamski fa un’importante distinzione tra determinismo “globale” e determinismo “locale”: «Nella sua arringa in favore del determinismo René Thom trascura la differenza appena menzionata; se talora si riferisce evidentemente al determinismo globale (il caso non esiste o la necessità della comparsa della vita e del pensiero), talaltra le sue riflessioni attengono al determinismo locale (le osservazioni su “isole”, strutture stabili, variabili nascoste e così via). Mi pare tuttavia incredibile che non si accorga della differenza fra le due tesi, onde se ne conclude che non la ritiene importante. Perché?» [60].

    Aggiunge il Nostro poco oltre: «Personalmente non sono sicuro di capire bene la posizione di René Thom, o meglio, non sono sicuro che la mia interpretazione sia quella buona, ma non ce n’è altre che evitino di inchiodarlo a palesi errori di ragionamento. Ora, se questa spiegazione è corretta, ci troviamo di fronte a un tentativo veramente originale di giustificare il determinismo facendo leva non già sulle teorie delle scienze empiriche, bensì su un ragionamento matematico e astratto inteso a stabilire le possibili forme di tutti i processi naturali e dunque la forma delle teorie da costruire. Si comprende – forse – così l’atteggiamento di Thom nei confronti del metodo sperimentale, da lui accusato di andar privo di teorizzazione preliminare dei fenomeni oggetto di studio; anzi, inutile persino rimproverare agli sperimentatori le verifiche condotte alla cieca e senza aver tenuto nel debito conto le teorie in vigore, cosa d’altronde indispensabile stante che una “sperimentazione pura” semplicemente non esiste. A sentire Thom, la teorizzazione di cui la scienza manca sarebbe allora – qui è il nocciolo della questione – una teorizzazione in termini di teoria matematica: l’incarnazione della razionalità. Nondimeno, la concezione platonizzante dello statuto delle matematiche in generale e la credenza in un’applicabilità universale della teoria delle catastrofi in particolare, restano ambedue problematiche. »  [61]

 

 

 

 

                  4.5 Auto-organizzazione deterministica della materia

 

    In questo paragrafo intendiamo trattare l’argomento da un’altra angolazione. Noi pensiamo che il determinismo, non meno del monismo, più che un punto di vista sia una “pulsione” che può assumere innumerevoli forme, caratterizzate tutte dalla negazione del caso, considerato un abominio concettuale. Superfluo aggiungere che tale pulsione può avere soltanto base teologica e non cognitiva, ma ancor più stupefacente che possa venire ammantata persino di ateismo, venendo a costituirsi come uno dei paradossi della religiosità criptica che si muta in anti-religione (e spesso delle più feroci) esprimendosi come negazione del Dio-Volontà e contemporanea affermazione del Dio-Necessità camuffato da Non-Dio. Come è già stato rilevato sono fiorite nella seconda metà del XX secolo molte teorie volte a conciliare l’evoluzionismo col determinismo, ponendo l’evoluzione come “realizzazione necessaria” di un progetto sottostante la materia. Per questa ragione occorreva porre il concetto di “struttura” a priori, mutuandolo spesso dalla linguistica, dove suoni e significati si prestano ad essere concepiti come afferenti una struttura “a priori” e quindi “innata” nella mente umana. Ma, se pure il linguaggio si presenta come fortemente strutturato, ciò non significa affatto che lo sia a priori, bensì che lo è diventato con l’uso, secondo principi di razionalizzazione ed opportunità comunicativa. Lo strutturalismo linguistico, con tali connotazioni deterministiche, è poi trasmigrato in numerose altre discipline umanistiche a cominciare dall’antropologia culturale [62], per approdare poi, inevitabilmente, anche alla teologia.

    Sull’onda del recente successo del concetto di “autopoiesi” [63] in biologia e di quello più generale di “auto organizzazione” riprendiamo quanto già osservato per esaminarne questo aspetto. Ma se si pone un’autopoiesi del cosmo bisogna anche considerare l’eteropoiesi espressa nei monoteismi, per i quali l’universo è frutto di una creazione da parte di “altro” dall’universo stesso. Se il concetto di eteropoiesi cosmica è esplicito nelle mitologie che implicano una creazione esso non è meno presente, ma cripatato, in molti panteismi. Senza entrare nel dettaglio noteremo che il processo “emanativo” dall’Uno neoplatonico è fondamentalmente eteropoietico e che lo è anche un panenteismo come quello di Spinoza. Poiché il Dio-Natura, nelle sue forme e nelle sue denotazioni, non è altro che l’espressione “reale” della Necessità che lo permea e lo ordina; essendo essa a tutti gli effetti il corrispettivo del dio-creatore del racconto biblico. Tanto è vero che, come si è visto, Spinoza costruisce il suo capolavoro, l’Ethica, sulla base di premesse teologiche poste nel Tractatus logicus-politicus, dove, aldilà di ogni dubbio, il Dio-Natura non è altro che l’espressione “reale” del ”mitico” Jahvè.      

    Le due principali tesi teologiche formativo-creative del cosmo possono quindi anche venire espresse quindi come eteropoiesi e autopoiesi. Con la prima intendiamo ogni tesi cosmogonica che preveda una volontà o una necessità “esterna” a ciò che si forma e con la seconda ogni tesi che teorizzi una tendenza “interna”, (naturale, intrinseca, strutturale) che spinge la materia ad organizzarsi in modo pre-organizzato e pre-ordinato. La prima, dichiaratamente religiosa, e la seconda, dichiaratamente a-religiosa, sono concettualmente identiche, poiché negano che l’evoluzione della materia possa essere un “farsi” stocastico di mutazioni evolutive cui seguono leggi conservative “per l’esistenza”, come sostiene l’indeterminismo. Se la prima trova la propria espressione più nota nella Genesi biblica la seconda si manifesta nel concetto di progetto “necessitato” o “intelligente”, dove la necessità è intelligente e l’intelligenza è necessitata.  

    Un’interessante posizione, anche se poco nota, è quella assunta da Armando Plebe nel saggio Il materialismo oggi (Fisica, biologia e filosofia oltre l’ideologia) del 1980. L’autore, che riprende in buona misura le tesi di Ducrocq, si muove nello spirito del più rigoroso determinismo materialistico, ma con un’accentuazione della tesi auto-organizzativa. Egli teorizza un “materialismo strutturale”, secondo il quale la materia deterministicamente creerebbe le proprie strutture sino alla comparsa della vita, attraverso l’autorganizzazione progressiva. L’autore, che ha buona conoscenza della cultura sovietica, avvia la prima parte del libro (Il materialismo fisico) con un riferimento alla situazione culturale della patria del materialismo rilevandone i limiti ideologici. Da ciò proietta il suo neo-orizzonte materialistico nella complessità del panorama della fisica contemporanea citando Einstein, Feynman e altri fisici. Il materialismo di Plebe intende così superare certe posizioni ingenue del materialismo classico (basato sulla “solidità” materiale) in una visione più aggiornata, che tenga conto dell’indeterminazione subnucleare e delle complessità dell’astrofisica. Ciò comporta anche il liberarsi da quella “coazione a simmettrizzare” che pervade il pensiero filosofico materialista in tutte le epoche.

    Il Nostro rileva poi che nel mondo subnucleare non esistono “cose che si misurano” ma soltanto “misure”, in funzione della definizione di un materialismo che vada oltre schemi pregressi. Egli propone infatti di: « […] abbandonare il vecchio concetto degli oggetti come di una materia sostrato dei fenomeni e di considerarli invece come funzioni, ovvero punti di riferimento, dell’unica materia che si presenti come effettivamente reale e non oscillante tra realtà e possibilità, che è la materia dei cosiddetti mezzi conoscitivi che ci circondano. Materia cioè è la realtà energetica, luminosa, termica che effettivamente percepiamo; invece il sostrato (ovvero gli oggetti cosmici in cosmologia, i microoggetti in microfisica) è una realtà secondaria che viene costantemente e strutturalmente richiamata alla realtà primaria, ma che sarebbe impossibile considerare come la realtà prima[64]  Su ciò non vi sarebbe nulla da eccepire e si potrebbe persino ritenere condivisibile l’”inversione” del fondamento materialistico da oggetti fisici (masse) ad energia, ma tale atteggiamento rivela il suo fondo mistico quando va molto oltre e arriva a proporre un’“intelligenza” intrinseca alla materia, una tesi panteistica incoerenti col materialismo. È corretto pensare una materia indipendente dal suo tradursi in “materialità” rilevabile e pesabile, al momento che ciò che conta sono le azioni e le reazioni più che gli oggetti fisici in se stessi, ma occorre stare a non cassare la “pluralità” finendo in un’ottica monistica che non collima per nulla con la realtà fattuale e osservazionale. Ottica nella quale ci pare che Plebe si ponga citando Zenone di Cizio, il quale, secondo la testimonianza di Aezio (IV, 20, 2), avrebbe già sostenuto che la materia è fatta di “azione e reazione” piuttosto che di “cose”. 

    Se, come affema Plebe, riprendendo una tesi del Polhenz, la posizione stoica è “la più autentica posizione materialistica”, si vede come i materialisti finiscano spesso per cadere nella teologia filosofale. Nella seconda parte del libro citato (dal titolo Il materialismo biologico) il Nostro mostra segni evidenti della sua deriva metafisica, sviluppando il concetto di “saggezza” della materia quale “informazione” strutturale soggiacente che istruirebbe e piloterebbe il suo sviluppo sino alla comparsa della vita. Ma Plebe sembra anche cogliere il pericolo cui può portare il considerare la struttura fisica della materia null’altro che una struttura matematica, nel qual caso ci sarebbe «una vittoria dello spiritualismo sul materialismo», però egli non trae le conseguenze logiche di tale affermazione. Col suo discorso sulla saggezza della materia non si accorge che questa non può essere infatti che matematica, ricadendo con ciò nelle accoglienti braccia di Platone, l’anti-materialista che crede nella divina verità dei numeri. La matematica, infatti, se non viene colta adeguatamente come mero strumento primario della fisica (ma non “nella” materia) non può che identificarsi con tale saggezza della materia. Con l’assunto di un materialismo radicale a caccia di coerenza deterministica il nostro filosofo finisce per approdare alla patente incoerenza di un “idealismo materialistico”.

    Il Nostro esplicita poi il suo concetto di “automontaggio” della materia, già posto dal filosofo sovietico Utevsckij nel 1970 notando compiaciuto: «Qui invece i comportamenti vitali degli organismi vengono visti come reazioni, o retroazioni, di fronte alle più elementari azioni dei sistemi materiali circostanti: è un parallelismo non più statico bensì dinamico, anche se avviene totalmente all’interno della materia per il fenomeno che viene qui denominato “samosborka”, ovvero automontaggio[65] Siamo così arrivati al punto chiave dell’argomentazione di Plebe, che è poi anche quello che lo collega a Ducrocq, il quale viene citato a più riprese come estensore di un compiuto materialismo olistico ed evoluzionistico. Nel settimo capitolo (La “saggezza” della materia e la sua concezione strutturale) vi è il riferimento a un “asse teorico” tra Ducrocq e il biologo inglese Michael Ruse (autore di The philosophy of biology, 1973) che si costituisce contro il “casualista” Monod nei termini seguenti: «Queste impostazioni di Ducrocq e Ruse sono chiare e difficilmente confutabili. Invece le vicende della moda intellettuale, talora capricciose e imprevedibili, talora abilmente manovrate dalla politica editoriale, hanno fatto sì che assai più che non i loro due libri incontrasse fortuna il breve volume (uscito nel 1970 nell’intervallo fra l’apparizione del libro di Ducrocq e quello di Ruse) di Jacques Monod “Le hasard et la necessité”, il quale tenta invece, in maniera puramente fideistica, di salvare, sia pure a livello di “insondabile profondità”, la spiegazione spiritualistica della biologia che continua a veder nei fenomeni della vita l’antico dualismo tra anima e materia.» [66]

    Va detto, per l’esattezza, che Monod aveva affermato «Chi potrebbe dubitare della presenza dello spirito? Rinunciare all’illusione che vede nell’anima una “sostanza” immateriale non significa negare la sua esistenza, ma al contrario cominciare a riconoscere la complessità, la ricchezza, l’insondabile profondità del retaggio genetico e culturale.» [67] Nel citare questo passaggio di Monod c’è veramente da chiedersi se Plebe non abbia capito o se sia consapevole di aver operato una forzatura indebita nell’intendere in senso spiritualistico la parola “spirito”. La quale, nelle parole di Monod, ha accezione del tutto generica; tanto più che il passo si chiude con il riferimento a un “retaggio genetico e culturale” a proposito dell’anima che non lascia adito a dubbi circa la sua origine esclusivamente biologica, e quindi assolutamente materiale. Il Plebe, col suo approccio deterministico, commette il solito errore dei metafisici di ritenere che soltanto l’ammissione di una necessità nei comportamenti della materia possa fornire una spiegazione accettabile dell’universo.

    Come si vede il cerchio si chiude e, inopinatamente (ma neppure tanto), la tesi di fondo di un materialista monista e riduzionista torna, proprio attraverso la metafisica sottsa al suo ragionamento, per risultare quella dei deterministi misticheggianti del “Principio antropico forte” [68]. Plebe arriva poi a richiamarsi a Cassirer (capitolo 12, La materia come funzione) nell’affermare: «In questo senso la trasformazione della materia da sostanza in funzione di cui parlava Cassirer negli Anni venti asume l’aspetto di un’interconnessione materiale tra fenomeni, “cose in sé, e funzioni, ciascuno dei quali esiste solo nella struttura che insieme li connette.. [69] Dunque abbiamo qui un materialismo che rivivifica il concetto di “cosa in sé” per annegarlo nel profondo di una struttura integrata in cui il fenomeno ridiventa (come nell’idealismo) aspetto secondario dell’essere della materia, che si presenta come “funzione” di una sorta di “spirito della materia” soggiancente al divenire fenomenico.  

   Il punto di vista dell’iper-materialista Plebe ritorna in teorizzazioni di successo conseguenti alla temperie “spiritualistica” in voga dagli anni ‘70. Va però precisato che alle teorie auto-organizzative materialistico-deterministiche se ne affiancano altre di carattere creazionistico-vitalistico, che si dividono in due categorie: quelle che hanno una visione dell’auto-creazione della materia di tipo casuale e spontaneo (è la tesi di Prigogine), e quindi fondamentalmente laicistico, e da un altro quelle che vedono nell’auto-creazione il pilotaggio di un’imput “intelligente”. È evidente che ci troviamo di fronte al solito “progetto intelligente”; e sia che esso venga impresso dal Dio-Volontà-Bontà o dal Dio-Necessità-Intelligenza, dal punto di vista ontologico, si tratta della stessa tesi filosofale perpetuamente rimasticata e digerita.   

    Pensiamo di poter chiudere con questa fortunata tesi del “progetto intelligente” per ribadire che l’universo, sia che venga visto come statico oppure come dinamico, in entrambi i casi il progetto fornisce un risultato identico: il determinismo. L’imbarazzo di continuare a riferirsi a un Dio diventato qualche volta imbarazzante, e soprattutto sempre meno sostenbiile alla luce della fisica e della biologia contemporanee, ha trovato un facile e conveniente sbocco nel “progetto intelligente”. Non si cita più Dio (per non dovere fare in conti coi suoi ben noti pentimenti biblici [70]) e se ne fa un’”intelligenza” eterna, indefettibile, perfetta, sovrana e assoluta, “che non sbaglia mai” perché “non può sbagliare”. Con ciò vanno perduti persino i sentimentalismi di un Dio amorevole e pietoso. No, il nuovo Dio è ragione pura! Un mostro di intelligenza spersonalizzata, che permea ogni quark e lo fa essere così e non altrimenti!  Almeno il vecchio Dio di Sant’Agostino e di San Tommaso si poteva ancora invocare e pregare. “Questo” è così assoluto, che è assolutamente Il culmine dell’assolutizzabile. Un Super-Dio così divino che . . . non lo si può più neppure chiamare Dio.

 

 

    



NOTE

[1] I Presocratici, a cura di Angelo Pasquinelli, Torino, Einaudi 1958, p.234.

[2] Francesco Bacone, Novum organum, a cura E. De Mas, Roma-Bari, Laterza 1992, p.59.

[3] Su questo argomento si vedano i capitoli IV e V di Atesimo filosofico nel mondo antico, Clinamen 2005, pp.144-165.

[4] Vedi Ateismo filosofico nel mondo antico, op.cit., pp.141-197.

[5] Immanuel Kant, Storia generale sulla naturale universale e teoria del cielo, cura A. Cozzi, Roma, O.Barjes 1956, p.XXVIII.

[6] Ivi, p.XXXII.

[7] Emmanuele Kant, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza 1965, p.181.

[8] Georg W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Roma-Bari, Laterza 1984, p.150.

[9] Pierre Simon Laplace, Opere, UTET, Torino 1967, p.243.

[10] Gottfried W. Leibniz, Monadologia e Discorso di metafisica, Roma-Bari, Laterza 1986, p.43.

[11] Ivi, p.44.

[12] Citato in: Ernst Cassirer, Determinismo e in determinismo nella fisica moderna, La Nuova Italia, Firenze 1970, pp.23-24.

[13] Gottfried Wilhelm Leibniz, Scritti sulla libertà e sulla contingenza, a cura di Andrea Sani, Firenze, Clinamen 2003, p.43.

[14] P.S.Laplace, op.cit., p.242.

[15] E.Cassirer, op.cit., p.12.

[16] Emmanuele Kant, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza 1965, p.511.

[17] Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Roma-Bari, Laterza 1974, p.152.

[18] Per comprendere la nostra affermazione sul “casualismo” leucippeo si vedano i capitoli IV e V del già citato Ateismo filosofico nel mondo antico. 

[19] Albert Einstein, Opere scelte, a cura di E.Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p.564.

[20] Ivi, p.565.

[21] Ivi, p.575.

[22] La nostra tesi è che la realtà sia pluralistica nella sua generalità (pluralismo ontologico del reale) e che si debbano distinguere regioni del reale distinte e differenti, nelle quali non valgono in tutto e per tutto le stesse leggi. Infatti, le leggi che sovrintendono ai comportamenti delle particelle elementari della materia sub-nucleare sono soltanto in parte le stesse che concernono la materia vivente.

[23] Cfr. voce Cibernetica, in Einstein e il ciabattino, Editori Riuniti, Roma 2002, pp.98-99.

[24] A.Ducrocq, Cibernetica e universo. Il romanzo della materia, Einaudi, Torino 1967, p.18.

[25] Ivi, p.105.

[26] Ivi, p.67.

[27] Ivi, p.116.

[28] Ivi, p.117.

[29] Ivi, p.118.

[30] Ivi, p.120.

[31] Ivi, p.125.

[32] Ivi, p.127.

[33] Ivi, p.128.

[34] Ivi, p.128.

[35] Ivi, p.129.

[36] Ivi, p.273.

[37] AA.VV. Sul determinismo (La filosofia della scienza oggi), a cura di Krzysztof Pomian, Milano, Il Saggiatore 1991 (Testi di R.Thom, E.Morin, I.Prigogine, H.Atlan, A.Danchin, D.Ruelle, I.Ekeland, J.Largeault, J.Petitot, S.Amstwerdamski, I.Stenghers).

[38] René Thom è un matematico francese di indubbia inventiva. È sua la “teoria delle catastrofi”, un ingegnoso sistema matematico-logico-geometrico per ricondurre il caos all’ordine. Con esso le irregolarità vengono ridotte a regolarità attraverso strumenti matematici che danno luogo a una curiosa classificazione di vari tipi di catastrofi geometricamente “addomesticate”, dai nomi fantasiosi di: piega, cuspide, coda di rondine, farfalla, ombelico ellittico, ombelico iperbolico e ombelico parabolico. Le più recenti teorie del cosiddetto “caos deterministico” hanno finito per mettere un po’ in ombra le teorizzazioni di Thom.  

[39] Op.cit., p.47.

[40] Op.cit., pp. 120-121.

[41] Necessità e libertà, Firenze, Clinamen 2004, pp.24, 67 e 214.

[42] Op.cit., p.74

[43] Op.cit.p.75.

[44] ibidem

[45] Op.cit.pp.76-77

[46] Op.cit. p.80.

[47] Op.cit. pp.81-82.

[48] Op.cit., pp. 96-97.

[49] Op.cit., p.138.

[50] Op.cit., p.140.

[51] Op.cit., p.141.

[52] Ibidem.

[53] Op.cit., p.142.

[54] Ibidem.

[55] Ibidem.

[56] Op.cit., p.144.

[57] Op.cit., p.145.

[58] Op.cit., p.203

[59] Op.cit., p.206.

[60] Op.cit., pp.208-209.

[61] Op.cit., pp. 209-210.

[62] Il più importante esponente dello strutturalismo antropologico è Claude Levi-Strauss (cfr. Ateismo filosofico nel mondo antico, op.cit., pp.30-31)

[63] Si veda: H.Maturana e F.Varala, Autopoiesi e cognizione, Venezia, Marsilio 1984, e ss.aa., L’albero della conoscenza, Milano, Garzanti 1987.

[64] A.Plebe, op.cit., p.47.

[65] A.Plebe, op.cit., p.59.

[66] A.Plebe, op.cit., pp.74-75.

[67] J.Monod, Il caso e la necessità, Milano, Mondadori,1997, p.145.

[68] Il cosiddetto “Principio Antropico” nasce dalal convinzione che soltanto una serie “miracolosa”  di coincidenze avrebbe permesso la nascita della vita sulla Terra e la comparsa dell’homo sapiens. In altre parole, il nostro universo si sarebbe evoluto in una certa maniera per far sì che vi comparisse l’uomo. Il primo a pensare a ciò era stato il grande fisico Paul Dirac nel 1938, che aveva parlato di “connessioni causale ignote”. Tale riflessione venne ripresa da Robert Dicke nel 1961, arrivando a formulare un P.A. “debole”, col quale si sostiene che solo con universo “così” poteva nascere, ad un certo momento della sua evoluzione, un osservatore consapevole di esso. Fin qui la considerazione ci sembra ancora del tutto legittima. Ma esiste anche una versione “forte” del P.A. posta dal matematici-fisici John Barrow e Franck Tipler nel 1986 con laquale si ritiene che l’universo “debba” avere le proprietà che ha affinché la vita nascesse e si sviluppasse fino all’uomo. Tale antropocentrismo finalistico ripropone, evidentemente, il tipico punto di vista di tutte le religioni. 

[69] A.Plebe, op.cit., p.115.

[70] Genesi, 6.5 (La Sacra Bibbia, op.cit, p. 19.)