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A SANGUE FREDDO

Il 23 e il 24 giugno 2004 Gianluca Di Feo scrive due articoli  sul Corriere della Sera che per la prima volta, almeno in Italia, squarciano un velo di omertà durato 60 anni: nel luglio 1943 soldati americani appartenenti alla 45ª Divisione USA, appena sbarcati in Sicilia, uccisero a sangue freddo diverse decine di soldati italiani che si erano arresi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I primi giorni dello sbarco in Sicilia videro aspri combattimenti nella piana intorno Gela. Lo sbarco ebbe inizio intorno  le 2:30 della  mattina del 10 luglio: i reparti del 429° battaglione costiero, schierato lungo le casamatte a difesa della spiaggia e dell' abitato e comandati dal maggiore Arnaldo Rabellino, subiscono il primo urto americano ma tengono finché possibile, causando alcune perdite negli attaccanti e permettendo di guadagnare tempo.

Alla fine il battaglione lascerà sul campo 17 ufficiali e 180 soldati, pari a poco meno del 50% degli effettivi disponibili.

Solo intorno le 8,00 del mattino gli americani riescono infine ad entrare in Gela, ma intanto  cominciano ad affluire dalle retrovie i reparti  italiani della divisione Livorno (appoggiati da alcuni mezzi corazzati) e quelli tedeschi della "Hermann Goering" 

Il contrattacco delle forze italotedesche è tanto disperato quanto  determinato; per le intere giornate del 10 e dell' 11 luglio i reparti italiani contrattaccano, riuscendo più volte a raggiungere le case di Gela ed a respingere gli americani verso il centro del paese ed in direzione della spiaggia.

Alla fine sotto l'incessante tiro delle artiglierie della flotta d'invasione e sotto l'azione dell'aviazione  americana, l'impeto della Livorno si esaurisce. La maggior parte dei caduti italiani sono ascrivibili proprio al fuoco delle navi. Gli italiani iniziano a ritirarsi incalzati dalle fanterie americane. Il 13 cade Niscemi ed il 14 Biscari.  Nei pressi dell'aeroporto di Biscari si svolse in due momenti successivi e distinti il tragico massacro di prigionieri italiani di cui ormai si conoscono tutti i dettagli. Scrive Di Feo:

"Il capitano Compton radunò gli italiani che si erano arresi" - saranno stati più di quaranta - Poi domandò chi volesse partecipare all'esecuzione. Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani".
Un secondo episodio si riferisce sempre alla stessa area, nella quale una testimonianza afferma che "Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi di non guardare, così la responsabilità sarebbe ricaduta solo su di lui. Poi li ammazzò tutti".

Probabilmente i due episodi avvenuti a Biscari sarebbero passati inosservati ed impuniti come chissà quanti altri episodi simili se non fosse stato per il verificarsi di una serie di circostanze fortuite e per l' onesto, civile  e coraggioso  comportamento del Cappellano tenente colonnello William King. 

Nel suo libro "The Day of Battle: The War in Sicily and Italy, 1943-1944",  Rick Atkinson così descrive la scoperta fatta dal cappellano King: "Il mattino successivo (quindi il 15 luglio) alle 10:30 il tenente colonnello William E. King guidava la sua jeep verso l'aeroporto di Biscari da poco conquistato. Durante la prima guerra mondiale King era stato  ferito ed aveva temporaneamente perso la vista. Questa esperienza drammatica lo aveva spinto a diventare ministro della chiesa battista. Ora, diventato cappellano della 45ª Divisione,  serviva contemporaneamente il Signore ed il suo paese, apprezzato per la sua generosità e per la brevità dei suoi sermoni. La sua attenzione fu catturata da una pila di corpi in prossimità di un oliveto ed egli fermò la jeep e scese a bocca aperta ad investigare. "La maggior parte giacevano a testa in giù, alcuni faccia in su". Raccontò King più tardi - "Tutti quelli che giacevano supini mostravano  un  colpo d'arma da fuoco proprio sulla parte sinistra, nella zona del cuore". La maggior parte anche mostrava ferite alla testa; bruciature sui capelli e tracce di polvere indicavano che i colpi erano stati sparati a distanza ravvicinata". Alcuni soldati  che si riposavano nei dintorni raggiunsero il cappellano protestando che essi "Avevano preso le armi proprio per combattere quel genere di cose" - disse King - "Essi si vergognavano dei loro stessi  connazionali" Il cappellano tornò in fretta verso il comando della divisione per raccontare la crudele scoperta.
Una circostanza che pure permise al caso di venire a galla fu il contrasto caratteriale tra il generale Omar N. Bradley comandante del II corpo della  VII armata americana ed il suo superiore, il generale Patton a comando dell'intera VII armata. Riflessivo e metodico il primo, irruento ed impulsivo il secondo. Tra i due non poteva correre buon sangue.

Il cappellano King riferì a Bradley gli episodi di cui era venuto a conoscenza. Bradley aveva avuto già notizia del massacro e si portò a Gela ove era il comando d'armata per riferire a Patton che da 50 a 70 prigionieri erano stati assassinati  ‘In cold blood and also in ranks".

Patton riportò la propria reazione nel suo diario: "E' venuto da me Bradley un uomo fin troppo corretto, molto nervoso per dirmi che un capitano ha preso sul serio il mio ordine di uccidere chi continuava a sparare anche quando eravamo a meno di 200 metri. Il capitano ha ammazzato quasi 50 prigionieri a sangue freddo e raggruppandoli, cosa che costituisce un errore ancora più grande. Gli ho risposto che probabilmente era una notizia esagerata. Ma in ogni caso devo ordinare di dire al capitano di dichiarare che quegli uomini erano dei cecchini o avevano tentato di fuggire perchè c'è il rischio che finisca tutto sui giornali ed i civili diventino furiosi. Comunque sia andata, sono morti e non c'è più nulla da fare".
Il 9 agosto Bradley chiese di nuovo a Patton di arrestare i protagonisti dei due episodi, i summenzionati  sergente West e capitano Compton. Pochi giorni dopo, di fronte l'inattività del superiore Bradley ordina personalmente l'arresto dei fucilatori di Biscardi.

Cosa in realtà pensasse Patton riguardo i prigionieri lo si deduce dalle sue stesse parole: "Adesso alcuni ragazzi con i capelli ben pettinati stanno tentando di dire che ho ammazzato troppi prigionieri. Ma quelle stesse persone gioiscono per stragi di giapponesi ben più grandi. Ebbene più nemici ho eliminato, meno uomini  ho perso, ma essi non si curano di ciò"  
Dalle parole di Patton si coglie non solo la sua personale indifferenza nei confronti di alcune fondamentali regole di guerra, ma anche è da rilevare l'esplicita accusa di ipocrisia nei riguardi dei suoi detrattori in quanto a suo dire, e noi ne siamo convinti quanto lui, gli americani facevano ben di peggio nel teatro del Pacifico.

A seguito della denunzia operata dal cappellano colonnello William King, furono  celebrati, nel massimo segreto, nell'autunno 43 due processi:  la corte marziale USA accusò il sergente Horace T. West dell' omicidio di  37 italiani, e il capitano John C. Compton di almeno 36.

Compton non cercò scuse: davanti alla corte marziale; disse solo di avere obbedito agli ordini emanati da Patton subito prima dello sbarco in Sicilia:

La corte condannò il sergente West all'ergastolo. Ovviamente la pena  non venne mai eseguita.   West fu dapprima trattenuto  agli arresti in una base del Nord Africa, poi, Il 1° febbraio 1944, il capo delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecitò al comando alleato di Caserta un «Atto di clemenza» per West: "Non possiamo - è il testo della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 - "permettere che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al nemico. inoltre potrebbe scuotere una parte dell' opinione pubblica dei nostri cittadini che sono così lontani dal campo di battaglia e  potrebbero non capire la ferocia che è insita nella guerra".

Così dopo solo sei mesi, West viene rilasciato e mandato al fronte. Le notizie riguardo il suo destino sono contradditorie, ma secondo alcuni degli autori che si sono occupati del caso, è probabile sia sopravvissuto alla guerra ed abbia vissuto fino a tarda età.

Solo dopo che con l' uscita degli articoli e degli scritti di Di Feo,  Bartolone e Ciriacono il caso era diventato di dominio pubblico, furono intraprese iniziative ufficiali riguardo la strage. 

Nel giugno del 2004 il deputato Gennaro Malgieri presenta un'interrogazione al Presidente del Consiglio per conoscere quali passi Egli intenda compiere presso gli USA a seguito delle rivelazioni sulle stragi.

Sotto è inoltre riportato un  comunicato dell' ANSA che informa delle tardive iniziative della procura militare. 

 

ansa - 2007
SICILIA, STRAGE USA DEL 43. E' VIVO L'ACCUSATO?
da ANSA
PALERMO - Ci sono voluti quasi 64 anni. E alla fine l'inchiesta su una strage  dimenticata, compiuta dalle truppe americane in Sicilia nell'estate del 1943, si chiude con un solo accusato che oggi, se fosse ancora in vita, dovrebbe avere 98 anni. La Procura militare di Palermo ha cercato inutilmente di rintracciarlo e ora vuole processarlo come unico responsabile dell'eccidio di 36 soldati italiani presi prigionieri durante la battaglia attorno all'aeroporto di Biscari. Il procuratore militare Enrico Buttitta ha chiesto di portare in giudizio il sergente Horace T. West, che imbracciò il mitra e sparò all'impazzata contro la colonna di prigionieri inermi in cammino verso un punto di raccolta.
Morirono quasi tutti: alla sventagliata dei colpi sopravvissero solo alcuni e due di loro, creduti morti, hanno rassegnato ai magistrati testimonianze sofferte e drammatiche.

 

Al contrario il capitano John Compton fu assolto: la corte marziale riconobbe che aveva agito per seguire gli ordini superiori, ma nessun procedimento venne certamente avviato nei confronti di Patton nè egli venne interrogato come testimone.

E così Patton,  tanto criticato ed oggetto di uno scandalo unanime perchè in Sicilia in un ospedale aveva schiaffeggiato un soldato  ricoverato per shock (che Patton riteneva essere semplicemente codardia), non fu oggetto di nessuna critica o appunto  per aver dato ordini che esplicitamente invitavano a non avere alcuna pietà per i nemici che si volessero arrendere.  

Il massacro di Biscari fu tenuto segreto così bene che pochissimi soldati nella stessa divisione ne ebbero mai notizia alcuna. 

Ma il giornalista Di Feo enumera i luoghi e le circostanze anche di altre stragi: Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora divulgate. Avvennero nell'aeroporto di Comiso, quello diventato famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All' epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. (Gianluca Di Feo - Corriere della Sera - 23 giugno 2004).

Successivamente agli articoli di Di Feo, sono andati in stampa nel 2005 due libri sullo stesso argomento. Nel  libro di Giovanni Bartolone "Le altre Stragi" l'autore  documenta varie stragi di civili e militari operate in Sicilia dagli americani. Oltre alla strage di Biscari veniamo così a conoscere altri nomi dimenticati: le stragi di Piano Stella,  di Comiso, di Castiglione, di Vittoria, di Canicattì, di Paceco, di Butera, di Santo Stefano di Camastra...

Sempre nel 2005 Gianfranco Ciriacono pubblica "Le stragi dimenticate - Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella" per una piccola casa editrice di Ragusa. A raccontare cosa accadde quel 13 luglio 1943 a Piano Stella è  Giuseppe Ciriacono, nonno dell' autore, unico sopravvissuto. 

"Verso il pomeriggio tardi sentimmo qualcuno che chiamava dall’esterno del rifugio, dicendoci di uscire fuori. Così uscimmo fuori e trovammo un soldato che parlava bene l’italiano e ci chiese di entrare a casa per vedere se vi erano soldati tedeschi. Mio padre si apprestò a fare perlustrare la casa, ma quando arrivammo davanti alla porta ci accorgemmo che già i soldati avevano sfondato la porta ed erano entrati. Dopo qualche ora arrivarono altri soldati.

Ormai era l’imbrunire. Ci fecero segno di uscire, ma nessuno parlava italiano. eravamo in sei persone e ci fecero segno di seguirli verso Acate. Il nostro podere confinava con il territorio della provincia di Ragusa e, dopo aver camminato un po’, giungemmo presso una casa che apparteneva a un certo Puzzo.

Gli americani ci portarono in questa casetta, il terreno circostante era piantato a vigneto e lì ci fecero segno di sederci, poi i soldati imbracciarono delle armi, dei fucili mitragliatori, e si misero ad angolo, uno da un lato e l’altro dall’altro. Ricordo che quando assunsero questa posizione il signor Curciullo, che era accanto a me, disse: -compari Pippinu haiu ‘mprissioni che ci vogliono uccidere- .

A questo punto, mentre parlavano, mi sentii prendere da qualcuno per il bavero della camicia e tirarmi su… allora ero ragazzino, andavo ancora alle elementari e sentivo i racconti dei fratelli Bandiera e cose del genere e pensai che il primo ad essere ucciso sarei stato proprio io. Quando mi sentii tirare per il bavero, girandomi vidi questo americano che aveva il fucile a tracolla, con la mano sinistra teneva un’anguria e con la destra mi tirava. Appena mi girai a guardarlo disse delle frasi che a mio parere volevano dire di allontanarmi. Non appena mi allontanai 20, 30 passi circa sentii una raffica di mitra e le urla di mio padre, del mio amico e degli altri". 

 

 

 

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