CAPITOLO
I
Conoscenza
della realtà e invenzione di una meta-realtà
1.1
Dedurre il cosmo dall’esistenza di Dio
Abbiamo rilevato nella prefazione come il teologo filosofale operi molto
spesso nella più totale inconsapevolezza del condizionamento cognitivo che
subisce avendo posto l’idea di Dio come indefettibile e veritativa conoscenza
primaria. Ritenendo, di conseguenza, che solo a partire da essa sia possibile
accedere alle verità secondarie concernenti il mondo materiale. Se si
analizzano con attenzione gli scritti di molti pensatori che vengono
considerati comunemente “laici” ci si renderà facilmente conto che spesso tale
assunzione risulta palesemente impropria. E ciò accade perché si dà talmente
per scontato che un qualche tipo di “credenza” metafisica nel “divino” debba
albergare nel fondo delle coscienze che non si correla questo fatto ai rischi
che nasconde tale pregiudizio per qualsiasi indagine sul “non-divino”. Si
aggiunga che abbastanza spesso nella manualistica e nella antologie si
privilegiano i passi dei grandi autori ritenuti speculativamente “più interessanti”,
separandoli da altri ritenuti “meno interessanti” e di carattere aprioristico,
dimenticando che molto spesso sono proprio questi che fondano quelli e li
supportano ideologicamente. Questa mancanza di approfondimento delle premesse
fideistiche fondanti il pensiero metafisico non conduce soltanto a delle
incompletezze, bensì ad equivoci e fraintendimenti spesso assai gravi, che non
rendono dopo tutto neppure giustizia alla fede sincera espressa dai metafisici
filosofali.
Rimane da chiedersi che cosa avrebbero potuto produrre, in termini
gnoseologici, acuti pensatori del passato se non fossero stati condizionati
dalla fede. Concentreremo qui la nostra attenzione, esemplificativamente, su
quel periodo storico nel quale è nato un pensiero metafisico che avrebbe poi
improntato di sé tutte le evoluzione della teologia filosofale moderna. Ci
riferiamo al XVII secolo e ai grandi sistemi metafisici formulati in modo
eminente da Descartes, Spinoza e Leibniz. Mentre del secondo tratteremo più
specificamente nel § 3.6, faremo qui un accenno d’insieme, mettendo in evidenza
come l’apriori fideistico da essi enunciato costituisse la “primaria” base
irrinunciabile di ogni loro “secondaria” tesi filosofale. Seguendo l’ordine
cronologico cominceremo con Descartes, che nasce nell’ultimo scorcio del XVI
secolo e che avvia per primo la grande ricerca metafisica di quella temperie
abbastanza particolare nella storia dell’umanità, a cavallo tra un passato
teologico ingombrante e un futuro scientifico ancora soltanto aurorale.
Naturalmente la questione che qui intendiamo porre ha orizzonti assai più ampi,
riguardando, in generale, il condizionamento che l’assunzione aprioristica
dell’esistenza di Dio produce sui processi cognitivi, ma basteranno questi
pochi accenni per far comprendere la serietà dei problema interpretativi e
storiografici che intendiamo evidenziare.
René Descartes pubblica nel 1641 le Meditationes
de prima philosophia e nel 1644 i Principia philosophiae; due
opere fondamentali del suo pensiero e dalle quali trarremo pochi passi
significativi. Nella Terza meditazione, che ha per tema Dio e la sua
esistenza, Descartes scrive :
[15], […] Di più, quella per la quale io concepisco un Dio sovrano,
eterno, infinito, immutabile, onnisciente, onnipotente e creatore universale di
tutte le cose che sono fuori di lui, quell’idea, dico, ha certamente in sé più
realtà oggettiva di quelle, da cui mi sono rappresentate le sostanze finite. [1]
Descartes, come tutti i teologi platonici, è
convinto che “innativamente” l’idea di Dio sia per se stessa conoscenza della
suprema Verità e quindi fondante di ogni altra conoscenza. E trae da ciò uno
dei suoi assiomi fondamentali al fine di dimostrare che l’idea di Dio “deve”
corrispondere alla sua esistenza reale scrivendo subito dopo:
[16] Ora, è una cosa manifesta per luce naturale, che deve esserci per
lo meno tanto di realtà nella causa efficiente e totale, quanto nel suo
effetto: perché, donde l’effetto può trarre la sua realtà, se non dalla propria
causa? E come questa causa potrebbe comunicargliela, se non l’avesse in se
stessa? [2]
Il ragionamento, in astratto, non è solo
corretto, ma anche piuttosto acuto e condivisibile. Non lo è più quando si
assume dogmaticamente che il cosmo sia un “effetto” e che vada ricercata una
sua causa che lo trascenda o intrinsecamente lo informi. Ma il Nostro prosegue
ignorando questo aspetto del problema, seguendo rigorosamente il “suo” filo
logico basato su un principio che per l’epoca era assiomatico e che verrà
ribadito con decisione da Leibniz. Aggiunge infatti Descartes:
[17] E da ciò segue non solamente che il niente non potrebbe produrre
nessuna cosa, ma ciò che è più perfetto [Dio],
cioè che contiene in sé maggior realtà, non può essere una conseguenza ed una
dipendenza del meno perfetto. E questa verità non è solo chiara ed evidente
negli effetti, che hanno quella realtà che i filosofi chiamano attuale o
formale, ma anche nelle idee, dove si considera solamente la realtà che essi
chiamano oggettiva: […] [3]
Si vede bene come Dio (il frutto di un’idea)
diventa immediatamente reale in quanto supposta “perfezione” assoluta, e se ne
trae la conclusione che il cosmo, per quanto “materialmente” perfetto, deve
avere la sua causa in qualcosa di “spiritualmente” perfetto che ne sia origine,
poiché esso è presente “realmente” nella mente umana come “Idea” suprema e
innata di un Dio necessariamente “reale” proprio in quanto “pensato”. Superfluo
rilevare che l’idealismo raggiunge qui uno dei suoi storici vertici speculativi
come “creazione” logico-dialettica del divino.
Veniamo ora a quella sorta di monumento di
pseudo-fisica che è il Principia philosophiae, dove Descartes fa
precedere la sua esposizione con il principium primum concernente la
certezza dell’esistenza di Dio, soltanto a partire dalla quale possono derivare
altre certezze. Lo sviluppo dell’argomento riguarda tutta la Prima parte
dei Principia, ma ci limiteremo a un paio di significative
affermazioni. Cominciamo dalla prima (I, 14):
[14] Considerando poi che fra le diverse idee, che ha presso di sé, ve
n’è una di un essere sommamente intelligente, sommamente potente e sommamente
perfetto, che è di gran lunga la più importante di tutte; arriva a conoscere in
essa l’esistenza, non soltanto possibile e contingente, come nelle idee di
tutte le altre cose, che concepisce distintamente, ma del tutto necessaria ed
eterna. [4]
[…] così dal solo fatto che percepisce, che l’esistenza necessaria ed eterna è
contenuta nell’idea di ente sommamente perfetto, deve senz’altro concludere che
l’ente sommamente perfetto esiste. [5]
L’idea di Dio
è “necessaria ed eterna” (come all’incirca già pensava Sant’Anselmo) e dunque
si può dubitare di tutto, a cominciare dai nostri sensi fino alle nostre
deduzioni (quelle matematiche comprese), ma non si può dubitare dell’esistenza
di Dio, della sua perfezione, della sua onnipotenza e di averci creati.
Descartes sviluppa ulteriormente questo assunto fondamentale prima di avviare
l’indagine cosmologica e quella fisica, quale premessa ineludibile e basilare.
Ma non basta: alla fine di tutte le sue considerazioni sul cosmo, sui corpi
celesti, sulla Terra e su tutti i fenomeni che la concernono, si preoccupa
diligentemente di definire le uniche due certezze possibili in omaggio alla
suprema verità divina (IV, 205-206):
Nondimeno, affinché io non faccia torto alla verità, [supponendola meno
certa di quanto non sia, distinguerò qui due sorte di certezze]. La prima è
detta morale, ossia sufficiente […] [6]
L’altra sorta di certezza è quando pensiamo che non è in alcun modo possibile
che la cosa sia diversa da come noi la giudichiamo. Ed essa è fondata su un
principio di metafisica [sicurissimo, e cioè che], essendo Dio sovranamente
buono e fonte di ogni verità, [poiché è lui che ci ha creati], è certo che la
[potenza o] facoltà che ci ha dato per distinguere il vero dal falso, non
c’inganna, quando ne facciamo buon uso ed essa ci mostra [evidentemente che]
una cosa [è vera]. [7]
Non possiamo
che manifestare ammirazione per la razionalità con cui Descartes svolge la sua
analisi metafisica, ma non possiamo non domandarci quale legittimità
gnoseologica possano avere tesi cosmologiche e fisiche dipendenti da un a
priori fideistico che “pilota” qualsiasi altra indagine sugli “effetti” della
Creazione.
Soffermiamoci ora brevemente su Spinoza,
del cui pensiero tratteremo ampiamente in seguito, per riportare qui una sua
affermazione fondamentale, che si pone sullo stesso piano di quelle citate di
Descartes, e che troviamo proprio nelle prime righe dell’Ethica (Definizione
VI) che recitano:
Per Dio intendo
l’ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di infiniti
attributi, ciascuno dei quali esprime un’eterna ed infinita essenza. [8]
Cui segue (Assioma IV)
un’affermazione che ricorda il punto [16] della Terza meditazione di
Descartes:
La conoscenza
dell’effetto dipende dalla conoscenza dalla causa e la implica. [9]
Troviamo un’interessante
conseguenza di tale assioma laddove Spinoza, nel Tractatus
theologico-politicus, a proposito della legge divina (IV), afferma:
[…] per Legge
Divina, invece, intendo quella Legge che mira soltanto al sommo bene, cioè alla
vera conoscenza e all’amore di Dio. [10]
L’identità tra l’obbiettivo
del “sommo bene” che è nel contempo conoscenza “vera”, viene assiomatizzata
nella conseguente identità tra l’elemento gnoseologico e quello etico, che
vengono perfettamente a coincidere in un principio teologico che è quello che
sta alla base di tutta la speculazione dell’Ethica. Il Nostro precisa
poco dopo:
Anzi, siccome ogni
nostra conoscenza e la certezza che toglie ogni dubbio, dipendono dalla sola
conoscenza di Dio, sia perché senza di Dio niente è e niente si può concepire,
sia perché possiamo dubitare di ogni cosa finché non abbiamo di Dio alcuna idea
chiara e distinta, segue che il sommo nostro bene e la massima perfezione
nostra dipendono soltanto dalla conoscenza di Dio. [11]
Dunque, la conoscenza chiara
e distinta di Dio (cioè la sua “idea” chiara e distinta) è la base di ogni
altra conoscenza. E ciò perché senza Dio (ovvero senza l’idea di Lui) niente
“può essere”. Ciò significa che solo a partire dall’idea di Dio il mondo “è”, e
diventa possibile conoscerlo. E si può conoscere il mondo (e teorizzare su di
esso) soltanto se prima si pone l’identità amore/conoscenza di Dio come
premessa ad ogni altro amore e ad ogni altra conoscenza. Da cui:
Stabilito, intanto, che l’amore di Dio è la massima felicità dell’uomo,
la beatitudine e il fine ultimo e lo scopo di tutte le azioni umane, segue
necessariamente che colui solo segue la legge divina, il quale procura di amare
Dio, non per paura dei supplizi, né per amore di beni caduchi, come i piaceri e
la fama, ma per questo solo che lo conosce; cioè, perché sa che il sommo bene
consiste nella conoscenza e nell’amore verso Dio. [12]
Chiudiamo questo nostro breve excursus sulla
metafisica del ‘600 con Gottfried Leibniz (che però opera già in parte nel
‘700) e lo faremo prendendo in considerazione due tra le sue opere più
importanti: il Discorso di metafisica del 1686 e la Monadologia pubblicata
nel 1714. Il Discorso di metafisica si apre così:
[1] La nozione di Dio più diffusa e più significativa che abbiamo si
riflette abbastanza bene in questi termini: Dio è un essere assolutamente
perfetto. [13]
Se si sperasse di trovare più oltre un
chiarimento di questa affermazione si rimarrebbe irrimediabilmente delusi. Tra
Dio e la sua assoluta perfezione non v’è alcuna mediazione, l’uno
identificandosi aprioristicamente con l’altra. Dio non può essere che assolutamente
perfetto e l’assoluta perfezione non può essere che in Dio. L’dea della
possibilità di un’Assoluta Perfezione si invera nell’idea di Lui e la sua
esistenza si desume dalla certezza che esista un’Assoluta Perfezione che Egli
incarna. Il Nostro prosegue:
Ma di ciò non si considerano abbastanza le
conseguenze; e, per entrare in maggiori particolari, è opportuno osservare che
nella natura vi sono molte perfezioni, tutte differenti; che Dio le possiede
tutte insieme, e che ciascuna gli appartiene nel grado più alto. [14]
Dunque, la natura presenta delle perfezioni
(ma non si capisce rispetto a che cosa e con quale metro le si valuti) e Dio le
possiede tutte quale perfezione-delle-perfezioni. La logica dell’asserzione
leibniziana si spiega così:
Occorre conoscere che cos’è la perfezione; ed eccone un carattere
abbastanza sicuro: le forme, o nature, non suscettibili di un grado estremo non
sono perfezioni. [15]
Rimane da capire perché una non-perfezione
“non” possa essere suscettibile di un “grado estremo” di imperfezione. Ma
Leibniz ricorre al numero e alla figura:
All’invidiabile
sicurezza leibniziana sarebbe solo il caso di osservare che il numero e la
figura sono enti, in qualche misura, “della realtà”, mentre l’onniscienza e
l’onnipotenza sono puri frutti “del pensiero” iperbolico. Appaiare
ontologicamente “cose” che si possono enunciare, formulare, disegnare e
lavorarci su, ed “idee” non immediatamente traducibili in progetti e cose (e
neppure in numeri e figure) sia piuttosto improprio. Ma proseguiamo:
Pertanto scienza e potenza sono perfezioni e, in quanto appartenenti a
Dio, non hanno limiti. Ne segue che Dio, possedendo la saggezza suprema e
infinita, agisce nel modo più perfetto, non solo in senso metafisico ma anche
morale. Rispetto a noi si può dire che, quanto più saremo illuminati e
informati nelle opere divine, tanto meglio saremo disposti a trovarle
eccellenti e interamente conformi a tutto ciò che si può desiderare. [17]
Posto dunque che
scienza e potenza sono ”perfezioni” e Dio è infinito, esse, in Dio, devono
esser infinite, e perciò la sua saggezza è suprema e infinita (straordinaria
tautologizzazione di una “verità” suprema!) Ma non basta: siccome Dio oltre che
onnisciente e onnipotente è anche “infinitamente buono”, dal piano metafisico
si passa immediatamente a quello morale, ed allora conoscere Dio vuol dire
conoscere, insieme alla sua perfezione in termini di scienza e potenza, anche
la sua infinita bontà. Ne deriva che l‘uomo con ciò raggiunge “tutto ciò che
può desiderare”: ovvero Dio stesso.
D’altra parte Leibniz ci dice poco più avanti:
[4] La conoscenza generale di questa grande verità, che Dio agisce
sempre nel modo più perfetto e più augurabile possibile, è, secondo me, il
fondamento dell’amore che dobbiamo a Dio al di sopra di tutto. [18]
Dunque, il
riconoscimento della “grande verità” non solo è fondamento di ogni altra
conoscenza, ma porta direttamente all’amor dei e con esso a
quell’ottimismo metafisico che non conosce defezioni. A questo punto l’omeostasi
[19]
psichica non è soltanto conseguita, ma alimentata e mantenuta al massimo
livello, nella convinzione che la perfezione di Dio non possa che condurre al
meglio possibile per noi.
Nella più tarda Monadologia i
concetti diventano più schematici e quasi aforistici, essendo l’opera una sorta
di compendio della teologia leibniziana reso in 90 brevi proposizioni. Di
queste ci limiteremo a citare la n° 29, che recita:
[29] Ma la conoscenza delle verità necessarie ed eterne è quella che ci
distingue dai semplici animali e ci rende capaci di ragione e di scienza,
elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. In ciò consiste quel che in
noi si chiama anima ragionevole o spirito. [20]
Dunque la
capacità di conoscere, in generale, deriva e dipende dalla conoscenza di Dio
quale verità necessaria ed eterna a cui può accedere quel tipo di monade
particolare che è l’uomo. Ne segue:
[38] Perciò la ragione e ultima delle cose deve essere riposta in una
sostanza necessaria, nella quale i mutamenti particolari non si trovino, come
in una fonte, se non in forma eminente, ed è ciò che noi chiamiamo Dio. [21]
La stabilità è
la condizione irrinunciabile della divinità, ed è grazie a ciò che Dio è causa
prima ed ultima dell’essere, come già sosteneva Aristotele.
In Kant la credenza in Dio è tanto solida
quanto accuratamente evitata nelle sue analisi, e ciò soprattutto dalle Critiche
in poi, essa però rimane sullo sfondo della sua speculazione come una
presenza discreta, ma onnipresente. Nella prefazione alla Storia generale
sulla naturale universale e teoria del cielo del 1775 però in modo
esplicito egli afferma:
Riconosco il valore delle prove tratte dalla
bellezza e dall’ordine perfetto dell’universo per affermare che esiste un
Creatore, la cui sapienza è infinita. [22]
Per comprendere appieno l’importanza
innovativa della teologia idealistica dobbiamo proprio partire da questo
concetto di “sapienza infinita” del divino per coglierne le evoluzioni
successive. Noi riteniamo che l’Idealismo abbia origine da tre motivazioni
principali: a) eliminare il noumeno kantiano, o per lo meno toglierlo
dalla sua indeterminazione risolvendolo teoricamente in un nuovo concetto, b)
contrastare il materialismo illuministico e sottrarre al riduzionismo
psicologistico la sfera del religioso e dello spirituale, c) offrire uno sbocco
razionalistico all’irrazionalismo romantico attraverso una teoria del divino
onnicomprensiva di ogni aspetto del reale.
Non è qui possibile scendere nei dettagli poiché esulerebbe dai nostri
scopi, ma vale la pena di ricordare che il nuovo Dio degli idealisti nasce
dall’esigenza intellettuale di “panteizzare” la realtà, sulle orme del pensiero
neoplatonico e spinoziano. Si ricorderà che Spinoza non negava affatto il Dio
della Bibbia, ma ne forniva semplicemente un’interpretazione meno legata alla
lettera del Libro e più estensiva nei suoi significati. Aggiungeremo soltanto
che il Dio degli idealisti prende il nome di “Io Assoluto” in Fichte, di
“Assoluto” in Schelling e ancora di “Assoluto”, ma anche di “Spirito”, di
“Idea” e di “Autocoscienza” in Hegel. Questa multiformità del concetto di Dio
in Hegel deriva direttamente dal suo “includere” nella fenomenologia di Dio la
molteplicità delle sue varie espressioni concepibili.
L’aspetto gnoseologico che è importante
cogliere è che, comunque, per i teologi filosofali dell’800, come abbiamo visto
per quelli del ‘600 e per Kant, Dio costituisce sempre quell’a priori
dal quale deriva ogni altra conoscenza. Ce lo dice chiaramente Fichte con la
seguente affermazione:
Noi dobbiamo ricercare il principio assolutamente primo, assolutamente
incondizionato, di tutto l’umano sapere. Dovendo esser un principio
assolutamente primo, esso non si può dimostrare né determinare. [23]
Come è noto
egli dà a questo “principio primo” dell’esser e del sapere il nome di Io
Puro o Assoluto, che si esprime ponendosi come “pensiero” e come
“atto” ed affermandosi nei termini seguenti:
Io sono assolutamente, cioè: io sono assolutamente perché
sono; sono assolutamente ciò che sono; e l’una e l’altra cosa per
l’Io. Pensando la descrizione di quest’atto al vertice della dottrina della
scienza, essa dovrebbe esser espressa press’a poco nel modo seguente: l’Io
originariamente pone assolutamente il suo proprio essere. [24]
Non molto diversamente si esprimerà Schelling
qualche anno dopo:
L’assoluto, ossia Dio, è ciò di cui si può dire che l’essere, ossia la
realtà, segue immediatamente, cioè in forza della mera legge dell’identità,
dall’Idea; o anche: Dio è l’immediata affermazione di se stesso. [25]
Veniamo ora a Hegel, il pensatore che più
di ogni altro ha influenzato il pensiero successivo e che ancora oggi
costituisce un punto di riferimento per molta metafisica idealistica. Ci
limiteremo a poche citazioni significative di una teologia assai originale, che
radicalizza un elemento innovativo importante: quello di concepire la divinità
come un “processo” in divenire di chiara derivazione neoplatonica. Il Dio di
Hegel, che si presenta in varie forme
(Idea-Assoluto-Spirito-Autocoscienza-Ragione) non è solo “origine” dell’essere,
ma anche “conclusione” di un compimento metafisico teleologico e ottimistico,
assumendo così un carattere “storico” assente sia nel Neoplatonismo, sia in
Bruno e sia in Spinoza. Ne nasce un panteismo provvidenzialistico dove l’essere
e la ragione diventano la stessa cosa. Sotto il profilo gnoseologico, per
Hegel, col superamento delle “figure” imperfette dello spirito, l’uomo deve
semplicemente sintonizzare la propria ragione con la Ragione globale per
diventare tutt’uno con essa; capendo così il senso di un’unità-totalità storica
che è la stessa realtà che si forma attraverso la dialettica di un divenire
tumultuoso e spesso drammatico. Ma essa, alla fine, non può essere che quella
che “deve” essere, in omaggio a un necessitarismo assoluto che pilota lo
Spirito e la sua storia. La Fenomenologia
dello spirito (VI) si apre con questa affermazione:
La ragione è spirito, dacché
la certezza di essere ogni realtà è elevata a verità, ed essa è consapevole a
se stessa di sé come del suo mondo, e del mondo come di se stessa. [26]
Il mondo come
manifestazione della ragione-spirito si eleva per ciò stesso a indefettibile
verità, e da tale verità discendono tutte le altre. La “verità” per la teologia
filosofale hegeliana è un farsi logico-dialettico che prescinde dal reale per
sussumerlo nell’ideale. Il mondo è un’estrinsecarsi fenomenico della verità, ma
essa riposa in un “sapere” che da esso prescinde. Così Hegel può alla fine affermare:
Quest’ultima figura dello
spirito [quella dell’autocoscienza], lo spirito che al suo perfetto e vero
contenuto dà in pari tempo la forma del Sé e che per questa via, tanto realizza
il suo concetto, quanto resta, in questa realizzazione, nel suo concetto, è il
sapere assoluto; il sapere assoluto è lo spirito che si sa in figura
spirituale, ovvero è il sapere concettivo. [27]
Non la volgare
conoscenza del reale, quella che perseguivano in qualche modo ingenuamente gli
Illuministi, è conoscenza, bensì (ed in forma “assoluta”) il sapere
concettivo che accede allo spirito, il quale è nel contempo verità che si
offre alla ragione umana e che si manifesta nel mondo senza esaurirsi in esso.
Ma il sapere
si realizza in una circolarità dell’essere per cui “sapere” è nel contempo
“esperire” (escludendo però sia i sensi e sia l’esperimento dal sapere stesso),
sicché il Nostro aggiunge poco dopo:
Per questa ragione devesi dire che niente vien saputo, che non
sia nell’esperienza o, come anche si esprime la medesima cosa, che non
sia dato come verità sentita, come l’Eterno interiormente rivelato,
come il Sacro a cui si crede o come altrimenti si voglia dire. Infatti
l’esperienza è proprio questo: che in sé il contenuto, - ed esso è lo
spirito, - è sostanza e quindi oggetto della coscienza. [28]
E poi un ulteriore spiegazione:
Ma questa sostanza che è lo spirito ne è il divenire
fino a farsi ciò ch’esso è in sé; e solo come questo divenire riflettentesi
in se stesso esso in sé è in verità lo spirito. Esso è in sé il
movimento che è il conoscere, - la transustanzazione di quell’in-sé nel per-sé
della sostanza nel soggetto, dell’oggetto della coscienza in oggetto
dell’autocoscienza, cioè in oggetto altrettanto tolto o nel concetto.
Quel movimento è il circolo ritornante in se stesso che presuppone il suo
cominciamento e lo raggiunge soltanto alla fine. [29]
“Tolto” l’oggetto reale di conoscenza e
transustanziato nel concetto la verità del divenire è ormai alla portata
della coscienza individuale (l’uomo) che viene a identificarsi con
l’autocoscienza infinita dello spirito (Dio) e il processo circolare del sapere
può dirsi chiuso identificandosi col processo circolare dell’essere. A questo
punto il “sapere assoluto” è conseguito, ed ogni ulteriore ricerca volta ad
inseguire il sapere fenomenico è superflua. Il sapiente hegeliano “sa già
tutto” ciò che è importante sapere e il “credo” idealista è qui formulato con
chiarezza e compiutezza. E tuttavia, dieci anni più tardi Hegel (nel 1717), si
preoccupa di precisare ulteriormente la sua teologia nell’Enciclopedia delle
scienze filosofiche, dove la dinamicità dialettica dello Spirito si
irrigidisce in categorie schematiche. Mentre nella Fenomenologia lo Spirito
si realizza attraverso “figure” storicizzate, queste, nell’Enciclopedia,
diventano categorie concettuali. In questo contesto una particolare
importanza assume l’Idea, come nuova incarnazione dell’Assoluto (I, C, § 213):
[213] L’idea è il vero in sé e per sé, l’unità
assoluta del concetto e dell’oggettività. […] La definizione dell’assoluto,
che l’assoluto è l’idea, è essa stessa assoluta. Tutte le definizioni,
sin qui date, si riportano a questa. – L’idea è la verità; perché la
verità è il rispondere dell’oggettività al concetto. [30]
Di assolutizzazione in assolutizzazione
l’Idea diventa Verità e attraverso la verità così acquisita l’oggettività
concreta del mondo scompare, dandosi tutta nel concetto astratto così posto
come assoluta “verità della sostanza” (§ 158 e ss.). Poiché:
[214] L’idea può essere concepita come la ragione
(questo è il proprio significato filosofico di ragione); inoltre, come
il soggetto-oggetto, come l’unità dell’ideale e del reale, del
finito e dell’infinito, dell’anima e del corpo; come la possibilità
che ha in se stessa la sua realtà; [31]
Tutto è nello Spirito-Assoluto-Idea-Ragione
ed ogni singola determinazione si perde dialetticamente in questo “Tutto” che è
idea e cosa, finitezza e infinitezza, anima e corpo, possibilità e realtà. La
natura (il cosmo materiale) è “platonicamente” l’alterità dell’Idea (il suo
alienarsi) che si nega per andare “fuori di sé”, così come il Bene di Platone
si estrinseca nelle cose del mondo e l’Uno di Plotino emana i livelli inferiori
del suo essere. Perciò, secondo Hegel:
[247] La natura si è dimostrata come l’idea nella
forma dell’essere altro. [32]
Una mera “forma” dell’idea divina è la
complessità del cosmo. Infatti:
La natura, considerata in sé, nell’idea, è divina; ma nel
modo in cui essa è, l’esser suo non risponde al suo concetto: essa è, anzi, la contraddizione
insoluta. Il suo carattere proprio è questo di essere posta, di
esser negazione; [33]
Si noti che la natura “è posta” dalla
divinità come propria negazione e non si “autopone” come estrinsecazione
dialettica della divinità stessa. Hegel riprende qui (di passaggio) la
gerarchizzazione causale di tutte le altre teologie, assumendo che sia questo
Dio-Necessità a negare se stesso nell’altro da sé, ma per costringerlo
(attraverso la cogenza della necessità) a ritornare “provvidenzialisticamente”
nel suo in sé e per sé. I tre stadi di questa divina circolarità
dialettica e la realizzazione dello Spirito Assoluto così si estrinsecano:
[385] Lo svolgimento dello spirito importa, che esso:
I. è nella forma della relazione con sé stesso: dentro di esso la
totalità ideale dell’Idea diviene a lui, vale a dire ciò che è suo
concetto, diventa per lui, e il suo essere sta appunto nell’essere in possesso
di sé, cioè nell’esser libero. Tale è lo spirito soggettivo. II. È nella
forma della realtà, come di un mondo da produrre e prodotto da
esso, nel quale la libertà sta come necessità esistente. Tale è lo spirito
oggettivo. III. è nell’unità dell’oggettività dello spirito e della sua
idealità o del suo concetto: unità, che è in sé e per sé, ed
eternamente si produce: lo spirito nella sua verità assoluta. Tale è lo spirito
assoluto. [34]
Ci asteniamo da ogni commento, per lasciare
la testualità di questo passaggio hegeliano nella sua straordinaria e
affascinante forza espressiva, quale esempio significativo del climax
farneticante a cui può giungere la
teologia filosofale.
1.2 Che cosa intendiamo per “filosofia”
Per gli sviluppi del nostro discorso
dobbiamo ora tornare sul significato che diamo al termine “filosofia”. Filo-sofia
tradotto letteralmente, come è noto, significa “amore per la sapienza”, ma
pensiamo di poterlo legittimamente aggiornare con “amore per la conoscenza”,
espressione che ci sembra più consona ad un senso più moderno del termine, col
che esso risulta più estensivo e più significativo. A qualcuno che obbiettasse
che il termine di filosofia non deve venire confuso con epistème,
che in senso più proprio significa “conoscenza” nel senso corrente di
“scienza”, va precisato che in antico epistème e sophìa sono
stati usati indifferentemente come sinonimi e che la distinzione che è stata
fatta in epoca moderna deriva dall’utilizzazione del termine latino scientia
come traduzione del primo. Si tenga inoltre presente che nel VII-VI
sec.a.C., epoca alla quale si può far risalire il concetto di “conoscenza” come
noi lo pensiamo, non esisteva alcuna distinzione tra conoscenza “osservativo-sperimentale”
e conoscenza “speculativo-descrittiva”, trattandosi di una medesima attività
che coniugava un’osservazione naturalistica “a monte” con deduzioni e
induzioni, estrapolazioni e interpolazioni teoriche “a valle”.
Fare scienza e fare filosofia furono dunque
un’unica attività per Talete, per Anassimandro e Anassimene, così come per
Leucippo, Anassagora e Democrito, poiché l’esercizio della ricerca
naturalistica si completava con l’inferirne teorizzazione filosofica. È stato
con gli Eleati e poi con Platone che tale unità è andata distrutta, attraverso
l’esercizio di un’attività pseudo-conoscitiva di carattere eminentemente
“creativo”, con l’assunzione di principi fissi concettualizzati sui quali è
nata quella produzione aureferenziale di concetti e ipostasi per mezzo del
linguaggio logico-dialettico usato filosofalmente. Perso quindi il senso del
“reale” naturale ed ogni rapporto diretto con esso si è cominciato a produrre
immaginificamente il “vero”, con conseguenze gnoseologiche gravissime per la
filosofia [35].
E tuttavia, quand’anche abbiamo sostituito
“conoscenza” a “sapienza” rimane da definire che cosa si debba intendere
correttamente per quella, anche perché “conoscenza” è sinonimo di “scienza” e
l’”amore per la scienza” non è stata certo prerogativa della teologia
filosofale, che è latrice, ieri come oggi, di una supponente e totale
indifferenza (quando non di vero e proprio odio) per la scienza intesa in senso
moderno (quale indagine sul mondo fisico) [36].
La ragione del contendere sta perciò proprio nel significato da attribuire alla
parola “conoscenza” così come si è venuta configurando nei millenni; quindi
solo da essa risulta, secondo noi, correttamente deducibile quello di filosofia
nel suo senso più proprio. L’assunzione che noi proponiamo del significato di filosofia
si esprime, quindi, come quell“amore per la scienza” che gli antichi filosofi
della Ionia avevano coniugato così felicemente, sintetizzando teoricamente a
valle (sia pure in modo ingenuo e improprio) le acquisizioni osservative ed
empiristiche conseguenti al loro lavoro “sul campo”.
Tale nostra assunzione contrasta
decisamente col concetto idealistico di filosofia che si è imposto dal IV
sec.a.C in poi, e che risulta ancor oggi dominante sia a livello didattico, sia
storicistico, sia saggistico. Il paradosso sta nel fatto che tale concezione
non soltanto conduce i suoi sostenitori a propugnare l’indipendenza di tale
pseudo-filosofia dalla scienza, ma addirittura pretende, in molti casi, di
fissare i fondamenti procedurali a cui essa dovrebbe attenersi. Ciò vale ad
affermare che la teorizzazione scientifica dovrebbe prodursi a partire non già
dai “dati” rilevati strumentalmente, ma piuttosto in base a una logica
veritativa di carattere “meccanico-linguistico” che fonderebbe ogni discorso
teorico in generale. Una logica che aveva avuto le proprie origini
nell’eleatismo (specialmente in Zenone) e che era poi trasmigrata
nell’idealismo di Platone ed Aristotele [37].
La nostra assunzione di una definizione della filosofia come attività
conoscitiva che si pone accanto a quella delle scienze esatte è così poco
condivisa dalla maggior parte di coloro che anche oggi si qualificano come
“filosofi” da indurci ad affermare, con poca tema di smentita, che quando si
parla di filosofia si parla perlopiù di “teologia idealistica” [38].
D’altra parte si può ben concludere sulla fagocitazione del termine filosofia
in quello di metafisica, quanto meno nel senso che la filosofia “prima”,
ovvero dei fondamenti dell’essere, fa del tutto a meno delle conoscenze della
fisica.
Non sarà superfluo soffermarci un poco sul
significato del termine filosofia nei millenni, precisando subito che
non è nostra intenzione addentrarci in questioni filologiche, ma semplicemente
fornire qualche elemento storiografico tale da far comprendere meglio il senso
del nostro distacco dalla filosofalità tradizionale. Se pure la tradizione
attribuisce a Pitagora la prima enunciazione del termine, come fusione di un
sostantivo derivato dal verbo philein e di quello di sophìa, è
con Platone che ci vengono le prime definizioni sufficientemente esplicative e
descrittive del significato del termine, espresso in almeno tre dialoghi
della sua maturità: l’Eutidemo, il Simposio (o Convivio)
e Repubblica. Anticipiamo che, come si vedrà, nel primo viene
sottolineata l’”utilità” umana del filosofare, nel secondo la sua natura di
“desiderio” che spinge verso il Divino-Buono-Bello e nel terzo la sua funzione
gnoseologica come scienza dell’”essere vero” presente nelle Idee divine. Se ci
soffermiamo in particolar modo sul significato del termine in Platone lo
facciamo per due ragioni: perché egli è il referente fondamentale dell’operare
filosofale nel mondo occidentale (essendo l’indirizzo idealistico quello
dominante) e perché desideriamo rimarcare la nostra opposizione ad esso e il
nostro collegarci a una cultura del “conoscere” di impostazione naturalistica
che la filosofia platonica ha combattuto.
Nell’Eutidemo si legge (288e):
Ci sarebbe pertanto di qualche utilità saper conoscere, andando in
giro, il punto della terra in cui si trova sepolta la maggior quantità di oro?
[…] non vi sarebbe nessun vantaggio […] e così nemmeno se sapessimo trasformare
le pietre in oro, [289a] tale scienza non avrebbe assolutamente nessun valore.
È risultato, infatti, che se non sapessimo anche usare l’oro, non ne trarremmo
alcun vantaggio. [39]
Come sempre il
procedere platonico utilizza esempi ad effetto anche in senso moralistico (Conoscenza
= Verità = Bene = Bellezza) ed il richiamo all’oro può essere considerato uno
di questi per i suoi sottintesi. Secondo il sapere “volgare”, l’oro è ritenuto
la sostanza più preziosa e ambita “di per se stessa”, invece, secondo il sapere
“nobile” che Platone auspica, esso vale “in quanto” e “per come” viene
utilizzato in funzione antropotropa (verso l’uomo come “fine” e
“significazione” dell’uso stesso dei frutti del conoscere). Vale la pena di
notare in questi pochi passaggi due affermazioni significative per comprendere
il profondo disprezzo platonico per la scienza quale “conoscenza” della natura.
Platone comincia col dirci che l’”andare in giro” del geologo che cerca di
capire come sia costituito il territorio e che cosa vi si nasconda non porta
nessun vantaggio e che “tale scienza non avrebbe assolutamente nessun valore”.
Ma è implicita anche un’altra affermazione: quella per cui la ricerca
scientifica (come osservazione, indagine ed esperimento), ovvero il cercare di
sapere “che cos’è” l’oro (la sua natura), è un’attività inferiore, in quanto
sarebbe solo il “saperlo usare” ciò che reca un vantaggio conoscitivo ed
operativo. Non quindi la conoscenza topologica del mondo, né quella
strutturale, né quella che concerne gli enti che esso contiene, è il fine del
conoscere qui enunciato da Platone, bensì l’”uso” delle nozioni che l’uomo ne
consegue: un antropocentrismo radicale su cui avremo occasione di tornare.
Nel Simposio il piano di
considerazioni è differente, ma in ogni caso nulla di ciò che vi si dice ha
qualche cosa a che fare con l’“amore per la conoscenza” da noi auspicato. Qui
il soggetto del dialogo è Eros, visto come una sorta di semidio-demone che
funge da “intermediario” tra gli dèi e gli uomini. Tale mediazione, tra gli dèi
(che sanno tutto) e gli uomini (che non saprebbero nulla senza il suo operare),
fa di Eros un elemento indispensabile della sapienza umana. Infatti,
Diotima, alias Platone, sostiene (202 e):
[Eros] Ha il potere di interpretare e di portare agli dèi le cose che
vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli dèi: degli uomini
le preghiere e i sacrifici, degli dèi, invece, i comandi e le ricompense dei
sacrifici. E, stando in mezzo tra gli uni e gli altri, opera un completamento,
in modo che il tutto sia ben collegato con se medesimo. Per opera sua ha luogo
tutta la mantica e altresì l’arte sacerdotale che riguarda i sacrifici e le
iniziazioni [203 a] e gli incantesimi e tutta quanta la divinazione e la magia.
Un dio non si mescola all’uomo, ma per opera di questo demone gli dèi hanno
ogni relazione e ogni colloquio con gli uomini, sia quando vegliano, sia quando
dormono. E chi è sapiente in queste cose è un uomo demonico; chi, invece, è
sapiente in altre cose, in arti e mestieri, è uomo volgare. [40]
Due precisazioni:
la prima che l’aggettivo “demonico” ha qui il significato di “semi-divino” e la
seconda che, coerentemente coi principi epistemologici del Nostro, con “arti e
mestieri” vanno intese tutte le attività (volgari) che concernono il mondo materiale
(quindi anche le attività d’indagine sulla natura) e queste sono proprio quelle
che si configurano, in senso moderno, come scienze autentiche. Vediamo però
attraverso quale considerazione fondamentale Eros può venir visto come agente
paradigmatico della filosofia, ponendosi tra il divino e l’umano (204 a):
Nessuno degli dèi fa
filosofia, né desidera diventare sapiente, dal momento che lo è già. E chiunque
altro sia sapiente, non filosofa. Ma neppure gli ignoranti fanno filosofia, né
desiderano diventare sapienti.
Viene qui
chiaramente enunciato il principio secondo il quale il fine del filosofare non
è “conoscere” la realtà, ma “diventare sapienti” alla maniera in cui lo sono
gli dèi, che non consiste tanto nel conoscere il cosmo materiale quanto in
“conoscersi” e conoscere le anime degli uomini che del divino posseggono
memoria. Gli uomini, infatti, essendo dotati di anima, hanno la capacità di
pensare il divino, di conformarsi ad esso e di raggiungerlo cognitivamente. Si
vede bene come il cerchio conoscitivo idealistico si chiuda su se stesso (come
accade in ogni altra religione), nel senso che l’ipostasi di entità divine da
parte degli uomini porta a rinchiudere ogni conoscenza tra il “soggetto” uomo e
l’”oggetto” trascendentale del suo fantasticare. Ciò avviene inoltre in
un’autoreferenzialità assoluta, poiché il dio è posto dell’uomo come propria
proiezione ideale e il rapporto dio-uomo esclude ogni cosa che non faccia
riferimento alla sfera del “divino” come supremo obbiettivo del conoscere. Ed ecco
come si esplicita il comportamento di Eros quale modello super-umano del
filosofo (204 b):
Infatti, la sapienza è una
delle cose più belle, ed Eros è amore per il bello. Perciò è necessario che
Eros sia filosofo, e, in quanto filosofo, che sia intermedio tra il sapiente
[il dio] e l’ignorante [l’uomo].
Diotima spiega poi
a Socrate che la bellezza di Eros non gli viene dall’essere amato in quanto
bello, bensì dall’essere “amante” del bello (che è, ovviamente, anche buono e
vero). L’amore per la sapienza è quindi amore di ciò che posseggono gli dèi, la
bellezza e la bontà, e si estrinseca quindi nella conoscenza del divino
prescindendo da ogni altra conoscenza. E conoscere il divino significa anche
partecipare della beatitudine degli dèi, ovvero diventare felici (205a):
Infatti, disse, è appunto
per il possesso delle cose buone che sono felici quelli che sono felici, e non
c’è più bisogno di fare questa ulteriore domanda. Chi vuole essere felice, a
che scopo vuole essere felice? Perché la risposta ha ormai raggiunto il suo
fine.
Nessuna ulteriore
domanda si pone per chi ha già avuto la risposta suprema del raggiungimento del
bene. Poiché ciò che è custodito nella sfera del divino è tutto ciò a cui
l’uomo deve aspirare, senza domandarsi altro.
Ritroviamo ancora una riflessione su tale
“filosofia” in Repubblica, dove ha luogo la canonica contrapposizione
tra opinione e scienza, ovvero tra doxa ed epistème.
Contrapposizione che Platone riprende da Parmenide e che, contrariamente a ciò
che un’interpretazione banalizzata e scolastica propone, non è tanto tra le
convinzioni che rispondono alla discrezionalità e quelle che rispondono a
verità (il che sarebbe ovvio), quanto piuttosto a quelle che rispondono alla
sfera del “mortale” rispetto a quella del “divino”. Recita infatti il frammento
I (Sulla natura) di Parmenide resoci da Sesto Empirico (Adversus
mathematichos, VII, 111 e sgg.) ai versi 25-30:
Poiché non fu un avverso
destino a mandarti per questa via (che è invero lontana dall’orma dell’uomo), ma
la legge divina e la giustizia. Ma ora devi imparare ogni cosa e il cuore che
non trema della ben rotonda Verità e le opinioni dei mortali, in cui non è vera
certezza. [41]
Platone svolge la
sua tesi in una lunga serie di passaggi del V Libro di Repubblica (da
474-d a fine libro) riprendendo sostanzialmente l’affermazione parmenidea, ma
dove la “ben rotonda verità” è diventata qui l’”essere vero”. La tesi platonica
ci pare bene espressa nel seguente passo (Rep., 479 e)
Pertanto, coloro che vedono
le molte cose belle, ma non il Bello in sé e, oltre a ciò, non hanno neppure la
capacità di chi ad esso potrebbe guidarli; coloro che colgono le molte cose
giuste, ma non il Giusto in quanto tale, e così dicasi per tutte le altre
realtà, ebbene costoro avranno bensì opinioni, ma nessuna conoscenza di quelle
cose. [42]
Il senso è chiaro:
nella conoscenza della molteplicità delle cose reali non è riposta alcuna
verità, trattandosi di opinioni. Per cogliere la verità occorre prescindere
dalla realtà offrentesi sotto le specie della pluralità degli enti, ma
affidarsi unicamente all’”universale”, ovvero all’essenza divina, che ne è
sostrato e modello (l’Idea). Il possessore di tale verità è colui che sa
innalzarsi dal particolare accidentale (il divenire mutevole di cui si
dà soltanto opinione) all’essere immutabile ed eterno (di cui si dà
“vera” sapienza). Ancora una volta la “scienza” per Platone è sempre e
soltanto meta-fisica, mentre quella raggiungibile con la conoscenza del
particolare e dell’accidentale (ciò che dal XVIII secolo in poi è ritenuta
l’unica conoscenza possibile da perseguire) è soltanto “opinione”.
Soffermiamoci ancora su Repubblica
per arrivare al famosissimo e celebrato “mito della caverna”, dal quale è
deducibile un altro punto di vista. Il sapiente è sostanzialmente colui che è
uscito dal buio dell’ignoranza accedendo alla luce della verità; conoscenze
vere, diverse da quelle del “filosofo platonico”, non ce ne sono, e il sapiente
è chiamato pertanto dalla “repubblica ideale” a governare il volgo e liberarlo
dall’ignoranza. Il suo dovere, dopo aver colto la Verità, gli impone di tornare
nella caverna per trarre dal buio i suoi simili. Per intanto, dal punto di
vista personale, egli ha assaporato la vicinanza col divino divenendo quasi
semi-divino, poiché il “filosofo”, cioè il metafisico, è colui che accede al
sovra-sensibile, all’”intelligibile” assoluto, immutabile ed eterno, a cui si è
elevato tramite la sua anima razionale, che ha “ricordato” il mondo divino dal
quale proviene. Leggiamo (VII, 517 b):
Se poi tu paragonassi
l’ascesa verso l’alto e la contemplazione delle realtà superne all’elevazione
dell’anima al mondo intelligibile non mancheresti di sapere quello che è il mio
intendimento, dato che è appunto questo che tu desideri conoscere, ma se poi
sia vero solo iddio lo sa. Ad ogni buon conto, questa è la mia opinione: nel
mondo delle realtà conoscibili [c] l’Idea del Bene viene contemplata per ultima
e con grande difficoltà. Tuttavia, una volta che sia stata conosciuta, non si
può fare a meno di dedurre, in primo luogo, che è la causa universale di tutto
ciò che è buono e bello […] [43]
La “contemplazione
della realtà” per Platone è ascesi alla realtà superna e intelligibile
costituita dall’Idea del Bene, a sua volta costituente l’ultimo stadio
dell’ascesi cognitiva che si raggiunge “con difficoltà”, staccandosi totalmente
e definitivamente da tutto ciò che è terreno e che si offre ai sensi. Ci
troviamo qui di fronte a un principio che non è solamente gnoseologico ma precipuamente
ontologico; poiché, se il raggiungimento dell’“Idea del bene” è l’obbiettivo
cognitivo del filosofo, il soggetto che genera l’idea di sé nell’anima del
filosofo, il Bene, è la “causa” del mondo: cioè Dio stesso. Il Bene è quindi
nient’ altro che il Dio supremo di tutte le divinità del pantheon greco
e il metafisico è l’asceta-sacerdote che ha contemplato Dio e deve ridiscendere
tra i suoi simili per portare la Verità. Questi ha quindi il compito
soteriologico di togliere gli uomini dalla sotto-realtà volgare che si dà nel
buio della caverna (la natura che si offre ai sensi) e di guidarlo verso la
luce della conoscenza attraverso il suo insegnamento e la sua guida (il potere
conferitogli dal suo status di conoscitore del divino). Conclude il
Socrate-Platone (519 c):
Invece – continuai – il mio
ragionamento mostra che questa facoltà presente nell’anima di ognuno e l’organo
con cui ognuno apprende, proprio come l’occhio, non sarebbe possibile
rivolgerli dalla tenebra alla luce se non insieme con tutto il corpo, ma così
bisogna girarlo via dal divenire con tutta intera l’anima, fino a che non
risulti capace di pervenire alla contemplazione dell’essere e al fulgore
supremo dell’essere: ossia questo che diciamo essere [d] Bene. O no? [44]
Distogliere il corpo
(il depositario dei sensi) dal divenire e porlo al servizio dell’anima
per pervenire alla contemplazione dell’essere è la tipica procedura di
ogni ascesi, che per accedere alla conoscenza del divino deve “estrarre” il
corpo dal suo essere “peso materiale” per far sì che l’anima, liberata da ogni
vincolo, possa librarsi verso il divino.
Chiudiamo con una breve considerazione su
Aristotele, al fine di comprendere, contrariamente ai distinguo speciosi
correnti nei luoghi e nei testi ufficialmente deputati all’educazione
filosofica, come, in realtà, il suo punto di vista sostanzialmente coincida con
quello di Platone. Consideriamo quel passo della Metafisica in
cui lo Stagirita precisa il concetto di causa in rapporto a quello di verità
quale “principio” meta-fisico dell’essere “in sé”, e solo in subordine
delle cose che da tale essere eterno derivano, meri “accidenti”
divenienti. Si legga infatti (Met. II, 1, 993 b, 28-30):
Ecco perché i principi degli
enti eterni non possono non essere [sempre] sommamente veri (giacché essi non
sono veri solo qualche volta, né la loro esistenza è causata da alcunché, ma
sono essi che causano l’esistenza a tutte le altre cose), e quindi ciascuna
cosa possiede tanto di verità quanto possiede di essere. [45]
Dunque, l’essere
e la verità sono corrispondenti e non appartengono alle cose del mondo
(mero divenire contingente e accidentale) se non come “partecipazione”
dell’essere, che riposa solo nei “principi” degli enti eterni (le matrici del
divino) che si calano nelle cose del mondo conferendo loro esistenza. Queste si
gerarchizzano in funzione della quota di divino che posseggono, costituendosi
come “esistenze” (enti) in una scala di “valori di verità” che ne
determina la posizione in rapporto al divino.
All’inconsistenza fabulatoria del discorso
platonico sulla conoscenza si veda un’affermazione di Sesto Empirico (Adversus
Mathematicos ,VII, 138, B 8) a proposito di Democrito:
Nei Canoni Democrito afferma che vi sono due forme di
conoscenza, l’una che si compie grazie alle sensazioni e l’altra che si
realizza tramite il pensiero razionale, e chiama quest’ultima “autentica”,
riconoscendo che in essa si può confidare per giudicare della verità delle
cose, mentre quella qualifica la prima come “inautentica”, negandole
affidabilità nella conoscenza della verità. [46]
Democrito
rileva l’insufficienza del conoscere dei sensi per la produzione di conoscenza
autentica, dandosi questa soltanto laddove le sensazioni vengano corrette
dall’uso della ragione. Che non è facoltà che venga all’uomo dagli dèi, ma è
opportunità inalienabile di un animale “che pensa”.
1.3 Nascita e attualizzazione dell’antropocentrismo
Ci
allacciamo all’argomento del paragrafo precedente per introdurre il presente,
riprendendo il concetto di idealismo e il suo stretto legame con
l’antropocentrismo da cui dipende. Possiamo tentarne una riformulazione
precisando che il punto di partenza di ogni idealismo sta nella convinzione che
l’uomo, in quanto unico animale pensante nel cosmo, debba possedere un rapporto
privilegiato col “pensiero assoluto”, ovvero col Puro Spirito di un essere che
lo trascenda o lo inerisca e di cui egli possegga una traccia intima.
Producendo pensiero, l’uomo, per un verso è in grado di percepire, leggere,
interpretare e spiegare il mondo, e per un altro di trasformarlo, di
indirizzarne le evoluzioni locali, di produrre “cose” a imitazione delle cose
reali e di produrne altre con una ragione e una fantasia di origine divina.
L’uomo quindi, pensando, si rivela possessore di una conoscenza innata che lo
porta a conoscere le cose del mondo, e a crearne di nuove per rapportarle alla
sfera del metafisico. Questa scienza e questa potenza innate rinviano
immediatamente a una matrice extra-umana che deve possedere onniscienza e
onnipotenza. Essa può assumere qualsiasi nome che il linguaggio possa formulare
in relazione al carattere o all’attributo che si ritiene più confacente per
nominarlo, e può così chiamarsi indifferentemente: Perfezione, Verità, Intelligenza,
Essere, Unità, Tutto, Spirito, Ragione, Logos, Assoluto, Sé, Dio.
Se la mente è la macchina che produce
pensiero e il pensare la forma generale di quel produrre, sono però le idee
singole, i concetti, che con maggiore evidenza rivelano il rapporto diretto
dell’homo sapiens con la fonte stessa dell’ideare, cioè Dio. Esse sono
quindi la forma più alta del pensare, in quanto prodotti cogitativi che più si
staccano dalla fisicità del reale, con la possibilità di travalicarne
completamente le denotazioni per approdare al mondo meta-fisico quale culla
dell’essere. In questo senso le idee elevano l’uomo dalla materialità di
cui è portatore (un corpo necessitato fisicamente e biologicamente) verso una
sfera intelligibile che la trascende, potendo trarne “significati”. L’insieme
di tali significati si dà proprio nell’”idea di cosmo” presente in questo
mammifero privilegiato, che in quanto pensante ha un rapporto diretto col
fondamento metafisico che la fisicità è incapace di rivelare. Sta infatti al
pensiero (che è in grado di accedere all’”essenza del fondamento” del cosmo
stesso in quanto “intelligibilità”) produrre un’idea che riveli “ciò” che si
nasconde ai sensi.
La rivelazione non consiste pertanto in ciò
che banalmente ci viene offerto da una letteratura sacra che pretende esporre
la parola stessa di Dio, bensì dal rivelarsi, attraverso l’idea dell’uomo, del
sostrato intimo dell’esistenza stessa di un cosmo. Si comprende allora che in quanto
l’idealismo è l’essenza della teologia tutte le teologie sono idealistiche, nel
senso che il profeta può parlare di Dio attraverso un’idea di esso che Dio
(Idea Suprema) ha potuto instillargli. Siamo così pervenuti, attraverso la
ritematizzazione dell’idealismo in rapporto al concetto di teologia come
“scienza” del divino, ad avere come risultato l’evidenziazione della
funzione-missione dell’uomo di rivelare l’essenza di ciò che è il “supremo” ed
“originario” Essere metafisico causa del cosmo fisico. Ed anche laddove, come
nel panteismo, si ponga una causa-ragione di esso immanente alla fisicità
stessa, siccome tale causa-ragione (Uno, Logos o Necessità) fonda e fa
funzionare il cosmo ma non si esprime come fisicità, essa lo trascende nel
senso che lo fonda, lo pervade o gli è culla, ed è sua ragion d’essere.
Vi è ancora un’altra ragione profonda che
determina l’antropocentrismo cosmico e da ciò l’antropomorfismo di un Dio come
“causa prima” cosmica, trascendente o immanente il cosmo stesso, ed è il fatto
che la mente umana è per sua natura “simbolizzatrice [47]
e schematizzatrice” e che, in quanto tale, struttura le singole idee e i
sistemi di idee secondo criteri di simbolizzazione dei suoi oggetti cognitivi,
schematizzando degli insiemi a cui essi appartengono. In altre parole, i frutti
del pensiero dell’uomo devono essere sempre tra loro correlati da un “senso”
che conferisca loro significati e da uno “schema” che li contenga e li
strutturi in una “significazione globale” Ciò deriva dalla collisione-connessione
tra l’homo come realtà faber ed il sapiens come realtà cogitans,
dove il sapiens determina il faber. Il fatto che l’uomo
pensi i suoi prodotti e li crei, e che dal loro uso tragga altro
pensiero per altre creazioni e per altri pensieri, siano essi le pure
astrazioni matematiche o i prodotti onirico-immaginativi dell’arte e della
musica, fa di esso il modello di qualsiasi “cosmo intelligente”. Paradigma
meta-fisico di un mondo originato nel divino, ultra-mondo inserito in orizzonti
più alti e profondi che egli immagina esser propri della divinità che avverte
in sé, ma che né in sé possiede totalmente e né ne ha cognizione chiara e
definita. Dio perciò è un “Fuori”, ma che reca traccia di sé nel “dentro”
dell’uomo come sua parte minimale, ma “piena di senso divino”. Una pienezza di
senso che si specchia nel cosmo, che in quanto essente, al pari dell’uomo e
“con” l’uomo, deve essere, a sua volta pieno di senso.
Sia che Dio pervada il cosmo, come nello
Stoicismo, o che il cosmo sia “in Dio”, come nello Spinozismo, egli è un’”Idea”
sulla fondazione e sul funzionamento del cosmo, ancor prima che una
constatazione di ciò che il cosmo potrebbe rivelare di sé. La teologia infatti
non è interessata a indagare il cosmo per farlo “parlare di sé”, per la
semplice ragione che essa possiede già a priori l’“idea” compiuta di esso, come
rivelazione della sua origine e della sua causa. Nelle teologie
immaterialistiche, come sono la maggior parte di quelle orientali (Vedantismo,
Taoismo, ecc) o in Occidente quella di Berkeley, viene addirittura negata
realtà alla fisicità, che non sarebbe altro che pura apparenza illusoria,
determinata dall’ignoranza dell’uomo che non riesce a superare la schiavitù
sensoria. Anche il Buddhismo, altrettanto immaterialista ma non teologico in
senso stretto (in quanto religione senza-Dio), presupponendo l’ascesi quale
superamento e abbandono delle catene della fisicità, ha finito per fare del suo
fondatore una divinità trans-fisica da adorare, essendo il nirvana
meta-fisico, poiché il fisico è illusione prodotta dalla Maya. Il fatto che il
pensiero orientale antico non abbia prodotto un’idea di Dio in senso
personalistico [48],
ma quale impersonale principio cosmico (Brahman) e come anima del mondo
(Ātman), non deve far perdere di vista il fatto che sia il Brahman sia
l’Ātman sono appunto “idee” afferenti il mondo, come idea è il
Dio-Necessità degli Stoici e di Spinoza.
Siamo giunti al punto in cui possiamo
individuare due versioni della concezione antropocentrica: la “forte” e la
“debole”. Quella “forte” si dà nelle teologie monoteistiche e idealistiche,
mentre una versione “debole” è presente nei panteismi, laddove al cosmo fisico
viene appiccicato un principio che non è altro che un’idea sovrapposta
surrettiziamente ad esso per conferirgli senso. Ma “senso” si dà unicamente da
un punto di vista squisitamente antropico, e quindi una traccia di
antropocentrismo è presente anche in quelle teologie filosofali che parrebbero
negare all’uomo centralità, inserendolo in un Uno-Tutto che sarebbe il vero
soggetto cosmico. Occorre tuttavia riconoscere che sia i panteismi cosmistici,
che potremmo anche definire materialistici (come lo Stoicismo), sia quelli
acosmistici, ovvero i panenteismi (come
lo Spinozismo), non hanno prodotto i guasti culturali delle teologie
antropocentriche “forti”, che hanno determinato vere e proprie dittature
culturali. L’antropocentrismo ha infatti la sua espressione più compiuta e
culturalmente devastante nelle religioni monoteistiche e nell’idealismo.
Prima di proseguire la nostra ricerca non
possiamo esimerci dallo scendere un po’ più nel profondo della struttura
mentale dell’homo sapiens, poiché è indubitabile che l’idea
antropocentrica sia nata ben prima che questo animale cominciasse a produrre
religione e filosofalità. Un’indagine antropologica sulla nascita
dell’antropocentrismo ci porta però in un campo oscuro, nel quale ci si perde
in un nulla della memoria di ciò che siamo e dove nessun elemento documentale
ci aiuta a guidare le nostre analisi. In linea intuitiva, e solo in minima
parte induttiva, possiamo però ipotizzare quali possono essere stati i germi
della convinzione da parte dell’uomo di essere al centro dell’universo e che
l’universo fosse in funzione di sé. La domanda è: quale genere di idea e quale
tipo di consapevolezza hanno potuto far nascere tale convinzione? Vediamo: si sa che nei popoli arcaici l’idea
di centralità è fondamentale e che il mito fondativo di una comunità riguarda
sempre un centro dello spazio e del tempo in cui è l’umanità pensante che si
costituisce come un’“unità” dell’essere, che è tutt’uno con l’ambiente e con
gli altri essenti che lo popolano. Ma è proprio nel rapporto con l’altro-da-sé
che l’homo cogitans si percepisce come superiore. Prima ancora di
immaginare una divinità in ciò che teme e non conosce (eventi atmosferici
traumatici come il fulmine o l’uragano, entità macroscopiche come la terra,
l’acqua o il fuoco) l’uomo si percepisce superiore agli altri abitanti del suo
ecosistema per due facoltà che non trova al di fuori di sé: l’operatività
manipolatrice e creatrice e la parola che comunica ed esprime il pensiero.
L’uomo si percepisce quindi, innanzitutto,
come faber e come loquens; queste due facoltà lo distinguono
dagli altri enti del mondo e lo pongono in un rapporto del tutto particolare
con essi. Ma nel momento in cui l’uomo si rende conto che né possiede il mondo
né lo domina egli percepisce il proprio limite. La sofferenza e la morte lo
pongono infatti di fronte alla propria insufficienza, alla propria fragilità,
alla propria precarietà. Lo scandalo nasce quando egli si rende conto che può
spaccare la pietra ma che essa sopravviverà alla rottura, alla frammentazione,
alla polverizzazione, mentre colui che la rompe, che la frattura, che la
polverizza, può venire alla morte per un piccola ferita o per un mal di pancia.
Ora, se l’uomo si sente al centro del mondo, ma nel contempo il mondo lo
sovrasta e, metaforicamente, si fa beffe della sua fragilità con la propria
solidità, con la propria persistenza e resistenza, ci deve essere qualcosa o
qualcuno che determina le cose del mondo e che nello stesso tempo si lascia
pensare dall’uomo. Questo misterioso essere “superiore” deve essere anch’esso,
per analogia con l’uomo che si pensa e si constata, un ente faber nella
misura in cui produce fatti e cose, ma anche loquens per impartire i
suoi ordini al mondo ed enunciare le leggi che lo governano. Abbiamo però un
po’ semplificato; il panorama antropologico è assai più complesso, implicando
un ventaglio molto ampio di credenze originarie e primitive che solo un’analisi
estensiva ed approfondita riesce a
mettere in evidenza in tutta la sua specificità [49].
Ciò che risulta comunque indubitabile è che
non è stata una forma religiosa come l’animismo a produrre l’antropocentrismo.
Le comunità animistiche (alcune ancora indagabili nell ‘800 e nel primo ‘900)
hanno rivelato che il loro rapporto con l’ambiente non è di tipo “dominatorio”
bensì simbiotico. L’uomo animista pensa che gli enti del mondo, analogamente a
sé, siano strutturati con un corpo ed un anima. Ne nasce quindi un rapporto
quasi paritario, per cui l’uomo sta più in alto nella scala degli esseri che
popolano il mondo, ma non al punto di potersi considerare al centro di esso e
né che quelli siano al suo servizio. Una divinità antropomorfa che abbia
prodotto e regga il mondo è fuori di tale orizzonte cogitativo, dove c’è l’idea
di un cosmo che si manifesta come una pluralità animata, senza indurre a
fabbricarsi una cosmo-idea che implichi l’opera di un qualche faber che
l’ha determinata con la propria opera, né di un qualche loquens che lo
ha fatto essere per mezzo di un comando.
Immaginare un essere superiore faber e
loquens che può determinare il mondo significa abbandonare l’idea di un
potere frammentato (delle anime) che vivificano dei corpi, ma immaginare almeno
un’”anima del mondo” che è nel tutto e ha potere su tutto. Ma un’anima del
mondo è ancora un potere che sta “nel” mondo e che in un qualche modo è in
rapporto diretto con esso potendo venirne condizionato. Il passo successivo è
invece quello di immaginare un potere “fuori” del mondo, trascendente,
smaterializzato, incondizionato: una pura “intelligenza” che tutto sa e tutto
può. Ma che può in quanto sa (come ha ben visto Pettazzoni [50])
e così il faber (che ha un rapporto diretto con la materia) passa in
seconda linea rispetto al loquens. In quanto faber si legge nel Genesi:
In principio Dio creò il cielo e la terra. La
terra era una massa senza forme e vuota; le tenebre ricoprivano l’abisso, e sulle
acque aleggiava lo Spirito di Dio. [51]
Sul mondo aleggia lo Spirito di Dio, ma il
cosmo è ancora una massa informe e vuota immersa nelle tenebre. Ci vuole un
passo ulteriore e lo Spirito di Dio onnisciente e onnipotente, che in che in
quanto spirito non “fa” ma “comanda”, deve manifestarsi con un ordine. E il loquens
allora comanda:
Iddio disse: «Sia la luce»: e la luce fu. […] [52]
Il resto della creazione non è che un
processo già nato da quel primario “Sia la luce” che anima il mondo e lo fa
uscire dalla tenebra. Il significato antropomorfo è forte e profondo: il Dio faber
produce le premesse materiali di un mondo, ma è solo il loquens che lo
fa essere in quanto tale, lo struttura, lo ordina, lo anima. L’Essere Supremo
crea il mondo per mezzo di una serie di «disse», parola magica che scandisce i
piani dell’essere e la gerarchia degli enti. Infine (ma non poteva che essere
così!) viene l’ultimo «disse» e l’opera creatrice si completa:
Poi Iddio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo
la nostra somiglianza: domini sopra […]» [53]
Se pure l’antropocentrismo si è presentato
ben prima della comparsa della Bibbia, con quell’ultimo «disse» del Genesi
esso risulta non solo definitivamente autorizzato, ratificato, legalizzato, ma
“operante” in virtù della Creazione divina stessa. Da quel racconto di Mosé in
poi l’uomo sa di essere il Re del Creato e di essere autorizzato a disporre del
cosmo, essendone suo centro significante in quanto “somigliante” terreno di
Dio. Iddio non ha creato il cosmo e poi ci ha messo l’uomo dentro, Egli ha
creato il cosmo “per” l’uomo quale sua espressione e naturale estensione. Senza
l’uomo forse a Dio mancherebbe qualcosa, soltanto estrinsecandosi nell’uomo
Egli raggiunge l’apice del proprio essere.
Sulle
conseguenze antropologiche (ma, è il caso di dirlo, anche “ecologiche”) di tale
antropocentrismo non è il caso di soffermarci oltre; d’altra parte questo è
solo un tema di passaggio del presente lavoro. Aggiungeremo soltanto che il
nesso e l’implicazione profonda tra le teologie filosofali e la concezione
della centralità cosmica dell’uomo è tale che esse sono funzionali a questa
nella misura in cui questa è fondamentale per la loro fondazione. Senza
antropocentrismo non sarebbe assolutamente possibile eleggere l’Idea a
fondamento di una costruzione della “sapienza” realizzata con meccanismi
discorsivi che il “latore di idee meta-fisiche” elabora per creare, col suo
discorso sull’essere, un’essenza “più profonda” di esso che lo fondi, lo
determini e lo strutturi. La filosofia (quella autentica, che è “amore della
conoscenza”) si rivela impotente di fronte a questa “presunzione di
conoscenza”, che si esprime nell’arroganza dell’uomo che elegge il proprio
pensiero e la propria parola a unici interpreti privilegiati della verità del
cosmo, indipendentemente da ciò che il cosmo rivela di sé attraverso la sua
fisicità. Questa, sostiene il metafisico, è irrilevante per il conseguimento
della verità, anzi, persino nemica di essa, poiché è ingannevole. Ciò che si dà
alla percezione e all’indagine strumentale è un “inessenziale” apparente e
precario, sotto il quale si nasconde una verità che solo il pensiero (l’idea) e
il discorso logico-dialettico (la parola) possono rivelare.
Le
acquisizioni scientifiche degli ultimi tre secoli rivelano la loro profonda
debolezza di fronte alla “forza” della metafisica. L’homo sapiens può
ben apparire, secondo un concetto “volgare” di realtà, un mammifero come tanti
altri (ancorché “pensante”) che abita un pianeta come miliardi di altri sparsi
per miliardi di galassie comprese in miliardi di ammassi. C’è un concetto
“nobile” che non lo vede come un ente come tutti gli altri, ma quale Re del
Creato; un re che in virtù del suo potere divino dà un senso al cosmo con la
propria immaginazione, con la propria logica, con la propria dialettica. Il suo
pensiero e la sua parola, in un certo senso, finiscono per essere le uniche
potenze reali delegate a rivelare la Verità che fonda, supporta e travalica la
banale fenomenicità del cosmo. Ma questa rivelazione è proprio una creazione.
La logica e la dialettica “creano” l’essere autentico e con esso, ed al suo
“centro”, l’Uomo Divino, fatto a immagine di Dio [54].
1.4 Metafisica e semplicizzazione
della complessità
L’approccio a una realtà diversificata,
complessa, incontrollabile e talvolta ostile ha assunto spesso aspetti
drammatici per la mente umana. L’insufficienza intellettiva di fronte a un
coacervo di fatti ed aspetti del mondo deve aver determinato condizioni di
stupore e paura dal più al meno nei termini posti nel ‘700 dal nostro
Giambattista Vico nella Scienza nuova [55]
come forieri del pensiero religioso primitivo. Ma questo ceppo primitivo di
divinizzazione del reale aveva perlomeno il pregio di lasciar sussistere la
pluralità, sia pur transustanziandone l’essenza materiale in un’altra
incorporea. La nascita di un pensiero osservativo-riflessivo, la prima
filosofia storica nata presso i naturalisti milesii, aveva portato all’ipotesi
di un’arché primaria, origine di una realtà materiale che rimaneva
comunque pluralistica; sicché tale tesi vedeva l’arché possedere una
natura omogenea con le espressioni pluralistiche che generava [56].
Ma tale semplificazione operata dal naturalismo, accettabile in
riferimento alle conoscenze dell’epoca, viene oscurata dalla “semplicizzazione”
successiva operata dall’idealismo, laddove, messa tra parentesi la
realtà fenomenica, ne viene ipostatizzata un’altra, immaginaria e fittizia, che
la genererebbe, la ordinerebbe e la determinerebbe. È questa l’opera delle
teologie metafisiche e religiose che appariranno in seguito sulla scena
culturale e che finiranno per dominarla; essendo già dominatrici, da sempre, in
altri contesti, come quello indiano.
Uno
degli aspetti della semplicizzazione di ciò che è complesso può essere colto
nel modo con cui la teologia cristiana è riuscita ad adattarsi nei secoli
all’irrompere delle scoperte e delle teorie scientifiche innovative. Essa
infatti ha operato costantemente per “ridurre” alla ragione religiosa tutto ciò
che poteva diventare concettualmente pericoloso per i principi della fede. Con
un trasformismo dottrinale a volte veramente prodigioso (e oggi non meno di
ieri) la teologia cristiana è riuscita a fagocitare molte conquiste scientifiche
facendole passare come mere conferme della lettera biblica. Questa, sottoposta
all’inizio (nel mondo ebraico tradizionale) esclusivamente ad un’ermeneutica
“letterale” e bloccata, si è andata sempre più evolvendo verso un
interpretazione “metaforica” ed elastica, che lascia spazio per ogni tipo di
aggiustamento. Era già accaduto con le interpretazioni di Filone di Alessandria
(all’inizio dell’èra cristiana), seguite successivamente (e in maniera massiva
e profonda) dai Padri della Chiesa Origene, Basilio di Cesarea, Gregorio di
Nissa e specialmente Agostino.
I casi di omologazione-riduzione delle
nuove scoperte scientifiche alla fede in epoche recenti sono numerosi e
ripetuti, ma basti qui citare quello della teoria del big-bang (oggi Modello
Standard) che ha finito per diventare, nella letteratura e nella pubblicistica
teologica un’ottima conferma del “Fiat lux!”, o quella dell’evoluzionismo
darwiniano, diventato ormai, una sorta di perpetuo intervento divino “in corso
d’opera” [57].
Accade allora come se la stretta strada della teologia venisse progressivamente
allargata, ri-pavimentata e adeguata alle novità che via via si affacciano
all’orizzonte conoscitivo ad opera della scienza. Una strada metaforicamente
nata per i cammelli degli ebrei nomadi ed erranti tra Mesopotamia ed Egitto
che, a poco a poco, è diventata strada moderna, veloce, confortevole ed
efficiente per le “automobili coscienziali” della maggior parte dei cristiani
di oggi.
In realtà, il processo di semplicizzazione
della complessità della realtà fisica non è solo il prodotto delle ideologie
religiose (anche se esse restano molto spesso operanti come una vis a tergo di
cui si è perlopiù inconsapevoli), ma le si incontra in numerose teologie
filosofali che pure si sono qualificate e si qualificano come “laiche”,
anti-religiose e persino “atee” [58].
Si tratta di sistemi di pensiero che rinunciano a priori a fare riferimento al
mondo fisico, e quindi alla conoscenza scientifica che lo concerne, ritenendolo
sempre precario, privo di assolutezza e quindi inconsistente. Ne consegue
l’elaborazione di modelli della realtà su base esclusivamente
logico-dialettica, che creano una gerarchia ontologica di carattere metafisico,
nella quale si immagina un Uno-Tutto che si esprime in una pluralità fenomenica
che appare e scompare in esso secondo una fenomenologia perlopiù
deterministica. Oppure, in quelle più tradizionalmente idealistiche, accade che
il mondo sia posto al livello più basso e venga sussunto in una “struttura”
eterna in cui risulta “incluso” (venendo così abbassato a pura “apparenza”
contingente) o diventi addirittura l’espressione di un illusione.
L’assunto di tali sistemi di pensiero è che
la scienza, siccome non riesce mai a porre delle fondamenta salde, definitive e
irrinunciabili, al suo procedere, ma è invece sempre costretta a negare se
stessa per poter avanzare, deve ricorrere al pensiero metafisico per cercare
dei criteri fissi e immutabili su cui fondarsi. Questo punto di vista enfatizza
il fatto che la scienza, risultando del tutto priva di “assolutezza” e di
“incontrovertibilità” nelle sue definizioni, elabora le sue conoscenze sempre
attraverso un continuum correttivo-revisorio che si distenderebbe in un
ambito gnoseologico insostanziale, quello del relativo e del precario. Da
questa considerazione viene tratta la conclusione che la scienza su base
sperimentale non sia affidabile e che ad essa vada lasciata la conoscenza dei
fenomeni, mentre l’indagine su ciò che “che sta dietro i fenomeni e li fonda” è
compito della scienza “superiore”: la metafisica. Mutatis mutandis è
ancora sempre il punto di vista di Platone a prevalere, quello che aveva
ridotto la scienza della sua epoca (le ricerche sulla natura) a una mera
conoscenza di ”copie” precarie e insostanziali della realtà immutabile del
Mondo Iperuranio (quella dove risiedono le matrici divine della realtà) e dove
le uniche entità eterne (numeriche o logico-dialettiche) si presentano sotto la
connotazione dell’Idea. Un punto di vista che sembra veramente “eterno”, quanto
la teologia delle Idee che ne sono alla base, e che palingeneticamente ritorna
sempre (e vivissimo!) anche oggigiorno, a ventiquattro secoli dalla sua
“gloriosa” nascita, per i destini altrettanto gloriosi della metafisica
occidentale e del Cristianesimo che l’ha ereditata.
Noi comprendiamo tuttavia tale punto di
vista, quasi “dovuto” quando si parta dalla cogente assolutezza di una weltanschauung
teologico-metafisica, ma esso non ha nulla a che fare con la filosofia. Noi
pensiamo che la filosofia debba essere, in quanto tale, primariamente indagine
sulla realtà cosmica (basandosi su “dati” oggettivi di partenza e da essi
procedendo) e secondariamente indagine sull’uomo. Solo quando le ipotesi
euristiche derivate appaiono “almeno” plausibili se ne possono derivare tesi,
le quali si offrono sempre, a loro volta, all’indagine e, qualora producano a
loro volta dati, alla verifica teorica e sperimentale di essi. Ora,
questa procedura elementare (i cui passaggi costituiscono la base irrinunciabile
di ogni progresso nella conoscenza) vengono sostituiti dalla metafisica con i
formalismi della logica. Il linguaggio logico, con i suoi assiomi, le sue
regole di verità, i suoi sillogismi, diventa quindi sostitutivo dell’indagine
sulla realtà e vi subentra surrettiziamente in base a un dogma secondo il
quale, siccome il pensiero passa attraverso il linguaggio (e una realtà “non
pensata” è un nulla) solo il pensiero è produttore di realtà vera. In altre
parole, solo il “pensato” è reale ed è pensando qualcosa e poi descrivendolo ed
esprimendolo in modo logicamente corretto che se ne fa una realtà. La
conclusione inevitabile è che prima di venire pensato un oggetto sembra
appartenere a una sorta di “regno del nulla” in attesa che l’homo sapiens
lo riveli.
Questa nostra affermazione relativa all’uso
improprio della logica in metafisica potrebbe indurre il dubbio che noi siamo
contro la logica. In realtà (ma sull’argomento torneremo) riteniamo che la
logica abbia una funzione estremamente importante nella formulazione del
pensiero; ma una tesi pensata e poi formulata secondo principi logici non
esorbita per nulla l’ambito del linguaggio stesso e non può essere applicata
alla realtà. La certificazione formale-linguistica della rispondenza a criteri
logici non consente che una tesi venga fatta “saltare” dal piano logico a
quello ontologico senza mediazioni che coinvolgano la realtà stessa e i suoi
dati a conferma della legittimità del procedimento. Ebbene, la metafisica, in
generale, fa proprio questo, poiché: a) esclude a priori la realtà fisica dal
suo campo di indagine con la petizione di principio che essa, in quanto pura
apparenza fenomenica, non dice il “vero”, b) stabilisce che solo il pensabile e
solo dopo esser stato pensato ed espresso nel linguaggio logico-dialettico
possa costituire la base per l’indagine “veritativa”, c) dogmaticamente
asserisce che un pensiero formulato secondo “regole” di verità dice sempre la
verità in termini di oggettività assoluta a prescindere dal dato fenomenico.
La “logica” distorta di tale ragionamento
si fonda su un’autoreferenzialità assoluta, nella quale il cortocircuito
logicizzante si chiude su se stesso in modo tautologico, perché “interno” a una
finalizzazione del discorso. La dicotomia sostanziale tra il procedere
metafisico e il procedere della scienza consiste nel fatto che questa utilizza
sì la logica nell’esprimere le proprie tesi, ma la logica non è considerata il
“fondamento” del pensiero scientifico, ma soltanto il “mezzo” con cui esso può
esprimersi in termini linguistici. Quindi, la ragione del contendere tra la
metafisica e la scienza sta nel fatto che mentre questa utilizza la logica come
“mezzo”, quella, al contrario, fa della logica non soltanto il fondamento del
proprio procedere e del proprio esprimersi, ma il fondamento del proprio
“essere”, come foriero di verità meta-fenomeniche che si danno originariamente
e veritativamente nel linguaggio quale rivelatore privilegiato dell’”essere”
stesso. La verità logica-longuistica secondo tali premesse diventa
immediatamente “verità ontologica”, pretendendo di concernere l’essere
della realtà e di costituirne il livello più profondo e autentico.
Ora, se la metafisica si manifesta
essenzialmente come “logica” discorsiva, non si capisce poi come da questo
livello discorsivo-comunicazionale essa possa pretendere di trasferirsi sul
piano ontologico con un salto di significati di cui non si ha alcun tipo di
legittimazione euristica né di giustificazione cognitiva. La metafisica, in
realtà, si legittima soltanto per una logica tutta interna al suo discorso e in
base a dei principi (di identità, di non-contraddizione, ecc.) che diventano
premesse del tutto arbitrarie ove pretendano di esorbitare il livello
discorsivo. Premesse che ritengono veritativa non già una realtà a cui adeguare
il discorso, bensì la “forma” del discorso stesso; ne deriva una pura formalità
discorsiva, non avente alcun altro fondamento reale cui fare riferimento quale
elemento “esterno” di verifica. Sarebbe come se un oggetto esteso nello spazio
potesse auto-misurarsi ed inferire la natura dello spazio senza dovere
ricorrere a uno strumento di misura “esterno” (il metro) che la definisce
spazialmente. La metafisica, quindi, “inventa” col linguaggio una realtà
surrettizia e poi la appiccica al reale fisico pretendendo di porsi come un suo
irrinunciabile fondamento noumenico. La logica, nello scorretto utilizzo
metafisico, diventa quindi un “a monte” della realtà, una base “assoluta” che
pretende di fondarla attraverso la dimostrazione.
Noi
sosteniamo che anche in filosofia vada posto come fondamento gnoseologico il
fenomeno e il “dato” fenomenico che da esso deriva e non già il pensiero o il
discorso che ne astraggano; la metafisica, all’opposto, pone a proprio
fondamento il pensiero “circa” il fenomeno e la sua causa. Risulta chiaro che
la base di partenza di tale atteggiamento è ancora sempre l’onnipresente punto
di vista platonico, che anche il principe della metafisica per antonomasia,
Aristotele, assume integralmente. Malgrado le sue critiche alla filosofa “delle
idee” lo Stagirita, come abbiamo già rilevato, non rigetta mai il fondamento
metafisico di una “realtà prima” (quella divina [59])
di cui la realtà seconda, la natura, è soltanto sua espressione accidentale.
Aristotele non disprezza la ricerca naturalistica come Platone, ma non meno di
lui la separa dalle “cose divine”. D’altra parte egli dichiara senza
esitazione: « […] non è possibile fare alcuna indagine speculativa e
veritativa sull’essere accidentale.» (Metafisica, VI (Ε),1,
1026 b, 3-4); ovvero: del fenomeno “non si dà nessuna scienza”. Egli rimane
legato al principio in base al quale la ricerca della verità va esperita
unicamente nell’ambito del metafisico (l’eterno), indagabile solo attraverso le
idee ed esprimibile col discorso, e non già nell’immanenza del fisico (il
mutevole), indagabile invece con l’osservazione e con la strumentazione
materiale.
Mentre la scienza procede invariabilmente
riconoscendo i propri errori pregressi e rifondandosi continuamente per porre
nuove teorie che molto spesso cancellano quelle vecchie, la metafisica distilla
criteri veritativi fissi, irrinunciabili e inconfutabili, sub specie
aeternitatis, spesso affidandosi alla cogenza dell’έλεγχος
(élenchos [60]).
Ogni acquisizione scientifica, al contrario, può presentarsi come “vera” in un
certo contesto storico (ad un certo livello della conoscenza) e può mostrarsi
decisamente “falsa” in uno successivo, richiedendo la sua immediata cassazione.
Ogni teoria scientifica può sempre rivelarsi erronea in un futuro, o quanto
meno richiedere un aggiornamento che a sua volta potrà essere ulteriormente
superato; e così via. Ciò significa che la scienza, in pratica, “accetta” di
negare continuamente se stessa nel suo procedere e di tale negazione fa il suo
fondamento. Questo continuo “negare se stessa” della conoscenza scientifica
costituisce il suo maggior pregio e la migliore garanzia. Non ponendo mai degli
“assoluti” essa procede verso la realtà ancora ignota correggendo i propri
errori in una progressiva approssimazione veritativa, assicurando con ciò non
un conoscere “definitivo” bensì progressivo e migliorativo, che adegua sempre
più le tesi sul reale alle sue denotazione strutturali. Ma proprio questa
capacità auto-migliorativa della scienza viene considerata dai teologi e dai
metafisici il segno della sua debolezza, della sua provvisorietà e della sua
limitatezza, lontana dagli “assoluti” dogmatici o inconfutabili di cui essi
sono sempre a caccia e che dispensano. Una caccia che non è tale, poiché l’assoluto
viene sempre costruito per mezzo di una “rivelazione” logico-dialettica
assolutizzata.
A questo punto risulterà opportuno qualche
accenno storiografico. La nascita del pensiero metafisico può essere fatta
risalire al pensiero del Platone maturo, quello della “seconda navigazione”,
quando egli inizia la sistematica ipostatizzazione della “sfera del
soprasensibile”. Ogni tentativo di far passare (spesso solo strumentalmente) le
filosofie precedenti (e talvolta persino quelle atomistiche) come delle forme
di metafisica è del tutto improprio e altamente sviante. Né possono essere
considerate metafisiche compiute alcuni atteggiamenti particolari, e non
sistemici, come quello di un Senofane, né le posizioni ontologiche degli
Eleati, poiché mancano entrambe di quella strutturazione di pensiero, sia pure
non sempre univoca, che caratterizza il pensiero platonico e più tardi il più
coerente e sistematico impianto aristotelico. Platone rimane quindi il padre di
tutte le metafisiche occidentali, anche se, nella protratta e articolata
riflessione del teologo filosofale ateniese, possono risultare distinguibili
corsi diversificati dei suoi concetti metafisici attraverso le varie epoche del
suo pensiero, che nell’insieme potremo chiamare indifferentemente idealistico,
metafisico o filosofale, essendo i tre aggettivi coincidenti .
Platone è il fondatore non soltanto di ogni
teologia filosofale che a lui, esplicitamente o meno, faccia riferimento o si
ispiri, ma di ogni pensiero che ipotizzi una realtà noumenica che starebbe
“prima”, “dietro”, “sotto” o “sopra” la realtà fenomenica. La straordinaria
prerogativa del pensiero platonico di essere “onnipervadente” per tutta la
filosofia occidentale deriva dal fatto che egli ha precostituito “insieme”
diverse strade maestre filosofico-teologiche, le quali sono state poi
ripercorse dai suoi successori ed epigoni con differenti particolarizzazioni e
variazioni. Questa meta-fisica generalizzata trova anche le proprie radici in
una certa ambiguità (coniugata con una certa “plasticità” concettuale) che può
essere colta confrontando analiticamente vari dialoghi. Essi, presi
singolarmente, possono infatti essere considerati topoi specifici di
un vastissimo orizzonte filosofale, Va però sottolineato che, in realtà, vere e
proprie contraddizioni nella teologia di Platone non sono mai veramente
rilevabili, poiché tutto viene integrato e fuso in un sorta di “pozzo di San
Patrizio” concettuale. Un magazzino inesauribile di idee e concetti che
ammettono altrettanto bene la teorizzazione di un personale Dio-Volontà (il
Demiurgo) e quella di un impersonale Dio-Necessità (l’Anima del Mondo)
quali espressioni secondarie di un
supremo Dio-Moralità (il Bene) che li riassume in sé unitariamente ma come una
trinità del divino. Per molti versi resta vera l’asserzione del platonico
Alfred North Whitehead, secondo il quale tutta la filosofia occidentale è solo
una gigantesca parafrasi della teologia filosofale platonica.
Platone è il padre di tutta la metafisica
occidentale, come dire di quasi tutta la teologia filosofale elaborata
nell’Occidente dal IV sec.a.C. in poi. A volere esser più precisi di quella
parte della speculazione, del tutto prevalente, la quale, assumendo l’ipostasi
di una realtà “soprasensibile” posta assiologicamente ed ontologicamente al di
sopra del mondo fisico, ha permeato tutti i gangli principali e dominanti della
cultura occidentale, perlopiù rifluiti e affermati in un “abbraccio mistico”
col Cristianesimo. È infatti nel Cristianesimo che viene assunta quella che
potremmo definire l’“anima dualistica” di Platone, quella di derivazione orfica
che nell’Ebraismo era assai poco delineata e che si affermerà nel Cristianesimo
ad opera di San Paolo [61].
L’altra anima platonica è quella “monista”, quella di derivazione eleatica, che
si manifesterà nello Stoicismo e nel
Neoplatonismo, nei panteismi di Bruno e di Spinoza, nell’idealismo
tedesco dell’Ottocento. Ma è la prima che conduce il Platonismo a fondersi col
Cristianesimo e a renderlo vincente avendo assunto connotazioni ideologiche
tali da garantire alla religione della Croce il dominio sulle coscienza di gran
parte dell’Occidente Europeo e delle Americhe
È con Platone che vengono poste quelle
premesse che Aristotele (in parte divergendo dal maestro) fisserà nella sua
analisi ultra-fisica, la quale, secondo le sue stesse parole, si pone
eminentemente come teologia in termini inequivocabili. Scrive lo Stagirita (Metafisica,
VI [Ε], 1, 1026a, 17-21):
Quindi ci saranno tre specie di filosofie teoretiche, cioè la matematica
la fisica e la teologia, essendo abbastanza chiaro che, se la divinità è
presente in qualche luogo, essa è presente in una natura siffatta, ed è
indispensabile che la scienza più veneranda si occupi del genere più venerando.
[62]
Troviamo in
questo breve passaggio un’affermazione di capitale importanza per tutta la
filosofalità posteriore: ovvero che la “filosofia prima”, quella che concerne
l’”essere in quanto tale” (metafisica nella titolazione di Andronico di
Rodi), è innanzitutto “scienza”, e che la più alta espressione di essa è la
teologia, essendo la fisica e la matematica ad essa subordinate. Affermazione rafforzata e precisata più
avanti, quando viene affermato che il “rango” di una disciplina dipende dal
genere di essere di cui si occupa. Ed essendo Dio l’essere pensabile di
rango più elevato in assoluto, la scienza che se ne occupa, la teologia, è
pertanto al vertice delle scienze dell’uomo nei termini che seguono (Metafisica,
XI [Κ], 7, 1064 b, 39-45):
Resta chiaro, pertanto, che esistono tre generi di scienze teoretiche:
quella fisica, quella matematica e quella teologica. Superiore agli altri è,
pertanto, il genere delle scienze teoretiche, e fra queste la più nobile è
quella da noi ricordata per ultima, perché essa si occupa dell’essere più
venerando, e ciascuna scienza è considerata migliore o peggiore secondo
l’oggetto su cui verte peculiarmente la sua indagine conoscitiva. [63]
Si noterà che
l’indagine sulla natura, quella che sarà peraltro oggetto di buona parte della
speculazione aristotelica posteriore, qui non viene minimamente citata. Se ne
deduce che per Aristotele né la biologia né la botanica né la zoologia
concernono l’essere “vero”, ma solo quello “per accidente”, del quale
quindi non si dà scienza alcuna. Quelle che noi chiamiamo “scienze” per
Aristotele non lo erano per nulla, mentre lo era la teologia, che si poneva al
vertice quale scienza per eccellenza. Siamo ancora sempre immersi nella
teologia di Platone; l’allievo non condivide il punto di vista del suo maestro
nel dettaglio, ma lo conferma nella sua essenza ontologica, gerarchizzando gli
enti reali in “divini” (oggetto della metafisica) e “accidentali” (oggetto
dell’indagine naturalistica). Aristotele rimane idealista a dispetto della
stessa critica che egli muove alla “filosofia delle idee”, sviluppata in più
luoghi della stessa Metafisica
(I, 6, 987b; I, 9, 990b-993a e altri). Ed anche la Fisica aristotelica è
mera teologia laddove Dio (il Primo Motore) è l’”atto puro” e la “causa prima”
dell’essere in generale (Fisica, VIII, 7). Causa prima che è
anche causa “finale” nell’ambito di un pensiero teologico deterministico che
trova il proprio fondamento in quello di Platone, laddove, a proposito del
cosmo e di Dio (“chi lo ha generato”), quegli affermava (Politico, 269 e):
L’essere sempre nei medesimi rapporti e nelle medesime condizioni, e
l’essere sempre identico si addice solamente alle realtà più divine di tutte;
la natura del corpo non è di questo ordine. Quello che chiamiamo cielo e cosmo
è stato fatto partecipe, da chi lo ha generato, di molte qualità divine. Eppure
ha comunanza [E] anche col corpo; ragion per cui gli è impossibile
essere del tutto esente da mutamento, e quindi, per quanto può, almeno, e
quanto più può, si muove nello stesso luogo e nello stesso modo con un solo
movimento. [64]
Tale
“movimento” unico è proprio quello che secondo Aristotele viene impresso da Dio
ab origine al cosmo, di cui è ordinatore e “motore” primario. Ma
in questo passo platonico va notato che Dio non appare soltanto come demiurgo,
ma anche come creatore di questo cosmo (“chi lo ha generato”), il quale “si
muove nello stesso luogo e nello stesso modo con un solo movimento”. Appare evidente che la metafisica,
come viene comunemente intesa da Andronico di Rodi in poi, nasce con Platone
quale strumento di riduzione di una complessità reale, non sempre intelligibile
in ogni suo aspetto, in uno schema concettuale razionale e mitico-mistico che
semplicizza la totalità in un “modello” metafisico facilmente comprensibile.
Ciò avviene attraverso una sorta di metaforica “topologia ontica” che crea un
dualismo arbitrario e artificioso, nel quale il secondo termine (la materia,
che nei suoi enti “copia” le Idee) si annulla nella sua inconsistenza
ontologica per lasciare emergere, nella sua unità eterna e sostanziale, quel
Dio-Bene iperuranio (col corteggio delle sue Idee-Attributi) che si riflette
poi nell’”anima” degli uomini. Uno schema che, mutatis mutandis, si
ritroverà quasi tal quale nell’elaborazione concettuale che i primi teologi
cristiani opereranno a partire dallo Yahvè ebraico per disegnare il loro Dio
universalistico e amorevole, realizzando così quell’abbraccio
idealismo-cristianesimo che fa di questo la religione “razionale” per
eccellenza. [65]
1.5 La logica e la dialettica in funzione
anti-filosofica
Fin dal §1.2 abbiamo tradotto il termine φιλοσοΦία
con amore per la conoscenza nell’intento di arricchirlo di una
connotazione conoscitiva ed epistemica resa in antico dai termini γνώσις
ed έπιστήμη che il termine filosofia
implicava, ma che non possedeva esplicitamente. A fronte dell’uso del
termine filosofia e dei suoi evidenti abusi, sia nell’antichità che in
epoca moderna, c’è allora da domandarsi quale tipo di filosofia operi “per” la
filosofia (per la conoscenza) e quale “contro” di essa. La contrapposizione
radicale non paia strumentale, in realtà non esistono compromessi tra un
operare che tragga la conoscenza direttamente dall’oggetto di conoscenza nel
suo darsi attraverso la propria fenomenologia ed un altro che pretenda di
creare conoscenza prescindendone e dandosi un fondamento conoscitivo su basi
puramente logico-dialettiche, ovvero “linguistiche”. Naturalmente non saremo
noi a contestare il fatto che ogni e qualsiasi conoscenza possa solo essere
espressa col linguaggio e darsi nel linguaggio; ciò che noi contestiamo è che
il linguaggio da “strumento” contingente di espressione conoscitiva diventi
“essenza” della conoscenza. In altre parole, il linguaggio permette una “forma
esprimibile e trasmissibile” della conoscenza, pressapòco come l’immagine
fotografica rende visivamente un oggetto o una situazione, ma né il linguaggio
né l’immagine possono fondare l’oggetto che descrivono o rendono visibile.
Pensiamo allora di poter affermare che gli
strumenti della logica e della dialettica, nell’utilizzo fatto dalla
metafisica, si transustanziano illegittimamente in strumenti ontologici, mentre
sono soltanto epi-strutture della comunicazione. Con tale utilizzo abusivo la
metafisica logicizzante, come produttrice di pseudo-verità ottenute attraverso
meccanismi linguistici strumentali, “si dà” le regole del proprio procedere per
fini ideologici. Essa “crea” pertanto una realtà immaginaria attraverso una
“sostanzializzazione” del discorso per mezzo degli strumenti della logica e
della dialettica; la prima fornendo le prove deduttive e la seconda le prove
analitico-esplicative della presunta realtà dell’oggetto metafisico
ipostatizzato. Ciò chiama in causa la base razionalistica del produrre un
discorso connotativamente filosofico, che però mistifica l’essenza della
filosofia. In altre parole, un conto è utilizzare un meccanismo
grammaticale-sintattico per produrre una deduzione, altro conto è se la
deduzione “crea” un’entità inesistente pretendendola reale. Quando la
speculazione si riduce a una meccanica logico-dialettica con la quale si
pongono principi ritenuti ontologicamente veri solo perché logicamente
incontrovertibili si finisce per legittimare, attraverso tali processi
cogitativi-discorsivi, ogni sorta di ectoplasmi ontologici.
Tali prodotti possano essere legittimamente
considerati alti esempi della creatività umana, come lo sono le opere d’arte e
quelle letterarie, a testimonianza di quanto meravigliosa possa essere
l’operatività del cervello dell’homo sapiens, ma essi non operano “per
la conoscenza”. In gnoseologia tali meravigliosi prodotti possono diventare
mortali per essa laddove vengano considerati non già “creazioni” dell’ingegno
umano, bensì “rivelazioni” sull’essere del mondo. Ne derivano tre
domande: 1. quanto tale creazione è legittimata a costituirsi in prima istanza
come “logicamente inconfutabile” (in base all’elenchos aristotelico)? 2.
quanto, in seconda, come “verità”? 3. quanto, in terza, anche come “realtà”? La
risposta “logica” è che sulla prima istanza non vi è nulla da eccepire, poiché
l’inconfutabilità logico-discorsiva è fuori discussione. Che la seconda si
legittima solo se per “verità” si intende una dichiarazione conclusiva
deduttivamente corretta, ma non afferente la realtà ontica. La terza, infine,
appare inequivocabilmente del tutto arbitraria.
La pretesa del procedere metafisico di
produrre delle “verità” oltre che logiche anche ontologiche sembra differire
dal costituirsi di una “fede” basata sulla rivelazione del divino, alla quale
può seguire la dimostrazione in termini logici della verità di cui è
portatrice, ma senza che ciò sia necessario alla fede stessa. In metafisica
tale obbiettivo è invece indispensabile, ma non potrebbe porsi senza la “fede”
negli strumenti logico-dialettici e senza presupporre che il traguardo di tale
procedere (la “credenza” nel processo) produca la “verità”. La conclusione del
procedere, la deduzione, è già da sempre implicata nelle premesse che la
generano (foriere di una verità che attende solo di rivelarsi nella deduzione)
sicché ci troviamo di fronte ad un circolo ozioso ideologicamente
pre-fabbricato. Le cosiddette “premesse” sono già create ad hoc per
arrivare alla “deduzione” voluta e questa è già totalmente compresa in quelle.
L’esempio classico di questa “creazione” logico-dialettica lo offrono i
dialoghi platonici; commedie discorsive con le “parti” già dosate per far sì
che gli sviluppi del discorso (vera operazione maieutica) partoriscano la
verità. Non vediamo quindi come la verità rivelata delle religioni possa
considerarsi sostanzialmente differente dalla verità della metafisica, poiché
entrambe sono basate su una “credenza”: la prima nella parola divina che la
verità rivela direttamente, la seconda nel “discorso” logico-dialettico che la
rivela indirettamente. Ci troviamo di fronte a due “miracoli” rivelativi
straordinari e perfettamente legittimi in teologia, ma decisamente
anti-filosofici.
Vi è un altro punto importante da porre,
quello relativo all’idea abbastanza comune, ed errata, che vede tutte le
religioni come irrazionalistiche. Le religioni si possono caratterizzare sia
per la loro irrazionalità (nel qual caso sono mistiche) o per la loro
razionalità (nel qual caso sono metafisiche), oppure possono portare in sé
(come nel Cristianesimo) sia caratteri irrazionalistici sia razionalistici. Non
sono irrazionalistiche né la fede di Agostino di Tagaste, né quella di Tommaso
d‘Aquino, né quella di Blaise Pascal, ma costituiscono, all’opposto, vette razionalistiche
tra le più alte della storia del pensiero occidentale. Non è quindi il
misticismo irrazionalistico a caratterizzare sempre le religioni, ma spesso, al
contrario, nei suoi aspetti teologici e dottrinari qualche religione si
configura come metafisica del tutto razionalistica. Magari non molto
concettualizzata ed articolata (come sono invece le metafisiche filosofali) ma
pur sempre tale; e ciò quand’anche la credenza che la fonda si possa basare
unicamente su un “mito” o su una “rivelazione”. Nessuno accuserebbe Platone di
irrazionalismo, eppure i luoghi più importanti della sua teologia filosofale si
fondano su figurazioni e rappresentazioni di carattere mitico. Ciò non deve
considerarsi solo strumentale (come spesso si sente dire impropriamente) bensì
strutturale alla teologia filosofale platonica stessa, come ad ogni
speculazione filosofale che neghi veritatività ontologica alla sperimentazione
scientifica per rivendicarla alla discorsività metafisica.
L’esempio più classico di teologia razionalistica
ci viene offerto, come detto, dal Cristianesimo, e non soltanto perché nei suoi
sviluppi abbia incluso la speculazione filosofale platonica e aristotelica, ma
perché esso, intrinsecamente, rappresenta l’incontro, riuscito e vincente, di
credenze irrazionalistiche e di elaborazioni teologiche su base
razionalistico-speculativa, presenti già nella Patristica ma sviluppate ed
espresse al meglio nella Scolastica. La teologia cristiana si è così costituita
come un sistema sincretistico variegato e ben omogeneizzato di apporti
speculativi differenti. Essa, attraverso selezioni ed affinamenti offre oggi un
panorama sostanzialmente univoco dal punto di vista dottrinario di base, ma nel
contempo estremamente articolato sul piano della speculazione, al punto che il
pensiero occidentale tra il V e il XVI secolo può considerarsi costituito dal
felice incontro tra la teologia filosofale greca (platonica, aristotelica ed in
parte stoica) e la teologia di San Paolo (presente di riflesso nei Vangeli
Sinottici) costruita sui fondamenti biblici, con apporti orfici ed essenici
rispecchiati nella vicenda evangelica del Gesù “paolinizzato”.
Le metafisiche, non meno delle religioni,
presuppongono una “credenza”, se non altro nel poter prescindere dall’evidenza
esperienziale nell’affidamento cieco ad un’interpretazione trans-fisica della
realtà creata attraverso meccanismi linguistici. È tale credenza che le fonda,
estrinsecandosi sulla fede che l’argomentazione logico-dialettica (ovvero il
“discorso”, alla cui base sta la “parola”) abbia il “potere” magico di creare
il significato di un mondo che senza di essa risulterebbe privo di senso.
L’attribuzione di significato (e di “senso”) ad una realtà fisica che non ne
ha, operando attraverso l’ipostasi di una sua origine “celata” sotto l’evidenza
fisica, è l’operazione logico-dialettica che “crea” ex-novo una realtà con la
pura magia della parola e dei meccanismi che la organizzano. Questa supposta
“realtà metafisica” presuppone, quindi, un lavorìo cogitativo-discorsivo che la
estrarrebbe sotto le evidenze di una bruta realtà materiale talvolta
inintelligibile. Il metafisico, d’altra parte, non si
pone mai il problema di trovare evidenze fattuali, causali od effettuali di
tipo scientifico (quindi in base a dati “del” e “sul” reale) a sostegno delle
proprie tesi. Egli si affida al linguaggio e a sue forme ad hoc per
giungere a conclusioni “vere” derivate da premesse “vere”, ma onticamente (e
quindi ontologicamente) arbitrarie ed astratte.
È per questo che abbiamo da tempo proposto di riservare il termine
“verità” esclusivamente alle conclusioni di operazioni matematiche e
logiche “fini a se stesse”, escludendo ogni loro estensione sul piano
ontologico, dove solo quello di realtà [66]
è possibile e corretto. Basti un esempio: non è tanto “vero” che la
Terra giri intorno al Sole, bensì “reale”; mentre potrebbe risultare “vero” che
Dio li ha creati attraverso una costruzione logico-dialettica ben congegnata.
La
verità fisica che la Terra giri intorno al Sole non può essere resa da alcun
discorso logico, bensì esclusivamente da “dati” osservativi e verificativi, e
ciò perché la cognizione della realtà osservata, confermata e
sperimentata non ammette alcuna sua negazione per quanto costruita col massimo
rigore logico. Per millenni è stato “vero” (e logicamente dimostrato) che la
stella girasse intorno al pianeta, ma solo quando la “realtà” si è resa
evidente quella pretesa “verità” logica non è più stata tale, lasciando
apparire finalmente la “realtà” che la “verità” aveva offuscato. Infatti, come
ognuno sa, prima dell’avvento del pensiero scientifico moderno le uniche due
“verità” sull’universo erano quella cosmogonica della Bibbia e quella
strutturale della Metafisica aristotelica (riferita al Primo Motore Immobile)
ed ogni altra tesi, ad esse contraria, era per ciò stesso una “falsità”. E tale
non soltanto per il teologo ebraico o cristiano, ma anche per ogni uomo che si
occupasse di teologia metafisica con l’illusione di occuparsi di filosofia (e
magari persino di scienza!).
Si vede come in
Zenone di Elea si dia già in modo compiuto un procedere logico-discorsivo che
trae la propria origine dal procedere della “riduzione all’assurdo”, che
costituisce una delle basi irrinunciabili della nozione di “falso” in logica.
Le premesse zenoniane (probabilmente mutuate già da Socrate) si affineranno con
Platone e troveranno espressione esauriente con Aristotele.
Torniamo a Platone, che in virtù delle sue
straordinarie capacità rappresentativo-letterarie (essendo i suoi dialoghi vere
“commedie filosofali”) utilizzava la logica in maniera recitativo-discorsiva.
Chi ne segue gli insegnamenti, anche oggi, costruisce le proprie dimostrazioni
non tanto attraverso “formule” sillogistiche quanto attraverso gli “sviluppi”,
gli “avviluppi” e gli “inviluppi” di un discorso pirotecnico che porta ad una
immaginifica e sontuosa “dimostrazione” conclusiva, presupposta e preparata
accuratamente. Il Nostro, per quanto fanatico dei numeri e della geometria,
aveva capito che la massima efficacia dimostrativa era ottenibile con sviluppi
discorsivi appropriati e ben congegnati. In tal senso egli va riconosciuto come
un magnifico giocoliere del discorso teologico filosofale; un letterato (anzi
un “commediografo”) che confeziona abilmente le proprie peregrinazioni
dialettiche e non certo un filosofo interessato al conoscere. Lo strumento
principale del suo mestiere è, d’altra parte, quel “processo evocativo” che lo
porta al raggiungimento di quel Bene-Vero che ha immaginato e la cui esistenza
riesce discorsivamente a dimostrare. Egli anticipa Aristotele sotto molti
aspetti, ma questi, specialmente in Elenchi sofistici (o Confutazioni
sofistiche) ai punti 34, 183b e 34-36 si preoccupa di precisare
orgogliosamente che nelle ricerche logiche prima di lui “non v’era
assolutamente nulla”. Nella logica aristotelica cambia la forma espositiva ma
lo strumento è identico, a conferma del fatto che le basi dell’operare idealistico
sono immutabili, collocate entro una cornice fissa che non cambia malgrado le
infinite variazioni possibili. Si può cogliere il nocciolo della logica
idealistica in un passo del Sofista dove Platone pone le premesse di
ogni logica successiva, facendo dire allo Straniero-Socrate che dialoga con
Teeteto (263 b):
Str: Di che qualità, allora, diremo che siano l’uno e l’altro di
questi [discorsi]?
Teet: L’uno falso, credo; l’altro, invece, vero.
Str: Quello di loro che è vero dice come sono gli enti che riguardano
te.
Teet: Certo.
Str: Quello falso, invece, dice cose diverse da quelle che sono.
Teet: Sì.
Str.: Dunque, i non-enti li afferma come enti. [70]
Il discorso falso
dice come le cose “non sono” non già in riferimento al loro essere realmente
così e non altrimenti sotto il profilo empirico-sperimentale, bensì unicamente
in base alla correttezza dell’argomentare. Il vero o il falso sono “qualità”
del discorso che pretendono estendersi “ontologicamente” in modo transitivo ed
automatico. Ed da precedenti di questo tipo che Aristotele potrà impostare la
sua definizione delle procedure logiche che esporrà nell’ Organon.
L’ultra-famoso principio di
contraddizione (o anche di non-contraddizione) che costituisce un
glorioso vertice dell’oziosa logica tautologica è reso com’è noto da Aristotele
in più luoghi della sua opera e in particolare nel IV Libro della Metafisica.
Ciò che di solito si omette di ricordare è che anche le premesse di tale
principio sono già in Platone, in modo implicito in vari luoghi dialogici ed
anche in modo più esplicito laddove sentenzia (Repubblica, IV, 436 b):
È chiaro che la medesima parte non potrà mai subire o produrre
affezioni contrarie, nel medesimo modo e in rapporto al medesimo oggetto, […] [71]
La
“straordinaria” verità di questa affermazione era molto probabilmente nota,
oltre che al sommo padre dell’Idealismo, anche all’ultimo ciabattino di Atene e
all’ultimo schiavo del contado ateniese, ma il vero proposito del teologo è un
altro. Quello di “fondare” il conseguimento di una verità non nell’evidenza
dell’effettualità, ma nella meccanica del discorso, che crea un’immaginaria
sfera dell’”ideale” da contrapporre al
mondo “reale”. Una verità la quale, mirando a raggiungere l’evidenza
formale interna al discorso stesso, non deve più preoccupasi della rispondenza
alla realtà, poiché questa viene espunta dalla veritatività come scoria
superflua e insostanziale, ovvero come “copia” precaria della realtà divina ed
immutabile.
D’altra parte, la stessa visione dello
stato ideale (retto dai filosofi-custodi usciti dalla “caverna” dell’ignoranza [72])
costituisce l’utopia del mito di un Bene divino che diventa “attualizzato” ad
opera del discorso logico-dialettico, e mediante questo portato alla luce da
una nobile minoranza di semi-dèi (in quanto conoscitori della Verità) a favore
della moltitudine, sprofondata nel buio dell’ignoranza e della corporeità
sensoriale. Nel mito platonico vi è anche la “dimostrazione” logico-dialettica
che diventa possibile uscire dalla “realtà” di una democrazia troppo legata
alla materialità (certamente imperfetta ma quantunque reale nella polis dell’epoca)
per ascendere a un’”idealità” che è realizzabile soltanto da un oligarchia di
sapienti-governanti-piloti che non reggano lo stato sulla base di bisogni ed
esigenze dell’umanità comune, ma in base alle connotazioni della realizzazione
del regno del Bene sulla terra. Un Bene-Dio che si presenta però, nel
successivo Leggi, come “un trarre gli uomini dalla caverna per
rinchiuderli in una caserma” [73],
che li salva dall’ignoranza del divino, ma li condanna alla tirannide della
“sapienza” idealistica.
Si aggiunga che la logica, che è implicita
nella computazione astratta, fin dalle sue origini non è nata per indagare il
cosmo, ma piuttosto per giustificare le acrobazie del discorso o per mettere il
contraddittore con le spalle al muro, anche a costo di sostenere ciò che si
presenta come un mero paradosso sul piano intuitivo, osservativo e induttivo
(vedi Zenone). Il grave è che la logica, per come fin dalla sua origine si è
formata e strutturata, contiene intrinsecamente (per i suoi meccanismi e per le
sue prerogative eristico-dialettiche) già tutte le premesse per esorbitare dal
suo ambito e traboccare nell’ambito ontologico, con conseguenze devastanti per
la filosofia. Ci troviamo infatti, con la logica “ad uso metafisico”, di fronte
alla creazione di una fittizia realtà priva di relazioni con il reale ontico.
L’esempio più chiaro dei danni prodotti dalla logica metafisica alla filosofia
ce lo offre Aristotele quando nella Metafisica ci spiega che cos’è la
Sapienza (III, 2, 996 b, 9-15):
Orbene, se teniamo presenti le nostre precedenti distinzioni fatte per
sapere a quale scienza si addice il nome di Sapienza, troviamo sufficienti
motivi per dare a ciascuna di esse un tale appellativo: se, infatti, si tiene
presente che la Sapienza è sovrana e dominatrice e che le altre scienze, come
sue schiave, non hanno il diritto di contraddirla, allora essa si identifica
con la conoscenza del fine e del bene (giacché le altre cose esistono in virtù
di quest’ultimo); [74]
Il Bene (il
Dio di Platone) si conferma nello Stagirita il termine di riferimento della
Sapienza, che in quanto scienza suprema (altrove è chiamata “teologia”) tiene
quali schiave tutte le altre. Ma la scienza del bene (che è nello stesso
tempo fine) neppure sopporta alcuna contraddizione da parte di altre
scienze e si erge pertanto a giudice inconfutabile delle loro asserzioni. Ma su
che cosa si basi tale Sapienza ci viene evidenziato poco dopo (ibidem, 30-32):
[…] e così, ad
esempio, circa la necessità che ogni cosa sia affermata o negata, e circa
l’impossibilità di esser e di non-essere allo stesso tempo e circa tutte le
altre premesse di tal genere, noi ci domandiamo se la scienza di tali principi
si identifichi con quella che studia la sostanza oppure sia diversa da essa,
[…] [75]
L’affermazione
e la negazione diventano qui le basi dell’essere o del non-essere e
la correttezza dell’argomentazione (il criterio logico) si pretende fondamento
ontologico. E siccome l’essere si dà solo della sostanza (e non
dell’accidente), questa viene prodotta con un discorso che è sufficiente
risulti “non-contraddittorio” per produrre Verità. Perciò nell’Organon (Categorie, 5, 2a, 12-15) si afferma:
‘Sostanza’ nel
senso più proprio, in primo luogo e nella più grande misura, è quella che non
si dice di un qualche sostrato [l’ente reale], né è in qualche sostrato, ad
esempio, un determinato uomo, o un determinato cavallo. D’altro canto, sostanze
seconde si dicono le specie, cui sono immanenti le sostanze che si dicono
prime, ed oltre alle specie, i generi di queste. [76]
[…] D’altra parte, fra le sostanze seconde, la specie è sostanza in
maggior misura dl genere, dato che si approssima di più alla sostanza prima. [77]
Ma vediamo
come si colloca la sostanza “prima” rispetto a quelle “seconde” (ibidem, 5, 2
b, 15-22):
Oltre a ciò [la distinzione tra specie e genere] la ragione per cui le
sostanze prime si dicono sostanze in massimo grado consiste nel fatto che esse
stanno alla base di tutti gli altri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si
predicano di esse, oppure sussistono in esse. Orbene, precisamente allo
stesso modo in cui le sostanze prime si comportano rispetto a tutti gli altri
oggetti, così si comporta la specie rispetto al genere. In effetti la specie è
un sostrato dl genere, dato che i generi si predicano delle specie, mentre le
specie non si predicano inversamente dei generi. [78]
Viene qui
chiaramente enunciato un principio “logico” stravagante, in base al quale un
concetto quanto più fa riferimento a un entità astratta tanto più ne evidenzia
la “sostanza”, la quale perde via via consistenza nella misura in cui
dall’universalità astratta (prima) passa alla generalità reale (seconda); di
conseguenza l’individualità reale (il sostrato) diventa
irrimediabilmente priva di sostanza. La “sostanzializzazione” ontologica
continua sul filo della discorsività logica nella successiva affermazione
(ibidem, 4a, 10-11):
D’altra parte, il
carattere proprio in sommo grado della sostanza sembra consistere, per quanto
essa risulti identica e numericamente una, nell’essere costituita per
accogliere i contrari.
Risulta evidente
come nella concezione aristotelica la sostanza diventi il nucleo
dell’essere che “accoglie” e risolve nella sua unità i contrari che in essa si
annullano. I “contrari” sono così diventati realtà secondarie implicate nella
creazione di una sostanza “cogitativa” che li annulla e li implica in sé e che può
essere soltanto “affermata” nella sua inconfutabilità logica. Da ciò,
dogmaticamente, essa “è” ed in quanto
affermata e surrogata dalla “logica sostanziante” si fa per ciò stesso
“realtà”. La “creazione” dell’essere attraverso la logica e la
dialettica è qui compiutamente realizzata.
1.6 Il linguaggio come fondamento della teologia
Dopo aver introdotto il tema possiamo ora
tratteggiare in maniera più chiara il discrimine tra filosoficità e filosofalità
relativamente all’uso del linguaggio nell’uno e nell’altro approccio.
L’obbiettivo della filosoficità è la conoscenza della realtà, a valle della
quale il linguaggio serve per descriverne e comunicarne gli esiti, mentre
l’obbiettivo della filosofalità è la creazione di una meta-realtà ideale della
quale il linguaggio è fondamento. La realtà di cui si occupa la filosofia
esiste anche senza venire descritta e interpretata dall’uomo, mentre la
meta-realtà filosofale esiste unicamente nel linguaggio che la crea. A base
della prima sta l’interpretazione dei dati offerti dalla scienza e la loro
configurazione in una weltanschauung plausibile in accordo coi dati
stessi, a base della seconda la produzione di ipostasi meta-fisiche nate da una
parola sacrale rivelativa o da un discorso filosofale dimostrativo. Lo
strumento linguistico, quindi, si estrinsechi esso in una parola
sacrale-rivelativa o in una parola logico-dialettica dimostrativa, è fondamento
irrinunciabile di ogni teologia, creando ed acquisendo fideisticamente una
pseudo-realtà nata unicamente come “idealità” nella mente dell’uomo e nel suo
linguaggio. Come abbiamo già rilevato Dio non sta tanto dove lo si nomini, ma
dove la parola crei una causa noumenica del fenomenico: un’origine-causa della
realtà che starebbe sopra, sotto o dentro il fenomenico stesso. Dio (che può
chiamarsi Essere, Spirito, Necessità, o come altro si voglia) non è determinato
e realizzato da un nome, ma attraverso un “discorso” intelligente che crea le
connotazioni di quel nome; dimostrale, ratificandole e facendone verità logica
indefettibile e inconfutabile. L’assunto della filosofalità è che essendo la
parola ciò che distingue l’uomo dagli altri animali, non può essergli padre un
cosmo “che tace”, ma soltanto un “ultra-cosmo” che sia padre della parola.
Ma è nella relazione triadica
Dio-uomo-cosmo, cioè nella posizione che il primo termine assume nei confronti
del secondo e del terzo, che si coglie la sua funzione significante. L’Essere
Divino (origine e causa del mondo), sia nel caso che il mondo lo abbia
“fuori-di-sé” (nei monoteismi) oppure che lo possegga ’”in-sé” (nei panteismi)
dal punto di vista ontologico la pseudo-realtà posta è identica. Dio è
quell’ente metafisico che dà “senso” al mondo attraverso un “concetto”
linguistico che lo fonda come realtà non casuale ma finalizzata, nonché frutto
di un “disegno intelligente” che lo ha determinato oppure disegno intelligente
esso stesso. Il Dio-Volontà e il Dio-Necessità sono le due forme paradigmatiche
del divino che non dividono bensì unificano in modo onnicompresivo il concetto
di esso in tutte le sue varie articolazioni cogitativamente e linguisticamente
possibili. Ma l’origine-causa del cosmo, sia che il cosmo ce l’abbia “in-sé” o
sia che l’abbia “fuori-di sé”, precede ontologicamente il cosmo stesso e va
rivelata come “progetto” intelligibile attraverso un discorso che faccia
dell’intelligibilità discorsiva la propria fondazione.
Nel mondo arcaico precedente l’avvento
della scrittura (e in quello delle poche società contemporanee di quel tipo)
nominare le cose significava dar loro esistenza, elevandole all’essere ed
attraverso la nominazione farle entrare nel “cono di luce” della coscienza
umana. È la parola, e con essa il discorso, che rende compiuta la funzione
creativa divina come realtà di Dio, assai prima che l’uomo si preoccupi di
studiare e descrivere la realtà fisica del cosmo. E se è vero che la scrittura
nasce come registrazione di derrate alimentari nel tempio-reggia del
sacerdote-re, subito dopo essa si qualifica come espressione del sapere
sacerdotale che “parla col Dio”, e il pensiero-parola “su Dio” si definisce
come prerogativa primaria del linguaggio. La sacralità di esso, come poteva
intenderla Heidegger e qualche suo epigono moderno (come Emanuele Severino) ha
perciò la sua lontana origine negli scritti sapienziali che i grandi sacerdoti
mesopotamici ed egiziani avevano elaborato a glorificazione del divino
trans-terreno e del sovrano terreno che ne era espressione reale.
Il potere spirituale e quello temporale in
Mesopotamia e in Egitto erano strettamente connessi e coniugati, sì che il
primo avvallava il secondo e questo difendeva il primo. L’unica volta in cui
nella storia si è verificato un contrasto tra il potere regale e quello sacerdotale,
in occasione del tentativo di Amenhotep IV di imporre all’Egitto del XIV
sec.a.C. il culto del dio unico Atòn [79],
il conflitto tra i due poteri ha portato alla sconfitta del primo. E se si
legge attentamente la storia dell’Occidente si vedrà come il potere papale, ad
esclusione di alcune brevi parentesi, ha sempre prevalso nei tempi lunghi su
tutti i poteri regali, a conferma del fatto che “la parola di Dio” ha dominato
il mondo e domina tuttora la maggior parte delle coscienze. Ma se essa domina da
sempre le coscienze e se il linguaggio è sede primaria della sacralità
attraverso quali attributi esso si manifesta nella teologia filosofale? In
altri termini, quali sono allora i pilastri concettuali che sorgono da esso e
si elevano per costituire le connotazioni di Dio? Molti sicuramente, ma tra
essi possiamo identificarne almeno sei: 1. l’immutabilità, 2. l’eternità,
3. l’anteriorità, 4. la perfezione, 5. la pervadenza e 6.
il nascondimento. Ora, tutti questi concetti sono presenti
esclusivamente nel linguaggio dell’homo sapiens proiettato nella sfera
di un meta-reale fantasmatico.
Senza approfondire qui l’analisi ci
limiteremo ad alcuni cenni esplicativi. Per quanto riguarda 1.: l’immutabilità
viene considerata prerogativa irrinunciabile di un’entità che sia causa di ogni
realtà mutevole. Se il cosmo è realtà mutevole (diveniente), e quindi
non-divina, è necessario ipostatizzare un Dio-immutabile come sua causa. Per
quanto riguarda 2.: l’eternità garantisce a Dio di essere non solo causa
prima ma anche causa “finale” dell’essere. L’assenza di tempo in Dio è infatti
anche origine di esso. Dio è un “da sempre” che annulla in sé i “prima” e i
“poi”. Di Dio non si dà storia, ma essa si dà solo di ciò che (per volontà o
per necessità) da esso deriva. Relativamente a 3.: Dio è anteriorità in
quanto origine del tutto, ma Dio possiede l’anteriorità anche perché
costituisce il regressus ad infinitum di tutte le forme di essere.
Relativamente a 4.: la perfezione è attributo indispensabile di ciò che
si pone all’orizzonte come il fine di tutti i fini immaginabili. Dio è
perfezione di ogni realtà visibile e concepibile e di ogni condizione
possibile; egli è pertanto bellezza, bontà, intelligenza e potenza assolute. La
pervadenza 5. significa che Dio è “presente” nella flagranza dell’essere
in ogni luogo e in ogni momento. Dio è dappertutto e in tutto e se si cela è
solo per “farsi cercare” dall’uomo. Da ciò 6. il nascondimento come
mistero e fascinazione, e l’ascesa a lui avviene attraverso l’abbandono della
corporeità. Se i sensi sono il mezzo per rapportarsi al mondo soltanto il loro
rilascio libera dal “peso” materiale che impedisce di avvicinarci al Puro
Spirito.
1.7
La scienza del divino e la scienza del reale
Partiamo ora da un’angolazione un po’
differente: quella che concerne l’opera di travisamento gnoseologico operato
dal discorso metafisico, che in quanto “scienza del divino” si pretende fonte
cognitiva anche del reale, nella presunzione di fornirle “principi primi”. Il
nostro obbiettivo è quello di tentare di fornire qualche contributo alla
rifondazione di un “amore del sapere” che esca dalla palude ambigua creata
dall’idealismo. Non si intende affermare che la filosofia storica sia “tutta”
idealistica, ma che da Platone in poi quella che viene chiamata “filosofia”
perlopiù è mera teologia. Noi pensiamo che vada posta una distinzione tra il
conoscere il divino e il conoscere il reale, essendo le due conoscenze inconciliabili
nella misura in cui il reale non rivela nessun divino. Per affrontare
adeguatamente il problema ci riallacciamo alle considerazioni già fatte nel §
1.2 per comprendere la radicale dicotomia tra filosofia e metafisica.
Riprendiamo allora il tema già posto ribadendo che ci si deve preliminarmente
accordare su che cosa si debba intendere per “conoscere”, poiché, come abbiamo
già visto, esso non va fatto coincidere con “sapere”. Se spesso si utilizza il
termine “sapere” in riferimento alla scienza è altrettanto vero che uno
scienziato non viene mai definito un “sapiente”, se non altro perché nel
linguaggio scientifico tale termino è obsoleto. Questo aggettivo sostantivato è
tipico dei linguaggi teologici arcaici, in senso religioso, magico, mitico,
metafisico, al punto che il “sapiente” era colui che sapendo già tutto o
moltissimo non aveva più bisogno di conoscere ulteriormente nulla. La
conoscenza nel senso della ricerca e della sperimentazione non era contemplata
nell’attività del sapiente, il cui ruolo nei confronti dei suoi simili era
quello di “dispensatore” di sapienza. Una sapienza perlopiù acquisita da un
altro sapiente, per cui il rapporto maestro-discepolo era assai più importante
e determinante per la sapienza del rapporto conoscente-natura.
Lo
scienziato e il filosofo, al contrario, sono eminentemente coloro che non
arrestano mai il proprio apprendimento diretto o indiretto e che studiando il
cosmo o riflettendo su esso cercano di conoscerlo meglio, senza peraltro
nessuna certezza di un “sapere” definitivo, in quanto tanto più si conosce e
tanto più si sa di non sapere. Siccome la conoscenza non è mai acquisita una
volta per tutte, ma è sempre un superamento di sé nell’avvicinarsi alla realtà,
nessuna credenza di carattere metafisico può essere posta a base del procedere
cognitivo; nessuna “sapienzialità” è tollerabile negli ambiti scientifico e
filosofico. All’opposto, il sapere metafisico presuppone sempre la “sapienza” a
priori dell’esistenza del Divino quale fondamento dell’essere in generale
e ciò determina una pseudo-ontologia che svaluta ogni approccio scientifico e
filosofico alla realtà. Questa, infatti, più che una “determinazione”
sapienziale è sempre un’”apertura” all’ignoto, non legata ad alcuna credenza.
Apertura che qualsiasi sistema teologico intrinsecamente nega, poiché “chiude”
il conoscere in una cornice metafisica precostituita, basata su “principi”, su
“inconfutabili”, su “immutabili”, su “eterni”, in base ai quali la Verità è già
data.
Ci pare giocoforza concludere che la
conoscenza scientifica e quella filosofica debbano escludere la conoscenza del
divino dal loro orizzonte per porsi come tali. Solo la conoscenza dell’ontico
permette di derivarne l’ontologico e solo il rapporto diretto col conoscibile
ontico apre le porte dell’ontologia, rimanendo da stabilire quale rapporto la
filosofia debba avere con la scienza. Noi riteniamo che si tratti di due
attività umane differenti e da considerarsi in linea di massima indipendenti
l’una dall’altra, ma quello che ci pare di poter stabilire è che nessuna
dipendenza della scienza può darsi dalla filosofia, nel senso che l’oggetto che
la concerne, l’essere reale fisico, ovvero l’onticità dell’essere
stesso, è primaria per qualsiasi conoscenza. Ma alla filosofa spetta il
compito, assai importante, di correlare le conoscenze scientifiche e
rapportarle all’uomo e alla sua posizione nel cosmo, per delineare delle weltanschauungen
che la scienza in quanto tale non può fornire, poiché il suo ruolo è
ricavare “dati” sul reale e non relazionarli all’esistenzialità umana.
L’operare della scienza nasce da una
“datità” materiale di carattere osservativo-sperimentale alla quale nessun
meccanismo logico dialettico può aggiungere nulla. Quando ciò avviene (e ciò è
largamente avvenuto in passato) ci si trova di fronte ad una perniciosa
intrusione della filosofalità, la quale inquina irrimediabilmente ogni
conoscenza autentica. Una filosofia che si pretenda “conoscitiva” si deve
occupare, quindi, innanzitutto del “fisico”, e solo in seconda istanza di ciò
che potrebbe essere “altro” dal fisico. In ogni caso non deve mai allontanarsi
dalla scienza, poiché questa le fornisce le basi su cui costruire una
conoscenza aggiunta che sia più estensiva e sintetica rispetto all’analiticità
delle conoscenze particolari. Una filosofia che non si voglia negazione di se
stessa deve quindi rinunciare all’assolutizzazione di vie “interne” e
autoreferenziale al conoscere come quelle logico-dialettiche, utilizzandole
solo come “modalità operative” subordinate, i cui esiti richiedono continue
legittimazioni “esterne” che, di ritorno, solo la scienza può offrirle.
Un conoscere autentico che non si dia un
fondamento “esterno” al ragionamento filosofico è privo di consistenza, poiché
se il pensiero pretende di essere fondamento a se stesso (attraverso regole che
si auto-produce) ogni interpretazione della realtà diventa possibile e ogni
fantasia può venire auto-giustificata con abili acrobazie logico-dialettiche.
Se il conoscere presuppone Dio come causa nessuna conoscenza è più possibile,
poiché delle due l’una: o l’amore per la conoscenza investe l’oggetto di
conoscenza oppure si affida alla supposta causa dell’oggetto della conoscenza,
ed in questo caso l’amore per la conoscenza è subordinato all’amore per la sua
causa. Non ci sono mezze misure, aut-aut: o si filosofa in accordo con
la scienza o si teologizza tutto, scienza compresa. Il panorama delle weltanschauungen
è prevalentemente teologico e non certo basato sulla datità offerta
dal cosmo fisico, essendo esse perlopiù un “oltre” di esso nell’immaginarne
un’origine-causa. Si ipostatizza così un livello “più profondo” o “più alto”
della realtà fenomenica che viene de-realizzata quale sgradevole “reale” per
proiettare l’uomo in una più accattivante sfera “ideale”. D’altra parte l’”idea
sul mondo” che si fa la maggior parte degli individui che calcano il suolo di
questo pianeta è quella del contesto culturale metafisico di appartenenza e non
certo quello della scienza.
Le tradizioni culturali delle civiltà post-arcaiche
si basano sempre su delle fedi nel non-fenomenico e da esse nascono weltanschauungen
metafisiche ereditate e condivise, al vertice delle quali sta sempre un’entità
divina unica e totalizzante. La cultura di una “tradizione” (a tutte le
latitudini e longitudini) non può essere che una cultura del “divino”, poiché i
miti teologici fondano non solo le culture ma le società stesse. Queste sono
raggruppamenti di menti pensanti tenute insieme da un orizzonte cosmologico
comune “cementato” teologicamente, che permette la definizione e
l’identificazione di un “insieme” umano coeso e coerente, in cui ogni individuo
può riconoscersi e sentirsi integrato come parte di un tutto. Ciò significa che
l’individuo, in una weltanschauung mito-teologica, non si sente mai
solo, poiché sa di far parte, di “appartenere” [80],
a un’unità sovra-individuale che lo trascende e lo accoglie. Un’unità che lo
integra e lo protegge da un “fuori” spesso minaccioso (sia esso umano o
naturale) e nel contempo lo rapporta al sacro. Un sacro vero, certo, reale, che
genera una sapienza che condiziona ogni altra conoscenza.
Ma se l’evidenza sperimentale oggettiva
offerta dalla scienza deve essere posta a base di ogni orizzonte filosofico,
non per questo essa deve essere considerata né esaustiva né limitante. Il dato
scientifico (sia esso la registrazione di una collisione cosmica da parte di un
radiotelescopio o quella della scoperta di una nuova particella elementare in
un acceleratore) è fondamentale non soltanto per la formulazione di una
qualsiasi weltanschauung coerente con l’universo fisico. Ciò che è
diviene e ciò che diviene è: intendiamo dire che ciò che esiste e la cui
esistenza è verificabile (ciò che è) si rivela sempre come un
“ciò-che-diviene”, poiché nulla di ciò che esiste e di cui si può verificare
l’esistenza presenta denotazioni che facciano pensare a staticità e
immutabilità. Ma in ciò non si esaurisce la filosofia, che utilizza tutto ciò
senza dipenderne per elaborare quell’“oltre” della realtà antropica che
travalica la realtà fisica non esaurendosi in essa.
In movimento sono gli enti dell’universo
(ammassi, stelle, pianeti, ecc.) come lo sono i componenti degli atomi di un
blocco solido e immobile di un qualsiasi metallo. Non solo gli elettroni
orbitano attorno al nucleo, ma, essi e gli adroni del nucleo (protoni e
neutroni) ruotano su se stessi (con lo spin) in un divenire perpetuo che
si rivela a livelli di osservazione molto spinti in una datità che
sfugge alla percezione e in qualche
misura persino all’intellezione. L’essere reale è soltanto dinamico (un divenire)
mentre l’idea di un supposto essere “superiore” statico e immutabile è
soltanto il frutto di un pensiero metafisico la cui legittimità è fuori
discussione, come lo è qualsiasi teologia che lo supporti e lo esprima, ma esso
può vantare un mero status teologico e non gnoseologico. Eppure, a
fronte della filosofia, che in accordo con la scienza constata l’assoluto divenire
del cosmo come unica forma dell’essere, vi è sempre la teologia che
crea un “essere immutabile”, Dio-Volontà o Dio-Necessità, che determina degli
assoluti, degli eterni, degli inconfutabili, degli imprescindibili. Qui è il cuore del problema: nessuna
credibilità può pretendere una weltanschauung che ritenga inessenziale
il divenire e che ipostatizzi un qualche essere non diveniente e né si
può porre razionalmente nulla di ontologico a prescindere dall’ontico [81].
Vogliamo però anche subito operare una
distinzione importante tra ontolologicità ed esistenzialità, precisando che se
sul piano ontologico riteniamo illegittimo immaginare un essere “statico” (ma
non meno monistico e deterministico) in quando contraddetto dall’ontologia
stessa, siamo poi propensi ad operare una distinzione di legittimità nei
confronti di atteggiamenti esistenzialistici che possono anche essere
non-ontologici. Facciamo pertanto una distinzione tra ciò che deve essere
ritenuto oggettivo e ciò che concerne le singole soggettività, che non vanno
mai censurate finché non pretendano eccedere il loro ambito. La sfera
dell’”esistenzialità” (come atteggiamento individuale di fronte al mondo) non è
tenuta a rispettare l’ontologia, in quanto per ragioni utilitaristiche (il
conseguimento dell’omeostasi psichica) può legittimamente accogliere e
far propria una visione del mondo “a misura di sé” che si legittimi nella
misura in cui “serve” a fini esistenziali. Purché non si pretenda dedurne false
teorie ogni weltanschauung è legittima nella misura in cui serve “a
vivere bene” e in pace con se stessi, perché in essa ci si riconosce, si trova
pace, gratificazione, rassicurazione e coinvolgimento emotivo appagante.
Un’entità metafisica di riferimento, se “funziona bene” psichicamente, non si
vede perché, per ragioni ontologiche, dovrebbe essere tolta quale risorsa,
laddove abbracciando una visione ontologicamente corretta ne risulterebbe
turbata la psiche.
Una weltanschauung personale, che
pur contrasti con la realtà del mondo e si rivolga ad un extra mondo come suo
referente immaginario, non è reprensibile se non nel momento in cui pretenda di
porsi come una filosofia. Ogni ipostasi fuori della realtà fattuale ed
effettuale è una chiamata in causa della metafisicità, quindi è anti-ontologica
per definizione e teologica per ispirazione. Il termine di “ontologia” si
legittima solo in un filosofare che parta dall’essere-divenire e da esso
inferisca che cosa si può ritenere afferente la realtà e che cosa no in
quanto mero noumeno. In Kant questo (la cosa in sé) si lascia
immaginare come un “dentro” nascosto che concerne ogni singolo fenomeno od
oggetto preso in considerazione. Non è questa la sede per analizzare se Kant
pensasse necessariamente a uno “spirito della cosa”, ma riteniamo di poter
ribadire che ogni volta che viene posto qualcosa che sta “dentro” la materia
non essendo materia si sta alludendo immancabilmente al divino.
La scienza del divino
considera il fenomeno insostanziale, il che rinvia ad un qualche noumeno che ne
sarebbe sostanza, poiché la contingenza sarebbe puro accidente che
necessita di substrato permanente. Sostanza in quanto sub-stanzia,
ovvero ciò che sta-sotto la provvisorietà e l’inconsistenza, poiché ciò che è
precario non può essere né originario e né fondamentale, in quanto privo di
eternità e di “assolutezza”. Una
sapienza “vera”, infatti, secondo le teologie, si dà esclusivamente di ciò che
è “assoluto”, “eterno” e “originario”. Ma non mancano teologie del divenire:
quella di Eraclito, che concepiva il divino come un Logos-Fuoco eternamente
diveniente; quella di Plotino, il cui Uno emana perpetuamente un Tutto che in
esso sempre si riassorbe; quella dell’Idealismo ottocentesco, in cui lo Spirito
si aliena da sé come antitesi per ritornare in sé come realizzazione finale. Il
compimento del divino qui è origine “ma anche” fine del processo, quando
l’essere ritorna necessariamente in sé e si realizza come Ragione, Uno,
Assoluto. Ma il Dio-Ragione-Uno-Assoluto è anche sempre autosufficienza, e in
quanto tale stabilità metafisica.
Ma l’ipostasi di assoluti, di
necessari, di trascendenti o immanenti la contingenza fenomenica, non è solo
della metafisica; anche in ambito scientifico (ed al più alto livello) si
presentano spesso concezioni teologiche. Il caso più illustre è certamente
quello di Einstein, che aderendo a una weltanschauung panteistico-monistica
di tipo spinoziano non riusciva ad accettare l’indeterminismo della meccanica
quantistica, che riteneva assurda, non
corretta o almeno incompleta. Einstein era convinto che essa dovesse essere quanto
prima superata, e aveva avanzato l’ipotesi di ”variabili nascoste” che
potessero farla uscire dal probabilismo. Sono passarti ormai settant’anni e la
meccanica quantistica si è confermata come l’unica teoria affidabile
concernente il mondo subatomico. Nessuna delle “teorie del tutto” che
dovrebbero inglobarla assieme alla relatività generale ha per ora ricevuto
qualche conferma. Il padre della relatività pur non uscendo mai dall’ambito
scientifico poneva un aprioristico quadro d’insieme metafisico che si opponeva
al “dato” sperimentale. Tale datità veniva ad avvallare una “casualità”
nella materia elementare inconciliabile con una cornice di “necessità” generale
ed unitaria che per lui era “irrinunciabile” (da ciò il suo famoso aforisma: «Dio
non gioca ai dadi!»). I casi di tale “teologia scientifica” più o meno
esplicita sono numerosi (si pensi agli atteggiamenti di altri fisici illustri
come Schrödinger e Bohm e più recentemente di Penrose). Tali visioni
teologiche, sovrapposte a quelle scientifiche, continuamente affioranti, ci
pare confermino che le cogenze della psiche, per il conseguimento dell’omeostasi,
diventano talvolta “necessitanti” anche per gli uomini di scienza.
Persino un materialista genuinamente
anti-teologico, come Laplace, finisce per farsi tentare dalla teologia, laddove
ipotizza quell’“Intelligenza Superiore” che tutto può prevedere, facendo di
essa nient’altro che una divinità onnisciente che per sapere deve in qualche
modo avere uno status ontologico “superiore” all’oggetto del suo
conoscere. Ma l’unica entità veramente in grado di conoscere tutte le variabili
che stanno a monte dei fenomeni apparentemente casuali sì da rivelarli
“veritativamente” come necessitati da un determinismo assoluto non potrebbe
esserne che il suo creatore, lasciando così trasparire sullo sfondo
dell’ipotesi laplaciana quella divinità ancora più originaria e profonda di
ogni altra rispondente al nome di Necessità. Da ciò il timore che nella
subliminalità laplaciana emerga il fatto che sia molto facile involontariamente
produrre teologia criptata anche là dove meno la si sospetterebbe.
Ma nel nostro richiamo alla datità scientifica
come base irrinunciabile del filosofare non vorremmo dare l’impressione di
cadere in un pregresso e rozzo scientismo. Infatti noi parliamo di datità e
non di teoreticità. Tale distinzione è fondamentale, poiché un conto
sono i dati oggettivi sulla realtà confermati sperimentalmente e un conto sono
le teorie fisiche e i modelli cosmologici che vengono continuamente avanzati
per dilatare l’orizzonte cognitivo nell’ambito dell’immaginabile-inducibile. Un
avvento di datità è la scoperta copernicana dell’eliocentrismo, quella
darwiniana dell’evoluzione biologica e probabilmente quella einsteniana della
relatività; non la teoria delle stringhe né quella della molteplicità degli
universi, che pure offrono interessantissimi spunti di riflessione filosofica.
Il problema che si pone è però il seguente: in quale misura ciò che si presenta
“oggi” come datità lo sarà anche “domani”? Ovvero, le acquisizioni della
scienza possono essere a-storiche (e quindi oggettive al di fuori del tempo) od
esclusivamente storiche?
Ma la datità è solo piccola parte di
ciò che passa per scienza, essendo il resto prevalentemente teorizzazione
induttiva ed estrapolativa da quella. Molta scienza teorica crea modelli che
“funzionano” matematicamente molto bene, permettendo calcoli e misure
attendibili, senza che per ciò essi offrano garanzie di afferenza la realtà
cosmica. Ciò pone innanzitutto il problema se esista “una” realtà o se il cosmo
possegga “molte” realtà, tra le quali quella osservativa e quella matematica
sono le sole a noi accessibili. Ma siccome a questa domanda non c’è risposta
ciò di cui ci dobbiamo preoccupare è piuttosto di distinguere tra ciò che è
realtà plausibile in quanto frutto di un rapporto oggetto-strumento e quanto
sia teoria “sul” dato strumentale. Intendiamo dire, ad esempio, che
l’espansione dell’universo è un dato verificato, mentre teorie inverificate
sono tutte quelle che da essa traggono elementi pregressi o futuri sulla
struttura dell’universo. Fino a che tali teorizzazioni non saranno confermate o
cassate esse rimangono stimoli per la riflessione filosofica, ma non possono
essere assunti come elementi di datità. In questo senso la scienza
produce spesso dati veri ma raramente teorie vere.
Riconoscendo tuttavia alla scienza la
funzione fondamentale di fornire con i suoi dati una “materia prima” di
riflessione alla filosofia, nel contempo condanniamo ogni affidamento cieco
alla scienza, cui seguono sempre atteggiamenti apologetici non soltanto fuori
luogo, ma del tutto negativi per la scienza stessa. La scienza va tenuta alla
frusta e stimolata con le critiche ad ogni assolutizzazione ed assai
opportunamente l’epistemologia del XX secolo ha inteso limitare la portata
veritativa delle teorizzazioni della scienza, che vanno sempre storicizzate e
correlate ad un certo contesto culturale. Ciò avviene perché, abbastanza
spesso, tra i “dati” e le “teorie” intercorrono distanze epistemiche enormi, in
quanto queste, attraverso estrapolazioni indebite e contaminazioni ideologiche
o di puro potere accademico (e di fondi per la ricerca!), tendono ad assumere
caratteri fideistici o politici che travalicano l’ambito della scientificità.
L’unica nostra obbiezione ad alcuni atteggiamenti di eccessiva relativizzazione
dell’operare della scienza riguarda il fatto che talvolta si intende giungere a
una sua totale delegittimazione veritativa. Col risultato nefasto che nella
misura in cui il valore dell’operato della scienza venga eccessivamente
relativizzato possa emergere sulle sue rovine la verità della metafisica, con
risultati gnoseologici devastanti. Non è questa la sede per affrontare questo
problema, ma ci limiteremo a notare che se posizioni come quelle di Bachelard
sono stimolanti non lo sono per nulla quelle di un mistico come Koyré, la cui
fede platonica condiziona negativamente, ed in senso antiscientifico, le sue
analisi.
In anni più recenti gli apporti critici
degli epistemologi sono stati importanti. Non quelli del tanto osannato Popper,
i cui contributi ci paiono tutto sommato non molto rilevanti (soprattutto dagli
anni ’80 in poi), quanto quelli di Kuhn, che mettono in evidenza i modelli e
gli schematismi con cui spesso si muove la teorizzazione scientifica. Ciò vale
anche per Lakatos, che assai opportunamente tenta bilanci gnoseologici di
regressività e progressività nei programmi di ricerca. E aggiungeremo che anche
l’anarchismo scientifico propugnato da Feyerabend sia stato indubbiamente utile,
nello scrollare certi scientismi ideologici eccessivamente rigidi e
ottimistici, poiché la razionalità è indispensabile per il procedere nella
scienza, ma diventa ottusa quando si irrigidisce in atteggiamenti presuntuosi
che fanno riferimento a una supposta “ragione assoluta”. Ma la scienza vera è
del tutto lontana da tali atteggiamenti, perché assume la realtà in tutta la
sua complessità, la sua parziale inintelligibilità, la sua sporadica casualità
e l’affronta con un atteggiamento elastico ed umile, che lavora incessantemente
e pazientemente per rapportarsi all’ignoto e carpire i suoi segreti.
[1] René Descartes, Meditazioni
metafisiche, Firenze, La Nuova Italia 1987, p.50.
[2] Ivi, p.51.
[3] Ibidem.
[4] René Descartes, I princìpi della
filosofia, Torino, Bollati Boringhieri 1992, p.80.
[5] Ivi,
p.81.
[6] Ivi, pp.458-459. Le parole
tra parentesi quadre (nel libro Bollati-B. tra parentesi angolari) sono quelle
relative alle aggiunte del 1647 all’edizione francese
[7] Ivi, p.460
[8] Baruch Spinoza, Etica, Roma,
Editori Riuniti 2004, p.87.
[9] Ivi, p.88.
[10] Baruch Spinoza, Trattato
teologico-politico, Firenze, La Nuova Italia 1985, p.78.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p.79.
[13] Gottfried W. Leibniz, Monadologia
e Discorso di metafisica, Roma-Bari, Laterza 1986, p.59.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Ivi, pp.59-60.
[18] Ivi, pp.62-63
[19] In Necessità e libertà
(op.cit., pp.86-87) abbiamo proposto di vedere l’omeostasi come
un’esisgenza psichica conseguibile al meglio attraverso la credenza in Dio
quale ordinatore e ottimizzatore del cosmo.
[20] G. W. Leibniz, op.cit., p.40.
[21] Ivi, p.42.
[22] Immanuel Kant, Storia generale
sulla naturale universale e teoria del cielo, Roma, O.Barjes 1956, p.XXIV.
[23] Johann G. Fichte, Fondamenti
dell’intera dottrina della scienza, Roma-Bari, Laterza 1971, p.73.
[24] Ivi, p.78.
[25] Friedrich W.J.Schelling, Filosofia
dell’arte (SW III, p.393), citato in: Luigi Pareyson, Schelling,
Torino, Marietti 1975, p.261.
[26] G.W.F. Hegel, Fenomenologia
dello spirito, Firenze, La Nuova Italia 1985, vol.II, p.1.
[27] Ivi, p.296.
[28] Ivi, p.298.
[29] Ivi, pp.298-299.
[30] Georg W. F. Hegel, Enciclopedia
delle scienze filosofiche, Roma-Bari, Laterza 1984, p.198.
[31] Ivi, p.199
[32] Ivi, p.221.
[33] Ibidem.
[34] Ivi, p.375-376.
[35] Sarà il caso di precisare che noi
parliamo qui di filosofia in termini di ontologia, ovvero di filosofia
teoretica secondo la definizione corrente. Com’è noto sono considerate branche
della filosofia anche l’etica e l’estetica, che noi consideriamo a latere del
filosofare in senso stretto e delle quali, in questa sede, non ci occuperemo,
in quanto eccentriche rispetto ai temi posti.
[36] Non sarà fuori luogo ricordare la
testimonianza di Diogene Laerzio in riferimento alle memorie di un certo
Aristosseno, secondo il quale Platone avrebbe tentato di distruggere gli
scritti di Democrito, che era stato sicuramente il più grande naturalista della
sua epoca (cfr. Ateismo filosofico nel mondo antico, Firenze, Clinamen
2005, p.144-145.).
[37] Ci corre l’obbligo qui di precisare
in che senso noi qualifichiamo Aristotele come un “idealista” per quanto egli
si presenti come fiero avversario della platonica “teoria delle idee”. Noi
intendiamo per idealismo un indirizzo del fare filosofia che assume a proprio
fondamento il pensiero dell’uomo sulla natura e non la realtà fisica che nel
linguaggio umano viene indicata con “natura”; la quale esiste indipendentemente
dal fatto di essere pensata da questo animale che in essa è ospitato e che ne
elabora descrizioni. Quantunque si senta spesso affermare che Aristotele
avrebbe fatto del “naturalismo” attivo, va correttamente notato che (a parte la
cultura che gli poteva derivargli dall’appartenenza ad una famiglia di medici o
le notizie che potevano venirgli dalle attività di Teofrasto o di altri
naturalisti empiristi dell’epoca) il suo naturalismo è del tutto di “seconda
mano” e che l’uso che egli fa delle notizie di cui è in possesso sono in
funzione degli assunti idealistici a priori da cui parte, che sono
identici a quelli di Platone, nel ritenere che di ciò che è “accidentale” (di
ciò cambia) non si dia scienza. Infatti, l’accidente, ovvero ciò che muta
continuamente (come già all’epoca era comunemente riconosciuto) è proprio la
natura nella sua generalità, nei suoi dettagli, negli enti e nei fatti che la
costituiscono. Negare una scienza dell’accidentale significa irrimediabilmente
produrre pseudo-scienza di un presunto “universale” che si qualifica
irrimediabilmente sotto le specie di un’idealità che viene a sovrapporsi
surrettiziamente e indebitamente alla realtà. Che cosa sono infatti le
“categorie” aristoteliche se non induzioni generalizzanti e classificatorie
puramente “idealistiche”? Aristotele va quindi riconosciuto come un
sistematizzatore della scienza antica sotto categorie idealistiche e non già un
produttore di scienza nel senso in cui lo furono Anassimandro, Leucippo e
Democrito.
[38] Dal nostro punto di vista, quindi,
per idealismo non si deve intendere riduttivamente solo quello platonico o
quello fiorito in ambito tedesco tra il XVIII e il XIX secolo con le sue
italiche propaggini (Croce e Gentile) bensì ogni teorizzazione che si basi su
“idee” sull’essere, a prescindere dalla fisicità del cosmo stesso. Se si
analizza attentamente la storia della filosofia attraverso i millenni ci si
renderà facilmente conto che, ad eccezione del breve periodo corrente tra il
VII e il V sec.a.C. in Grecia e di alcune frange minoritarie del pensiero
occidentale dal XVII in poi (nello specifico tra i pensatori illuministi e
quelli positivisti), quella che viene indebitamente chiamata “filosofia” si
connota perlopiù come una formulazione di concetti a partire da concetti,
ovvero di “un’idea sul cosmo che parte da un cosmo-idea” e non sul cosmo in
quanto tale.
[39] Platone Tutti gli scritti, Eutidemo,
Milano, Sansoni 2000, p.781.
[40] Platone Tutti gli scritti, Simposio,
Milano, Sansoni 2000, p.511 e ss.
[41] I Presocratici, a cura di
Angelo Pasquinelli, Torino, Einaudi 1980, p. 227.
[42] Platone Tutti gli scritti, Repubblica,
Libro V, Milano, Sansoni 2000, p. 1212.
[43] Ivi, Repubblica, Libro VII,
Milano, Sansoni 2000, p. 1240.
[44] Ivi, p. 1241.
[45] Aristotele, Opere, Metafisica,
Bari, Laterza 1973, p.50.
[46] Cfr. Ateismo filosofico nel
mondo antico, op.cit., p.190.
[47] Ricordiamo che Ernst Cassirer aveva
studiato a lungo il problema della simbolizzazione del pensiero in rapporto
all’agire umano, traendone poi la sua monumentale Filosofia delle forme
simboliche (pubblicata in tre volumi tra il 1923 e il 1929). Quest’opera,
che per alcuni versi va oltre gli orizzonti kantiani, rimane peraltro del tutto
all’interno di quelli idealistici, in virtù della sua ricerca dei fondamenti
meta-fisici del pensare umano.
[48] Ma relativa “personalizzazione” ne
è data nel tardo induismo, col Vishnuismo e con lo Shivaismo.
[49] Per un’analisi più approfondita
della nascita del fenomeno religioso e per i riferimenti ai testi più
accreditati che trattano l’argomento rinviamo al già citato Ateismo
filosofico nel mondo antico (§ 1.1 e 1.2), pp. 18-38
passim.
[50] Ivi, pp.69-74.
[51] La Sacra Bibbia, Roma, Edizioni
Paoline 1965, p. 12.
[52] Ibidem.
[53] Ivi, p.13.
[54] Innumerevoli sono gli esempi a
sostegno del sostanziale antropocentrismo di ogni teologia filosofale. Tra essi
scelgo, paradigmaticamente, due significative affermazioni di un pensatore
contemporaneo che gode di grande prestigio: Emanuele Severino. Egli scrive in Essenza
del nichilismo (Milano, Adelphi 1982) a p. 168: «Il rapporto col Sacro è dunque, innanzitutto, il
rapportarsi al Sacro da parte della verità. Il problema della salvezza
riguarda, innanzitutto, la salvezza della verità. Se l'uomo nella sua essenza è
l'eterno apparire dell'essere, quali spettacoli possono restare suscitati in
questa essenza?». Ed a p. 215: « Da sempre e per sempre l'uomo è la
rivelazione dell'essere, satellite che accompagna in eterno la costellazione
dell'essere».
[55] Giambattista Vico La scienza nuova, Bari, Laterza 1974,
pp. 8-12.
[56] Ci riferiamo al § 3.2 (Il
naturalismo milesio) del saggio Ateismo filosofico nel mondo antico,
op.cit., pp. 93-118.
[57] Questa accettazione
dell’evoluzionismo è più frequente nel mondo cattolico, che tende a vedere un
“intervento continuo” di Dio nel mondo, mentre in quello protestante,
specialmente americano, pare prevalere un rigido “fissismo”, col quale si
ritiene che non vi sia affatto evoluzione delle specie animali, ma che esse
siano state “fissate” dalla creazione divina una volta per tutte.
[58] Stiamo pensando alle metafisiche
deterministiche, nelle quali la Necessità assume in sé tutte le prerogative
divine per fagocitarle, ponendosi come una sorta di iper-divina ma irreligiosa
assolutezza che ha determinato, determina e determinerà la struttura
dell’universo, il suo governo e la sua storia in ogni dettaglio.
[59] Cfr. Metafisica, VI
(Ε),1, 1026 a, 18-23.
[60] Si ricorda che nella logica
aristotelica (Confutazioni dei sofisti) l’élenchos è quel
procedimento discorsivo che “confuta” l’argomento dell’oppositore “dimostrando”
la sua inconsistenza e di converso la validità del principio di non-contraddizione.
[61] Un interessante ricerca sul
fondamento orfico del pensiero teologico di San Paolo è resa in un saggio di
Vittorio Macchioro dal titolo Orfismo e paolinismo (Modena, Montevarchi
Editrice 1922). L’autore così sintetizza i contenuti dell’Orfismo in rapporto
al Cristianesimo paolino (pp.87): « […] non vi può esser alcun dubbio intorno
alla concordanza del Cristo paolino col Zagreus orfico: nell’uno come
nell’altro abbiamo un essere divino che muore e risorge corporalmente. […]
nell’uno come nell’altro la rigenerazione avviene con ciò che il fatto storico
della morte e della resurrezione di questo essere divino diventa fatto mistico
nell’uomo.»
[62] Aristotele Opere, Metafisica, Bari, Laterza 1973,
p.176.
[63] Aristotele Opere, Metafisica, Bari, Laterza 1973,
p.323.
[64] Platone Tutti gli scritti, Milano, Bompiani
2000, p.330.
[65] Si tratta di una tesi già sostenuta
da Sant’Agostino ed autorevolmente ribadita in tempi recenti anche da Joseph
Ratzinger (non ancora papa Benedetto XVI) in un articolo apparso nel 2000 in un
numero monotematico della rivista Micromega (n° 2/2000, pp.41-53).
[66] Ancora una volta un esempio
paradigmatico dell’indebita estensione di conclusioni logico-dialettiche al
campo ontologico lo vediamo nella teologia filosofale di Emanuele Severino. La
sua, infatti, è una metafisica totalmente “costruita” per mezzo del discorso
metafisico e del tutto priva (come tutti gli idealismi) di alcun aggancio con
la datità oggettiva offerta dalla realtà.
[67] W.C.Kneale e M.Kneale Storia della logica, Torino, Einaudi
1972, pp.6-7.
[68] Filone Ebreo sosteneva, in Creazione
del mondo (III), che Dio aveva creato il mondo in 6 giorni perché 6
era numero perfetto per eccellenza. Tesi accettata da un altro convinto
platonico come Sant’Agostino (La città di Dio, XI, 30).
[69] I Presocratici, a cura di
A.Pasquinelli, Torino, Einaudi 1980, pp. 269-270.
[70] Platone Tutti gli scritti, Sofista,
Milano, Sansoni 2000, p.305.
[71] Ivi, Repubblica, , p.1175.
[72] Ivi, 514 a – 521 c.
[73] Ateismo filosofico nel mondo
antico, op.cit., p.139.
[74] Aristotele Opere, Metafisica,
Bari, Laterza 1973, p.62.
[75] Ivi, p.63.
[76] Aristotele Opere 1, Organon, Bari,
Laterza 1984, p.8.
[77] Ivi, p.9.
[78] Ibidem.
[79] Un problema storico molto
stimolante è se il monoteismo sia stato inventato da Mosé, come la storia del popolo ebraico
vorrebbe farci credere, o se non sia proprio nato da quella straordinaria idea
di Amenhotep IV, passando solo più tardi nella cultura ebraica. La cronologia
parrebbe favorevole alla seconda ipotesi, poiché il sovrano egizio ha regnato
dal 1378 al 1352 a.C. mentre Mosé (egli stesso un egizio?), secondo gli studi
storici più recenti non sembra poter essere vissuto prima del 1200 a.C. L’ebreo
Sigmund Freud era affascinato da questo problema e produsse tre saggi
sull’argomento (1934-1938) piuttosto articolati, giungendo alla conclusione che
Mosé era egiziano e che avrebbe potuto essere stato un collaboratore di
Amenhotep IV fuggito in Palestina dopo il suo assassinio e quindi latore del
monoteismo di Atòn, che avrebbe assunto poi nella cultura ebraica il nome di
Jahvè.
[80] Cfr. § 1.3 di Ateismo filosofico
nel mondo antico, op.cit., pp.39-46.
[81] È nota la posizione di Heidegger,
che si pone in termini diametralmente opposti ai nostri. Già in L’essenza
del fondamento del 1929 il teologo filosofale tedesco aveva posto la sua
distinzione tra ontico ed ontologico, definendo quella “differenza ontologica”
attraverso la quale egli vede nella storia del pensiero occidentale un
sostanziale “oblio dell’essere” a favore dell’”ente”, espresso in una
metafisica degradata (dimentica di Parmenide) che per Heidegger ha ormai
assunto una connotazione decisamente negativa. Negatività alla quale egli
oppone la “propria” ontologia ultra-spiritualistica e anti-scientifica e nella
quale la suprema verità (l’aletheia) riposa ed è nascosta nel linguaggio
poetico. In Introduzione alla metafisica, del 1953, egli riprende
l’argomento e perfeziona il suo atteggiamento, lamentando un “oscuramento” di
quel mondo-linguaggio dell’autenticità che è il solo a poter condurre l’uomo
verso l’essere-verità. Si afferma infatti ad un certo punto (Mursia
1982, p.55): «Quando si parla di oscuramente del mondo, che cosa intendiamo con
“mondo”? Mondo si deve sempre intendere in senso “spirituale”. L’animale non ha
mondo, nemmeno un mondo ambiente (Umwelt). L’oscuramente del mondo
implica un “depotenziamento dello spirito”, la sua decomposizione, consunzione,
rimozione, il suo fraintendimento.» Superfluo aggiungere che noi riteniamo la
iper-metafisica del teologo tedesco uno dei livelli più bassi (per quanto
esistenzialmente sempre molto affascinanti) dell’oscuramente della ragione
ontologica.