Capitolo
IV
La teologia della Necessità
4.1 La necessità psichica di un’immaginaria necessità
ontica
Dedichiamo questo ultimo capitolo al determinismo, ovvero alla teologia
della necessità. Esso è correlato costante del monismo, ma nello stesso
tempo è da esso tematizzabile separatamente in relazione al peso che l’ipostasi
della necessità cosmica porta con sé in tutte le teorizzazioni metafisiche.
Teorizzazioni che molto spesso non riguardano soltanto le teologie filosofali
in senso stretto, ma che risultano presenti in quelle concezioni epistemiche
necessitaristiche per le quali soltanto una materia deterministica
consentirebbe di lasciarsi conoscere con riferimento a leggi fisiche fisse,
assolute, immutabili e necessarie. Un atteggiamento per ciò stesso
anti-scientifico, se scienza significa “scoprire” le denotazioni della realtà
fisica, poiché si pretende con tale dogma di imporre alla scienza il principio
del suo essere, a conferma di un necessitarismo che si attua aprioristicamente
attraverso la sua assunzione quale verità. Questo teorema dogmatico è già stato largamente sconfessato
dalla fisica del ‘900, soprattutto con la meccanica quantistica e con
l’accertamento della causalità delle mutazioni genetiche, e tuttavia,
pervicacemente, eserciti di metafisici-scienziati continuano a ritenere
irrinunciabile la teologia della Necessità.
La forza teorica del determinismo ha caratterizzato il pensiero umano in
quasi tutte le epoche e praticamente in tutti i contesti culturali; in ambito greco
si manifesta per la prima volta e in modo netto con la teologia di Parmenide in
più punti dei frammenti a lui attribuiti. Nel passo seguente vengono anche
posti con chiarezza i concetti di unità, eternità e immobilità dell’essere
(Simplicio, Physica, 25-33) :
Per
questo è tutto continuo: ché l’essere all’essere è accosto [contiguo]. Ma
immobile, costretto nei limiti di vincoli immensi è l’essere senza principio né
fine, poiché nascita e morte furon respinte lontano, e le allontanò la vera
convinzione. Identico nell’identico luogo restando, giace in se stesso e così
vi rimane immobile, ché la forza imbattibile della necessità lo costrinse nelle
catene del limite che intorno lo avvolge, poiché l’essere non può non essere
compiuto; [1]
Si può ritenere che nella cultura
occidentale il determinismo parmenideo sia all’origine di tutti quelli
successivi, che hanno sempre carattere teologico nella misura in cui la necessità
metafisica implica sempre il “sacro” (in quanto religiosità intima
naturale-emozionale) e il “divino” (come religiosità su base
sociale-dottrinale), implicandosi essi reciprocamente. Ma va aggiunto che esso
si ritrova anche, e in maniera non meno dogmatica, in numerose concezioni
filosofali nominalmente laiche, che hanno optato per la cogenza della necessità
come escludente la volontà del Dio dei monoteismi. Un equivoco
concettuale non di poco conto, quello di non scorgere che dal punto di vista
ontologico il fatto che l’universo possa essere governato dalla volontà di
un’entità meta-fisica personale o dalla necessità di un entità infra-fisica
impersonale non fa nessuna differenza; anzi, il Dio-Necessità in senso
teologico è ancora più cogente, più intelligente e più potente dell’altro. E
ciò nella misura in cui distrugge alla sua stessa radice il concetto di Male
(in quanto competitivo col Bene) assorbendolo e annullandolo entro un ottimismo
metafisico dove la “credenza” fideistica si rivela non meno netta e forte di
quella che viene riposta nel Dio-Volontà dei monoteismi.
La nostra affermazione che il Dio-persona e il Dio-Necessità siano
corrispondenti dal punto di vista ontologico richiede però un chiarimento. Il
pensare che esista nel cosmo o fuori di esso un’unica entità volitiva che ne
determini il corso, o il pensare che, intrinsecamente alla struttura del cosmo,
esista un “principio” o un “progetto” che ne prescriva a priori il destino, ad
un esame superficiale possono apparire concezioni differenti e per alcuni versi
persino opponibili. Ciò fa sì che, come è già stato rilevato, il determinismo
necessitaristico-materialistico abbia potuto persino presentarsi come ateo per
il solo fatto di porsi come anti-cristiano. In realtà, se si prova a
prescindere dal punto di vista umano e si guarda alla realtà, ci si rende conto
che gli orizzonti ontologici sono solamente due e diametralmente opposti. O
l’universo ha avuto una nascita casuale e si evolve in modo e indeterministico
e deterministico (“facendosi” in un divenire dove il caso genera
il nuovo e la necessità lo fissa attraverso leggi conservative) oppure
esso nasce da un “disegno intelligente” e si evolve in modo pre-determinato;
dominato completamente da una Volontà o da una Necessità, che gli hanno dato
origine, struttura, informazione, ordine.
La teologia si dà infatti laddove si teorizzi dogmaticamente che
l’essenza dell’universo non stia nel suo essere-divenire in quanto tale,
ma nel suo “esistere” in dipendenza e in funzione effettuale di un
“progetto-causa” ad esso sottostante, oppure di una “volontà” che lo determina.
La determinazione, in entrambi i casi, esclude qualsiasi variazione
all’evolvere del cosmo che non sia già pre-determinata e fissata ab eterno
da una necessità o da una volontà. In altre parole, mentre secondo una
concezione indeterministica “esistendo” l’universo “si fa” e produce situazioni
deterministiche, ma non assolute, in quella deterministica l’universo esistendo
“è già sempre” ciò che deve essere e non può che ripetere (anzi, “deve”
ripetere) le istruzioni del “progetto intelligente” che lo informa. In questa
prospettiva non c’è il “farsi” dell’universo ma soltanto il suo “darsi”
prefissato.
Che un’intelligenza soggiacente operi nell’immanenza oppure che
un’intelligenza esterna operi nella trascendenza è ontologicamente irrilevante.
Ciò che si presuppone, in entrambi i casi, è infatti che il cosmo sia
pre-determinato da un’entità che materiale non è, poiché anche nel caso di un
“progetto necessario”, strutturale, intrinseco e immanente alla materia stessa,
dovendo esso preesisterle deve precederla onticamente. Questo “precedente” per
ciò stesso non è ancora materia ma è “immateriale” in quanto pura
“informazione”, che è come dire Puro Spirito. Ne deriva, lo ribadiamo, che o la
legge conservativa (e determistica) “segue” il farsi della materia (e quindi agisce
come regolatrice-conservatrice di essa) oppure “indirizza” tale farsi a
priori quale “causa prima”. In questa seconda opzione non vi è alcuna
differenza ontologica rispetto a una concezione deterministica religiosa quale
si dà nei panteismi, poiché l’”essere” della materia “dipende” comunque da una
causa che esisterebbe prima che esso esista. Tale causa creatrice e formatrice
toglie alla materia alcuna possibilità di “farsi” attraverso la propria
fenomenicità. A tale entità primaria si può dare il nome che si vuole, ma essa
non può che corrispondere alle connotazioni di Dio, in quanto Dio è il termine
che nel linguaggio umano, ed invariabilmente in tutte le culture, indica la
“causa prima”.
Col determinismo una teoria evoluzionistica dell’universo e della vita
perde così ogni significato e viene a coincidere col fissismo, che “ingessa” a
priori ogni possibilità di un “farsi”, poiché tutto esiste già in un “già dato”
progettuale. Ciò che appare come un evoluzione del mondo fisico e biologico si
rivela allora irrimediabilmente come un diventare “ciò che è già” nel progetto
che pilota il divenire in una direzione predeterminata. Il determinismo che si
pretende non-religioso finisce quindi per appaiarsi, dal punto di vista
ontologico, a quello esplicitamente religioso nella sua sostanza concettuale.
Persino l’”Intelligenza” di Laplace rischia di poter essere vista come un Dio
onnisciente che la materia conosce perfettamente perché l’ha creata o quanto
meno perché la governa. Ne emerge il fatto che il determinismo, anche quando si
pretende laico, presenta sempre, in forma criptata, una teologia sottostante,
che non nomina Dio ma lo presuppone concettualmente come intrinseco della
materia.
I
documenti sul determinismo sono sterminati e ciò ci ha imposto una limitazione
del numero dei riferimenti con i quali cercheremo di analizzarne le
articolazioni teoriche; la scelta che opereremo di testi significativi si
limiterà quindi soltanto a sottolineare gli aspetti più notevoli su cui
svolgere la nostra indagine. Ci è sembrato però importante fornire una panorama
di tale atteggiamento filosofale attraverso opere che risultino paradigmatiche,
sia relativamente all’atteggiamento deterministico storico e sia per quello
contemporaneo. Prima di entrare nel dettaglio dobbiamo però ricordare
l’esistenza di un secondo termine ontologicamente corrispondente a quello di
determinismo, da esso talora distinto: quello di finalismo. Finalismo e
determinismo sono atteggiamenti filosofali del tutto confluenti; per quanto differenziati
nelle loro motivazioni essi posseggono un identico fondamento ontologico al
punto da potersi identificare in un unico concetto.
Le concezioni che si qualificano come finalistiche (o teleologiche) sono
dichiaratamente religiose, mentre quelle che passano per deterministiche spesso
si presentano come a-teologiche, come anti-teologiche e talvolta addirittura
come atee. Dal punto di vista lessicale esse si considerano dunque
separatamente, ma da quello ontologico, lo ribadiamo, esse sono del tutto
assimilabili. Il finalismo potrebbe essere sintetizzato nell’assunto: «L’universo
ha il “senso” che gli è stato conferito da Dio (Logos, Intelletto, Essere,
Necessità, ecc.)». La “finalità” è conferita al mondo da chi ne è creatore o
formatore, oppure (nei panteismi) da un intelletto intrinseco al mondo stesso.
Esempi di un “fine” conferito al cosmo da Dio si hanno nei monoteismi e nelle
teologie filosofali di Parmenide, Platone, Aristotele, Plotino, Descartes,
Leibniz, ecc., ma l’esempio più antico e noto di un fine estetico-morale del
cosmo (il Dio-Bene-Bello) si dà nel Timeo. L’esempio di un fine morale
“intrinseco” all’essere cosmico ce lo offrono i panteismi orientali
(Vedānta, Tao, Confucianesimo, ecc.) e quelli occidentali come lo
Stoicismo, il Neoplatonismo, il Brunismo, lo Spinozismo e l’Hegelismo.
Il finalismo del cosmo può essere stato conferito, come pensava Leibniz,
“una volta per tutte”, all’atto della Creazione, oppure venire da una necessità
che “determina”, e nello stesso tempo “finalizza”, la fenomenologia
cosmica. In tali posizioni il soggetto dell’essere è sempre Dio, sia
esso personale o impersonale, e l’universo ne è ente derivato. Esso è un
determinismo morale-religioso che vede nell’universo un “fine” di carattere
assiologico, che dà “senso” al fatto che esso sia. Il finalismo, quindi, si
scosterebbe dal determinismo per il fatto che associa sempre la necessità
divina ad un “valore” che l’universo esprimerebbe. Esso può anche, nel caso che
la posizione necessitaristica diventi critica, aggiornare l’operato divino con
un “aggiustamento” in corso d’opera della creazione. Si ricorderà che Newton
(contro Leibniz) a spiegazione delle
deviazioni dalle leggi cosmiche vedeva un Dio che interveniva all’uopo “per
rimettere le cose a posto”. E tuttavia l’illusione dell’ordine (conseguenza
diretta dello psichico “bisogno d‘ordine”) era già stata colta da Francesco
Bacone, che scriveva intorno al 1620 (Novum
Organum, I, 45): «L’intelletto umano è spinto dalla sua stessa struttura
a supporre nelle cose un ordine maggiore e un’eguaglianza superiore a quella
che effettivamente trova.» [2]
A distinguere il determinismo dal finalismo
è la presunta assenza di uno “scopo” cosmico; ne deriva che il determinismo
cosiddetto “laico”, qualificando la necessarietà “senza scopo”, offre l’esempio
di un’argomentazione capziosa. Affermare che il cosmo è necessitato significa
sostenere che l’essere si dà nella struttura e nelle forme in cui la
necessità lo ha determinato. Ora, se l’essere, in quanto tale, è un bene
rispetto al nulla, che è non-essere, ne deriva che se l’opposto del bene, il
male, non esiste, la realtà cosmica “è” perché la necessità l’ha determinata
così e non altrimenti non avendo lasciato sussistere il nulla. Ovvero: la
necessità determina l’essere e questo non può essere considerato che il bene in
rapporto al non-essere. I finalisti diranno trattarsi del massimo bene mentre i
deterministi si limiteranno ad affermare che “doveva essere così”, ma nella
nostra esperienza reale l’essere si estrinseca come “esistenza” e il non-essere
come “distruzione”, quindi il non-esistere viene pensato come male e
l’esistere, all’opposto, come bene.
In ogni determinismo è insita (esplicitata
o meno) la convinzione che l’esistenza del cosmo sia “bene”, in quanto frutto
“positivo” della necessità. Necessitato ad essere rispetto al non-essere, cioè
al nulla (che è negativo), esso è, quindi, “bene”, e ciò annulla ogni
differenza tra determinismo e finalismo. Vi è una possibile obbiezione: che il
determinismo a-religioso prescinderebbe dal bene e dal male, quali assunti
teologici ad esso estranei. Eppure, quando si mette in campo il caso,
i deterministi ne denunciano immediatamente la sua impossibilità, in quanto
infrangerebbe le leggi fisiche che sono “così e non altrimenti”, dove ogni
altrimenti (frutto del caso) sarebbe negatività. Si coglie così
come per il determinismo il caso rappresenterebbe un male assoluto non
meno di quanto lo sia per il finalismo religioso. Ci pare allora di poter
concludere che un ateismo determinista sia una contraddizione in termini e che
l’ateismo, in quanto tale, non possa che ammettere la realtà del caso;
esso solo, infatti, esclude categoricamente Dio.
Sappiamo bene che tale considerazione non
scoraggerà molti deterministi a-religiosi (ma non per questo a-teologici) a
continuare ad autodefinirsi “atei” (e sono naturalmente liberissimi di farlo).
Sarebbe bene tuttavia che si chiedessero che cosa possa mai essere una
“necessità” che inerisce alla materia e che le fa da substrato causale se non
un’ultra-essenza non-fenomenica e quindi immateriale. Un essenza metafisica che
ci pare si assimili in definitiva all’attributo fondamentale di Dio in tutte le
varie connotazioni e forme che esso possa assumere, formalmente differenziate,
ma sostanzialmente corrispondenti sul piano ontologico nell’ipostatizzare una
causa extra-fenomenica del fenomenico. Non si vede quale differenza possa
sussistere tra le conseguenze ontiche cui è sottoposto un mondo governato da
una Volontà che lo trascende rispetto a quelle dovute a una Necessità che lo
inerisce, dal momento che i fenomeni sono comunque “pilotati” da un’entità
extra-fenomenica.
Dal determinismo viene categoricamente negata ogni casualità, ed uno
degli argomenti più utilizzati dai fissisti (e da quelli che considerano
l’evoluzione pilotata dall’”intelligenza” della materia) per negare la realtà
del caso è quello secondo cui la vita sarebbe nata in virtù di una serie
specialissima di condizioni predeterminate, in assenza delle quali la vita sul pianeta non avrebbe mai
potuto nascere. La specialità probatoria di tali argomenti consiste in
complicate equazioni probabilistiche tendenti a dimostrare che senza quelle
precise condizioni la vita sulla terra non sarebbe stata possibile, o che, perlomeno,
la probabilità che ciò potesse avvenire sarebbe stata dell’ordine di una su
miliardi di miliardi. Indipendentemente dal bell’effetto prodotto da tali cifre
(così convincenti nella loro enormità estetica!) l’errore metodologico
fondamentale commesso con tali “calcoli” è quello di vedere la Terra come “un”
gigantesco laboratorio e non già come miliardi di miliardi di minuscoli
laboratori biologici celati e sperduti in ogni nicchia ecologica possibile
sparsa ai quattro angoli della terra emersa, dentro la terra o sotto i mari.
Come dire, in un’infinità di “ovunque” di pochi millimetri cubi nei quali vi
sia stata acqua e temperatura né troppo alta e né troppo bassa.
Se la Terra fosse stata “un” laboratorio le probabilità di
quell’accadimento erano quasi nulle, ma se noi pensiamo alle dimensioni delle
cellule e al fatto che ogni mm.3 di acqua o di melma possono
diventare laboratori biologici credo che qualsiasi computer non sarà in grado
di contarli e che non siamo lontani dall’infinitezza delle possibilità, come
dire della probabilità che una cosa avvenga. Se una probabilità moltiplicata
per infinito può ritenersi uguale almeno a “qualche” possibilità (o invece a
molte?) la vita può ben essere nata “per caso”, come noi sosteniamo insieme a
molti biologi non-teologi. Faremo un esempio esplicativo: per un giocatore
d’azzardo la roulette riserva 1/36 di possibilità che esca un certo numero, ma
se il giocatore gioca contemporaneamente su 36 tavoli c’è qualche probabilità
che quel numero esca. E se non esce subito e lui ritenta (come se giocasse in
successione a 72, 108, 144, 180, ecc. tavoli) prima o poi vincerà. A questo
punto il giocatore sarà però in perdita e magari abbandonerà il gioco assai
prima e piuttosto sconsolato, ma la natura non gioca alla roulette e può
permettersi di perdere energia e risorse per miliardi di anni e poi azzeccare
per caso, “quella volta”, gli ingredienti giusti al momento giusto e nel posto
giusto perché nasca la vita.
4.2 Il determinismo storico
Il determinismo che potremmo definire
“classico” si qualifica come a-religioso e considera perlopiù il divenire
fenomenico come il realizzarsi di un’intelligenza (noùs) o di una
ragione (logos) che sarebbero substrato fondante della realtà
cosmica. Atteggiamento che non possiamo definire teologico in senso stretto, ma
sicuramente teogeno nelle sue possibili conseguenze teoriche. Esso può essere
fatto risalire al materialista ateo Democrito, il quale (invertendo i termini
causali dell’atomismo originario posti da Leucippo), vedeva nella necessità,
e non già nel caso, la causa del movimento creativo degli atomi [3].
Come si sa, in seguito, la reintroduzione del caso nell’atomismo,
attraverso la parenklisis di Epicuro (tradotta clinamen da
Lucrezio), ha riportato quella filosofia nel solco leucippeo originario,
ripristinando l’indeterminismo nell’atomismo ed il caso quale motore
della formazione cosmica; ma intanto il necessitarismo democriteo aveva creato
quell’ambiguità percorrente l’atomismo che darà luogo a gravissimi equivoci
storiografici [4].
All’atomismo indeterministico e
pluralistico si sono contrapposti Platone, Aristotele e i loro epigoni. Segue
il necessitarismo stoico, il quale presenta sì caratteri materialistici, ma
anche, in nuce, i caratteri del panteismo spiritualistico che si
realizzerà col Neoplatonismo, che soprattutto nella versione di Proclo
trasmigrerà nel misticismo cristiano di Eckhart, Tauler, Suso e quindi nella
speculazione di Cusano. Ripreso alla fine del ‘500 da Bruno diventerà ancora
più rigoroso in Spinoza, producendo il paradigma di ogni teologia
monistico-deterministica. Prima di lui Descartes e dopo di lui Leibniz
confermeranno il necessitarismo; più spiccato nel secondo che lo doterà di più
forti caratteri finalistici. Ma, contemporaneamente, a tali teologie era anche
apparsa la weltanschauung meccanicistica e materialistica di Hobbes,
seguita nel ‘700 da determinismi materialistici radicali, che la rinsalderanno.
Questo determinismo illuminista a carattere spiccatamente anti-religioso andrà
a costituire la base principale dell’ateismo moderno, in quanto la necessità
sembrava togliere di mezzo la volontà divina come determinatrice della
creazione e delle leggi del cosmo. Leggi che diventavano pertanto
strutturalmente “immanenti” al cosmo stesso nella sua autosufficienza, increato
ed esistente da sempre. Non sfuggirà l’ingenuità di tale posizione, comune a
Helvetiùs, La Mettrie e D’Holbach, poiché un cosmo eterno rinvia soltanto all’infinito
anteriore il problema di come si sia costituito, senza fornire una spiegazione
o un’ipotesi plausibile del suo esistere e lasciando quindi in piedi tutte le
tesi cosmogoniche metafisiche.
Il necessitarismo in Kant viene colto
meglio in sue considerazioni erratiche, del tipo di quelle presenti nella
prefazione alla Storia generale sulla naturale universale e teoria del
cielo. Qui si afferma:
Ma le considerazioni che già ho premesso m’insegnano che tale sviluppo
della natura non ha nulla di straordinario: è la logica conseguenza delle sue
proprietà essenziali, è la piena dimostrazione del suo dipendere da un Essere
preesistente, che non solo è la fonte di tutti gli esseri, ma anche delle leggi
ordinarie che regolano la loro attività. […] [5]
Dunque gli sviluppi della natura non sono
altro che le logiche conseguenze delle leggi ordinarie impresse da Dio al cosmo
ed il “piano di perfezione” da Egli imposto è assoluto. Sicché:
La materia, elemento primo di tutte le cose, è dunque sottoposta a determinate
leggi e, liberamente abbandonata a queste, genera combinazioni meravigliose
perché ciò è necessario. Non può allontanarsi da questo piano di perfezione.
Poiché, dunque, è stata sottoposta a un fine di altissima sapienza, deve per
forza avere ricevuto sì ben concordanti proprietà da una Causa prima dominante.
[6]
Nel progetto
dell’”altissima sapienza” sono quindi già presenti tutte quelle leggi che
determinano necessariamente le libere “combinazioni meravigliose” della
materia. Nella Critica della ragion pura (Logica trasc.,
Analitica d. principi, III) si afferma:
Le stesse leggi naturali, se vengono considerate come principi dell’uso
empirico dell’intelletto, hanno insieme l’impronta della necessità, e quindi
almeno la presunzione di una determinazione derivante da principi valevoli in
sé a priori e innanzi ad ogni esperienza. [7]
Nei successori di Kant, gli Idealisti, le
cautele vengono abbandonate. Fichte dichiara con sicurezza (Fondamenti
dell’intera dottrina della scienza, 9): « Qualsiasi cosa che realmente
esista, esiste per assoluta necessità; ed esiste necessariamente nella precisa
forma in cui esiste. È
impossibile che non esista o che esista altrimenti da come è.». Hegel più
dialetticamente dirà:
§149. La necessità è perciò in sé l’unica essenza identica con sé. Ma
piena di contenuto, che appare in sé in modo che le sue differenze hanno la
forma di reali indipendenti; e questa identità è insieme, come forma assoluta,
l’attività del superare l’immediatezza. […] In questo ritorno in sé il
necessario è semplicemente, come realtà incondizionata. Il necessario è,
così, mediato per mezzo di un circolo di circostanze; è così, perché le
circostanze sono così, ed insieme è, così, immediato; è così perché è.
[…] §150. Il necessario è in sé relazione assoluta, vale a dire è il processo
che si è svolto (nei paragrafi precedenti), nel quale la relazione si nega
facendosi assoluta identità. [8]
Ma l’espressione compiuta del determinismo
moderno può essere considerata la notissima enunciazione di Laplace, con
l’ipotesi dell’Intelligenza che è in grado di conoscere perfettamente i
comportamenti della natura. L’importanza storica di tale formulazione (basata
sul leibniziano principio di ragion sufficiente) è tale che non
possiamo esimerci dal riportarla:
Dobbiamo dunque considerare
lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come
la causa del suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per un dato istante,
conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva
degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda per
sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i
movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla
sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai
suoi occhi. [9]
Tale “Intelligenza”
sembra francamente un po’ difficile tenerla del tutto estranea e discosta da un
Colui che l’universo l’ha creato o da un qualche Spirito che sia stato
partecipe del “progetto generativo” ab imo, poiché altrimenti essa si
presenta, in sé, come ipotesi priva di senso. Ma Laplace è sicuramente convinto
che l’Intelligenza-Demone-Spirito onnisciente a cui pensa “non” possa avere
carattere divino; anzi, pone la sua ipotesi proprio in senso anti-teologico. Il
problema è che egli può enunciare il suo assioma deterministico soltanto in
base al teologico principio di ragion sufficiente. E Leibniz, non lo si
dimentichi, aveva sentenziato nella Monadologia:
[44] Infatti è pur necessario
che, se c’è una realtà nelle essenze o possibilità, ovvero, nelle realtà
eterne, questa realtà sia fondata su qualcosa di esistente e di attuale, e
quindi sull’esistenza dell’Essere necessario, nel quale l’essenza racchiude
l’esistenza, al quale, in altri termini, basta essere possibile per esser
attuale. [10]
Ed ancora:
[45] Così, Dio soltanto (o
l’Essere necessario) ha questo privilegio, che non può non esistere, dato che
sia possibile. E poiché nulla può impedire la possibilità di ciò che non implica
alcun limite, alcuna negazione e, quindi, alcuna contraddizione, ciò solo basta
per conoscere a priori l’esistenza di Dio. [11]
Ed un ulteriore
estratto lapidario del determinismo può essere considerato il seguente:
Che tutto sia prodotto da un
destino fissato è altrettanto certo quanto che tre volte tre fa nove. Il
destino consiste in ciò, che ogni evento dipende da ogni altro come una catena,
e prima di accadere accadrà altrettanto infallibilmente quanto infallibilmente
è accaduto una volta accaduto . . . Cioè ogni causa ha una certa azione sua che
da essa sarebbe svolta con successo se essa fosse sola; ma non essendo sola,
dall’azione d’insieme risulta un certo effetto infallibile . . . secondo la
misura delle forze, e questo è vero non solo quando nell’agire concorrono due o
dieci o cento cose ma anche quando agiscono insieme infinitamente molte cose,
come poi accade veramente nel mondo. [12]
Ma per Leibniz il
Dio-Necessità sopra enunciato coincide perfettamente col Dio-Volontà. Infatti
in De libertate a necessitate in eligendo egli afferma:
Non si può fornire nessuna
ragione del perché Dio scelga ciò che è più perfetto oltre il fatto che lo
vuole, ossia che questa è la prima volontà divina: scegliere ciò che è più
perfetto. Il che significa che ciò non consegue dalle cose stesse, ma
unicamente dal fatto che Dio lo vuole. E che lo voglia liberamente, che oltre
la volontà divina non si può formire nessun’altra ragione che la volontà
stessa, non significa che vi sia qualcosa senza ragione, ma che quella ragione
è intrinseca alla volontà. [13]
Dunque la ragion
sufficiente non è null’altro che la volontà di Dio tradotta in destino del
cosmo e degli enti in esso esistenti. La volontà e la necessità
non sono altro che le due espressioni dell’operare di Dio e la saldatura
teorica tra il Dio-Volontà e il Dio-Necessità è così compiuta. Chi fa
riferimento al principio di ragion sufficiente (e Laplace lo fa)
dovrebbe, coerentemente, accettare, con l’assioma filosofale, anche
l’ineliminabile aspetto teologico.
Ci pare quindi legittimo dedurre che il
determinismo di Laplace, sia per il suo riferirsi a Leibniz [14]
e sia per ragioni intrinseche al necessitarismo stesso, risulti coincidente con
quello leibniziano da cui deriva, con l’unica differenza che esso, “nominalmente”,
non si pone come teologico. Atteggiamento che pecca di ingenuità non meno di
quello dei materialisti illuministi, poiché elude il problema dell’origine
dell’universo, lasciando quindi sullo sfondo, perfettamente integre, come
abbiamo già osservato, tutte le tesi teologiche, compresa ovviamente quella
cristiana di Leibniz. Le ipostasi di un universo “eterno” poste nei più
differenti luoghi del pianeta e in tutti i tempi, hanno invariabilmente
carattere religioso, venendo ontologicamente a coincidere con metafisiche
teologiche come quelle di Descartes, Spinoza, Leibniz o Hegel. Cassirer era
convinto che Laplace non fosse neppure consapevole della portata della sua
ipotesi. Dice infatti: «Nel pensiero stesso di Laplace l’idea di questa
formula dell’universo era difficilmente qualcosa di più d’una metafora
ingegnosa con cui chiarire e illustrare la differenza fra il concetto di
probabilità e quello di certezza.» [15]
In realtà, sempre secondo Cassirer, il riscontro da parte dei suoi
contemporanei fu irrilevante e sarebbe stato poi Du Bois-Reymond, a fine ‘800,
a trarre dall’oblio la formula laplaciana riproponendola con forza e
conferendole un’evidenza mediatica che l’avrebbe resa nota come “Universo di
Laplace”.
Ma la coincidenza del Dio-Volontà e del Dio-Necessità
vale anche per Newton, che pensando che le leggi fisiche siano necessitate ma
imperfette e che Dio intervenga ogni tanto per confermare la propria volontà.
La Divinità, quindi, è necessità “per il cosmo” ma nel contempo libertà
“per sé”, ed il cosmo è necessitato a seguire le leggi derivanti da tale
libertà. Se ne può dedurre che per Newton il Dio-Volontà “in sé” è lo stesso
Dio-Necessità “fuori di sé”, ma questo è nello stesso tempo l’“in sé” del cosmo
in quanto esiste, poiché senza una necessità instaurata dalla volontà
creazionale di Dio esso non potrebbe esistere. Su un piano eminentemente morale
si pone il binomio necessità/libertà in Kant, dove all’esclusione della
possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio per via logica, diventa necessario
postularla “trascendentalmente” a priori affinché acquisti senso
l’esistenza dell’uomo. Così, all’affermazione seguente nella Critica
della ragion pura (Logica trasc., VII)
Le necessità, l’infinità,
l’unità, l’esistenza fuori del mondo (non come anima del mondo), l’eternità
senza le condizioni del tempo, l’onnipresenza senza le condizioni dello spazio,
e così via, sono meri predicati trascendentali; e quindi il concetto purificato
di essi, onde ogni teologia ha tanto bisogno, può esser solo preso dalla
teologia trascendentale. [16]
fa riscontro nella Critica
della ragion pratica (Dialettica, II, 5):
Dunque, il sommo bene nel
mondo è possibile soltanto in quanto viene ammessa una causa suprema della
natura che ha una causalità conforme all’intenzione morale. […] Dunque, la
causa suprema della natura in quanto dev’essere presupposta pel sommo bene, è
un essere che mediante l’intelletto e la volontà è la causa (perciò l’autore)
della natura, cioè Dio. [17]
Kant fa pertanto
rientrare dalla porta della morale il Dio che non poteva far entrare da quella
della ragione, ma ciò soltanto perché questa non può andare oltre l’analisi dei
fenomeni e quella sì. Ma in quanto egli si è preoccupato di precisare che Dio
si dà «non come anima del mondo» egli chiama in causa il Dio della
Bibbia (il Dio-Volontà) e nello stesso tempo pone come necessario il
comportamento morale (il dover essere) per realizzare quel sommo bene che non è
altri che Dio stesso.
A latere del discorso che stiamo
sviluppando va aggiunto che uno degli equivoci da sfatare è quello in base al
quale il determinismo sarebbe sinonimo di “causalismo” (ovvero del
principio che riconosce il dominio assoluto delle cause nella fenomenologia
della materia) mentre l’indeterminismo, ammettendo l’esistenza del caso,
non lo sarebbe. L’equivoco è intollerabile, poiché l’indeterminismo è a tutti
gli effetti un causalismo, ma che ammette la possibilità saltuaria di
un’intersezione delle cause e non la loro linearità assoluta. Ammettere il caso
non significa per nulla negare le cause, ma negare la necessità di una
consequenzialità fissata a priori. In realtà, l’indeterminismo non nega
neppure la cogenza interna delle cause; esso teorizza soltanto che esse sono
operanti linearmente (deterministicamente) non “sempre”, bensì “perlopiù”.
“Linearità assoluta” significa invece che le cause dovrebbero ordinarsi sempre
in modo univoco e necessitato a priori, in funzione di effetti
altrettanto necessitati. Come vedremo meglio in seguito, l’indeterminismo si
qualifica come una filosofia della causalità non meno del determinismo, ma se
ne discosta teorizzando che le cause non sempre operano in linea, ma talvolta
anche per incroci e sovrapposizioni. Il determinismo immagina la causalità come
successione fenomenica in cui le singole cause procedono sempre in modo univoco
su binari fissi e prestabiliti, mentre l’indeterminismo ammette intersezioni e
sovrapposizioni delle cause.
D’altra parte, relativamente al dogma della
necessità cosmica, delle due l’una: o la fenomenicità afferente la realtà
fisica comprende il caso, che si estrinseca nelle mutazioni non
necessitate, oppure la necessità è assunta come principio
pre-fenomenico, quindi come a priori metafisico. Se il determinismo non
è esplicitamente teologico lo è comunque sempre intrinsecamente, poiché ogni
teorizzazione della necessità assoluta porta al sottintendimento di un
“disegno intelligente” e questo, di converso, implica sempre l’opera di una
progettualità extra-fenomenica. Nessun determinismo può sfuggire al proprio configurarsi
su di un fondale teologico, o quanto meno espone, in ogni caso, la tesi
necessitaristica a molte interpretazioni teologiche con essa coerenti. Ne
deriva che un ateismo deterministico va considerato, a nostro parere,
un’inconsapevole contraddizione in termini, e in ogni caso portatrice di una weltanschauung
atea intrinsecamente debole ed
equivoca.
Tale debolezza concettuale afferisce anche
l’ateismo democriteo, rendendo possibili affermazioni del tipo di quella resa
da Cicerone, che ci fa pensare a un Democrito indovino in virtù del suo
determinismo, poiché, non lo si dimentichi, soltanto se gli eventi sono
“determinati” è possibile prevederli. Il romano infatti scrive in De
divinatione (I, 3, 5): «Siccome . . .
in moltissimi passi delle sue opere l’illustre Democrito comprova la sua
previsione di fatti futuri, Dicearco, filosofo peripatetico, ha privato d’ogni
valore tutti gli altri generi di divinazione, a eccezione di quelle legate ai
sogni e al furore.». Dunque, l’opera previsionale di Democrito poteva
venire assimilata a quella degli indovini che si affidavano “ai sogni e al
furore [divino]”! Ciò non toglie che la filosofia democritea, presa nel suo
insieme, sia sicuramente atea; essa non possiede però la forza teorica
dell’originario atomismo indeterministico leucippeo [18]
al fine di poter contrastare validamente il determinismo eleata rifluito in
Platone. L’atomismo materialistico democriteo con la sua ambiguità ha finito
non solo per lasciare libero spazio all’idealismo platonico ed aristotelico
(dal quale sono nati i panteismi filosofali stoico prima e neoplatonico poi) ma
di contribuirvi col proprio necessitarismo, poiché esso reca in sé
“costitutivamente” spiragli aperti alla teologia che raramente finiscono per
non venire praticati. Un determinismo spiritualistico come quello Vedànta
è sicuramente differente dal determinismo materialistico stoico o da quello
naturalistico-geometrico di Spinoza, ma tutti e tre posseggono la base
metafisica che li rende assimilabili in un’unica weltanschauung teologica.
Non vorremmo tuttavia neppure dare
l’impressione di non cogliere l’importanza storica assunta dall’atteggiamento
scientifico deterministico, poiché esso, pur costituendo una maniera datata di
guardare all’operatività scientifica, ha pur prodotto grandi risultati. E
tuttavia, dopo l’avvento della meccanica quantistica e la pluri-decennale
conferma della sua validità teorica, tale assunto è ancora accettabile? Noi
riteniamo di no. Ma non così la pensava Einstein, che scriveva ne I fondamenti
della fisica teorica nel 1940:
La scienza rappresenta il
tentativo di far corrispondere la varietà caotica della nostra esperienza
sensibile ad un sistema di pensiero logicamente uniforme. In questo sistema le
singole esperienze vanno correlate alla struttura teorica in maniera tale che
la coordinazione risultante sia unica e convincente. [19]
La convinzione del
grande Albert non era quindi solo metodologica, ma teorica, e ciò spiega le
posizioni da lui assunte nel corso della sua vita nei confronti di ogni forma
di indeterminismo. Egli appare per un verso come uno scienziato assolutamente
rivoluzionario e per un altro come un metafisico conservatore, il cui pensiero
si tiene ben legato a una teologia come quella di Spinoza). Tra la “varietà
caotica della nostra esperienza” (il divenire fenomenico) e la realtà
fondamentale dell’universo (il Dio-Natura) lo scienziato è pertanto quel
“traduttore” privilegiato che in un’”apparenza” indeterministica coglie
l’immutabile “sostanza” deterministica. Più avanti si legge:
D’altra parte, fin
dall’inizio si sono avuti incessanti tentativi di trovare una base teorica
unificatrice per tutte queste singole scienze [i vari rami della fisica],
formata da un minimo di concetti e di relazioni fondamentali, da cui poter
derivare, attraverso un processo logico, tutti i concetti e le relazioni delle
singole discipline. Questo è quanto intendiamo per ricerca di un fondamento per
tutta la fisica. La convinzione fiduciosa che questo obbiettivo finale possa
essere raggiunto è la sorgente principale della dedizione appassionata che ha
sempre animato il ricercatore. [20]
Nel 1940 il
ricercatore Einstein è fiducioso che l’obbiettivo verrà raggiunto:
Così è probabilmente fuori
questione il fatto che ogni futura conoscenza possa costringere la fisica ad
abbandonare di nuovo i nostri attuali fondamenti teorici statistici in favore
di altri, deterministici, che si riferiscano direttamente alla realtà fisica. [21]
“I nostri
attuali fondamenti teorici statistici” (quelli della meccanica quantistica)
sono pertanto provvisori e verranno sicuramente “superati” da altri,
deterministici, prima o poi: questa la sua convinzione. Naturalmente non sta a
noi giudicare se a sessantacinque anni da tale affermazione i post-einsteniani
siano ancora così convinti che la meccanica quantistica sia inconsistente nei
suoi fondamenti, oppure cominciano a pensare che essa sarà la porta stretta che
spalancherà una nuova visione scientifica dell’universo, indeterministica
(almeno “regionalmente”) e pluralistica (poiché l’indeterminazione esclude il
monismo). Solo il futuro darà una risposta definitiva e i posteri
verificheranno se il grande Einstein aveva ragione o se era soltanto
abbarbicato a una teologia per lui irrinunciabile. Una cosa è certa, nella disputa Bohr-Einstein
il primo appare come un affannato scolaretto di genio che deve giustificare le
proprie tesi di fronte al maestro dei maestri. Altri sostenitori
dell’indeterminazione sub-atomica dopo di lui (Heisemberg, Born e altri)
avranno miglior gioco e potranno addirittura permettersi qualche atteggiamento
goliardico, ma il “peso” di Einstein contro l’ideterminismo quantistico è
ancora in mezzo a noi, e folte schiere di scienziatì deterministi attendono il
giorno in cui quel genio della fisica avrà la sua rivincita.
Il determinismo è o non è. È difficile
immaginarlo “attenuato” o “relativo”. È un principio filosofale forte da cui
nascono la quasi totalità delle weltanschauungen note ed è
principio-guida del pensiero scientifico soltanto in secondo battuta. A partire
dagli anni trenta del secolo scorso i fautori del determinismo l’hanno visto
sottoposto, prima dalla meccanica quantistica e poi dalla nuova biologia, a
insulti teorici di non poco conto, tanto che vi è stato qualche goffo tentativo
di attenuarne il rigore. Peraltro, prima del XX secolo i tentativi per metterlo
in discussione avevano visto quali protagonisti soprattutto i difensori del
libero arbitrio (perlopiù cattolici) ed i vitalisti. Sono note le posizioni
anti-deterministe dei teorizzatori del vitalismo, derivando da ciò il fatto
assai curioso che talvolta gli indeterministi vengano acriticamente
identificati coi vitalisti. In realtà l’indeterminismo moderno in biologia è
sostenuto proprio da anti-vitalisti come Jacques Monod, che è ateo e
materialista. Né si vede quale rapporto potrebbe esistere tra una visione
materialistica del vivente (o post-materialistica, come la nostra) rispetto a
quelle vitalistiche, come quella di Teillard de Chardin o di Bergson, che sono
fondamentalmente teologiche.
4.3 Il
determinismo contemporaneo
Il determinismo contemporaneo ha perso l’omogeneità e l’univocità di
quello storico, poiché ha dovuto fare i conti dapprima con l’evoluzionismo (sia
nella forma lamarckiana prima e darwiniana poi) e quindi con la meccanica
quantistica e la biologia delle mutazioni genetiche, che hanno sufficientemente
decretato la sua insostenibilità. Ma il determinismo, come tutte le posizioni
dogmatiche irrinunciabili che nascono dalle cogenze della psiche, non può
morire. Così per esso (come per la religione cristiana di fronte al progresso
scientifico) vale la regola: flectar non frangar. Ne sono così nate
ripetute modificazioni per cercare di salvarlo da se stesso, emendandone le
posizioni più insostenibili e piegandolo alle esigenze scientifiche con posizioni
sempre più flessibili, arrivando a delle relativizzazioni che sono quasi
implicite negazioni. Ma, camaleonticamente, rimanendo la teologia della
necessità un’intoccabile verità metafisica, essa si rinnova e si adatta alle
nuove acquisizioni sulla realtà via via che la scienza procede. Nasce così
quella sorta di contraddizione in termini che è il determinismo
“evoluzionistico”, poiché di ciò che è pre-determinato dalla necessità si può
dare soltanto ripetizione o trasformazione pre-progettata, ma nulla di
evolutivo nel senso che qualcosa di “nuovo” possa accadere. Se la necessità è
ineluttabile tutto “è già dato da sempre” e la struttura del cosmo non può che
rimanere uguale a se stessa.
Il determinismo evoluzionistico è quindi un caso estremamente
interessante di conciliazione degli inconciliabili, che si dà persino tra i
sostenitori di una dottrina cristiana riformata e i materialisti incoerenti, i
quali credono nel determinismo ma ne vedono bene sviluppi in senso
evoluzionistico, ignorando con ciò l’indeterminismo di Darwin e quello ancora
più radicale di suoi seguaci come Stephen Gould e Motoo Kimura. In generale l’ideologia
cristiana tende a privilegiare posizioni fissiste, osteggiando in modo
irriducibile l’evoluzionsmo sia nella sua versione originale che nei suoi
sviluppi contemporanei, ma a latere di ciò e sempre più, anche se in
modo sotterraneo, si sviluppano tesi che (sulle orme di Newton) vedono una
sorta di “modulazione continua” della creazione da parte di un Dio. Così i
teisti cristiani eterodossi filo-evoluzionisti e i presunti atei materialisti
deterministi vedono le cose nello stesso identico modo, i primi credendo
all’opera continua di una Volontà che dirige il cosmo e i secondi all’opera di
una Necessità che realizza un metafisico “progetto intelligente” sottostante.
Ma la Necessità “assoluta” finisce per rimanere sullo sfondo, per quanto
“debba” continuare ad improntare e a pilotare il cosmo, identificandosi (ancora
spinozianamente) col cosmo stesso, ma in modo nuovo, dando l’immagine di un
cosmo auto-generantesi (un Dio-Necessità “aggiornato e corretto”). Non
intendiamo affermare che i cibernetici olisti facciano della teologia
esplicita, ma solamente rilevare che essi, inconsapevolmente, vengono a
trovarsi allineati filosofalmente non soltanto con i panteisti e i panenteisti,
ma anche con i teisti evoluzionisti che furbescamente mettono tra parentesi la Genesi.
L’aspetto più evidente assunto dal cosiddetto determinismo
evoluzionistico si dà nei seguaci della cibernetica, sia nei termini
esposti dal suo fondatore, Norbert Wiener, sia in quelli dei suoi epigoni.
Wiener sostiene l’assoluta corrispondenza del comportamento teleologico della
materia vivente (evidente) con quello della materia inorganica (nascosto). Egli
ritiene che il finalismo presente negli organismi viventi, che si evolvono
verso forme di vita sempre più complesse possa trovare corrispondenza in
macchine adeguatamente progettate dall’uomo, capaci di autogovernarsi e di
evolvere strutturalmente. Wiener pensa anche che nella realtà non esistano
contesti separati (quelli che noi chiamiamo regioni del reale [22]
) ma che tutto sia integrato olisticamente in un’unità inscindibile, al punto
che una medesima teoria possa spiegare il cosmo nella sua generalità, il
funzionamento di un organismo vivente, quello dell’atomo e quello di una
macchina intelligente costruita dall’uomo. I due concetti che stanno alla base
di tale teoria sono da un lato il feedback (la retroazione negativa) e
dall’altro quello di messaggio. Entrambi consentono di racchiudere in un
unico modello evolutivo la tecnica comunicativa, la robotizzazione, la
biologia, le scienze cognitive, la sociologia e l’economia. Siamo in pieno olismo
“materialistico”, col quale il mondo è una gigantesca macchina perfetta e
teleologica, che si muove verso il “migliore dei mondi possibili” in modo del
tutto autonomo e senza bisogno di un creatore progettista
Come osserva Pietro Greco [23]
siamo di fronte a una “causalità circolare”, generata da un sistema generale
autoregolantesi, costituito da sottosistemi che si autoregolano in modo analogo
e che, attraverso azioni e retroazioni correlate e “pilotate”, sono in grado di
auto-mutarsi al mutamento delle condizioni ambientali, evolvendo in modo da
adattarvisi e adattare la proprie strutture. Si tratta di un vitalismo che si
riallaccia alla teologia ilozoistica arcaica e ne correla la sostanza concettuale
metafisica con una curiosa sostituzione della divinità del cosmo ilozoista e
panteista con la “ciberneticità” necessitata. Il “Pilota” che inerisce la
materia è un Dio-Evoluzione che fa le stesse cose del vecchio Dio-Necessiità, e
che realizza, attraverso l’uomo, le sue eccelse virtualità solistiche,
producendo così un antropocentrismo rinnovato. Ancora una volta
uomini-microcosmi che si specchiano nel macrocosmo e lo ripetono, mentre la
fenomenologia dell’Uno-Tutto richiude su se stesso il cerchio sacro della
corrispondenza e dell’omogeneità.
Il successo della scienza del pilota,
a partire dalla pubblicazione nel 1948 di Introduzione alla cibernetica,
ha trovato riscontro al di qua dell’Atlantico nella posizione sostenuta da
Albert Ducrocq. Questi, studioso di vasta cultura e buon divulgatore
scientifico, con uno stile brillante e un buona capacità di sintesi, sviluppa
le premesse di Wiener (senza peraltro citarlo mai!) e ne offre estensioni sia
in fisica e astrofisica, sia in biochimica e biologia, con due opere fortunate
dai titoli Il romanzo della materia (1963) e Il romanzo della vita (1966).
Oggi i libri di Ducrocq, a parte il permanere di un suo vivissimo ricordo nel
suo paese, la Francia (è deceduto nel 2001), non sono più stati ripubblicati in
Italia, ma negli anni ’60, al loro apparire, ebbero un ottimo riscontro. Ci
soffermeremo a lungo su di lui perché, in un certo senso, il suo pensiero
costituisce un paradigma degli argomenti avanzati da molti deterministi
evoluzionisti del XX secolo. Anche con lui abbiamo l’ennesima riedizione del
principio in base al quale l’uomo non è altro che un universo in
miniatura. Si afferma fin nelle prime
pagine de Il romanzo della materia: «Notavo allora che l’uomo
“governa” se stesso, e oggi costruisce macchine capaci di autogovernarsi; ma
prima della sua comparsa la Terra e l’Universo si autogovernarono … » [24]
Più avanti si ribadisce: «Comprenderemo allora perché la materia diede
origine ad associazioni sempre più evolute. Al principio della catena c’erano le
particelle. All’altro capo troveremo la vita. Artefice di tutta questa
evoluzione è la cibernetica.» [25]
Il trasferimento all’universo dell’intelligenza dell’uomo attraverso le moderne
macchine cibernetiche elude i termini ingenui dell’ilozoismo “macchinizzandolo”.
Ciò fa pensare alla res extensa di Descartes alla quale la res cogitans “suprema”
dà il via all’atto della creazione ed essa prosegue, si sviluppa e si
autogoverna.
Naturalmente, come in tutti i determinismi,
anche Ducrocq stigmatizza il caso e la sua inesistenza. L’esempio che egli
porta contro di esso riguarda il fatto che gli ammassi di galassie si
dispongano nel vuoto cosmico secondo “linee” determinate e non in modo casuale,
il ché è assolutamente vero. Esse si presentano infatti come una sorta di
“collane” o di filamenti che percorrono lo spazio vuoto secondo linee di
aggregazione. Egli sottolinea questo “carattere gregario” degli ammassi per
sostenere che se esistesse il caso non ci sarebbe nessuna ragione di esso.
Ducrocq fa l’esempio classico del gioco della roulette per sostenere che in
esso si dà caso perché gli eventi sono tra loro “privi di legame” [26],
il ché è vero solo fino ad un certo punto, poiché la macchina rotante, le
caselle e la pallina un legame ce l’hanno, e come! Al punto che si potrebbe
immaginare non già un croupier fatto di carne e di ossa ma un lanciatore
meccanico che mettendo in moto la roulette in un certo modo potrebbero rendere
il gioco del tutto deterministico (col che, ovviamente, cadrebbe la sua
funzione come strumento del gioco di azzardo).
Si può sostenere che il gioco della
roulette sia indeterministico unicamente perché un croupier non è in grado di
coordinare la spinta alla rotazione né il lancio della pallina in modo
predeterminato, non già che la macchina e la pallina di per se stesse non
possano dar luogo a un esito “determinato”. Neppure l’altro “classico” della
causalità, ovvero il gioco dei dadi, è basato su un indeterminismo strutturale.
Ducrocq, a sostegno dell’ordine in cui si dispongono gli ammassi delle
galassie, parla di “reazioni a catena” nella loro formazione, concetto corretto
e in astrofisica frequente, sicché non possiamo che condividere la
“determinazione” delle collane di ammassi. L’errore sta nel fatto che viene
ignorato completamente l’”inizio” del processo (che è sempre casuale) e che le
considerazioni partono sempre da una processualità già in corso per
sottolinearne (correttamente) il determinismo ma riferendolo, scorrettamente,
al processo nella sua totalità. Una reazione a catena è sempre deterministica,
ma è lo scatenamento della reazione che non lo è. E non si tratta di porre un regressum
ad infinitum, ma semplicemente di riconoscere che in tutti processi
aggregativi “intorno” a un nucleo o “lungo” una linea di sviluppo c’è sempre un
inizio indeterministico.
Ciò che Ducrocq si propone di combattere
sono le estensioni indebite del concetto di entropia del tipo di quelle
operate da Clausius, il quale aveva ipotizzato la “morte termica” dell’universo
come generalizzazione del fenomeno. Il Nostro contesta anche, e abbastanza
giustamente, l’utilizzo di esempi basati sulla fisica dei gas, in quanto essi
costituiscono sì dei sistemi “anarchici”, ma non tutti i sistemi fisici si
comportano come quelli gassosi. Generalizzare i loro fenomeni per Ducrocq
significa fondare una tesi su una tautologia, poiché i gas rappresentano
soltanto un caso limite e non la regola, mentre vi sono molti altri sistemi
pilotati da campi gravitazionali od elettrici per cui la casualità va esclusa.
Citando la celebre immagine del demonietto di Maxwell, che manovrando una
saracinesca tra due recipienti lascia solo passare le molecole gassose che
vuole lui, determinando entropia negativa, Ducrocq afferma che un comportamento
selettivo simile l’opererebbe la gravitazione in sede cosmica, la quale non
farebbe l’ipotetico lavoretto del piccolo demone di Maxwell, bensì un
gigantesco lavoro da “fantastico leviatano”.
Prosegue il Nostro: «In linea generale,
il ragionamento antropico non ha più senso quando i componenti di un sistema
cessano di essere isolati, e in particolare quando si manifestano le forze
fondamentali: come avvenne nell’Universo fin dallo stadio della nebulosa
primordiale, in cui le particelle si trovavano in condizioni profondamente
diverse da quelle dei gas considerati alla scala dei recipienti terrestri. Data
l’entità delle masse in gioco, la gravitazione funzionò da agente di
concentrazione dirigendo l’idrogeno verso le regioni dove esso aveva già
cominciato fortuitamente ad accumularsi. La disimmetria che in certe regioni
noi designiamo col nome di ordine cessava a questo punto di essere un “caso”:
diventava lo stato verso cui il sistema doveva tendere, senza che la
probabilità c’entrasse per nulla, dato che l’evoluzione dl sistema stesso non
era più casuale ma determinata.» [27] Notiamo che si delinea una tesi
deterministica lasciandosi sfuggire il fatto che all’origine di una
determinazione stia un’indeterminazione; quella dell’idrogeno, che in certe
regioni, “aveva già cominciato fortuitamente ad accumularsi”: processo
deterministico che ha avuto quindi origine da uno indeterministico. Non è
tutto: radicalizzando un fenomeno specifico come quello gravitazionale, che è
per definizione generatore d’ordine, il nostro cibernetico compie un’operazione
altrettanto “tautologica” di chi radicalizza e generalizza i fenomeni
gassosi.
Il concetto-base di Ducrocq è quello di
“retroazione positiva”, in base al quale l’effetto stimola la causa attraverso
il feed-back e il tutto si auto-organizza in un sistema perfettamente
efficiente e ordinato che esclude ogni casualità. Si afferma ancora a proposito
della formazione di stelle e galassie: «Tutte le regole della casualità sono
sconvolte. Il movimento si alimenta da sé con crescente vigore. L’evoluzione è
inevitabile. Un processo, una volta avviato – nel nostro caso una contrazione
incipiente [quella di una stella] non può fare altro che svilupparsi, se
le condizioni restano le stesse.» [28] Il concetto di “struttura” deterministica
emerge poi nella seguente dichiarazione: «Ora, in una logica delle
strutture, la retroazione positiva appare come il processo evolutivo
fondamentale, poiché essa derivala propria origine dal sistema stesso che
funziona in corto circuito.» [29]
Affermazione del tutto gratuita, poiché, come egli stesso ha affermato poco
prima, «ogni idea d’ordine e di disordine è relativa», non si può quindi
affermare che le stelle e le galassie rappresentino “un ordine” quando
quest’ordine si rompe periodicamente in esplosioni catastrofiche, cannibalizzazioni,
mutamenti d’orbita e di stato determinati da un coacervo di cause non solo a
noi ignote ma intrinsecamente casuali. Altro obbiettivo di Ducrocq sembra
quello di depotenziare alla base ogni concetto di “mutazione casuale”, là dove
afferma: «In pratica viene il momento in cui il processo non può proseguire
perché il suo sviluppo ha mutato le basi stesse del problema. Questa è la
duplice constatazione che dobbiamo tener presente: da un lato una retroazione
positiva è generatrice di organizzazione, dall’altro la sua stessa natura le
impedisce di “arrestarsi da sola”. Vale a dire, in via molto generale, che un
processo di retroazione positiva sfocia in una “mutazione”». [30]
Per Ducrocq quindi la mutazione è “necessitata” e l’evoluzione della materia
“già data” alla sua nascita.
Per chiudere il cerchio deterministico così
disegnato in Nostro introduce poi la “retroazione negativa”, che garantisce
l’equilibrio raggiunto da quella “positiva” attraverso un processo di
stabilizzazione dell’ordine raggiunto. Mentre la retroazione positiva è
generatrice evolutiva, quella negativa opera la stabilizzazione attraverso un
provvidenziale “blocco” dell’evoluzione, che proseguendo porterebbe
disgregazione. Ducrocq ci dice così che l’evoluzione negativa, opponendosi ad
ogni variazione fortuita opera un “congelamento” del traguardo raggiunto, che
nel caso delle stelle è costituito da una certa grandezza. Né poteva mancare il
richiamo a Platone, che nel Gorgia e nel Politico aveva posto
l’arte umana della cibernetica che il Nostro vede quale proprietà dell’universo
nella sua unità-totalità che egli chiama senza alcun indugio “cibernetica
naturale”: «Perché la cibernetica, come ora comprendiamo, domina l’universo:
e non attese l’uomo per esistere e organizzare il cosmo grazie a una serie di
effetti naturali.» [31]
. Egli può così concludere: «In verità la cibernetica andava situata non già
fra le scienze e le tecniche classiche, ma al disopra, poiché lasciava
intravedere una teoria generale, considerante “tutti i tipi di rapporti” possibili fra gli elementi di un sistema,
quale che sia il loro numero e la loro natura: mentre l’ambito della
termodinamica classica è limitata al caso particolare di elementi molto
numerosi e molto piccoli, le cui evoluzioni non subiscono l’influenza di alcun
campo.» [32].
I campi quindi, o forze, sarebbero
operatori intelligenti che “pilotano” l’evoluzione verso un ordine sistemico
che rende possibile la “logica generale dei sistemi”. Ma mentre per i sistemi
sprovvisti di determinazione interna (ad esempio quelli gassosi) vale il
secondo principio della termodinamica, questo non varrebbe per l’universo,
sistema “organizzato” dove «la nozione di entropia non ha senso.» [33] Si aggiunge poco oltre: «Una volta apparsi
dei sistemi primari, le loro strutture potranno suscitarne altre; essi
funzioneranno come delle macchine.» Ne deriva una straordinaria “lezione”
olistica per cui : «La lezione va meditata: l’indipendenza totale è
illusoria, poiché l’evento puramente casuale è una finzione. Oggi i fisici
sanno che in realtà il caso perfetto non
esiste in un mondo in cui un’analisi attenta mette in luce innumerevoli
correlazioni, grazie alle quali nell’universo tutto agisce su tutto. » [34] Ducrocq lancia dunque la sua sfida teorica: «In
sede cosmica, una deteminazione sempre più strutturata mediante retroazioni a
catena sarà infatti la LEGGE NATURALE per eccellenza, perché la retroazione
positiva è il “progresso” che mette capo a nuove strutture. E la difesa di
queste sarà assicurata dalle retroazioni negative, che preannunciano la
stabilità di futuri ambienti interni. I sistemi si eleveranno nella gerarchia
degli effetti, mentre ristagno e decadenza debbono essere considerati
appannaggio di una materia abbandonata.» [35] Si notino i concetti di “gerarchia degli
effetti” e di “abbandono” che non possono che richiamare la teologia platonica.
Il saggio di Ducrocq si sviluppa per altre centosessanta pagine con
competenza ed acutezza, e la ricchezza di dati, diagrammi, scale, elenchi e
schemi porta a una girandola di numeri che paiono rafforzare la tesi dello
scrivente. E naturalmente non poteva neppure mancare la “magia” dei numeri di
pitagorico-platonica memoria poiché: «Già in seno alle stelle avevamo fatto
conoscenza con dei numeri magici, che nei crogioli stellari favorirono la
formazione di determinati nuclei.» Né poteva mancare il puntuale
riferimento alle splendide architetture dei cristalli a compimento di una
teoria della perfezione cosmica e del suo rigoroso determinismo che ha il solo
difetto di non prendere in considerazione ciò che perfetto “non è” e nuota
caoticamente nel più assoluto indeterminismo.
Ovviamente con ogni buon determinismo, e tanto più se vagamente
matematico-platonico, appare, dulcis in fundo, il riferimento alle
“forme perfette”. Così nell’ultima sezione del capitolo X, dal già
significativo titolo Verso la forma e il numero, l’autore recita:
«La natura diventa architetto. L’atomo non è un fagotto informe [bontà
sua!], ma un insieme strutturato. La meccanica delle particelle ha governato
il cielo: sulla Terra, per mezzo dell’atomo, essa introduce l’aritmetica della
materia.» [36]
Ora, che la struttura degli atomi sia matematica è fuori discussione (una mera
tautologia), poiché l’atomo “deve” essere matematico per esistere. Il problema
è se esista l’atomo perché esista una “struttura” aprioristica della materia
che lo determina o se sia l’esistenza dell’atomo che ha determinato “per il
proprio esistere” la sua struttura matematizzabile. Il fatto che esista la
scala di Mendeleev, fatta di caselle relative al numero atomico, che
posizionano in un certo ordine tutti gli elementi, non significa che prima sia
esistita la scala e poi gli elementi, ma semmai che gli atomi si dispongono
secondo una scala discreta per “numeri interi”. La scala, che non è un
“continuum”, non fa altro che disporre una pluralità di discreti secondo “leggi
di esistenza”, le quali escludono che un atomo stabile possa esistere se le
cariche totali degli adroni (protoni e neutroni) interne al nucleo non sono equilibrate
da quelle dei leptoni (elettroni) che gli stanno intorno.
4.5 Un dibattito su
determinismo e indeterminismo
Per molti versi l’importanza del determinismo risulta maggiore di quella
del monismo stesso, che ne è il suo generatore principale, al punto che questo
viene oggi molto spesso lasciato sullo sfondo, avendo ceduto il testimone a
quello nella battaglia per la sua affermazione, in quanto mezzo concettuale più
adeguato per combattere il pluralismo e il suo correlato inseparabile,
l’indeterminismo. Da ciò è nata una divaricazione teorica profonda ma dalle
numerose articolazioni, mostrando talora un fronte anti-deterministico assai
sfaccettato e non privo di ambiguità, che può posizionare vitalisti e
strutturalisti accanto ai veri indeterministi.
A tale proposito è piuttosto interessante
il dibattito sviluppatosi sull’argomento in ambito francofono all’inizio degli
anni ’80, ripreso dal libro Sul determinismo (pubblicato nel 1990) [37].
Daremo ampio spazio a questo confronto poiché ci pare che renda assai bene le
varie sfumature dell’opposizione determinismo/indeterminismo nell’ultimo quarto
del secolo appena trascorso. Il libro è curato da Krzysztof Pomian, autore
dell’introduzione, e contiene numerosi interventi di autorevoli studiosi
coinvolti nella diatriba. Essa vede, da un lato, un gruppo piuttosto compatto
di deterministi (tra i quali spicca René Thom [38])
e dall’altra gli indeterministi (in evidenza Prigogine, Atlan, Morin e Danchin)
in ordine sparso e spesso su posizioni assai differenti; più alcuni “neutrali”
tendenzialmente deterministi (come Ruelle). Si tratta di personaggi di spicco
anche in campo internazionale e portatori di tesi ben evidenziate nel dibattito
caso/necessità; questa la ragione per cui abbiamo ritenuto di poter assumere il
contenuto del libro come modello del dibattito tuttora in corso. Ovviamente
dovremo limitarci alle posizioni più significative dell’uno e dell’altro campo
rispetto al nostro tema e ciò ci porterà, ad esempio, a lasciare in ombra uno
studioso interessante come Prigogine, quantunque egli sia uno dei più noti
anti-deterministi.
Renè Thom si pone come anfitrione del
dibattito e fa la parte del leone con ben tre articoli (due, rispettivamente
all’inizio e alla fine della prima parte del libro, ed uno in chiusura della
seconda parte) a testimonianza del peso che ha questo bellicoso determinista
filo-platonico (come d’altra parte molti matematici) che si rifà esplicitamente
a Laplace. Il suo articolo di apertura del libro (e cronologicamente
anticipatore del dibattito) è bellicoso già nel titolo (Basta con il caso,
taccia il rumore) ma anche il testo che ne segue non delude chi ami le
posizioni “forti”. Thom comincia col chiamare le posizioni indeterministiche
dei suoi oppositori col nome di “epistemologia popolare francese” (in
riferimento a Monod quale capostipite “storico”) e prosegue dichiarando: «Ebbene,
per quanto differenti e talora persino opposte le filosofie ad esse [le
opere degli indeterministi che cita] sottese, curiosamente denunciano almeno
un tratto comune: tutte glorificano oltraggiosamente il caso, il rumore, la
“fluttuazione; tutte rendono l’aleatorio responsabile sia dell’organizzazione
del mondo (attraverso le “strutture dissipative”, secondo Prigogine), sia dell’emersione
della vita e del pensiero sulla terra (attraverso le sintesi e le mutazioni
accidentali dl DNA, secondo Monod)» [39].
Il nostro determinista ha le idee chiare e
dopo aver stigmatizzato il clinamen lucreziano dichiara: «Vorrei
subito dire che la fascinazione dell’aleatorio è sintomo di un’attitudine
antiscientifica per eccellenza, tanto più che – in larga misura – procede da
una sorta di propensione al confusionismo […] ». Più avanti Thom se la
prende col darwinismo (di cui sarebbe tributario Monod) specialmente nella
versione “neodarwiniana”, accusandolo di essere il vero responsabile
dell’introduzione illegittima del caso in ambito scientifico. Ciò ci conferma
nella nostra opinione che i fissisti, gli pseudo-fissisti o i cripto-fissiti
(siano essi seguaci del Dio-Volontà o del Dio Necessità) non riescono a
tollerare alcuna teoria che neghi la creazione o la necessità, l’atto volitivo
o il progetto “intelligente” immanente.
Il battagliero Thom ritorna con In guisa
di conclusione (a chiusura del Dibattito, relativo alla prima parte
del libro) dichiarando: «Una banalità: per il fatto stesso di puntare alla
costituzione di un sapere comune la scienza è deterministica. Lo si voglia o
meno, proprio perché tende a suscitare in tutti gli osservatori la medesima
reazione mentale di fronte a un medesimo dato scientifico – fatto o teoria – la
scienza è un impresa dogmatica. Ogni modello è “deterministico” in quanto vuole
dirci qualche cosa, specificare e determinare in qualche modo la nostra conoscenza.»
[40].
Dunque, secondo Thom, la scienza è “impresa dogmatica” e senza dogmi non si può
fare scienza, il che è in gran parte vero per la matematica, che è perlopiù
fondata su assiomi, ma farne una generalizzazione è del tutto errato. Per
fortuna che non la pensavano così i fisici che nella prima metà del secolo XX
impegnati a scoprire i comportamenti della materia elementare, altrimenti è
assai probabile che di fronte all’indeterminazione di essa avrebbero subito
abbandonato l’impresa. Altra opinione del Nostro è che la statistica sia
null’altro che un’ermeneutica deterministica e a tale affermazione se ne
associa un’altra dove si ripropone, inopinatamente, il lamarckismo contro il
darwinismo affermando: «In parole povere la mia obiezione alla visione
darwiniana consiste nel fatto che essa focalizza l’attenzione sui meccanismi di
variazione del genoma […] a detrimento di una valutazione dell’adattabilità
(fitness) dell’organismo.».
Thom quindi sembra ammettere l’evoluzione,
in ciò contraddicendo il suo platonismo (che non può essere, ovviamente,
che fissista), ma la vede come un processo auto-organizzativo non molto
differente da quello sostenuto da Maturana e Varela o da Stuart Kauffman (ben noti vitalisti del momento). Paradossalmente la
sua opposizione a un Prigogine, per esempio, siccome viene sviluppata
utilizzando tesi anti-darwinistiche, finisce quasi per produrre una
riconciliazione di fondo col vitalismo stesso, attraverso una sorta di
palingenesi para-platonica (per esigenze matematiche, ovviamente!) del
lamarckismo. Non già che il lamarckismo sia del tutto da buttare (anche Konrad
Lorenz, cui abbiamo fatto più volte riferimento [41],
è un poco lamarckista), ma l’utilizzo in funzione anti-darwiniana (e quindi
anti-caso) che ne fa Thom evidenzia come per lui tutto va bene purché combatta
l’indeterminismo. Rimarrebbe da chiedergli se non ritenga, per esempio, che
l’insorgenza del cancro non sia il frutto di una mutazione genetica casuale, ma
invece l’esito di un determinismo biologico . . . un poco “deviato”!
Tra le repliche oppositive a Thom ci paiono
di particolare rilievo quelle di Edgar Morin, di Henry Atlan e di Stefan
Amsterdamski. Morin nota: «Thom non
ha fatto mistero del proprio platonismo. All’opposto, mi sembra realistico
credere che il reale superi per ricchezza e complessità il formale e il
razionale. Rinunciare al determinismo ontologico equivale ad aprirsi all’idea
che la nostra logica, pur necessaria, è insufficiente a concepire la ricchezza
del reale.» Occorre dire che la sua percezione della complessità
(ricchezza) della realtà è certo più razionale di chi pretende di chiuderla in
uno schema idealistico onnicomprensivo. Quale razionalità si può riconoscere ad
un atteggiamento dogmatico che pretende di stabilire a priori che la realtà
deve obbedire a una verità insita nell’asserto “senza determinismo non si dà
scienza”? Quale scienza sarebbe possibile quando si prescindesse
dall’osservazione e si negasse realtà ad ogni datità non avvalorante il
determinismo? Sarebbe come “selezionare” i dati a partire dalla rispondenza o
meno ad un dogma: un atteggiamento di patente “irrazionalità” fideistica.
Poiché proprio di “fede” si tratta laddove si chiudano gli occhi per non
scorgere il caso all’opera nell’indeterminare la posizione dell’elettrone
in orbita intorno al nucleo o ci si tappi le orecchie per non udire il “rumore
di fondo” dell’indeterminazione cosmica. Un “universo determinato” come lo
potevano concepire Descartes, Newton, Leibniz, Spinoza e più tardi Laplace è
quindi ancora ammissibile, all’alba del XXI secolo, per gli irriducibili del
Dio-Necessità.
Prosegue Morin: «La ricchezza
affascinante, il vero oggetto della conoscenza scientifica, è la relazione (o
le relazioni) ordine/disordine, caso/necessità; è la realtà della loro opposizione
e la necessità del loro collegamento.» [42] Viene qui ben colta la realtà, costituita
strutturalmente (e non solo fenomenicamente) da un coacervo di contraddizioni,
che implicano la semplicità e la complessità, l’ordine e il disordine, la
pre-determinazione e la causalità. Morin propone poi un concetto di
“fluttuazione” indeterministica: «Così, nel fenomeno di fluttuazione che dà
il via alla comparsa di una nuova struttura, non c’è gerarchia, in un senso
come nell’altro, fra la “dinamica deterministica soggiacente” che modella “la
statistica delle fluttuazioni” e la “fluttuazione scatenante”. È piuttosto la
complementarità di due realtà di ordine differente a indurre l’indispensabile
apparizione di forme, organizzazioni, nuove strutture: ad esempio la comparsa
di un mutante che fonderà una nuova specie.» [43] Morin pensa ad un legame morfogenetico “ad
anello” col quale, a turno, ordine e disordine, necessità e caso, costituisco
la partenza e l’arrivo di un processo infinito di rigenerazione e nello stesso
tempo di conservazione della realtà, poiché: « […] l’innovazione – che
comporta un aspetto aleatorio – suscitando la formazione di una struttura/forma
stabile, è destinata a inscriversi nella ripetizione, cioè in un ordine
organizzativo che avrà al contempo modificato e mantenuto.» [44]. Si tratta della stessa tesi di Monod ripresa
con un approccio ontologico che contempla l’alternarsi di modalità della
casualità e della necessità nella determinazione del reale. Da ciò una “scienza
nuova” dalle prospettive euristiche imprevedibili e che rimette l’ordine e la
necessità ai “posti ontologici” che spettano loro, poiché «è quella che
lavora e negozia con l’aleatorio, l’incerto, l’impreciso, l’indeterminato, il
complesso.» [45]
E poi un’osservazione da manuale: «Eppure
ciascuno di noi è un sopravvissuto casuale di una eiaculazione di centottanta
milioni di spermatozoi; ciascuno di noi è il frutto dell’incontro, forse
probabile, forse estremamente improbabile, fra due genitori; ciascuno di noi è
il risultato di una combinazione/lotteria nella fusione di due patrimoni
genetici; ciascuno di noi reca nel proprio essere l’impronta di avvenimenti,
necessari ma anche aleatori, della prima infanzia.» [46] Nell’avvio alla conclusione del suo
intervento Morin rileva acutamente: «Thom, fedele a una concezione
semplicistica del procedere della conoscenza, ritiene che questa s’accresca di
luci dissipando le ombre. Ora, noi dobbiamo vedere ciò che lo stesso prodigioso
sviluppo della conoscenza scientifica ci addita: che questo straordinario
incremento di conoscenza è in pari tempo altrettanto eccezionale progresso
dell’ignoranza; risolve gli enigmi ma rivela i misteri. Più intenso si fa il
chiarore, più greve è l’ombra. Si ha progresso autentico quando la conoscenza
prende consapevolezza della mancanza che reca con sé: si tratta allora di
un’ignoranza cosciente di se stessa e non della superba incompetenza
dell’idealismo deterministico, convinto che un’equazione suprema illuminerà
l’universo e dissiperà il mistero.» [47]
Henry Atlan interviene con una
considerazione quasi ovvia, ma che vale la pena citare: «Ammettere un
determinismo causale assoluto di tutto ciò che diviene nell’universo, tale che
solamente la nostra ignoranza ci impedisce di percepirlo e di descriverlo, e
tale che ogni fenomeno può essere previsto a partire dalle leggi causali
riconosciute oppure – a buon diritto, finché dura la nostra ignoranza – da
determinazioni per il momento nascoste ma non per questo meno rigorose,
equivale a negare la possibilità di esistenza del “nuovo”. È che il nuovo può
sopravvivere esattamente nella misura in cui non poteva essere previsto. Se il
caso, incontro imprevedibile di serie causali indipendenti, è pura illusione
dovuta alla nostra ignoranza di un determinismo nascosto, allora è un’illusione
anche la possibilità del nuovo, la realtà stessa del tempo come portatore di un
avvenire imprevisto. Di conseguenza la fede nell’esistenza di un Grande
orologiaio, per il quale il tempo non è che lo sviluppo di una serie di cause e
di effetti già presenti nelle leggi che lo reggono, verrebbe a rimpiazzare la
nostra esperienza del nuovo e dell’imprevisto.» [48] Già, la “fede”, poiché proprio di questo si
tratta: i deterministi, a dispetto della presenza flagrante del caso, si
arrovellano e si arrampicano sugli specchi per dimostrare che esso non esiste,
cioè che la causalità è sempre rigorosamente univoca e “lineare”, non
ammettendo differenziazioni, sovrapposizioni, intersezioni, intrecci. Questa
visione della realtà acquista i connotati di una vera religione del
“determinato” afferente un cosmo-automa immutabile. Un “determinato” che non a
caso ricorda la reminiscenza platonica del “già saputo”, i cui modelli eterni
sono già divinamente forniti dal Demiurgo
una volta per tutte e giacenti nel fantastico Mondo Iperuranio.
L’articolo di David Ruelle rivela, a nostro
parere, una visione del rapporto caso/necessità abbastanza ambiguo, come
d’altra parte è dato rilevare anche nella sua opera più importante, il saggio Caso
e caos, pubblicato nel ’91. Sul piano ontologico si nega il caso, ma lo si
ammette sul piano esistenziale della “condizione umana”. Egli scrive: «Nel
mondo in cui viviamo il fortuito e il necessario si incontrano fianco a fianco,
l’imprevedibile va insieme al prevedibile. In un mondo siffatto la condizione
umana non mi sembra intollerabile; anzi, tentare di migliorarla immaginando di
poter piegare i cucchiaini con la forza del pensiero mi pare futile e meschino.
La vita dell’uomo è formata da una moltitudine di eventi felici e infelici,
molti derivanti da una necessità più o meno evidente, molti altri dovuti al
“caso”. Ciò significa almeno che, per quanto ci riguarda, tali fatti sono in
partenza fortuiti e senza significato, erano per noi imprevedibili e senza
dubbio non esprimono né la benevolenza di una fata né la collera di un genio
malefico. Che in partenza un certo evento – si tratti di un incontro, di una
lettura o della morte di un amico – non abbia un senso, non significa che non
ne assuma uno per noi, grande o piccolo. Se vi è una dignità nella nostra
esistenza, essa nasce in fin dei conti dalla nostra decisione di attribuire
questo o quel significato ai fatti fortuiti che ci assalgono.» [49] Ruelle coglie l’importanza della casualità
nell’esistenza dell’uomo proprio in quanto scandalosa, perché frustra ogni
capacità di accedere razionalmente al reale e quindi di dominarlo. La casualità
dà scacco alla nostra capacità di leggere la realtà e di dominarla attraverso
la previsione degli accadimenti; ma questa “sottrazione” può trasformarsi in un
“acquisto” se sullo sfondo del “non senso” del casuale intravediamo il senso
del nostro esistere “malgrado” il non-senso. E questo avviene con la
realizzazione di ciò che il non-senso ci rilascia e che noi (con una sorta di
neghentropia esistenziale) trasformiamo in sentimento o in opere d’arte, o più
pragmaticamente in conoscenza e tecnologia. È dunque l’intuizione e la
creatività umana che danno senso al mondo e non viceversa, poiché il concetto
di “senso” è roba nostra mentre l’universo non mostra alcun senso. Esso
semplicemente “è”, in quanto diviene incessantemente a dispetto di tutti gli
ontologi idealisti che lo vorrebbero statico e determinato.
Ivar Ekeland ritiene che il problema del
caso sia riferibile a due interpretazioni scientifiche riducibili a modelli
matematici, la prima riguardante i fenomeni descritti dal calcolo delle
probabilità, di cui il lancio dei dadi è un esempio canonico. E ha ragione,
esso è un gioco deterministico e noi riteniamo che tutti i termini derivati da alea
siano impropri. Basterebbe costruire un dado perfetto e studiare un
lanciatore meccanico altrettanto perfetto per riuscire con buona probabilità a
far uscire ogni volta il numero voluto. Ekeland nota giustamente che il caso
dei dadi è un caso “per ignoranza” e non un “caso in sé”, aggiungendo: «Per
incontrare il puro caso conviene far ricorso alla meccanica quantistica, la
quale associa ad ogni particella una funzione d’onda tale da permettere il caso
di una probabilità di presenza in una regione data ad un momento dato. Tutti i
tentativi condotti dagli inizi della meccanica quantistica – si ricordi in
particolare la lunga diatriba tra Bohr e Einstein – per salvaguardare la
possibilità che si tratti di un caso per ignoranza, dunque di un determinismo
nascosto, sono andati finora falliti. Sembra quindi che ci troviamo al cospetto
di un caso in sé, e che la meccanica quantistica non ammetta di essere ridotta
a modelli differenti da quelli probabilistici.» [50]
Osserva ancora Ekeland che l’equazione differenziale di Schrödinger permette sì
un calcolo rigoroso riportando il comportamento della particella in ambito
deterministico, ma: «[con essa] Si è semplicemente resa più complessa la
descrizione dell’oggetto fisico, d’ora innanzi rappresentata da un funzione
nello spazio di fase e non più da un punto di quest’ultimo. La teoria delle
probabilità, e con essa il caso, sono stati perciò rimossi dal funzionamento
interno del modello; li si ritroverà solamente al livello dell’interpretazione
quando però si voglia tradurre la funzione d’onda in termini di probabilità di
presenza, secondo un esperimento macroscopico. Ma fin tanto che tale verifica
sperimentale non sia effettuata, la funzione d’onda evolverà seguendo
l’equazione di Schrödinger, in modo puramente deterministico.» [51]
Con l’equazione di Schrödinger il caso è
stato eliminato o è stato solamente “addomesticato” a fini previsionali e di
calcolo? Ekeland precisa: «I teorici della meccanica quantistica sono dunque
riusciti a confinare il caso in una sfera ristretta e ben delimitata:
l’interazione con un osservatore macroscopico. Ma chi si avventura in questo
territorio non è più disarmato: l’interpretazione della funzione d’onda in
ragione della probabilità di presenza è un postulato scientifico costantemente
confermato dall’esperienza e consente previsioni talmente precise che non si è
poi troppo distanti dal più stretto determinismo.» [52] Ci troviamo infatti di fronte a una sorta di
“trucco probabilistico”; il modello funziona non sulla singola particella ma
nell’osservazione di “molte particelle”, le cui fluttuazioni si compensano sino
a confermare il “modello” deterministico matematico. Si tratta, prosegue
Ekeland, di un “semplice effetto statistico”, poiché è solo nell’nsieme
che “le fluttuazioni aleatorie delle singole particelle si compensano, e
tanto più quanto più sono numerose.” [53]
Il nostro modello diventa quindi deterministico solo attraverso un processo
osservativo di “compensazione”, mentre rimane il fatto che una singola
particella ha un comportamento indeterministico e nulla ci autorizza a
costruire artificialmente un “insieme” per farlo comportare deterministicamente
a nostra volontà.
Conclude il Nostro: «Ma pur trattandosi
di una sola particella e di una sola funzione ‘onda, la conoscenza di
quest’ultima – e dunque della probabilità di presenza – restringe
considerevolmente il campo delle possibilità; non si cercherà la particella in
ragioni ove la probabilità di presenza è troppo bassa.» [54] Proprio il fatto che la particella stia del
tutto “indeterministicamente” un po’ in un luogo e un po’ in un altro, o
meglio, poco in un luogo e molto in un altro (ma perché mai se c’è
determinismo?), toglie senso al fatto stesso di aver imbrigliato la casualità
del suo esistere a comportarsi in un matematico “modello probabilistico”.
Ekeland passa quindi ad esaminare la seconda interpretazione scientifica del
caso, quella che lo vede come “intersezione di due serie causali indipendenti”.
E precisa: «La forma moderna assunta da questa concezione del caso consiste
nella nozione di “rumore”. L’interesse si appunta su di una serie causale
secondaria, indipendente dalla primaria in quanto situata a una scala di molto
inferiore rispetto a quella. Alla scala della serie causale principale non è
possibile distinguere la secondaria, il cui risultato si manifesterà in un
rumore imprevedibile, determinante forse per l’esito della serie principale: il
cono in equilibrio instabile sulla punta, che osserviamo con inquietudine non
sapendo da che parte cadrà.» [55]
La distinzione ci pare corretta: il modello
“cono in equilibrio” è indeterministico soltanto se esiste una seconda
causalità indipendente dal sistema “cono in equilibrio su un piano dato”, per
esempio un colpo di vento o un terremoto, “non prevedibili” ed “estranei” al
sistema dato. La causalità primaria costituita dalle variabili a) cono sulla
punta e b) terreno di appoggio può essere del tutto “determinata” quale
condizione iniziale, ed in base ad essa quindi potrà essere del tutto
“prevedibile” da quale parte il cono cadrà. Ma Ekeland rileva che relativamente
a questa seconda interpretazione del “caso” (ma che secondo noi è proprio un
“non-caso”) si tratta di un caso “per ignoranza” e non un caso “in sé”. Se ne
trae l’ovvia conclusione che anche in questo seconda opzione interpretativa
(apparentemente più indeterministica) non c’è caso autentico. Si aggiunge: «Andando
più in profondità la nozione stessa di serie casuali indipendenti è priva di
senso fisico: l’unico sistema cui sono applicabili le leggi della fisica è il
sistema del mondo, cosicché, se una suddivisione in due sottosistemi fa
apparire ciò che sembra appartenente al caso, questo dipende dalla suddivisione
stessa, responsabile di aver occultato il soggiacente determinismo.» [56].
Ecco riapparire il monismo ontologico che dogmatizza l’esistenza di un universo
omogeneo e continuo privo di sottosistemi che producano “rumore” nella
meravigliosa melodia deterministica dell’universo. Un universo “perfetto”
dunque, retto da leggi altrettanto perfette, sì che il fatto di non scorgere il
“soggiacente determinismo” è solo frutto di ignoranza. Ekeland in tal modo
liquida la questione ontologica e ammette il caso solo in termini esistenziali
(come più o meno fa Ruelle), quale “constatazione” umana di un certo “apparire
del mondo” che non corrisponde al suo “essere”. Il caso, secondo lui, esiste
soltanto in un “interfaccia” [57]
tra la coscienza umana e una realtà fisica deterministica.
La “fede” deterministica è l’oggetto di
alcune interessanti considerazioni di Stefan Amsterdamski, che in opposizione a
Thom osserva: «È vero che l’indeterminismo proclama l’”ignorabimus”? Non
necessariamente, poiché non è costretto a dire che esiste una necessità da noi
indisvelabile; afferma semplicemente che essa non esiste, talché non c’è nulla
da scoprire. E la razionalità scientifica non sta davvero nell’andare alla
ricerca di ciò che non esiste. Per incolparne l’indeterminismo occorre
preliminarmente nutrire ogni certezza nella validità universale del principio
deterministico.» [58] Dopo aver osservato che “la
razionalità scientifica può concernere sia il determinismo che
l’indeterminismo” [59]
Amsterdamski fa un’importante distinzione tra determinismo “globale” e
determinismo “locale”: «Nella sua arringa in favore del determinismo René
Thom trascura la differenza appena menzionata; se talora si riferisce
evidentemente al determinismo globale (il caso non esiste o la necessità della
comparsa della vita e del pensiero), talaltra le sue riflessioni attengono al
determinismo locale (le osservazioni su “isole”, strutture stabili, variabili
nascoste e così via). Mi pare tuttavia incredibile che non si accorga della
differenza fra le due tesi, onde se ne conclude che non la ritiene importante.
Perché?» [60].
Aggiunge il Nostro poco oltre: «Personalmente non sono sicuro di
capire bene la posizione di René Thom, o meglio, non sono sicuro che la mia
interpretazione sia quella buona, ma non ce n’è altre che evitino di
inchiodarlo a palesi errori di ragionamento. Ora, se questa spiegazione è corretta,
ci troviamo di fronte a un tentativo veramente originale di giustificare il
determinismo facendo leva non già sulle teorie delle scienze empiriche, bensì
su un ragionamento matematico e astratto inteso a stabilire le possibili forme
di tutti i processi naturali e dunque la forma delle teorie da costruire. Si
comprende – forse – così l’atteggiamento di Thom nei confronti del metodo
sperimentale, da lui accusato di andar privo di teorizzazione preliminare dei
fenomeni oggetto di studio; anzi, inutile persino rimproverare agli
sperimentatori le verifiche condotte alla cieca e senza aver tenuto nel debito
conto le teorie in vigore, cosa d’altronde indispensabile stante che una
“sperimentazione pura” semplicemente non esiste. A sentire Thom, la teorizzazione
di cui la scienza manca sarebbe allora – qui è il nocciolo della questione –
una teorizzazione in termini di teoria matematica: l’incarnazione della
razionalità. Nondimeno, la concezione platonizzante dello statuto delle
matematiche in generale e la credenza in un’applicabilità universale della
teoria delle catastrofi in particolare, restano ambedue problematiche.
» [61]
4.5 Auto-organizzazione deterministica della materia
In questo paragrafo intendiamo trattare l’argomento da un’altra
angolazione. Noi pensiamo che il determinismo, non meno del monismo, più che un
punto di vista sia una “pulsione” che può assumere innumerevoli forme,
caratterizzate tutte dalla negazione del caso, considerato un abominio
concettuale. Superfluo aggiungere che tale pulsione può avere soltanto base
teologica e non cognitiva, ma ancor più stupefacente che possa venire ammantata
persino di ateismo, venendo a costituirsi come uno dei paradossi della
religiosità criptica che si muta in anti-religione (e spesso delle più feroci)
esprimendosi come negazione del Dio-Volontà e contemporanea affermazione del
Dio-Necessità camuffato da Non-Dio. Come è già stato rilevato sono fiorite
nella seconda metà del XX secolo molte teorie volte a conciliare
l’evoluzionismo col determinismo, ponendo l’evoluzione come “realizzazione
necessaria” di un progetto sottostante la materia. Per questa ragione occorreva
porre il concetto di “struttura” a priori, mutuandolo spesso dalla
linguistica, dove suoni e significati si prestano ad essere concepiti come
afferenti una struttura “a priori” e quindi “innata” nella mente umana. Ma, se
pure il linguaggio si presenta come fortemente strutturato, ciò non significa
affatto che lo sia a priori, bensì che lo è diventato con l’uso, secondo
principi di razionalizzazione ed opportunità comunicativa. Lo strutturalismo
linguistico, con tali connotazioni deterministiche, è poi trasmigrato in
numerose altre discipline umanistiche a cominciare dall’antropologia culturale [62],
per approdare poi, inevitabilmente, anche alla teologia.
Sull’onda del recente successo del concetto di “autopoiesi” [63]
in biologia e di quello più generale di “auto organizzazione” riprendiamo
quanto già osservato per esaminarne questo aspetto. Ma se si pone un’autopoiesi
del cosmo bisogna anche considerare l’eteropoiesi espressa nei monoteismi, per
i quali l’universo è frutto di una creazione da parte di “altro” dall’universo
stesso. Se il concetto di eteropoiesi cosmica è esplicito nelle mitologie che
implicano una creazione esso non è meno presente, ma cripatato, in molti
panteismi. Senza entrare nel dettaglio noteremo che il processo “emanativo”
dall’Uno neoplatonico è fondamentalmente eteropoietico e che lo è anche un
panenteismo come quello di Spinoza. Poiché il Dio-Natura, nelle sue forme e
nelle sue denotazioni, non è altro che l’espressione “reale” della Necessità
che lo permea e lo ordina; essendo essa a tutti gli effetti il corrispettivo
del dio-creatore del racconto biblico. Tanto è vero che, come si è visto,
Spinoza costruisce il suo capolavoro, l’Ethica, sulla base di premesse
teologiche poste nel Tractatus logicus-politicus, dove, aldilà di ogni
dubbio, il Dio-Natura non è altro che l’espressione “reale” del ”mitico”
Jahvè.
Le due principali tesi teologiche
formativo-creative del cosmo possono quindi anche venire espresse quindi come
eteropoiesi e autopoiesi. Con la prima intendiamo ogni tesi cosmogonica che
preveda una volontà o una necessità “esterna” a ciò che si forma e con la
seconda ogni tesi che teorizzi una tendenza “interna”, (naturale, intrinseca,
strutturale) che spinge la materia ad organizzarsi in modo pre-organizzato e
pre-ordinato. La prima, dichiaratamente religiosa, e la seconda,
dichiaratamente a-religiosa, sono concettualmente identiche, poiché negano che
l’evoluzione della materia possa essere un “farsi” stocastico di mutazioni
evolutive cui seguono leggi conservative “per l’esistenza”, come sostiene
l’indeterminismo. Se la prima trova la propria espressione più nota nella Genesi
biblica la seconda si manifesta nel concetto di progetto “necessitato” o
“intelligente”, dove la necessità è intelligente e l’intelligenza è
necessitata.
Un’interessante posizione, anche se poco nota, è quella assunta da
Armando Plebe nel saggio Il materialismo oggi (Fisica, biologia e filosofia
oltre l’ideologia) del 1980. L’autore, che riprende in buona misura le tesi
di Ducrocq, si muove nello spirito del più rigoroso determinismo
materialistico, ma con un’accentuazione della tesi auto-organizzativa. Egli
teorizza un “materialismo strutturale”, secondo il quale la materia
deterministicamente creerebbe le proprie strutture sino alla comparsa della
vita, attraverso l’autorganizzazione progressiva. L’autore, che ha buona
conoscenza della cultura sovietica, avvia la prima parte del libro (Il
materialismo fisico) con un riferimento alla situazione culturale della
patria del materialismo rilevandone i limiti ideologici. Da ciò proietta il suo
neo-orizzonte materialistico nella complessità del panorama della fisica
contemporanea citando Einstein, Feynman e altri fisici. Il materialismo di
Plebe intende così superare certe posizioni ingenue del materialismo classico
(basato sulla “solidità” materiale) in una visione più aggiornata, che tenga
conto dell’indeterminazione subnucleare e delle complessità dell’astrofisica.
Ciò comporta anche il liberarsi da quella “coazione a simmettrizzare” che
pervade il pensiero filosofico materialista in tutte le epoche.
Il Nostro rileva poi che nel mondo subnucleare non esistono “cose che si
misurano” ma soltanto “misure”, in funzione della definizione di un
materialismo che vada oltre schemi pregressi. Egli propone infatti di: « […]
abbandonare il vecchio concetto degli oggetti come di una materia sostrato dei
fenomeni e di considerarli invece come funzioni, ovvero punti di riferimento,
dell’unica materia che si presenti come effettivamente reale e non oscillante
tra realtà e possibilità, che è la materia dei cosiddetti mezzi conoscitivi che
ci circondano. Materia cioè è la realtà energetica, luminosa, termica che
effettivamente percepiamo; invece il sostrato (ovvero gli oggetti cosmici in
cosmologia, i microoggetti in microfisica) è una realtà secondaria che viene
costantemente e strutturalmente richiamata alla realtà primaria, ma che sarebbe
impossibile considerare come la realtà prima.» [64] Su ciò non vi sarebbe nulla da eccepire e si
potrebbe persino ritenere condivisibile l’”inversione” del fondamento
materialistico da oggetti fisici (masse) ad energia, ma tale atteggiamento rivela
il suo fondo mistico quando va molto oltre e arriva a proporre
un’“intelligenza” intrinseca alla materia, una tesi panteistica incoerenti col
materialismo. È corretto pensare una materia indipendente dal suo tradursi in
“materialità” rilevabile e pesabile, al momento che ciò che conta sono le
azioni e le reazioni più che gli oggetti fisici in se stessi, ma occorre stare
a non cassare la “pluralità” finendo in un’ottica monistica che non collima per
nulla con la realtà fattuale e osservazionale. Ottica nella quale ci pare che
Plebe si ponga citando Zenone di Cizio, il quale, secondo la testimonianza di
Aezio (IV, 20, 2), avrebbe già sostenuto che la materia è fatta di “azione e
reazione” piuttosto che di “cose”.
Se, come affema Plebe, riprendendo una tesi del Polhenz, la posizione
stoica è “la più autentica posizione materialistica”, si vede come i
materialisti finiscano spesso per cadere nella teologia filosofale. Nella
seconda parte del libro citato (dal titolo Il materialismo biologico) il
Nostro mostra segni evidenti della sua deriva metafisica, sviluppando il
concetto di “saggezza” della materia quale “informazione” strutturale
soggiacente che istruirebbe e piloterebbe il suo sviluppo sino alla comparsa
della vita. Ma Plebe sembra anche cogliere il pericolo cui può portare il
considerare la struttura fisica della materia null’altro che una struttura
matematica, nel qual caso ci sarebbe «una vittoria dello spiritualismo sul
materialismo», però egli non trae le conseguenze logiche di tale affermazione.
Col suo discorso sulla saggezza della materia non si accorge che questa non può
essere infatti che matematica, ricadendo con ciò nelle accoglienti braccia di
Platone, l’anti-materialista che crede nella divina verità dei numeri. La
matematica, infatti, se non viene colta adeguatamente come mero strumento
primario della fisica (ma non “nella” materia) non può che identificarsi con
tale saggezza della materia. Con l’assunto di un materialismo radicale a caccia
di coerenza deterministica il nostro filosofo finisce per approdare alla
patente incoerenza di un “idealismo materialistico”.
Il Nostro esplicita poi il suo concetto di “automontaggio” della
materia, già posto dal filosofo sovietico Utevsckij nel 1970 notando
compiaciuto: «Qui invece i comportamenti vitali degli organismi vengono
visti come reazioni, o retroazioni, di fronte alle più elementari azioni dei
sistemi materiali circostanti: è un parallelismo non più statico bensì
dinamico, anche se avviene totalmente all’interno della materia per il fenomeno
che viene qui denominato “samosborka”, ovvero automontaggio.» [65]
Siamo così arrivati al punto chiave dell’argomentazione di Plebe, che è poi
anche quello che lo collega a Ducrocq, il quale viene citato a più riprese come
estensore di un compiuto materialismo olistico ed evoluzionistico. Nel settimo
capitolo (La “saggezza” della materia e la sua concezione strutturale)
vi è il riferimento a un “asse teorico” tra Ducrocq e il biologo inglese
Michael Ruse (autore di The philosophy of biology, 1973) che si
costituisce contro il “casualista” Monod nei termini seguenti: «Queste
impostazioni di Ducrocq e Ruse sono chiare e difficilmente confutabili. Invece
le vicende della moda intellettuale, talora capricciose e imprevedibili, talora
abilmente manovrate dalla politica editoriale, hanno fatto sì che assai più che
non i loro due libri incontrasse fortuna il breve volume (uscito nel 1970
nell’intervallo fra l’apparizione del libro di Ducrocq e quello di Ruse) di
Jacques Monod “Le hasard et la necessité”, il quale tenta invece, in maniera
puramente fideistica, di salvare, sia pure a livello di “insondabile
profondità”, la spiegazione spiritualistica della biologia che continua a veder
nei fenomeni della vita l’antico dualismo tra anima e materia.» [66]
Va detto, per l’esattezza, che Monod aveva affermato «Chi potrebbe
dubitare della presenza dello spirito? Rinunciare all’illusione che vede
nell’anima una “sostanza” immateriale non significa negare la sua esistenza, ma
al contrario cominciare a riconoscere la complessità, la ricchezza,
l’insondabile profondità del retaggio genetico e culturale.» [67]
Nel citare questo passaggio di Monod c’è veramente da chiedersi se Plebe non
abbia capito o se sia consapevole di aver operato una forzatura indebita
nell’intendere in senso spiritualistico la parola “spirito”. La quale, nelle
parole di Monod, ha accezione del tutto generica; tanto più che il passo si
chiude con il riferimento a un “retaggio genetico e culturale” a proposito
dell’anima che non lascia adito a dubbi circa la sua origine esclusivamente
biologica, e quindi assolutamente materiale. Il Plebe, col suo approccio
deterministico, commette il solito errore dei metafisici di ritenere che
soltanto l’ammissione di una necessità nei comportamenti della materia possa fornire
una spiegazione accettabile dell’universo.
Come si vede il cerchio si chiude e, inopinatamente (ma neppure tanto),
la tesi di fondo di un materialista monista e riduzionista torna, proprio
attraverso la metafisica sottsa al suo ragionamento, per risultare quella dei
deterministi misticheggianti del “Principio antropico forte” [68].
Plebe arriva poi a richiamarsi a Cassirer (capitolo 12, La materia come
funzione) nell’affermare: «In questo senso la trasformazione della
materia da sostanza in funzione di cui parlava Cassirer negli Anni venti asume
l’aspetto di un’interconnessione materiale tra fenomeni, “cose in sé, e
funzioni, ciascuno dei quali esiste solo nella struttura che insieme li
connette.. [69]
Dunque abbiamo qui un materialismo che rivivifica il concetto di “cosa in sé”
per annegarlo nel profondo di una struttura integrata in cui il fenomeno
ridiventa (come nell’idealismo) aspetto secondario dell’essere della materia,
che si presenta come “funzione” di una sorta di “spirito della materia” soggiancente
al divenire fenomenico.
Il punto di vista dell’iper-materialista
Plebe ritorna in teorizzazioni di successo conseguenti alla temperie
“spiritualistica” in voga dagli anni ‘70. Va però precisato che alle teorie
auto-organizzative materialistico-deterministiche se ne affiancano altre di
carattere creazionistico-vitalistico, che si dividono in due categorie: quelle
che hanno una visione dell’auto-creazione della materia di tipo casuale e
spontaneo (è la tesi di Prigogine), e quindi fondamentalmente laicistico, e da
un altro quelle che vedono nell’auto-creazione il pilotaggio di un’imput “intelligente”.
È evidente che ci troviamo di fronte al solito “progetto intelligente”; e sia
che esso venga impresso dal Dio-Volontà-Bontà o dal Dio-Necessità-Intelligenza,
dal punto di vista ontologico, si tratta della stessa tesi filosofale
perpetuamente rimasticata e digerita.
Pensiamo di poter chiudere con questa
fortunata tesi del “progetto intelligente” per ribadire che l’universo, sia che
venga visto come statico oppure come dinamico, in entrambi i casi il progetto
fornisce un risultato identico: il determinismo. L’imbarazzo di continuare
a riferirsi a un Dio diventato qualche volta imbarazzante, e soprattutto sempre
meno sostenbiile alla luce della fisica e della biologia contemporanee, ha
trovato un facile e conveniente sbocco nel “progetto intelligente”. Non si cita
più Dio (per non dovere fare in conti coi suoi ben noti pentimenti biblici [70])
e se ne fa un’”intelligenza” eterna, indefettibile, perfetta, sovrana e
assoluta, “che non sbaglia mai” perché “non può sbagliare”. Con ciò vanno
perduti persino i sentimentalismi di un Dio amorevole e pietoso. No, il nuovo
Dio è ragione pura! Un mostro di intelligenza spersonalizzata, che permea ogni
quark e lo fa essere così e non altrimenti!
Almeno il vecchio Dio di Sant’Agostino e di San Tommaso si poteva ancora
invocare e pregare. “Questo” è così assoluto, che è assolutamente Il culmine
dell’assolutizzabile. Un Super-Dio così divino che . . . non lo si può più neppure
chiamare Dio.
[1] I Presocratici, a cura di
Angelo Pasquinelli, Torino, Einaudi 1958, p.234.
[2] Francesco Bacone, Novum organum,
a cura E. De Mas, Roma-Bari, Laterza 1992, p.59.
[3] Su questo argomento si vedano i
capitoli IV e V di Atesimo filosofico nel mondo antico, Clinamen 2005,
pp.144-165.
[4] Vedi Ateismo filosofico nel mondo antico,
op.cit., pp.141-197.
[5] Immanuel Kant, Storia generale
sulla naturale universale e teoria del cielo, cura A. Cozzi, Roma, O.Barjes
1956, p.XXVIII.
[6] Ivi, p.XXXII.
[7] Emmanuele Kant, Critica della
ragion pura, Roma-Bari, Laterza 1965, p.181.
[8] Georg W. F. Hegel, Enciclopedia
delle scienze filosofiche, Roma-Bari, Laterza 1984, p.150.
[9] Pierre Simon Laplace, Opere,
UTET, Torino 1967, p.243.
[10] Gottfried W. Leibniz, Monadologia
e Discorso di metafisica, Roma-Bari, Laterza 1986, p.43.
[11] Ivi, p.44.
[12] Citato in: Ernst Cassirer, Determinismo
e in determinismo nella fisica moderna, La Nuova Italia, Firenze 1970,
pp.23-24.
[13] Gottfried Wilhelm Leibniz, Scritti
sulla libertà e sulla contingenza, a cura di
[14]
P.S.Laplace, op.cit., p.242.
[15]
E.Cassirer, op.cit., p.12.
[16] Emmanuele Kant, Critica della
ragion pura, Roma-Bari, Laterza 1965, p.511.
[17] Immanuel Kant, Critica della
ragion pratica, Roma-Bari, Laterza 1974, p.152.
[18] Per comprendere la nostra
affermazione sul “casualismo” leucippeo si vedano i capitoli IV e V del già
citato Ateismo filosofico nel mondo antico.
[19] Albert Einstein, Opere scelte,
a cura di E.Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p.564.
[20] Ivi, p.565.
[21] Ivi, p.575.
[22] La nostra tesi è che la realtà sia
pluralistica nella sua generalità (pluralismo ontologico del reale) e
che si debbano distinguere regioni del reale distinte e differenti,
nelle quali non valgono in tutto e per tutto le stesse leggi. Infatti, le leggi
che sovrintendono ai comportamenti delle particelle elementari della materia
sub-nucleare sono soltanto in parte le stesse che concernono la materia
vivente.
[23] Cfr. voce Cibernetica, in
Einstein e il ciabattino, Editori Riuniti, Roma 2002, pp.98-99.
[24] A.Ducrocq, Cibernetica e
universo. Il romanzo della materia, Einaudi, Torino 1967, p.18.
[25] Ivi, p.105.
[26] Ivi, p.67.
[27] Ivi, p.116.
[28] Ivi, p.117.
[29] Ivi, p.118.
[30] Ivi, p.120.
[31] Ivi, p.125.
[32] Ivi, p.127.
[33] Ivi, p.128.
[34] Ivi, p.128.
[35] Ivi, p.129.
[36] Ivi, p.273.
[37] AA.VV. Sul determinismo (La
filosofia della scienza oggi), a cura di Krzysztof Pomian, Milano, Il
Saggiatore 1991 (Testi di R.Thom, E.Morin, I.Prigogine, H.Atlan, A.Danchin,
D.Ruelle, I.Ekeland, J.Largeault, J.Petitot, S.Amstwerdamski, I.Stenghers).
[38] René Thom è un matematico francese
di indubbia inventiva. È sua la “teoria delle catastrofi”, un ingegnoso sistema
matematico-logico-geometrico per ricondurre il caos all’ordine. Con esso le
irregolarità vengono ridotte a regolarità attraverso strumenti matematici che
danno luogo a una curiosa classificazione di vari tipi di catastrofi
geometricamente “addomesticate”, dai nomi fantasiosi di: piega, cuspide, coda
di rondine, farfalla, ombelico ellittico, ombelico iperbolico e ombelico
parabolico. Le più recenti teorie del cosiddetto “caos deterministico” hanno
finito per mettere un po’ in ombra le teorizzazioni di Thom.
[39]
Op.cit., p.47.
[40]
Op.cit., pp. 120-121.
[41] Necessità e libertà,
Firenze, Clinamen 2004, pp.24, 67 e 214.
[42]
Op.cit., p.74
[43]
Op.cit.p.75.
[44]
ibidem
[45]
Op.cit.pp.76-77
[46]
Op.cit. p.80.
[47]
Op.cit. pp.81-82.
[48]
Op.cit., pp. 96-97.
[49]
Op.cit., p.138.
[50]
Op.cit., p.140.
[51]
Op.cit., p.141.
[52]
Ibidem.
[53]
Op.cit., p.142.
[54]
Ibidem.
[55]
Ibidem.
[56]
Op.cit., p.144.
[57]
Op.cit., p.145.
[58]
Op.cit., p.203
[59]
Op.cit., p.206.
[60]
Op.cit., pp.208-209.
[61] Op.cit., pp. 209-210.
[62] Il più importante esponente dello
strutturalismo antropologico è Claude Levi-Strauss (cfr. Ateismo filosofico
nel mondo antico, op.cit., pp.30-31)
[63] Si veda:
H.Maturana e F.Varala, Autopoiesi e cognizione, Venezia, Marsilio 1984,
e ss.aa., L’albero della conoscenza, Milano, Garzanti 1987.
[64]
A.Plebe, op.cit., p.47.
[65]
A.Plebe, op.cit., p.59.
[66]
A.Plebe, op.cit., pp.74-75.
[67] J.Monod, Il caso e la necessità,
Milano, Mondadori,1997, p.145.
[68] Il cosiddetto “Principio Antropico”
nasce dalal convinzione che soltanto una serie “miracolosa” di coincidenze avrebbe permesso la nascita
della vita sulla Terra e la comparsa dell’homo sapiens. In altre parole,
il nostro universo si sarebbe evoluto in una certa maniera per far sì che vi
comparisse l’uomo. Il primo a pensare a ciò era stato il grande fisico Paul
Dirac nel 1938, che aveva parlato di “connessioni causale ignote”. Tale
riflessione venne ripresa da Robert Dicke nel 1961, arrivando a formulare un
P.A. “debole”, col quale si sostiene che solo con universo “così” poteva
nascere, ad un certo momento della sua evoluzione, un osservatore consapevole
di esso. Fin qui la considerazione ci sembra ancora del tutto legittima. Ma
esiste anche una versione “forte” del P.A. posta dal matematici-fisici John
Barrow e Franck Tipler nel 1986 con laquale si ritiene che l’universo “debba”
avere le proprietà che ha affinché la vita nascesse e si sviluppasse fino
all’uomo. Tale antropocentrismo finalistico ripropone, evidentemente, il tipico
punto di vista di tutte le religioni.
[69]
A.Plebe, op.cit., p.115.
[70] Genesi, 6.5 (La Sacra
Bibbia, op.cit, p. 19.)