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CACCIA E PESCA A MEGLIADINO

Il presente materiale costituisce parte della ricerca sulla caccia e la pesca che la classe seconda media sta elaborando per il Concorso della Bassa Padovana. Il lavoro è previsto sia terminato a fine maggio.

STORIA DEL PAESAGGIO LOCALE

Fin dall'età del bronzo l'uomo ha iniziato ad abitare e modificare l'ambiente naturale che caratterizza il nostro territorio: esso era cosparso di abitati che costituivano ecosistemi autonomi vicino a corsi d'acqua, laghi o paludi, vivendo di caccia, pesca e agricoltura. 
Particolarmente significativa è nelle valli di Casale, in località Vallarana, la presenza di un insediamento circolare risalente al XIV secolo a C., le cui tracce sono ancora visibili, nel quale sono stati trovati molti resti di oggetti e suppellettili.
Riferibile alla stessa epoca il vicino, più piccolo insediamento in località Lazzaretto di Megliadino S.Vitale. 
Nei periodi successivi lo sviluppo dell'agricoltura favorisce la graduale deforestazione, realizzata per far spazio alle coltivazioni.
Tra l'800 e il 100 a.C. il clima diventa molto più umido e piovoso, per cui diminuisce la temperatura. Si adattano bene a questo clima querce e carpini. La popolazione si concentra lungo gli assi fluviali (Adige) e con l'età del ferro arrivano i Paleoveneti che danno vita alla civiltà atestina, imponendo il loro modo di vivere ai preesistenti Euganei. Fiorisce l'agricoltura e si costruiscono argini e canali.

Il nostro territorio subisce una profondissima trasformazione con i Romani a partire dal II secolo a.C. I terreni vengono divisi in modo sapiente e razionale (centuriazione romana); buona parte del territorio comunque è ancora occupato da foreste. 
Nella colonizzazione del nostro territorio, fino al III secolo d.C., i Romani sono favoriti dal clima caldo secco. Diffusi sono nelle valli resti di strade, mattoni, vasellame, cippi. 
Nelle campagne si coltivavano frumento, farro, orzo, erba medica e trifoglio. Uno spazio privilegiato avevano le viti, i cui tralci erano sostenuti da olmi, aceri, pioppi. 
Le leggi romane prevedevano la conservazione e la tutela di diversi boschi, i quali in parte erano considerati, insieme ai pascoli, un bene pubblico da cui attingere legno e ghiande; in parte erano boschi sacri che dovevano proteggere tombe, fonti, templi; in parte servivano da confine di proprietà. Basta elencare i diversi modi di denominare il bosco per farci capire quanto gli antichi romani erano più preoccupati di noi della conservazione delle foreste:

Ager era il campo coltivato;
Saltus era la macchia selvosa;
Lucus era il bosco sacro;
Silva era la foresta;
Nemus era il bosco aperto con molti pascoli;
Silva caedua era il bosco da taglio;
Silva inacaedua era la foresta da mantenere intatta;
Silva palaris era il bosco da pali;
Silva fructifera seu glandaria erano i boschi che producevano frutti: querce, faggio,castagno.

Dal 300 al 700 d.C., in seguito a un prolungato periodo di piogge e a un innalzamento generalizzato della falda freatica, le zone della "bassa", quali sono appunto quelle vicine al corso dell'Adige, si ricoprono d'acqua. La conseguenza è che per circa un millennio queste terre vengono coperte da stagni, acquitrini, paludi, laghi, tra i quali si possono citare il lago di Vighizzolo, il laghetto di Spialfredo (vicino alla idrovora di Valli Mocenighe), i laghi o valli di Piacenza.
Nell'Alto Medioevo quindi, su un territorio prima intensamente coltivato, si diffondono nuovamente selve nelle quali vivono popolazioni povere, sostentandosi con una misera agricoltura, pastorizia, caccia e pesca. In queste selve sono maggiormente presenti le specie vegetali palustri e acquatiche; in estese superfici la vegetazione arborea non riesce a ricomporsi, e quindi rimangono vasti pascoli o zone ricoperte di arbusti.
Quando arrivano i Longobardi (dal 568 d.C.), il patrimonio forestale subisce gravi riduzioni in quanto questo popolo barbaro introduce il diritto di far legna per tutti, favorendo ogni tipo di abuso.

Verso la fine del 700, con l'arrivo di Carlo Magno e dei Franchi, le cose cambiano profondamente: molte foreste diventano proprietà esclusiva del sovrano, dei feudatari e della chiesa, e in essa è consentita solo la caccia, attività preferita dai nobili.
Durante il feudalesimo si assiste a una grande concentrazione di territori nelle mani di un solo signore; una parte è costituita da bosco, una parte da pascolo, un'altra è coltivata dai servi della gleba. Sono i monasteri a tener viva localmente la tradizione agricola. Il frumento perde importanza e si diffondono i "grani minori": segale, miglio, avena, sorgo, panìco, orzo, in quanto danno produzione maggiore, e più sicura, che non il frumento.
Si diffonde enormemente nel corso del medioevo la produzione dei legumi nei poderi colonici: soprattutto fava, veccia (usata nell'alimentazione de bestiame), fagioli (i ' fagiolini dall'occhio'). Questo fatto porterà verso il 1000 alla rotazione delle colture cereali - legumi, in quanto ci si accorge che questi ultimi rendono più fertile il terreno agricolo.

Verso il 1000 d.C. si ha un profondo rinnovamento agricolo, grazie soprattutto alle iniziative degli ordini monastici (Benedettini e Cistercensi) i quali, dopo aver accumulato attraverso donazioni vastissime proprietà (abbazie di Carceri e della Vangadizza), stimolano tra il 1000 e il 1200 grandi opere di bonifica e di tagli boschivi che portarono a coltura vaste zone prima boschive o acquitrinose. Si diffondono i contratti di enfiteusi, mediante i quali vengono offerti ai contadini casa, mulini, animali e attrezzi agricoli in cambio di un certo canone in derrate alimentari o in denaro. Aumenta la popolazione e quindi lo sfruttamento agricolo del territorio.
Non scompaiono le foreste, ma la necessità di legname più pregiato e il clima diventato - tra l'800 e il 1200 - più caldo e secco, ne mutano la composizione. In particolare diminuisce la farnia, anche se resterà elemento dominante del bosco di pianura fino ai nostri giorni.

In epoca comunale (XII-XIII sec.) il bosco è fortemente protetto e controllato. Il comune di Padova a difesa delle foreste emana disposizioni che per quei tempi erano all'avanguardia. Aumenta il numero dei "saltarii", incaricati di sorvegliare i boschi e le aree coltivate di proprietà pubblica e privata.
Anche Megliadino sul finire del XII secolo diventa libero comune e anche qui oltre al "decano" (sindaco), al "massaro" (amministratore dei beni pubblici), al "Cattavero" (tesoriere), ai "Merighi"(giudici), troviamo il "Saltario" o guardiaboschi. A quel tempo erano oggetto di continua cura le "degore", gli scoli e i canali (Vampadore e Fiumicello in particolare), importantissimi per salvaguardare il territorio da inondazioni o impaludamenti.

Nel 1405 anche a S.Vitale inizia la dominazione veneziana, le cui leggi a salvaguardia dell'ambiente erano molto severe, in particolare tutto ciò che riguardava la regolamentazione delle acque. Quanto ai boschi, l'interesse di Venezia era mosso dalla necessità di legname pregiato per la costruzione di abitazioni, delle "fondamenta" e soprattutto delle navi mercantili e da guerra. Vengono chiusi gran parte dei sentieri che penetravano nei boschi, si vieta ai comuni di distruggerli per creare nuove zone coltivabili, il taglio per la legna da ardere è permesso ogni dieci anni e dietro autorizzazione. Venezia istituisce addirittura il "Collegio dei provveditori sopra boschi", che acquista col passare degli anni grande specializzazione in materia forestale, secondo il principio che, se il privato non può sostenere le spese per il rimboschimento, bene di cui non potrà godere in vita, è compito dei Comuni "preparare alle future generazioni una ricchezza perenne" (i boschi).
A Megliadino non mancavano, anche su zone alte e più asciutte, superfici selvose. In una carta del 1567 è rappresentato il "Bosco de Megiain", del quale è rimasto il ricordo nei toponimi "Bosco Alto" e "Bosco Basso", che sono due vie di Megliadino S.Vitale.

Nel 1556 il Senato di Venezia dà il via a una grande opera di bonifica nel nostro territorio, a nord del fiume Adige: il Retratto del Gorzon (continuazione del Fratta). Si trattava di costruire, passando sotto il Canale Santa Caterina che era più elevato, un passaggio (le 'Tre Cane') per le acque del Fratta, che ristagnavano nelle Valli, e di convogliarle mediante il canale Gorzone fino al Mar Adriatico.
Prima di questa grande bonifica (ma anche dopo) il paesaggio vegetazionale era determinato dall'acqua: canne, tife, carici con salici e ontani sulle sponde, terreni erbosi più o meno cespugliati, parati arborati, siepi di aceri, olmi e pioppi, viti, colture agrarie. Era un ambiente variegato e mutevole, nel quale ogni variazione delle precipitazioni poteva improvvisamente dilatare i bacini lacustri trasformandolo e rendendolo irriconoscibile.
La definitiva bonifica delle valli viene ultimata alla fine del 1800 mediante la costruzione delle idrovore, che ancora oggi, sotto la responsabilità del Consorzio Euganeo Berico, garantiscono la conservazione dell'attuale paesaggio agricolo e ambientale.

I territori vallivi di Megliadino, nonostante siano stati modificati dall'uomo nel corso dei secoli, hanno conservato caratteristiche ambientali che li rendono particolarmente attraenti e preziosi. 
Vi sono diffuse erbe selvatiche come il noto papavero, la margherita, i fiordalisi e la veccia. Purtroppo i coltivatori usano senza parsimonia veleni che causano problemi all'ambiente naturale. I terreni coltivati con specie a maturazione estiva e autunnale in generale, i campi di barbabietole e di soia hanno meno erbacce perché‚ sono oggetto un diserbo più accurato. Ai margini delle colture e delle strade campestri, sui bordi erbosi o sugli argini crescono: la malva, la betonica e il tarassaco. Le poche siepi che si stanno sviluppando presentano il maggior numero di piante erbose e ospitano piccoli uccelli, piccoli topi e piccoli rettili. Le specie più significative sono il salice bianco e l'acero campestre mentre le più comuni sono la sanguinella, il sambuco, il biancospino e il rovo. Sulle sponde dei fossi e delle paludi crescono la salcerella , il nontiscordardimé e l'equiseto. Nello slargo acquitrinoso davanti allo stabilimento Vampadore cresce il campanellino d'estate, specie preziosa in via di estinzione. 
La relativa abbondanza di siepi e di alberate e la vicinanza del fiume Fratta , oltre a sostenere la presenza della normale fauna, favoriscono il transito e la sosta di specie animali tipiche degli ambienti acquatici e paludosi. Tra di essere possiamo distinguere: 

specie legate ai corsi d'acqua: Airone rosso e cinerino, Gabbiano comune e reale, Beccaccino, Gallinella d'acqua e Martin pescatore; 
rapaci: Gheppio, Civetta, Barbagianni e Allocco; 
specie legate alla campagna: Quaglia, Fagiano, Tortora, Merlo, Gazza, Cornacchia e Capinera.

Le acque, anche se inquinate, ospitano ancora una discreta varietà di specie ittiche: il pescegatto, la tinca, la carpa, il branzino, il luccio, l'anguilla, il carasso, la scardola e le aule. 
Nelle controfosse del Vampadore c'è la presenza dell'Unio, mollusco dalla grossa e caratteristica conchiglia . 

LA PESCA NELLA STORIA DELLE VALLI
Del secolare rapporto tra l'uomo e l'acqua nel nostro territorio sono segni evidenti e ancora oggi visibili i numerosi "arzeri", che almeno fin dal 1200 racchiudevano le zone vallive. 
Purtroppo le testimonianze scritte sono troppo avare di notizie sul modo in cui i nostri antenati si sono adattati a vivere in un ambiente naturale così difficile. Nella dura lotta per la sopravvivenza, hanno sfruttato tutte le risorse che esso poteva offrire: accanto all'agricoltura e all'allevamento, certamente per loro avevano grandissima importanza la pastorizia, la caccia e la pesca, che essi potevano praticare nelle ampie valli di proprietà collettiva a sud dell'abitato, e che probabilmente costituivano per i più poveri una fonte indispensabile di sostentamento. Significativi a questo proposito i toponimi La mandria e Val pescaressa, rimasti fino i nostri giorni. Purtroppo però poco o nulla sappiamo sulle tecniche impiegate per la caccia e per la pesca; quest'ultima sicuramente avevano un ruolo fondamentale in ogni famiglia allo scopo di integrare le sempre scarse risorse alimentari. E' molto significativo il fatto che nei documenti da noi spulciati quello del pescatore non compare neppure come "mestiere" specifico: probabilmente perché‚ tale attività faceva parte della vita quotidiana di ogni famiglia.
Nell'Archivio storico comunale di Montagnana, Buste 422 - 427 bis, sono presenti due interessantissime stampe processuali: 
- Per il povero comun di Megliadino contro la Magnifica Comunità di Montagnana;
- Per la Comunità di Montagnana contro il Comun di Megliadino.
Esse raccolgono gli atti di una controversia durata più di due secoli, fino al periodo napoleonico, e sono molto illuminanti sulle condizioni di vita della nostra comunità nell'Età Moderna.
La stampa "Per il povero comun di Megliadino e Capo di Megliadino contro la Magnifica Comunità di Montagnana" è preziosa per puntualizzare alcuni interessanti aspetti sulle condizioni di vita di questa zona a quei tempi. 
Le comunità dei villaggi cercavano di difendere, appoggiandosi ai massari, alla parrocchia e alla nobiltà, i propri diritti allo scopo di mantenere gli antichi privilegi contro la crescente potenza economica e politica dei comuni più forti. 
Delle valli paludose della Scodosia erano stati originariamente investiti i marchesi d'Este, che qua e là ne affittavano i diritti di cacciagione e di pesca. Già nel 1444 gli abitanti di Gazzo e di Vighizzolo ne avevano acquistato gran parte. Quando poi questi comuni si unirono ad Este, nel 1448, le valli passarono sotto la proprietà di questa ultima. Nel 1462 molte di esse, attraverso fittanze, cessioni e vendite, passarono sotto la proprietà della famiglia Pisani del Banco. Il comune di Megliadino, interessato ad avere il possesso diretto delle valli ad esso adiacenti, in cui per concessione degli Estensi conservava il diritto di pesca e di vagantivo, le acquistò nel 1488 da Pier Francesco Pisani assoggettandosi al pagamento di un livello perpetuo rinnovabile di 29 in 29 anni. Due anni dopo, sempre seguendo l'esempio di Gazzo e Vighizzolo, Megliadino si unì a Montagnana, forse per l'incapacità di sostenere il pesante carico fiscale che gravava sui terreni, forse sperando di poter ricavare da questa unione privilegi ed esenzioni. Da allora non ebbe più il titolo di comune ma di villa, divisa nelle parrocchie di Capo di Megliadino e S.Vitale. Dal 1490 Megliadino venne amministrato da un decano stipendiato da Montagnana. I documenti dei comune vennero requisiti e la città murata si fece carico di tutti gli oneri amministrativi di Megliadino. Tale unione però provocò gravi contrasti proprio per i problemi relativi alle valli e durò soltanto fino al 1499; in tale anno queste tornarono sotto la giurisdizione di Megliadino. Ma la situazione, invece di migliorare, peggiorò a tal punto che il 17 aprile 1587 i Megliadinesi supplicarono la "Magnifica Comunità" di Montagnana di tornare ad amministrarli "nel bene e nel male". Un atto di estimo (Polizza 3390) portante la data dell'ultima investitura delle valli a Megliadino, il 7 novembre 1573, dimostra che i suoi possessi constavano, tra terreni arativi, boschivi, vallivi, incolti, paludosi, di 1850 campi; sotto l'amministrazione di Montagnana essi si ridussero a 1300. Dal resoconto catastale si può dedurre anche che i tre quarti almeno del territorio erano improduttivi in senso agrario. In quel periodo si incrementò la bonifica dei territori sommersi, a tutto vantaggio di Montagnana. La bonifica infatti aveva lo scopo di ricavare dai terreni paludosi lotti da assegnare in affitto, tali da fornire le entrate necessarie per far fronte alle tassazioni imposte da Venezia per spese militari.
Nella stampa "Per il povero comun di Meliadino..." appare evidente come le comunità dei villaggi cercavano di difendere, appoggiandosi ai massari, alla parrocchia e alla nobiltà, i propri diritti allo scopo di mantenere gli antichi privilegi contro la crescente potenza economica e politica dei comuni più forti. 
I motivi di contrasto che M.S.Vitale e M.S.Fidenzio avevano con Montagnana erano analoghi a quelli che i comuni dell'estense avevano nei confronti di Este. Le popolazioni della zona avevano diritto al pascolo e alla raccolta del fieno e delle canne nei terreni liberi dalle acque, mentre la parte sommersa e improduttiva, che era la più estesa, veniva conservata a beneficio della comunità che appaltava al miglior offerente il diritto della pesca. La comunità di Montagnana affittava per proprio conto i pascoli versando un contributo fisso ai villaggi, cui fu lasciato il diritto di pascolo dal 29 settembre alla sagra di S.Giorgio. 
In una supplica al Doge, il 15 febbraio 1639, i Megliadinesi si lamentarono che Montagnana avesse cercato di trarre da questa unione solo il proprio vantaggio a danno dei comuni che aveva assorbito. 
Nel 1661, come si afferma nei capitolati firmati da Antonio Massaro, decano del comune, Montagnana si impegnava, in risarcimento per la vendita dei beni appartenenti al comune di Megliadino, a restituire il denaro ricavato dalla vendita stessa, a non procedere ulteriormente nella bonifica, che doveva arrestarsi alla località "Zulle", ad eseguire degli scavi nel Vampadore, a lasciare liberi la pesca e il pascolo. Sulla carta ciò costituiva un notevole successo contro la diffusa tendenza a sottrarre agli abitanti dei villaggi i diritti acquisti per lasciare spazio alle grandi proprietà, trasformando così i pastori e pescatori in braccianti. 
E' interessante notare come i Capitolati del 1661 non figurano, a differenza degli altri documenti, nella stampa "Per la Comunità di Montagnana contro il Comun di Megliadino"...
Di fatto liti e ricorsi non finirono, anzi si fecero sempre più frequenti. I nostri avi cercarono di opporsi in tutti i modi, almeno fino alla fine del 1700, alla prosecuzione della bonifica, i cui benefici continuavano ad andare unicamente a Montagnana, che affittava o vendeva i terreni prosciugati, cancellando di conseguenza i preesistenti diritti della popolazione locale. 
Il comune di Montagnana, che ricavava dalla amministrazione di Megliadino 10.000 lire di entrate, cercava in ogni modo pretesti per esimersi dagli obblighi che aveva contratto nei confronti della piccola comunità, la quale si lamentava che solo una piccolissima parte delle entrate venivano utilizzate a beneficio degli abitanti dei paese. 
Soprusi e angherie, oltre al problema di fondo della bonifica delle valli, spinsero gli abitanti di Megliadino, insieme a quelli di S.Margherita, a chiedere ancora una volta, il 26 luglio 1683, la separazione da Montagnana, senza peraltro poterla ottenere. 
L'8 maggio 1724 si giunse a un temporaneo compromesso, secondo il quale la bonifica doveva essere sospesa per dieci anni. 
La causa di separazione fu sospesa il 20 settembre 1746, data in cui venne accettata una transazione. 
Il 5 gennaio 1777 il comune di Megliadino ottenne - ancora una volta - da Montagnana la garanzia di ampi diritti di pascolo nelle valli, ma, come i precedenti, anche questo accordo non dovette essere molto rispettato, dal momento che il 13 agosto del 1781 tutti gli abitanti di Megliadino presentarono una supplica al Doge perch‚ ponesse fine all'interminabile litigio. 
Nella lunghissima controversia l'atteggiamento dei Magistrati di Venezia, da quanto appare nelle stampe citate, fu di grande imparzialità: accolsero in diverse occasioni le richieste del "povero comun di Megliadino", giungendo addirittura ad obbligare Montagnana a chiudere un canale di scolo per la bonifica, riconoscendo con ciò esplicitamente i diritti di pascolo e di pesca degli abitanti del luogo.
La sospirata autonomia arrivò solo in periodo napoleonico, con la costituzione dei due comuni di Megliadino S. Vitale e di Megliadino S. Fidenzio. 

Beccaccia
Non è un uccello di grandi dimensioni: ha una lunghezza che varia dai 33 ai 40cm, un'apertura alare che non supera i 65cm e un peso che si aggira sui 350g. La caratteristica più significativa è il lungo becco dritto e affilato. Grazie alla colorazione del suo piumaggio, la beccaccia si mimetizza perfettamente nel sottobosco. Vive tra gli alberi e si nutre di lombrichi. Durante il giorno si confonde con la vegetazione, grazie alla sua colorazione mimetica. 
Fagiano
La caccia al fagiano è molto praticata, anche perché è rivolta ad un selvatico estremamente diffuso nelle regioni pianeggianti e collinari, sia per la riproduzione naturale sia e soprattutto per le immissioni e i popolamenti.

Fischione
I colori, come la struttura di questo uccello, sono assolutamente particolari, tanto da renderlo inconfondibile. La sua dieta è costituita da tutto ciò che riesce a trovare intorno a stagni e fiumi: molluschi, insetti, vegetali, vermi e, naturalmente, piccoli pesci di acqua dolce o salata. Nel periodo della riproduzione il fischione costruisce il suo nido lungo i bordi di fiumi e laghi, scavando una piccola buca nel terreno e rivestendola poi con pezzetti di giunco, di canna e molto piumino.
Gallinella d'acqua comune
Ha la testa e parti inferiori del corpo grigio scuro, dorso bruno e una striscia bianca lungo i fianchi. Il becco, corto, è un rosso brillante e si estende sulla fronte formando uno scudo coriaceo. Molte gallinella sono timide e vivono nelle paludi e nei canneti in riva i laghi e nei parchi dotati di specchi d'acqua. Diffusa in tutti i continenti tranne l'Australia, tende a stabilirsi nei pressi di marcite e rive lacustri ricche di vegetazione. E' molto diffusa e facile da vedere nei nostri canali.

Quaglia 
È simile alla starna, ma è molto piccola, più rotonda e più fulva. Possiede una striscia mediana molto scura sul dorso. Verso la metà di settembre essa parte per dirigersi verso l'Africa del nord; ciò costituisce un notevole sforzo per quest'uccellino dalle corte ali e dal ventre arrotondato. In primavera essa ritorna a nidificare tra noi e per tutta l'estate la vediamo popolare i nostri campi di cereali. La Quaglia è stata definita il classico uccello "d'apertura" e ad essa è infatti destinato, in genere, il primo colpo di fucile della stagione di caccia. La cattura di questi uccelli, che la legge permette solo in via limitatissima, viene invece eseguita su larghissima scala per mezzo di reti, aprendo incolmabili vuoti nella consistenza numerica della specie.
Starna
originaria del continente euroasiatico, la starna grigia è stata recentemente introdotta anche in altre parti del mondo. Si tratta di un uccello galliforme che nidifica tra gli arbusti o nell'erba alta. La femmina depone fino a venti uova di colore olivastro.

 

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Ultima modifica: aprile 23, 2001