Anche in guerra si sono
verificati degli episodi nei quali la pietà è prevalsa sulla ferocia.
“Umana pietà in guerra” è il titolo del documentario amatoriale girato a
Tolentino il 20 marzo 1997 dal Ten. Col. a riposo degli Alpini, Domenico
Cerasani, appassionato di ricongiungimenti.
Le riprese video illustrano
l’incontro avvenuto in quella città tra i rappresentanti dell’ANPI, tra
cui il compianto presidente Candido Cardinali, Enzo Angeli, venuto
appositamente dalla Svezia, dove vive, e il sig. Erich Klemera di
Bolzano, in occasione del 53° anniversario dell’eccidio di Montalto di
Cessapalombo (MC).
Durante l’ultima guerra
Erich operò nelle Marche come sergente della Wermacht appartenente al
"Brandenburg". Quel reparto dipendeva dalla II Sezione dell’Abwehr, il
servizio di Controspionaggio Militare tedesco al comando dell’ammiraglio
Canaris, in aperto contrasto con l’RSHA (Ufficio Centrale per la
Sicurezza del Reich).
Nel video avviene il
commovente incontro tra Erich e Nunzia Cavarischia, staffetta dei
partigiani che lo catturò a Valcimarra (Caldarola) nel giugno del 1944.
Il filmato si chiude con la citazione: “Chi salva una vita salva il
mondo” presa dal Talmud, testo sacro ebraico.
Ho approfittato della
disponibilità e cortesia di Erich per raccogliere la sua testimonianza
di prima mano.
Erich nacque il 16 settembre
1920 a Bressanone. Il padre Hermann, originario di Salisburgo e di
nazionalità austriaca, aveva una fabbrica di candele con sei operai, la
madre Barbara Niedermier, italiana, era casalinga. Hermann aveva
prestato servizio militare come artigliere nell’esercito austriaco, nel
forte di Fortezza (BZ), o Mezzaselva, come si chiamava prima del 1942,
era uno dei migliori sistemi difensivi dell’arco alpino. Erich frequentò
quattro anni di scuola elementare a Bressanone, poi si trasferì in
Austria, a Feldkirch, nella Provincia di Vorarlberg, tra il lago di
Costanza e il Lichtenstein. Frequentò in collegio i quattro anni di
scuola media e i due dell’istituto commerciale; fece parte del coro e
poi, per tre anni, il chierichetto. A sedici anni aveva terminato le
scuole, aveva imparato a fare le candele, collaborava nel negozio
(specializzato di dolci) del padre. Il regime fascista portò avanti in
Alto Adige una forzata italianizzazione: nelle scuole e negli uffici si
doveva parlare solo italiano. Anche a seguito di quei provvedimenti la
famiglia decise di trasferirsi in Austria, dove a Erich arrivò la
cartolina di precetto militare. Nel febbraio 1940, non aveva ancora
compiuto venti anni, entrò nella Wermacht, l’esercito del III Reich.
Osservando una foto
dell’epoca, sulla tasca sinistra della giacca militare di Erich, tra le
altre decorazioni, spicca uno stemma sportivo simile a un pentathlon
militare comprendente: cento metri piani, 300 m nuoto, 20 km in
bicicletta, cento metri corsa e lancio del peso.
Dove hai imparato e
praticato tutti quegli sport?
“Mentre frequentavo la
scuola media e l’istituto commerciale si praticavano tanti sport. Libero
dagli impegni di famiglia esercitavo sport in palestra d’inverno e
all’aperto d’estate. Essere uno sportivo mi ha sempre aiutato in
guerra”.
La tua altezza?
“Metri 1,74”.
Dapprima svolse il servizio
premilitare lavorando sei mesi con l’Arbeit Inst (reparto di lavoro)
posando cavi in un aeroporto militare in costruzione nella Foresta Nera
(nel Baden-Württemberg, sud-ovest della Germania). Il mattino, dopo due
ore di marcia, si passava al lavoro vero e proprio.
Il periodo pre-militare di
sei mesi (comunque un servizio armato) di Erich e il corso gli valsero
per diventare sottufficiale. Dopo pochi giorni dal termine del corso, il
4 ottobre 1940 fu richiamato e a Innsbruck inquadrato nel 136°
reggimento Alpini Innsbruck, 5ª compagnia pesante, armata con cannone da
50 mm smontabile e mortai. La divisione alpina era composta dai
reggimenti 136°, 137° Salisburgo, 138° Mittebald, e 139° Landek.
Dopo circa due anni Erich
incontrò un amico capitano, conosciuto da civile, il quale gli chiese:
“Perché non vieni da noi?”. Erich rispose: “Chiamatemi voi”, dopo una
settimana arrivò il suo trasferimento al Brandenburg.
Ti dispiacque lasciare i
Gebirgsjäger?
“No, nel Brandenburg c’era
più spirito di corpo, era un reparto specializzato antiguerriglia”.
Erich dice con malcelato
orgoglio: “Gli appartenenti al Brandenburg eseguivano dei compiti
speciali; eravamo inviati dove c’era bisogno, come i pompieri, (come
“commandos”, aggiungiamo noi). Prosegue: “Per i trasferimenti stradali
utilizzavamo camion Opel da 3,5 tonnellate che raggiungevano 100 km
all’ora”.
Come si distingueva la
divisa degli appartenenti al Brandenburg rispetto a quella dei
Gebirg-Jager?
“Fu lasciata la stessa
divisa per non dare nell’occhio e per ingannare il nemico, il quale
credeva di trovarsi di fronte degli Alpini … invece c’era una gran
differenza”. La stella alpina (edelweiss) era cucita sulla manica
destra. Esisteva anche una fascetta da braccio, con il nome del reparto,
ma era rarissima.
Erich racconta con orgoglio:
“Il Brandenburg era la punta di diamante dell’esercito tedesco, quando i
reparti regolari non potevano avanzare, chiamavano il Brandenburg a
risolvere i problemi. Portavamo un fazzoletto rosso al collo non
previsto dall’uniforme; quando la polizia militare ci fermava, faceva
rapporto al capitano Hettinger, e lui lo strappava!”.
Questi reparti speciali
avevano delle dotazioni particolari nell’armamento, nell’equipaggiamento
e nel vitto?
“Sì”.
Entrato nei ranghi nel
Brandenburg, da Innsbruck fu trasferito a Baden, vicino a Vienna; cambiò
caserma, compiti, equipaggiamento e armamento; quest’ultimo superiore
rispetto a quello degli Alpini: furono i primi a ricevere le nuove
mitragliatrici MG.42 e il fucile mitragliatore.
Nel 1943, da Vienna, Erich
fu trasferito in Sardegna, dove si temevano sbarchi americani. Nelle
basi, in campagna, vicino a Cagliari, Nuoro, Olbia e Oristano,
eseguirono altri addestramenti. Erich ricorda che, in sei mesi, piovve
solo mezzora. Tutta la compagnia del cap. Hettinger si beccò la malaria.
Furono curati in un lazzaretto. Dopo l’8 settembre 1943 il reparto fu
trasferito a Merano, in aereo, via Corsica e Pisa. Poi in Val d’Aosta,
per fermare gli americani: si temeva giungessero dalla Francia. Poi a
Zagabria, in Jugoslavia, ove si stava organizzando un colpo di mano, con
una squadra di cinque uomini, per cercare di catturare Tito. Erich,
parlando con il maggiore Benesch, disse: “Noi non conosciamo la lingua
del posto, in cinque minuti saremo tutti morti!”. Il maggiore rispose:
“Hai ragione”. Rimase in Jugoslavia solo chi conosceva le lingue slave.
Per la cronaca, a Dvar, nel
maggio del 1944, il maresciallo Tito sfuggì per un pelo alla cattura.
Erich fu trasferito in val
d’Ultimo, la vallata successiva dopo la val Venosta in direzione della
Svizzera, hotel Paradiso, sede del comando.
Quand’eri nelle Marche
che armamento avevi in dotazione?
Erich non ricorda bene la
pistola, dovrebbe essere stata una pistola automatica Mauser cal.
9 mm, fucile mitragliatore Sturmgewher e bombe a mano con manico di
legno, e anche del tipo più piccolo, simile a un uovo.
Descrivimi i luoghi e il
periodo delle tue campagne, in particolare nell’Italia centrale.
“Fui mandato nei primi mesi
del 1944 a Muccia, alloggiavamo in una scuola, ricordo tanta neve. Noi
del “Gruppo Fischer” eravamo un centinaio; comandava il ten. Theo
Fischer. A Muccia non avevamo una cucina da campo”.
Vi erano specialisti del
Genio, artificieri e guastatori tra di voi?
“No”.
Erich riprende a ricordare e
raccontare: “Conobbi un avvocato di Roma, sfollato nelle Marche, il
quale, avendo saputo che io parlavo italiano, mi chiese di fargli da
interprete presso il mio comando tedesco, dov’era stato convocato.
L’avvocato aveva intenzione
di rimanere a Muccia come sfollato. Un giorno la sua giovane e bella
nipote, Siretta Morresi, che aveva meno di vent’anni, mi fece il caffè.
Poi mi regalò una sua foto con dietro la dedica: «Il sorriso e il
pensiero di un’amica sincera le siano di conforto nei momenti di
tristezza». La foto mi fu rubata in un tram a Innsbruck durante la
guerra. La donna poi sposò un partigiano (Domenico Paparelli), so che è
morta prima del 1997. Ho saputo in seguito che il tenente Theo Fischer
era morto negli anni Novanta, mi dispiace non averlo potuto rivedere”.
Erich sostiene che, durante
i combattimenti nelle Marche, il gruppo Fischer non perse nessun
soldato. Tuttavia il maresciallo Riedl cadde durante l’imboscata di
Campolarzo. Erich, per combattimenti intende operazioni condotte da
loro, non imboscate ad opera di partigiani.
Onorificenze e
decorazioni?
“Ottenni due croci di ferro,
poi la decorazione fucile con baionetta per dieci attacchi col nemico,
il distintivo per ferite in servizio e, avendo praticato sport da
civile, potevo sfoggiare anche il distintivo sportivo”.
Quali requisiti
occorrevano per entrare nel Brandenburg?
“Si doveva conoscere almeno
un’altra lingua, oltre al tedesco; nel reparto c’erano altoatesini,
francesi, polacchi, olandesi, belgi, russi, jugoslavi, albanesi,
montenegrini; ricordo il sergente Haliballi Ramasanov, russo
dell’Azerbaigian. Gli altoatesini erano tantissimi, e molti furono i
caduti, tra cui cinque miei amici, di Bressanone”.
Il vostro ufficiale da
chi riceveva ordini e disposizioni?
“Dal capitano Hettinger, con
il telegrafo militare in cifra. Il comando era presso l’hotel Paradiso,
in val d’Ultimo, una struttura di riposo per le SS ceduta al
Brandenburg, ove erano il capitano Hettinger e il capitano Sölder. La
zona di operazioni del nostro gruppo era: Muccia, Tolentino, Montalto,
Sarnano e Amandola”.
Erich non sa spiegarsi
l’avvicendamento dei suoi ufficiali, e non è mai stato nel Lazio, né in
Umbria. Di Sarnano ricorda: “Un giorno, non avendo nulla da mangiare,
rubammo un maiale. Poi incontrai il sindaco e gli riferii l’accaduto,
lui mi rispose che avevamo fatto bene”.
Chi decideva dove e come
intervenire? Quali erano le disposizioni superiori?
“Dal comando giungevano
pochi ordini, decideva molto il comandante, i nostri gruppi
specializzati avevano una larga autonomia”.
Chi era il tenente
Fischer?
“Theo Fischer, originario
della Foresta Nera, era un ufficiale non d’accademia ma preparato
professionalmente, sui venticinque anni, diplomato al ginnasio, sportivo
e di buon carattere, non fumava. Gli ufficiali del Brandenburg
partecipavano sempre direttamente alle operazioni, non aspettavano
dietro”.
Erich ricorda: “Le paghe di
tutti loro pervenivano presso le famiglie, in patria, mediante assegni
postali che ricevevano i genitori o le mogli”.
Gli appartenenti al suo
gruppo erano tutti celibi, compreso il ten. Fischer.
Che differenza c’era tra
voi e le SS?
“Loro provenivano quasi
tutti dall’alta Germania, erano nazisti e con noi non correva buon
sangue. Noi non facevamo politica, il nazismo a noi non interessava”.
Cosa ne pensavi delle
SS?
“Gli appartenenti alle SS
erano fanatici, non erano nostri amici, con noi non avevamo nulla a che
fare”. Precisa di non aver avuto contatti con loro, a Muccia e nelle
Marche.
E con la Gestapo?
“Non volevamo avere nulla a
che fare con la Gestapo. Quelli dovevano essere contro i criminali,
invece erano criminali loro stessi. Qualsiasi cosa dei nazisti noi non
lo accettavamo”.
Spassionatamente qual
era l’opinione corrente dei soldati della Wermacht sui militi della
Repubblica di Salò?
“Non ce ne interessava
nulla. I fascisti, per noi, non erano niente!”.
Nella zona di Camerino e
dintorni conoscevi qualcuno del 3° Brandenburg e degli alpini della 5ª
Divisione da montagna Gebirgs che vi operò?
“Non ho mai sentito 3°
riferito al Brandenburg”.
Dove e come catturaste
quei cinque partigiani?
“Nelle campagne non troppo
distanti da Muccia, non ricordo dove di preciso. Erano dei partigiani
che portavano con loro tanti bambini e vecchie donne verso una baita.
Li lasciai entrare, poi
salii sul tetto e, attraverso il camino, intimai loro di arrendersi,
altrimenti avrei lanciato una bomba a mano dal camino. Uscirono tutti e
cinque con le mani alzate e si arresero. Avevamo fatto una sosta per
riunirci con altre squadre, quando una donna russa venne a chiederci di
rilasciare i cinque”.
Sbalordisce la buona
intercessione di questa donna, tuttavia viene spontaneo chiedersi: “Con
quale autorità o in quale veste si rivolse loro?”. Più tardi ne sapremo
di più.
“Le disposizioni erano che
andavano fucilati sul posto, senza processo, perché erano ribelli
armati. Io invece scelsi di portarli al presidio fascista di Macerata.
Lì quei pazzi offrirono loro di arruolarsi nella Decima MAS e li
lasciarono andare, con un invito a presentarsi al reparto. Poi seppi che
non si erano presentati a destinazione ma erano fuggiti”.
Venerdì 9 giugno 1944
dovevate scortare qualche convoglio o svolgere qualche compito
particolare?
“Eravamo andati a fare un
giro per poi recarci a prendere del cuoio da una vecchia conceria chiusa
a Muccia e portarlo in caserma. Il cuoio serviva per fare scarpe e
stivali per gli ufficiali. Comandava il maresciallo Ludwig Riedl, mio
coetaneo, un buon uomo originario della Foresta Nera vicino a Stoccarda,
dove la gente è buona”.
Che cosa accadde quel
giorno?
“Eravamo su un moto carrello
scoperto, usato per trasportare in montagna vitto e munizioni, requisito
agli alpini italiani. C’erano l’autista, il maresciallo Riedl, io e un
altro sergente. All’altezza di una curva (sulla nazionale 77 dopo circa
150 m da Campolarzo verso Bistocco) fummo fatti segno da numerose
raffiche di mitra. Saltammo giù tutti, mi accorsi che il maresciallo
Riedl era stato colpito a morte, mentre un partigiano seguitava a
sparare. Mi buttai nel sottostante fiume con la divisa e le armi, ero un
bravo nuotatore, l’acqua era molto fredda. Il nutrito gruppo di una
trentina di partigiani seguitava a sparare contro di me un proiettile mi
passò da parte a parte la gamba sopra il ginocchio destro. Dopo aver
nuotato e camminato per circa due chilometri, trovai un contadino al
quale chiesi se vi erano partigiani in giro; alla risposta positiva mi
ributtai nel fiume. Più avanti incontrai una contadina (Rita “de’ Pescià”
coniugata Troiani) con una bimba, che mi disse di seguirla; mi portò nel
suo “maso”, mi tolse la divisa bagnata e rovinata, e mi fece mettere a
letto.
Rita voleva andare in
farmacia a prender qualcosa per curare la mia ferita, e mi preparò un
uovo sbattuto. Dal letto potevo vedere fuori dalla finestra. Vidi così
che arrivarono i partigiani che mi avevano attaccato, che chiesero se
aveva visto un tedesco; la donna, alla terza domanda, rispose: Sì”.
A questo punto irruppe sulla
scena con energia la quarta delle sei donne di questo racconto: Nunzia
Cavarischia.
“Entrò nella camera una
ragazzina di quattordici anni, con il berrettino e la gonna, (se poteva
chiamarsi una divisa partigiana), che gridò: “L’ho preso, l’ho
trovato!”. Ebbe la prontezza di riflessi di prendere subito il mio
cinturone con la pistola, il mitra e le due bombe a mano a forma d’uovo.
Tuttavia le munizioni erano bagnate. Poi entrò il padre dicendomi che
ero prigioniero degli Alleati, specificando che non mi sarebbe successo
niente.
Dopo pranzo mi portarono,
sdraiato su un carretto trainato da un cavallo, a Borgianello, presso un
accampamento dei partigiani”.
A Borgianello Erich trovò
quei cinque partigiani che lui aveva preso qualche giorno prima, i
quali, vedendolo, esclamarono: “È lui, è lui!” abbracciandolo e
baciandolo. Ricorda che erano giovani di Tolentino e dintorni, comunque
tutti italiani. Poi venne lo zio di Siretta Morresi, l’avvocato al quale
aveva fatto da interprete. Gli disse che se aveva bisogno di qualcosa di
rivolgersi a lui. Erich rimase molto dispiaciuto della morte del
maresciallo Riedl; seppe, in seguito, che fu sepolto al cimitero del
Verano a Roma.
Da prigioniero dei
partigiani ti rendesti utile in qualche occasione?
“Un giorno (giovedì 15
giugno 1944), la mia ferita alla gamba era quasi guarita, camminavo nel
piazzale antistante la chiesa (di San Pietro, XV sec.). I partigiani
avevano ricevuto delle armi dagli Alleati con i lanci. Un giovane
studente (Albino Caselli, 22enne di Tolentino) stava armeggiando con una
bomba a mano americana; io ero lontano circa venti metri e stavo
chiacchierando con un partigiano ferito. A un certo punto il giovane
tirò imprudentemente l’anello della sicura e, invece di buttar via
subito l’ordigno, lo trattenne in mano finché non esplose uccidendolo e
ferendo altri cinque partigiani. Io e il partigiano facemmo in tempo
solo a buttarci a terra, salvandoci dalle schegge. Credendo si trattasse
di un attacco, i partigiani scapparono tutti. All’inizio mi prodigai da
solo a soccorrere i feriti. Il “capitano”, riconoscente per l’opera
prestata, mi fece conoscere a tutti, proponendomi di rimanere
nell’Italia libera o ritornare a casa dai miei.
Il giorno dopo mi chiesero
di fare l’interprete per loro, in divisa; io accettai, ma solo in abiti
civili. In seguito, in montagna, fu preso prigioniero un paracadutista
tedesco; io feci da interprete all’interrogatorio, ma lui non sapeva
niente di utile. Durante il percorso a piedi scoppiò un violento
temporale; i due partigiani che mi accompagnavano ripararono in una
baita ed io ne approfittai per fuggire verso nord. Camminai tutta la
notte; la mattina successiva - era bel tempo - incontrai dei contadini:
sembravo un partigiano; mentre mi dirigevo verso le linee tedesche, essi
esclamarono: “Ma che sei pazzo?”. Vidi i soldati tedeschi e li raggiunsi
non ricordo dove; scoprii che erano alpini provenienti da Montecassino”.
“Dal punto di vista militare
e organizzativo i partigiani erano impreparati, mi resi conto ancora di
più con lo scoppio della bomba a mano a Borgianello; gli sten inglesi
erano imprecisi. Se essi mi avessero chiesto spiegazioni, io le avrei
date.
Mentre i fascisti
piangevano i loro caduti, noi pensavamo che morire per la patria fosse
importante, ma non ero nazista”.
Hai saputo nulla dei
fatti di Capolapiaggia del 24 giugno 1944?
“No, non si parlava di
operazioni”.
Quando durò la tua
prigionia?
“Circa due mesi, in agosto
riuscii a fuggire”. Nunzia sostiene che Erich fuggì da Statte quando era
in custodia ai partigiani di don Nicola Rilli. Probabilmente la sua
prigionia durò di meno.
La signora Nunzia
Cavarischia, all’epoca staffetta del “Gruppo Volante 201”, chiarisce:
“Dora era una quarantenne russa, internata a Caldarola, che fuggì in
montagna e si aggregò al nostro gruppo”.
Erich ricorda: “Ho rivisto
quella donna russa a Borgianello, senza parlarci, poi non ho più saputo
sue notizie”.
Nunzia precisa che la donna
fu catturata, durante un rastrellamento, dai nazifascisti (26 giugno
1944), a Serrapetrona, quando Erich era già fuggito. Tuttavia intorno a
questa coraggiosa donna aleggia un alone di mistero! Si trattava di una
doppiogiochista?
Durante la prigionia
quali furono le tue riflessioni? Temevi di essere ucciso? “Non l’ho
mai pensato, ma Nunzia mi disse che due partigiani fanatici mi volevano
uccidere, poi cambiarono idea”.
Quando ti sei convinto
che anche i partigiani erano delle brave persone?
“Dopo pochi giorni già
potevo parlare direttamente con i loro ufficiali. Avevamo un nemico in
comune: i fascisti. Tutti mi rispettavano. La sera si cantava:
“Borgianello, posto ribelle ai fascisti togliamo la pelle … Ero vicino a
loro e mi trovavo e mangiavo bene”.
Dove e quando ti sei
reso conto che la guerra per la Germania nazista era effettivamente
persa?
“Circa sei mesi prima della
fine della guerra, parlando con il ten. Fischer, all’hotel Paradiso;
anche lui era della mia stessa opinione”.
Dove vi siete arresi?
“All’hotel Paradiso, in val’
d’Ultimo, insieme al ten. Fischer”.
Secondo il tuo parere,
come mai tedeschi e austriaci hanno creduto al fanatico illusionista con
i baffi?
“Era un virus, tutta la
gente era malata di nazismo. Prima della guerra, con un gruppo di amici
mi salutavo con ciao, mentre gli altri usavano heil”. Il regime nazista
non mi piaceva e non piaceva agli austriaci, che preferiscono la bella
vita e la calma, tra le montagne più belle del mondo: ciò ci basta.
Molti presidenti italiani sono venuti in vacanza nell’Alto Adige. A
Bolzano non ci sono nazisti, né fascisti, di lingua tedesca. Nel 1945,
prima della fine della guerra, fui promosso feldwebel (maresciallo
ordinario) con una stella”.
Quanti anni di servizio,
complessivamente, hai svolto nell’esercito del III Reich? Hai ottenuto
qualche beneficio pensionistico?
“Cinque anni in tutto, dal
gennaio 1940 all’aprile 1945. Non ho ricevuto alcuna pensione dalla
Germania, ho solo beneficiato di quel periodo ai fini del raggiungimento
dell’età pensionabile”.
Hai conosciuto il tenente
Rommel (nipote del gen. Erwin Rommel) del presidio tedesco di Montalto
Marche (AP), che aveva sede nel collegio dei frati tedeschi Salvatoriani?
Con lui c’era il capitano Fischer; dietro alla villa Vinci di Cupra
Marittima c’era la Gestapo.
“Mai sentito nominare, io
conoscevo un solo ufficiale con quel cognome: Theo Fischer”.
L’incontro, nelle Marche,
del 20 marzo 1997 con i tuoi nemici di un tempo è stato davvero
emozionante?
“Mi sono innamorato delle
persone e dei luoghi. Loro hanno apprezzato il mio comportamento leale
da soldato. Se mi fossi comportato male, probabilmente, sarei morto. Ho
fatto un atto di umanità a non uccidere quei cinque partigiani”.
Attingendo ai suoi ricordi,
Erich prosegue, riferendosi al dopoguerra e dimostrandoci di essersi
riadattato benissimo alla vita civile:
“Nel 1952 sposai Theodora,
una gran bella bolzanina, mi stabilii in città facendo il grossista di
scarpe, lei era casalinga. Nel 1983 diventai il primo agente generale in
Italia delle calzature francesi Mephisto. Anche mio figlio Gianni lavora
oggi con la Mephisto, in ogni provincia ha un rappresentante: dalla
Francia le scarpe sono consegnate direttamente ai clienti”.
Da questo colloquio emerge
il ritratto di un uomo che, pur attaccato al dovere di sottufficiale,
non ha perso la sua umanità ed ha saputo apprezzare la lealtà dei suoi
avversari. Dopo il conflitto mondiale è stato in grado di reinserirsi
bene nel mondo civile, tanto da diventare uno stimato commerciante
all’ingrosso.
IL BRANDENBURG
Il Brandenburg era un’unità
di élite, formata da personale volontario proveniente da qualsiasi arma,
molto addestrato, in grado di parlare più lingue, conoscere usi e
costumi delle aree di competenza, e di operare dietro le linee nemiche.
Il Btg Ebbinghaus, antenato del Brandenburg, operò con successo in
Polonia, ma poi fu sciolto. Il primo nucleo di questi commandos tedeschi
nacque il 25 ottobre 1939. I canoni di reclutamento erano decisamente
contrari a quelli delle SS, i brandeburghesi non incarnavano l’ideale
nazista del superuomo ariano. Vi facevano parte uomini di varie etnie,
disposti a combattere per la Germania.
Dipendevano dall’Abwehr II
sezione, il controspionaggio militare diretto dall’ammiraglio Wilhelm
Franz Canaris (1887 - 1945) fino al luglio del 1944.
I militari del Brandenburg
combatterono in Francia, in Olanda, nei Balcani, in Russia, in Italia,
in Africa settentrionale e nel Dodecanneso. Erano piccole unità con
paracadutisti, esperti in demolizioni, uso di armi e veicoli del nemico,
falsificazione di documenti, operazioni segrete. Coloro che operavano
dietro le linee nemiche avevano in dotazione una pillola di cianuro. Gli
uomini del Brandenburg vestivano sempre l’uniforme tedesca, sotto a
quella nemica usata per l’occasione, e aprivano il fuoco sempre dopo
aver rivelato la loro reale identità, regola non scritta per affermare
che erano soldati e non spie.
Dal gennaio 1943 il
Brandenburg fu espanso al rango di divisione su quattro reggimenti;
arrivarono mussulmani dalla Jugoslavia e volontari dall’India.
Dopo il fallito attentato
del 20 luglio 1944, l’ammiraglio Canaris fu arrestato, interrogato,
torturato e, in seguito, trasferito al campo di concentramento di
Flossenbürg, dove il 9 aprile 1945 fu strangolato con una corda di
pianoforte, come altri militari che avevano cospirato contro Hitler.
Nel settembre 1944 fu deciso
che le operazioni speciali non erano più risolutive a quel punto del
conflitto, così la divisione fu trasformata in semplice divisione di
fanteria motorizzata, e trasferita al fronte orientale, causando
demotivazione nei ranghi.
Nel dopoguerra furono pochi
i brandeburghesi sopravvissuti che riuscirono a reinserirsi bene nella
vita civile; molti operarono in varie nazioni come consiglieri militari
e mercenari: in Cina, nel Congo, in Egitto, in Indocina, in Indonesia e
in Russia. |